Le nuove vite degli ex. Come si cambia senza più la politica

Qualcuno ha scelto di cambiar vita perché stufo della politica (o almeno, così dice). Altri si sono ritrovati a casa per colpa della mannaia più crudele, quella degli elettori. Tutti, comunque, hanno dovuto cercare un lavoro fuori dai Palazzi, o magari tornare alle vecchie occupazioni abbandonate prima dell’ingresso in politica.

A quanto pare, a ex ministri e parlamentari non è andata malissimo: la rete di contatti, amicizie e rapporti sviluppata negli anni trascorsi a fianco del potere romano ha permesso a quasi tutti di riciclarsi con successo in consigli d’amministrazione, banche, società di consulenza.

È il caso, per esempio, di Angelino Alfano, quattro volte ministro (da Berlusconi fino a Letta), appena nominato presidente della holding di ospedali privati San Donato. O di Roberto Maroni, ex governatore della Lombardia che, tra l’altro, fa l’advisor per Mediobanca. Ma c’è anche chi, come l’ex ministra Nunzia De Girolamo, ha trovato la propria strada in televisione: prima come inviata del programma di Massimo Giletti, poi come concorrente di Ballando con le stelle: ora ambisce, più che a un nuovo dicastero, alla conduzione di un programma tutto suo.

Ha cambiato decisamente genere anche il “re” dei Responsabili di berlusconiana memoria, Domenico Scilipoti. Il senatore che capitanò i soccorritori del governo di Silvio, si è candidato alle ultime elezioni, ma è risultato primo dei non eletti: così, ora, viaggia tra l’Africa e l’Italia, nientemeno che con la missione di evangelizzare le popolazioni, in qualità di presidente dell’Unione Cristiana.

Ecco dunque qual è la nuova vita di dieci grandi “ex” usciti dalla politica, dieci personaggi che fino a pochissimi anni fa erano al centro di cronache, Consigli dei ministri e baruffe parlamentari e di cui si sono poi perse le tracce – almeno sui giornali – perché ritirati ad altri incarichi.

Aspettando, magari, la chiamata giusta per rientrare.

Levategli i social

Mentre Salvini, Savoini e i leghisti tutti sono in piena sindrome da accerchiamento, temendo – e ne hanno di che – cimici, trojan, spie, pedinamenti, complotti, congiure, trappoloni, vendette internazionali e indagini nazionali per la loro disinvolta politica estera da bar, anzi da piano bar (“Oggi qui, domani là”), e i loro ancor più disinvolti sistemi di autofinanziamento, dovrebbero arrendersi a un dato di fatto: oggi per incastrare un politico non c’è più bisogno di intercettarlo, basta intervistarlo. O seguire una sua diretta Facebook. O consultare i suoi social. La politica ha sempre avuto un lato oscuro, affidato a segretissimi mediatori, faccendieri, facilitatori che agivano nell’ombra e di cui nessuno ha mai conosciuto l’identità, né tantomeno le attività. Si sapeva solo che c’erano, e agivano. Pensiamo soltanto alla zona grigia delle missioni segrete fra Est e Ovest durante la guerra fredda, o fra israeliani e arabi. Ogni tanto qualcuno finiva nelle maglie della giustizia, grazie a intercettazioni o soffiate altrui, e tutti fingevano di non conoscerlo: mentivano, certo, ma senza tema di smentita. Ora mentire senza tema di smentita è quasi impossibile. E non solo per le intercettazioni, che sono sempre esistite fin da quando esiste il telefono. Ma per una gravissima patologia che affligge i politici del XXI secolo: la socialite. Qualunque cosa facciano (o addirittura non facciano), si affrettano a postare un selfie, a lanciare un tweet, a pontificare su Fb, a farci una storia su Instagram. Poi si dimenticano di quel che han detto o fatto, e dicono o fanno il contrario. Sempre in diretta social. Anche perché, quando si mente sempre, tenere il conto delle bugie e coordinarle nel tempo è pressoché impossibile.

