Figurine Panini: si rifanno sotto gli americani

Tiene incollati davanti alle edicole intere generazioni di bambini dal 1954. Figlia del boom economico, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, la casa editrice Panini rischia di passare nelle mani degli americani. A dare la notizia è stata la Gazzetta di Modena, città dov’è nata la storia dei fratelli Panini. Giuseppe, Benito, Umberto e Franco. Aprirono prima un chiosco nel ’45 in corso Duomo, poi l’Agenzia distribuzione giornali che gestirono fino al 1988. Giuseppe Panini era un appassionato di enigmistica, inventava cruciverba e il suo pseudonimo era “paladino”. Negli anni ’70, in suo onore, fu creato come testimonial il leggendario “Pipino il paladino”.

Le figurine simbolo del baratto più genuino, tra i banchi di scuola un tempo, ora anche sui social, stanno per essere rilevate da una società statunitense, che ha da poco preso i contatti con i vertici del gruppo per fare un’offerta miliardaria. Oggi il pacchetto azionario è nelle mani dell’amministratore delegato, l’italo-argentino Aldo Hugo Sallustro, e della famiglia bolognese Baroni. L’impero vale un miliardo.

Quella delle figurine è una passione tramandata di padre in figlio. Emblema del made in Italy che ha resistito persino alla rivoluzione digitale, fatturando mediamente 550 milioni di euro l’anno. I bilanci aumentano in concomitanza con i Mondiali e gli Europei. Lo scorso anno, infatti, si stima abbia raggiunto tra i 700 e i 750 milioni di fatturato, 563 nel 2017. Il grande business della Panini era già visibile negli anni della gestione a conduzione familiare, con guadagni sui 100 miliardi di lire. Nel 1988 l’azienda fu rilevata dal Gruppo Maxwell. Quattro anni dopo da Bain Gallo Cuneo e dalla De Agostini. L’oculata gestione la riportò ai fasti iniziali. In seguito la comprò l’americana Marvel, che lasciò la gestione nelle mani degli italiani. Seguì l’operazione finanziaria di Vittorio Merloni e di Aldo Hugo Sallustro. Così la Panini tornò ad essere italiana e, dalla storica sede modenese di viale Emilio Po, il gruppo si espanse in tutto il mondo, vantando filiali in Europa, negli Usa e in Sud America. Leader mondiale nel settore delle figurine adesive e delle trading cards, oggi la società traduce e pubblica in Italia 7mila fumetti, tra cui Topolino e i supereroi Marvel. Produce 6 miliardi di figurine l’anno, 30 collezioni in Italia e 400 nel mondo. Conta oltre mille dipendenti, di cui 450 solo a Modena.

C’è chi ancora cerca la prima edizione dell’album Calciatori, quella in cui in copertina c’era Nils Liedholm, all’epoca centrocampista del Milan, anno 1961. O chi vorrebbe la prima figurina stampata, quella di Bruno Bolchi, capitano dell’Inter, o Mexico 70, il primo album dedicato ai Mondiali, quando in palio c’era l’ultima Coppa Rimet, sostituita nel 1974 dalla Coppa del mondo. Lo sanno bene gli oltre 1,2 milioni di collezionisti. C’è chi sul web è disposto a pagare anche 1500 euro per una figurina, come l’introvabile portiere dell’Atalanta Pizzaballa (1963). La fortuna dell’impero Panini fa gola a tanti e i proprietari un tentativo di cercare acquirenti lo avevano già fatto cinque anni fa, attraverso l’istituto bancario Nomura. All’epoca si fece avanti una società cinese. Ma la trattativa fallì. Gli americani ora sembrano i favoriti, anche perché il cuore dell’azienda non verrebbe mutato. Resterà in quel di Modena, dove il genio dei fratelli Panini prese vita ispirandosi alle figurine parigine, le prime che nel 1861 raffigurarono l’Esposizione Universale.