Naturalmente gli agenti segreti esistono anche oggi, ma sui social non li trovate: ecco perché dipingere Gianluca Savoini come un tenebroso agente segreto del putinismo in Italia fa ridere. È uno dei tanti vicecazzari che circondano il Cazzaro Verde. Talmente agente e talmente segreto da postare i suoi autoscatti in ogni missione estera al seguito del capo, sempre al suo fianco nei tavoli ufficiali: da Mosca (nove volte in quattro anni) a Parigi, dal Marocco al Donbass, da Londra alla Crimea, da Arcore all’ultima cena romana con Putin. Nessuna persona sana di mente può credere che una grande impresa italiana in affari con la Russia passasse attraverso di lui per accreditarsi. Il che non sminuisce minimamente l’entità dello scandalo che sta travolgendo la Lega, anzi se possibile l’aggrava.

Perché ricorda le condotte disinvolte, anche se non nelle hall degli hotel ma nelle alcove di ville e dacie, del penultimo leader del centrodestra: Silvio B. Disinvolte non per quel che faceva sotto le lenzuola, ma per la presenza di decine di testimoni oculari del tutto incontrollabili (le “olgettine”), in grado di passare informazioni a chiunque, teoricamente anche a servizi italiani ed esteri, rendendo ricattabile l’allora premier. L’attuale vicepremier s’è cacciato e ci ha cacciati nella stessa condizione, circondato com’è di faccendieri malaccorti che vanno a zonzo a parlare di soldi alla Lega: prima Arata, socio di un affarista arrestato per i suoi finanziamenti a Messina Denaro, e ora Savoini, indagato per corruzione internazionale. Quando a febbraio l’Espresso svelò quel colloquio all’hotel Metropol di Mosca a base di petrolio e milioni di dollari, il “Savo” negò di avervi mai partecipato: ora l’audio recapitato da manine anonime alla redazione di Buzzfeed l’ha puntualmente smentito. Costringendolo ad ammettere che c’era, ma “non mi riconosco nelle mie parole” (un capolavoro). Anche Salvini prova a fare il furbo, con le solite battutone su rubli, tesori, vodka e missili nucleari. Poi, a domanda del nostro Manolo Lanaro, entra nel dettaglio, com’è suo dovere, ma purtroppo racconta frottole: “Savoini non era invitato dal ministero dell’Interno” né a Mosca nell’ottobre 2018 (“Che ne so cosa ci facesse al tavolo! Chiedetelo a lui. Non mi è dato sapere cosa facciano a nome loro gli altri la sera”) né a Villa Madama alla cena di gala per Putin il 4 luglio. Insomma, un imbucato. E chi l’avrà mai invitato? Conte? Di Maio? Putin? Boh.

Purtroppo, in un’intervista del 2014 alla rivista russa International Affairs, a proposito di un’altra missione salviniana a Mosca per solidarizzare con la Russia contro le sanzioni occidentali, Salvini dichiarò: “La visita ha avuto più successo di quanto potessimo aspettarci. Il nostro lavoro è stato quello di rafforzare i contatti costruiti nei mesi scorsi dai miei rappresentanti ufficiali Gianluca Savoini e Claudio D’Amico (ex parlamentare della Lega e suo socio, ndr

)”. Così Savoini è stato sempre considerato anche dal governo russo, visto che Sputnik News – house organ putiniano in Occidente – lo definiva “responsabile dei rapporti con la Russia per la Lega Nord”. Il 17 luglio scorso, di ritorno da Mosca con Salvini già vicepremier e ministro dell’Interno, Savoini twittava: “È stato per me un enorme piacere poter accompagnare il Ministro Matteo Salvini nel corso della sua visita ufficiale a Mosca”. E subito dopo dichiarava al Foglio: “Sono nella Lega dal 1991, coordino gli incontri di Salvini con gli ambienti russi. Non è che adesso sia cambiata la situazione. Non vedo quale sia il problema, seguo Matteo da sempre… Chi critica la mia presenza, legittimata dal ministero dell’Interno, è rimasto fuori dalla storia e ha evidentemente nostalgia della guerra fredda. Io ho contribuito con i miei contatti, come ho sempre fatto. Non con i pescivendoli dei magazzini, naturalmente, visto che da sempre ho contatti istituzionali”. Due dichiarazioni recenti e convergenti che fanno di Savoini non un millantatore imbucato che “parla a nome suo”, ma appunto un “rappresentante ufficiale” (del vicepremier). E fanno di Salvini un bugiardo. Del resto, Salvini giura a Repubblica che “Savoini non ha mai fatto parte delle delegazioni ufficiali in missione a Mosca con il ministro né a quella del 16 luglio 2018 né a quella del 17 e 18 ottobre dello stesso anno”. Ma Savoini, il 17 luglio 2018, dichiarava sempre a Repubblica: “Ho sempre fatto parte delle delegazioni in Russia di Matteo Salvini sin da quando veniva in visita nella Federazione come segretario della Lega. Visite che ho contribuito a organizzare”.

C’è però un punto su cui Salvini potrebbe dire la verità. È quando dichiara: “Che fa Savoini nella Lega? Chiedetelo a lui”. Ma se davvero Salvini non avesse il controllo di Savoini, questa non sarebbe un’esimente, bensì un’aggravante: significherebbe che, una volta investito pubblicamente dei galloni di “rappresentante ufficiale” di Salvini, Savoini se ne andava in giro per il mondo a chieder soldi per la Lega insieme ad altri misteriosi faccendieri (il “Luca” e il “Francesco” ancora da identificare con certezza). E a promettere in cambio al governo russo chissà che cosa, a nome di uno dei due partiti del governo italiano.

Ora che la frittata è fatta, se non vuole che questo scandalo metta fine anzitempo alla sua carriera politica, Salvini non ha altra strada che espellere Savoini dalla Lega (se può permettersi di farlo); sciogliere la sua associazione Lombardia-Russia; raccontare tutto ciò che sa della missione di metà ottobre a Mosca (inclusi i suoi incontri nel pomeriggio o sera del giorno 17, tuttora ignoti); farsi rivelare dal “Savo” i cognomi di Luca e Francesco e comunicarli ai pm di Milano e ai cittadini, prima che saltino fuori per altre vie; scusarsi per le balle raccontate e per l’incredibile leggerezza con cui ha condotto i suoi rapporti con Mosca e poi con Washington; garantire al Parlamento, al premier Conte e ai partner di governo che i russi non hanno altre armi di ricatto da usare contro la Lega e dunque contro l’Italia; prendersi una lunga vacanza dai social; smetterla con le frottole e gli attacchi alla stampa; chiudersi nel suo ufficio al Viminale e fare ciò per cui è pagato, cioè il ministro dell’Interno.

Perché ricorda le condotte disinvolte, anche se non nelle hall degli hotel ma nelle alcove di ville e dacie, del penultimo leader del centrodestra: Silvio B. Disinvolte non per quel che faceva sotto le lenzuola, ma per la presenza di decine di testimoni oculari del tutto incontrollabili (le “olgettine”), in grado di passare informazioni a chiunque, teoricamente anche a servizi italiani ed esteri, rendendo ricattabile l’allora premier. L’attuale vicepremier s’è cacciato e ci ha cacciati nella stessa condizione, circondato com’è di faccendieri malaccorti che vanno a zonzo a parlare di soldi alla Lega: prima Arata, socio di un affarista arrestato per i suoi finanziamenti a Messina Denaro, e ora Savoini, indagato per corruzione internazionale. Quando a febbraio l’Espresso svelò quel colloquio all’hotel Metropol di Mosca a base di petrolio e milioni di dollari, il “Savo” negò di avervi mai partecipato: ora l’audio recapitato da manine anonime alla redazione di Buzzfeed l’ha puntualmente smentito. Costringendolo ad ammettere che c’era, ma “non mi riconosco nelle mie parole” (un capolavoro). Anche Salvini prova a fare il furbo, con le solite battutone su rubli, tesori, vodka e missili nucleari. Poi, a domanda del nostro Manolo Lanaro, entra nel dettaglio, com’è suo dovere, ma purtroppo racconta frottole: “Savoini non era invitato dal ministero dell’Interno” né a Mosca nell’ottobre 2018 (“Che ne so cosa ci facesse al tavolo! Chiedetelo a lui. Non mi è dato sapere cosa facciano a nome loro gli altri la sera”) né a Villa Madama alla cena di gala per Putin il 4 luglio. Insomma, un imbucato. E chi l’avrà mai invitato? Conte? Di Maio? Putin? Boh.