Trovato l’operaio morto: 8 indagati in Arcelor-Mittal

Sono otto gli indagati per la morte di Cosimo Massaro, 40enne operaio dell’ex Ilva di Taranto precipitato in mare con la gru il 10 luglio scorso. Ieri è stato recuperato il corpo dell’operaio di Fragagnano, venerdì la Procura di Taranto ha notificato il decreto di sequestro a otto dirigenti della fabbrica: i militari della Guardia costiera hanno consegnato il provvedimento che pone i sigilli all’area firmato dal procuratore Carlo Maria Capristo e dai sostituti Raffele Graziano e Filomena Di Tursi che stanno coordinando l’inchiesta.

Il numero di persone iscritte nel registro degli indagati, però, sarebbe destinato ad aumentare. Nei primi giorni della settimana, infatti, sarà effettuata l’autopsia sul corpo di Massaro e la procura ha già acceso i riflettori su diversi aspetti che riguardano la vicenda. Primo tra tutti la manutenzione. La gru, come ha confermato in conferenza stampa il procuratore Capristo, tra il 2012 e il 2019 è stata sottoposta a interventi di manutenzione: dopo l’incidente del 2012 in cui perse la vita Francesco Zaccaria, quella mega struttura spezzata dai venti che soffiavano a oltre 100 chilometri orari, è stata oggetto di lavori di ripristino e quindi anche di un collaudo. Ed è su chi aveva queste responsabilità che in queste ore si stanno concentrando gli investigatori: un punto sul quale, in particolare, stanno effettuando accertamenti i tecnici dello Spesal.

La morte di Massaro sarà una prova sul campo per ArcelorMittal in tema di responsabilità penale: l’ultima modifica dello scudo voluta dai 5stelle ha escluso che la violazione delle norme di sicurezza per i lavoratori possa rientrare nell’alveo dell’immunità concessa ai vertici dei nuovi gestori. Del resto le banchine ex Ilva non rientrano nell’area a caldo della fabbrica e quindi non sarebbero soggette alle prescrizioni contenute nel piano ambientale.

Nelle prossime ore, intanto, per consentire agli indagati di nominare un consulente che partecipi all’esame autoptico, la procura invierà nuovi avvisi di garanzia. L’autopsia sarà fatta “in tempi rapidi” ha chiarito il capo degli inquirenti tarantini per consentire l’immediata restituzione della salma alla famiglia e concedere “una degna sepoltura”. Dopo tre giorni di ricerche sono stati i sommozzatori dei carabinieri arrivati ieri mattina da Pescara a ritrovarlo a pochi metri di distanza dalla banchina: il corpo di Cosimo Massaro era bloccato da un groviglio di lamiere e cavi a qualche metro di profondità. Le ricerche sono durate a lungo a causa del maltempo che ancora ieri pomeriggio incombeva sul capoluogo ionico.

Non solo in mare, dove la visibilità dei sub era drammaticamente ridotta a causa delle acque rese torbide dalla grande quantità di polveri che cadono in quello specchio d’acqua durante le operazioni di trasferimento del minerale e del carbone dalle navi ai nastri trasportatori, ma i rischi del maltempo preoccupavano soprattutto per la stabilità delle altre due gru ancora presenti sulla banchina: strutture che secondo i tecnici rischiano di cadere se dovesse arrivare una nuova bufera.

In un comunicato ArcelorMittal ha annunciato “come segno di massimo rispetto nei confronti del nostro collega, le bandiere dello stabilimento sono state abbassate a mezz’asta e tali rimarranno fino al giorno dei funerali, aderendo al lutto cittadino indetto dal sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci. È un momento di grande dolore per quanti lavorano in ArcelorMittal Italia a Taranto: siamo tutti scioccati da quello che è successo mercoledì sera. Da parte nostra – si legge nella nota inviata alla stampa – continueremo a collaborare con le Autorità per assisterle nelle indagini. Oggi più che mai serve restare uniti e lavorare con spirito di collaborazione e fiducia”.

“Bombe a Pompei? Ci saranno di sicuro nell’area da scavare”

“Sì, ci sono ordigni inesplosi nelle aree non scavate del sito di Pompei, ma non c’è alcun pericolo per gli archeologi e gli operai che sono al lavoro. Né, tantomeno, per i milioni di turisti che ogni anno visitano gli scavi”.