Purtroppo, in un’intervista del 2014 alla rivista russa International Affairs, a proposito di un’altra missione salviniana a Mosca per solidarizzare con la Russia contro le sanzioni occidentali, Salvini dichiarò: “La visita ha avuto più successo di quanto potessimo aspettarci. Il nostro lavoro è stato quello di rafforzare i contatti costruiti nei mesi scorsi dai miei rappresentanti ufficiali Gianluca Savoini e Claudio D’Amico (ex parlamentare della Lega e suo socio, ndr

)”. Così Savoini è stato sempre considerato anche dal governo russo, visto che Sputnik News – house organ putiniano in Occidente – lo definiva “responsabile dei rapporti con la Russia per la Lega Nord”. Il 17 luglio scorso, di ritorno da Mosca con Salvini già vicepremier e ministro dell’Interno, Savoini twittava: “È stato per me un enorme piacere poter accompagnare il Ministro Matteo Salvini nel corso della sua visita ufficiale a Mosca”. E subito dopo dichiarava al Foglio: “Sono nella Lega dal 1991, coordino gli incontri di Salvini con gli ambienti russi. Non è che adesso sia cambiata la situazione. Non vedo quale sia il problema, seguo Matteo da sempre… Chi critica la mia presenza, legittimata dal ministero dell’Interno, è rimasto fuori dalla storia e ha evidentemente nostalgia della guerra fredda. Io ho contribuito con i miei contatti, come ho sempre fatto. Non con i pescivendoli dei magazzini, naturalmente, visto che da sempre ho contatti istituzionali”. Due dichiarazioni recenti e convergenti che fanno di Savoini non un millantatore imbucato che “parla a nome suo”, ma appunto un “rappresentante ufficiale” (del vicepremier). E fanno di Salvini un bugiardo. Del resto, Salvini giura a Repubblica che “Savoini non ha mai fatto parte delle delegazioni ufficiali in missione a Mosca con il ministro né a quella del 16 luglio 2018 né a quella del 17 e 18 ottobre dello stesso anno”. Ma Savoini, il 17 luglio 2018, dichiarava sempre a Repubblica: “Ho sempre fatto parte delle delegazioni in Russia di Matteo Salvini sin da quando veniva in visita nella Federazione come segretario della Lega. Visite che ho contribuito a organizzare”.

C’è però un punto su cui Salvini potrebbe dire la verità. È quando dichiara: “Che fa Savoini nella Lega? Chiedetelo a lui”. Ma se davvero Salvini non avesse il controllo di Savoini, questa non sarebbe un’esimente, bensì un’aggravante: significherebbe che, una volta investito pubblicamente dei galloni di “rappresentante ufficiale” di Salvini, Savoini se ne andava in giro per il mondo a chieder soldi per la Lega insieme ad altri misteriosi faccendieri (il “Luca” e il “Francesco” ancora da identificare con certezza). E a promettere in cambio al governo russo chissà che cosa, a nome di uno dei due partiti del governo italiano.

Ora che la frittata è fatta, se non vuole che questo scandalo metta fine anzitempo alla sua carriera politica, Salvini non ha altra strada che espellere Savoini dalla Lega (se può permettersi di farlo); sciogliere la sua associazione Lombardia-Russia; raccontare tutto ciò che sa della missione di metà ottobre a Mosca (inclusi i suoi incontri nel pomeriggio o sera del giorno 17, tuttora ignoti); farsi rivelare dal “Savo” i cognomi di Luca e Francesco e comunicarli ai pm di Milano e ai cittadini, prima che saltino fuori per altre vie; scusarsi per le balle raccontate e per l’incredibile leggerezza con cui ha condotto i suoi rapporti con Mosca e poi con Washington; garantire al Parlamento, al premier Conte e ai partner di governo che i russi non hanno altre armi di ricatto da usare contro la Lega e dunque contro l’Italia; prendersi una lunga vacanza dai social; smetterla con le frottole e gli attacchi alla stampa; chiudersi nel suo ufficio al Viminale e fare ciò per cui è pagato, cioè il ministro dell’Interno.

Franceschini Dario, ministro e poeta

C’è una sorpresa nella rubrica della posta del Corriere della Sera. All’improvviso, buttata lì in mezzo alla pagina, proprio sotto la rubrica di Aldo Cazzullo, ecco la poesia. Anzi, la Poesia: l’Infinito. Ma non l’originale di Leopardi. No: la pregiata traduzione in ferrarese – ripetiamo: in ferrarese – dell’esimio Franceschini Dario, ex ministro della Cultura, oggi più modestamente capo di una delle infinite (appunto) correnti del Partito democratico. Avete presente i versi più famosi del poeta di Recanati, no? “Sempre caro mi fu quest’ermo colle”… Ecco, nella versione di Franceschini diventano così: “Al m’è sempar piasù ‘stal muntagnon”. Non vorremmo fermarci e privare i nostri lettori – che pure sono meno di quelli del Corriere – delle armonie della traduzione franceschiniana, della straordinaria musicalità del testo del fu ministro. Citiamo un altro passaggio, lo riconoscerete senz’altro: “Ma a santarnass e a guardar più in là / al vod e al silenzi / in tal pensar am lass andar acsì tant / che al cuor s’impauriss”. Straordinario. Ecco, le redazioni dei giornali funzionano così: spesso arrivano messaggi bizzarri di curiosi personaggi in cerca di pubblicazione. Il più delle volte vengono ignorati: non per cattiveria, è più l’intervento di una mano caritatevole. Al Corriere, si vede, i criteri sono più generosi.

Speranza (Articolo 1): “I dem cambino, dialogo con i 5Stelle”

Un invito “a cambiare” al Pd e una mano tesa al M5S. Ieri all’assemblea nazionale di Articolo Uno a Roma, il segretario Roberto Speranza ha lanciato segnali a dem e Cinque Stelle, partendo ovviamente dal suo ex partito: “Il Pd, che è il principale partito del centrosinistra che fa? Se non si cambia radicalmente si va a sbattere e si lascia l’Italia alla destra per molti anni. Così come è oggi, imprigionato tra discussioni autoreferenziali dei suoi gruppi dirigenti, è esso stesso parte del problema, più che un pezzo della soluzione. E la stessa spinta positiva al cambiamento, emersa durante le primarie, rischia di essere compromessa dentro la palude di un confronto interno incomprensibile”. Parole che fanno rima con quelle del segretario dem Nicola Zingaretti, ieri molto duro contro le correnti interne nell’assemblea del Pd che si svolgeva nelle stesse ore di quella di Articolo Uno, sempre a Roma. Ma Speranza ha anche auspicato, di nuovo, il dialogo con i 5Stelle: “Non dobbiamo arrenderci al muro di incomunicabilità che si è alzato tra il nostro campo e il Movimento”.

Tajani gli dà il via libera e lo scorta in redazione

Corsi e ricorsi storici. Da Arcore a Cairo, il dato è tratto. È più che possibile l’ingresso in politica del presidente di Rcs Urbano Cairo. Il proprietario del Corriere della Sera e de La7 scalda i motori. Antonio Tajani, ancora due giorni fa, intervistato da Radio 24 ne auspica la discesa in campo. Giovanni Toti, coordinatore nazionale di Forza Italia, sogna di poterlo sfidare alle primarie del centrodestra e – insomma – il dato è tratto.

Alea iacta est! pronuncia con tono solenne Urbano Cairo mentre – a cavacecio su Joe Severgnini – varca la soglia della Sala Albertini in via Solferino a Milano. Cairo, accompagnato da Antonio Tajani, ai giornalisti lì riuniti in assemblea dice: “Da oggi il Corriere deve fare la politica della mia politica”.

Sono sempre corsi e ricorsi storici, ai cronisti di solida memoria sembra di tornare all’8 gennaio 1994 quando Silvio Berlusconi, accompagnato da Antonio Tajani, entra in assemblea per arringare i redattori del Giornale e Lucianino Fontana, nel solco di Indro Montanelli, non può che dire: “Urbano, sei il proprietario di questo giornale, ma io – direttore – ne sono il padrone; questo fu il patto tra noi due!”.

Corsi e ricorsi storici. La notizia della discesa in campo dell’Editore arriva anche a La7. Il discorso di Cairo è fin troppo chiaro. E vale per gli uni come per gli altri, carta stampata e tivù: se si vogliono più quattrini nella busta-paga non c’è che da mettersi al servizio di un interesse politico ora che Urbano s’è deciso di scendere in lizza. Zoro, infatti, mobilita immediatamente una feroce satira: “Corro in casa in tutta fretta, c’è un contratto che mi aspetta!”.