Pompei. È di una settimana fa la pubblicazione della nostra prima puntata di “Sherlock”, un viaggio nel Parco archeologico tra i più famosi al mondo, a partire da una notizia “bomba”: la presenza di 7-10 bombe inesplose della Seconda guerra mondiale. Ne parliamo con Massimo Osanna, da poco confermato alla guida del Parco archeologico di Pompei (incarico che già ricopriva dal 2016).

Professore, in una nota come Direzione degli scavi – in risposta alla nostra inchiesta – si afferma che “le bonifiche degli ordigni del 1943 sono state effettuate”. Ma per noi il problema resta: abbiamo fatto riferimento con precisione alla presenza di bombe non esplose nella zona alle spalle dei fronti di scavo, nelle Regiones I-III-IV-V-IX. Questa zona è stata o non è stata bonificata?Per quello che riguarda i nuovi scavi che abbiamo avviato l’anno scorso nel cosiddetto “cuneo” della Regio V, come ora nella Regio IX, si è intervenuti con la bonifica, così come prevede la legge. I tecnici che lavorano con noi seguono tutto l’iter, prima di cominciare lo scavo interviene il Genio militare che, a fine campagna, rilascia una certificazione di collaudo, e la zona a quel punto è pronta per essere indagata. Non abbiamo bonificato a tappeto tutta l’area non scavata, perché non avrebbe senso, visto che non ci sono attività immediate di ricerca…Quindi lei non esclude la presenza di ordigni inesplosi?Sicuramente ci saranno bombe non esplose in aree dove non ci sono attività di scavo. Ma, come dire, non è di competenza mia il problema.Nell’inchiesta abbiamo raccontato una Pompei divisa in tre città che non si sfiorano (quella dei “morti”, quella dei “vivi” e quella dei turisti religiosi devoti alla Madonna del Rosario). Tomaso Montanari ha parlato di Pompei come di “un patrimonio dormiente”…Non sono così pessimista, ma non nascondo i problemi. Pompei-scavi è un luogo che va curato, esposto com’è al deterioramento. Il problema è ciò che accade all’esterno: i trasporti per raggiungere il sito, l’abusivismo delle bancarelle. Noi segnaliamo sistematicamente tutte le situazioni di degrado. E col piano “Grande Pompei” puntiamo anche a risanare il territorio esterno agli scavi. Ma non abbiamo competenza su quest’area… Abbiamo le mani legate, solo un’azione collettiva che coinvolga dal Tribunale di Torre Annunziata – soprattutto per gli scavi clandestini nelle aree private – al Comune, può migliorare la situazione.Indagando sul traffico dei reperti trafugati, abbiamo riscontrato una forte complicità della grandi case d’asta mondiali.Certo. È un dato allarmante. E non solo per Pompei. Le necropoli pugliesi, nel Foggiano per esempio, sono state saccheggiate per anni, servendosi per scavare persino di mezzi meccanici. Ha visto la foto che abbiamo pubblicato del cane randagio, di casa proprio nei pressi della Via dell’Abbondanza, a Pompei? Eppure pochi anni fa furono spesi 103 milioni per risolvere il problema, si parlò di cani d’oro…I cani ci sono perché turisti e custodi danno loro da mangiare. Ma la situazione è molto migliorata, quando sono arrivato c’erano branchi di cani. Gli scavi di Pompei sono il regno degli archeologi precari? Non è vero. La maggior parte è assunta con concorso e a tempo indeterminato.

Il problema dei laureati che fanno i custodi per Ales non lo vedo: sono giovani che fanno una esperienza, parlano le lingue, conoscono il sito, non sono i classici custodi di un tempo. Certo che sarebbe meglio fare concorsi per migliaia di posti, ma intanto…Quando verrà scavata l’altra Pompei ancora sotterranea di cui tutti parlano?Chiariamo una cosa: i soldi per fare nuovi scavi se si vuole ci sono. Abbiamo messo a bilancio 40 milioni di euro, per la manutenzione del sito e la ricerca, grazie all’aumento dei visitatori e al biglietto a 15 euro. Ma la mia idea è che Pompei non vada scavata tutta, solo in modo molto limitato, generazione per generazione. Scavare istintivamente significherebbe esporre un’area molto più ampia di quella che le nostre risorse possono mantenere. C’è chi le ha contestato la doppia funzione: professore ordinario di Archeologia alla Federico II di Napoli e direttore degli scavi.Mi sono messo in aspettativa dall’Università, la mia attività universitaria è su base volontaria, e faccio un corso di 60ore per tre mesi all’anno che non condiziona la mia attività di direttore generale. Tutto si può dire tranne che, per il mio lavoro a Pompei, non abbia un approccio stakanovista.