Corsi e ricorsi storici. La risposta del Giornale fu di 35 lettere di dimissioni. La spaccatura delle firme di via Solferino è perfino più drammatica. Da un lato c’è Fontana, dall’altro tutti gli altri. Severgnini, da par suo, pur con Cairo sulle spalle redige un secco programma: sostituire il reddito di cittadinanza con buoni taxi per la tratta Milano-Crema, in modo da consentire a tutti di scoprire la bellezza del paese natale di Joe.

Corsi e ricorsi. Da Arcore a Cairo, il dato è tratto. Fed Fubini chiede e ottiene dall’editore l’abolizione dell’ordine dei giornalisti, ma cade in un’infida trappola: viene intercettato mentre tratta con la Trojka e con George Soros una ricca tranche di finanziamenti occulti al nuovo movimento, sottratti alle esose quote dell’ordine.

Corsi e ricorsi storici. Massimo Gramellini, novello Lucio Presta, impone con calabra spietatezza la moglie Simona Sparaco, erede naturale di Paola Perego, come scrittrice della nuova era, in ben più importanti destinazioni: non più alla Stampa ma direttamente alla Gazzetta Ufficiale dello Stato e nei lussuosi Meridiani Mondadori, prossima a succedere a Grazia Deledda tra le italiane del Nobel per la letteratura.

Corsi e ricorsi. Da Arcore a Cairo, il dado è proprio tratto. E a proposito di Sardegna, la tradizione dell’Unità – il quotidiano fondato da Antonio Gramsci – grazie a Cairo s’invera nelle paginate redatte da Walter Veltroni. Il già leader del centrosinistra, con le sue interviste, ha certamente fatto del Corriere il techetechetè del Pci ma appunto in attesa della nuova stagione autunnale, pronto a sostenere Zoro che a sua volta sostiene Cairo nella nuova avventura: “Saremo i tuoi Emilio Fede!”.

Corsi e ricorsi. Il Corriere si spacca. Fontana, a eccezione dell’asinello mascotte di via Solferino, resta solo e i candidati alla sua eredità si schierano con Cairo. E sempre a proposito di Sardegna, Antonio Polito è investito della guida della Brigata Sassari e ne muta il nome in Brigata Castellammare di Stabia e cambia anche l’inno della brigata: non più Dimonios ma ’O Surdato ’nnamorato.

Corsi e ricorsi. Aldo Cazzullo, manco a dirlo, ottiene il comando dei Lancieri di Montebello. E come Berlusconi schierava questi ultimi per ricevere Paolo Bonolis così Cazzullo li fa sfilare in onore di Myrta Merlino mentre Lilli Gruber, va da sé, si aggiudica i Corazzieri perché nella naturale conseguenza delle cose – a scadenza naturale del settennato di Sergio Mattarella – diventa Capo dello Stato.

Corsi e ricorsi. Barbara Stefanelli ottiene che il Tempo delle donne diventi festa nazionale e la 27ª ora – la declinazione al femminile di via Solferino – sostituisce il 25 aprile come momento di rieducazione del maschio italico, con deportazione in appositi campi di Vittorio Sgarbi, Giuseppe Cruciani, Fulvio Collovati e Lando Buzzanca, costretti a rivedere in ginocchio sui ceci le partite delle Azzurre al Mondiale di calcio delle femmine. Da Arcore a Cairo, è tutto.

Pd, Sassoli lancia il dialogo con Conte e i Cinque Stelle

“Se siamo forti della nostra identità, orgogliosi del nostro passato, cosa può metterci paura a incrociare storie diverse, temperamenti molto lontani dai nostri, gente che ci ha criticato, gente che viene da lontano, interessi che non ci appartengono? Per fare questo abbiamo bisogno di maggiore laicità, di non chiedere da dove viene il nostro interlocutore, ma chiedergli dove vuole andare”. All’assemblea del Pd, la vera star è David Sassoli, neoeletto presidente del Parlamento europeo. Che utilizza il palco dell’Ergife per lanciare prima di tutto questo messaggio politico: ovvero, occorre costruire un dialogo con i Cinque Stelle. Ed evidentemente si può partire dall’Europa.