Carige, lunedì 15 si riunisce il Fondo Interbancario

Si stringe il tempo su Carige con tappe forzate per trovare la quadra definitiva. La prima lunedì con il consiglio dello Schema volontario del Fondo Interbancario che si riunirà a Milano per fare il punto sulle trattative e per convocare per il 23 luglio l’assemblea che sarà chiamata ad approvare la conversione in equity del bond subordinato da 320 milioni sottoscritto a novembre. Si tratta uno dei tanti tasselli di un puzzle che dovrà trovare una composizione adeguata entro il 25 luglio, scadenza fissata dalla Bce per il riassetto e data entro la quale si terrà anche una altra riunione del consiglio dello Schema volontario per l’approvazione dell’offerta vincolante. La dimensione del rafforzamento patrimoniale, atteso nell’ordine di 900 milioni, non è ancora definito nei dettagli. Bisognerà vedere l’impegno di tutti i soggetti coinvolti, a partire dalla famiglia Malacalza, primi azionisti della banca. Chi è a lavoro confida che, superata la fase interlocutoria, tutti facciano la propria parte. La strada resta stretta e non è priva di ostacoli con la Banca Popolare dell’Emilia-Romagna che resta sullo sfondo e che, da più parti, è indicata come il soggetto industriale maggiormente adatto per Carige.

Facebook, dopo l’Europa arriva la vera stangata Usa da 5 miliardi

Una stangata da 5 miliardi di dollari si abbatte su Facebook per aver violato le norme sulla privacy nel caso Cambridge Analytica, l’azienda di dati che ha lavorato alla campagna del presidente Trump nel 2016. La multa è stata decisa dalla Federal Trade Commission (Ftc), l’autorità indipendente che protegge i consumatori, ed è la più pesante mai comminata contro una società del web (Google nel 2012 sborsò 22,5 milioni di dollari). L’indagine della Ftc è iniziata nel marzo del 2018 dopo che l’Observer ha rivelato che la società di consulenza politica Cambridge Analytica aveva ottenuto impropriamente i dati personali di oltre 50 milioni di utenti di Facebook.

La stangata da 5 miliardi non sembra, però, aver penalizzato la società di Zuckerberg che il 24 aprile scorso aveva già accantonato 3 miliardi di dollari a bilancio per fronteggiare la sanzione che ormai era nell’aria. Tant’è che ieri il titolo di Facebook ha chiuso a Wall Street con un rialzo dell’1,8% nonostante le polemiche sulla privacy ne abbiano intaccato la reputazione negli ultimi 12 mesi. In questo lasso di tempo Facebook è stata, infatti, già multata altre volte. Sanzioni che, però, hanno avuto lo stesso effetto del solletico per una società che nel 2018 ha registrato oltre 22 miliardi di profitti per un fatturato di circa 55 miliardi di dollari. La prima multa a Facebook per lo scandalo di Cambridge Analytica è arrivata nell’ottobre 2018 dall’ente britannico per la protezione dei dati personali (Ico) che gli ha inflitto una sanzione di 500 mila sterline. Sempre dal valore simbolico anche le multe italiane e tedesche comminate lo scorso mese: il garante della Privacy italiano ha imposto il pagamento di un milione di euro sempre per lo scandalo Cambridge Analytica; l’Ufficio federale di Giustizia tedesco (BfJ) di 2 milioni di euro dal momento che Facebook non è riuscito a soddisfare i requisiti di trasparenza per la gestione dei reclami di incitamento all’odio.

Processo Ubi a rischio, il pm Pelosi potrebbe essere costretto a lasciare

C’è un processo a rischio, a Bergamo: quello ai vertici di Ubi Banca, con alla sbarra l’intero gruppo dirigente insieme all’esponente più noto della cosiddetta finanza cattolica, il presidente emerito di Banca Intesa Giovanni Bazoli. Accuse: aver manovrato l’assemblea per far vincere il gruppo dei fondatori e aver tenuto nascosto a Banca d’Italia e Consob il patto occulto che a quel gruppo ha garantito finora la gestione dell’istituto. Il processo è ora a rischio, perché il pm Fabio Pelosi potrebbe essere costretto dal Csm a lasciare Bergamo. È stato già da tempo trasferito a Pisa, ma il procuratore di Bergamo, Walter Mapelli – scomparso nell’aprile scorso – aveva ottenuto che restasse applicato al dibattimento Ubi.

Ora una lettera del Csm ha imposto a Maria Cristina Rota, che svolge le funzioni di procuratore, di affiancare a Pelosi un altro magistrato: è stato scelto il pm Paolo Mandurino, certamente competente. Ma Pelosi è comunque giudicato da Rota “indispensabile”, perché è l’unico che conosce tutta la storia e ogni pagina degli atti, imponenti. È in una situazione difficile. Trasferito a Pisa, torna a Bergamo a ogni udienza del dibattimento Ubi, un giorno a settimana. I viaggi li paga di tasca sua. E se lavora a quel processo fuori dai giorni di udienza, usa giorni di ferie. Adesso che cosa deciderà il Csm? Togliere Pelosi dal processo sarebbe un affronto alla memoria di Mapelli, grande magistrato.

Deutsche Bank, cuccagna da 50 miliardi di bonus

“L’ investment banking è una trappola, un gioco e una droga: la ricompensa è grande ma incerta, il che la rende eccitante e ti fa chiederne sempre di più”. Le confessioni di un ex dirigente di una banca d’investimento di Londra, raccolte in forma anonima dal Guardian, spiegano bene cosa muove chi incassa stipendi fissi da 500mila euro l’anno ma punta a bonus che da zero possono salire a molti milioni. Il meccanismo però porta i manager ad assumere rischi sempre maggiori: se va male difficilmente dovranno pagare il conto, se va bene guadagneranno cifre enormi. Ne sa qualcosa Deutsche Bank, il gigante malato del credito tedesco che nei giorni scorsi ha annunciato un piano di ristrutturazione “lacrime e sangue” che prevede il taglio in tre anni e mezzo di 18mila dipendenti, uno su cinque. Dal 1999 la divisione di investment banking della banca di Francoforte ha assunto rischi su derivati del valore nozionale di 43.500 miliardi di euro, tredici volte il Pil tedesco, tra i quali anche il famoso contratto Santorini venduto a Mps. Le perdite che ne sono emerse continuano a dissanguare i bilanci, ma in molti grazie a quelle scommesse hanno guadagnato cifre stellari: i soli bonus pagati da Db in vent’anni hanno raggiunto 50 miliardi di euro. Ora però proprio quella divisione, con un doppio quartier generale a Londra e New York, sarà smantellata.

“Quando andavo nell’ufficio del mio capo per ricevere il mio bonus annuale, era cruciale non far trapelare nessun indizio del fatto che fossi felice per la cifra: entravo con la faccia da poker, uscivo con la faccia da poker. Poi, dentro di me, pensavo: non posso credere che mi diano così tanti soldi per un anno di lavoro”. Il manager di Londra spiegava così l’euforia che seguiva l’incasso del premio. I bonus, pur non essendo nemmeno tra i più alti del settore, non mancavano mai. Nei soli ultimi 9 esercizi sino al 2018 la banca ha pagato premi per 24,2 miliardi. I premi non si sono fermati nemmeno quando le difficoltà della banca erano ormai alla luce del sole. Il 2016 è stato l’unico anno nel quale la cuccagna è quasi finita: i bonus furono di “appena” mezzo miliardo. Ma nel 2015, nonostante Db avesse perso 6,8 miliardi a causa di pesanti sanzioni, i premi furono di 2,4 miliardi.