Dice Sassoli: “Voglio rivolgere anche un saluto al presidente del Consiglio. Nel mio intervento a Strasburgo ho ricordato quanta strada abbiamo ancora da fare per affrontare l’emergenza migranti e quanta responsabilità ricada sui governi che non si impegnano a modificare il Regolamento di Dublino, come proposto dal Parlamento europeo. Sono contento che il richiamo a quella riforma sia entrato nel dibattito pubblico”. E poi ancora: “Voglio ringraziare, tramite il presidente Conte, le Autorità italiane che consentono tramite i corridoi umanitari, e in collaborazione con associazioni e Ong, la messa in sicurezza di persone che devono essere protette”. La citazione di Conte come colui che agisce è un altro segnale politico chiaro. Nel discorso di Sassoli c’è prima di tutto una richiesta al governo italiano di agire nel Consiglio europeo per riformare il Regolamento di Dublino. Questione, peraltro, già in agenda a Palazzo Chigi. Mentre il riferimento ai corridoi umanitari e alle Ong è da leggersi anche in chiave anti-salviniana.

Da notare che Sassoli ha ottimi rapporti con Fabio Massimo Castaldo, appena eletto vicepresidente del Parlamento, dopo il ballottaggio con un eurodeputato conservatore e con la leghista Bizzotto: altro elemento che conferma la divisione tra i sovranisti e i Cinque Stelle. Un altro momento di convergenza potrebbe verificarsi martedì sul sì di Strasburgo a Ursula Von der Leyen a presidente della Commissione Ue. Potrebbero convergere sia Pd sia 5 Stelle (e anche la Lega, che però tratta per conto suo in vista del Commissario). Le basi del dialogo sono gettate. E va ricordato che Sassoli è vicino a Dario Franceschini, il primo che provò a lavorare per un governo con il M5S.

Al neopresidente la sala dell’Ergife tributa un’ovazione. Così come a Nicola Zingaretti. Che prova a lanciare una rivoluzione nel Pd all’insegna del “no alle correnti”: “La riforma del partito è necessaria perché lo strumento che abbiamo non è più utile a svolgere la sua funzione. Non ce ne siamo occupati perché c’erano le elezioni, ma sul partito dobbiamo cambiare tutto perché tutti sappiamo che così non si va più avanti”. Tanto per marcare il loro peso, però, le correnti si fanno notare per le assenze nelle loro file, a partire da Matteo Renzi e Andrea Marcucci. Zingaretti lancia una Costituente delle idee a Bologna, dall’8 al 10 novembre. Un modo per aprirsi a mondi ed esperienze politiche esterne. Delusi dei Cinque Stelle compresi. E poi nomina la Commissione Statuto: tra i nodi da esaminare, la cancellazione della sovrapposizione tra segretario e candidato premier. Peccato però che tale Commissione sia fatta con il bilancino: presidente Martina, ci sono i rappresentanti di tutte le correnti (da Anna Ascani della minoranza giachettiana a Simona Malpezzi per i lottiani di Base Riformista a Matteo Orfini come invitato permanente). La rivoluzione – come al solito – può attendere.

“È un bel presidente!”. Il culto di Cairo su Rcs

Che Urbano Cairo osservi la politica con un occhio molto più che interessato è un segreto di Pulcinella. Della sua imminente discesa in campo parlano tutti, tranne lui. Tra i più entusiastici c’è l’eterno democristiano Gianfranco Rotondi: “Cairo ha una sensibilità politica. Sa ascoltare, è umile. A determinate condizioni potrebbe essere la persona giusta”. Quali? “Primo, che gli italiani si stufino di Salvini e riscoprano il bisogno di qualcuno che sappia amministrare il potere seriamente. Secondo: che si apra lo spazio per un grande centro liberale, cattolico e moderato. Cairo di certo non verrà a fare il leader di una Forza Italia morente; il junior partner del leghista”.

Ne parlano tutti, dicevamo, tranne lui. Cairo non ne ha bisogno: possiede una tv (La7), una squadra di calcio (il Torino) e un grande gruppo editoriale (Rcs). Specie i suoi quotidiani – Corriere della Sera, Gazzetta dello Sport, Il Mattino i principali – sono sensibili al richiamo: la cura della sua immagine sfiora il culto. Ve l’avevamo raccontato sul Fatto qualche settimana fa: “Tutto il Cairo minuto per minuto” è un genere giornalistico straordinariamente fecondo sulle sue testate. La “cairite” di Rcs è peggiorata.

Il fenomeno si manifesta in tutta la sua imbarazzante magnificenza il 4 luglio. Da pochi giorni il Milan è stato escluso dalle Coppe per motivi finanziari, permettendo il ripescaggio del Torino in Europa League. Sulla Gazzetta è tripudio: nelle pagine 2 e 3 si stende una maxi intervista “esclusiva” (sic!) all’editore del giornale. Titolo a caratteri cubitali: “CAIRO/ ‘La mia campagna d’Europa’”. Catenaccio: “Dopo un anno d’oro sarà un Toro aggressivo. Per Mazzarri preparo un colpo di qualità”. Nota di colore: il proprietario dei granata sconfina negli aspetti tecnici, annunciando che l’allenatore “giocherà col 3-4-3”. Con le tre punte, insomma. Ricorda qualcuno?

L’intervista è la seconda in pochi giorni: il 30 giugno, appena avuta la notizia del ritorno del Torino in Europa, “la rosea” aveva subito interpellato il patron (suo e del Toro). Ancora un’intervistona, stavolta di una sola, sobria pagina: “Cairo ha pronto il passaporto/ ‘Annata super e i big restano’”. Il presidentissimo compare in due distinte fotografie nella stessa pagina. Quando parla lui è tutto “super”, “d’oro”, “di qualità”.

Stavolta però l’intervista non è “esclusiva”, ce l’ha anche il Corriere: il 30 giugno, insomma, Cairo è in prima pagina sui suoi due quotidiani preferiti. Nell’intervista sul Corsera è magnanimo: “Il Toro si merita l’Europa, mi spiace però per il Milan”. È un grande classico: fare il proprietario di una squadra di calcio serve soprattutto per sedere a certi tavoli, intessere relazioni, finire sui giornali e in tv. Se poi possiedi anche i giornali e una tv…

Va detto però che Cairo compare a giorni alterni sul Corriere per le ragioni più svariate.

Scenari politici, il 12 luglio (“Tajani: Cairo? Lo vedrei bene in politica”). Scenari televisivi, l’11 luglio (“La7 squadra vincente/ L’editore Cairo: con 3.621 ore di informazione superiamo le altre reti, ascolti in costante aumento”). Scenari editoriali, il 4 luglio (“F celebra 7 anni di successi/ Cairo: settimanale in crescita perché sta al passo con i tempi”).

Anche quando il soggetto non è Cairo, si parla di Cairo. Così il Corsera il 10 luglio intervista Massimo Giletti, il presentatore di Non è l’arena: “Resto a La7, qui c’è più libertà”. La foto di Giletti? Insieme a Cairo. Il passaggio cruciale? “Per fare bene il nostro lavoro serve una condizione: la libertà. Cairo me la garantisce, è un editore puro”.

Dissequestrati i beni del viticoltore Statti, accusato di estorsione

Il Tribunale del Riesame di Catanzaro ha annullato il sequestro dei beni nei confronti degli imprenditori Antonio e Alberto Statti. Quest’ultimo, presidente di Confagricoltura Calabria, è titolare della “Società agricola Lenti”, una delle più importanti cantine calabresi. A metà giugno si è visto sequestrare 835 mila euro dalla Procura di Lamezia Terme. Denaro che, secondo i pm, sarebbe stato “l’illecito profitto derivante dalle attività estorsive (nei confronti dei dipendenti) e di autoriciclaggio”.

I giudici del Riesame hanno accolto l’istanza presentata dagli avvocati Antonio Mazzone e Franco Giampà secondo cui ci sarebbe stata la parziale duplicazione del fascicolo processuale. Rinviati a giudizio a novembre per gli stessi reati, infatti, gli imprenditori Statti avevano già subito un sequestro che poi è stato annullato dal Tribunale della Libertà. Per la difesa, la nuova inchiesta ripropone gli stessi contenuti per i quali è stata ritenuta la legittimità del rapporto tra l’impresa Statti e i dipendenti.