Quella che la testata tedesca Zeit online ha ribattezzato “la rapina in banca dall’interno” è iniziata nel 1999, quando Deutsche acquistò Bankers Trust, una grande banca d’investimento di New York. Poi nel 2007-2008 arrivò la crisi finanziaria globale scatenata dai subprime e le banche d’affari finirono nel mirino dell’opinione pubblica perché molte salvate coi soldi dei contribuenti. I bonus stellari parevano finiti, ma era solo una battuta d’arresto. Nel 2009 Goldman Sachs annunciò un monte-bonus annuale mai visto di quasi 15 miliardi di euro: oltre 470mila euro in media a ciascuno dei 31.700 dipendenti. Ma era la media dei polli di Trilussa: in Goldman le donne, a parità di grado e funzioni, ricevevano bonus inferiori del 40% a quelli degli uomini.

La progressione di stipendio nell’investment banking era notevole: prima della ristrutturazione, un neoassunto nella divisione londinese di Deutsche triplicava la busta paga nei primi sette anni, passando da 70 a quasi 240mila euro. L’anno scorso il monte-premi di Db si è ridotto del 14% a 1,9 miliardi ma valeva comunque 6 volte gli utili. Nonostante la crisi e il crollo dell’azione, le remunerazioni dei consiglieri di gestione sono raddoppiate a 56 milioni grazie alla quota variabile. L’ad Christian Sewing, in carica da aprile 2017, ha guadagnato 2,9 milioni di stipendio base ma con i bonus ha raggiunto i 7 milioni. Garth Ritchie, il capo dell’investment banking ora in uscita, ha ottenuto 8,6 milioni inclusi 250mila euro al mese di bonus per “consulenze” prestate alla stessa Db su Brexit. Grazie al bonus-Brexit Ritchie ha incassato 3,25 milioni dall’inizio della “consulenza” a dicembre 2017 e, se fosse restato in carica come previsto fino a novembre 2020, a fine periodo ne avrebbe ottenuti 9. Ma non era solo: da novembre 2017 ad agosto 2018 il responsabile dei rischi Stuart Lewis ha ricevuto un extra di 150mila euro al mese per “migliorare i rapporto con i controllori Usa”, che ha portato la sua retribuzione di 1,2 a 6,1 milioni.

Ora che la scure si abbatte su migliaia di posti di lavoro, in Deutsche Bank di quei bonus potrebbe restare solo il ricordo. Tornano alla mente le parole dell’anonimo investment banker di Londra: “L’euforia non dura. Sei pagato una somma enorme, ma c’è un compromesso monetizzato nel bonus: hai rinunciato al rispetto”.

Femminicidio in Iran. Il processo-show in tv all’ex sindaco di Teheran

Succede anche in Iran che gli scontri politici tra riformisti e conservatori, invece che sui grandi temi della sicurezza e dell’economia, si polarizzino su vicende personali, un po’ pruriginose. Se poi ci scappa il morto, e il sangue s’intreccia col sesso, la ricetta per la storia di richiamo è servita, a Teheran come in qualsiasi capitale occidentale. Altro che accordo sul nucleare denunciato e calpestato dagli Stati Uniti di Donald Trump e violato – un anno più tardi – dall’Iran; o tensioni nel Golfo, con navi commerciali attaccate, droni abbattuti e petroliere sequestrate; o ancora conflitti per procura con i sauditi nello Yemen. Ieri, l’ex sindaco di Teheran Mohammad Ali Najafi, 67 anni, riformista, consigliere del presidente Hassan Rohani, ex ministro, ha assistito, in divisa da carcerato, alla prima udienza del processo a suo carico in tribunale: l’accusa è di aver ucciso sua moglie, Mitral Ostad, trovata morta nella sua casa il 28 maggio. Najafi ha ammesso l’uxoricidio, ma ha affermato nel corso dell’udienza d’avere ucciso la moglie perché aveva una relazione extraconiugale. Secondo la Sharia, la legge islamica, un uomo può uccidere sua moglie se ha le prove di un suo “rapporto illegale”.

In precedenza, Najafi aveva detto che l’omicidio nasceva da problemi familiari, ma non era stato esplicito sul tradimento che, se confermato, lo manderebbe di fatto assolto. Najafi è personaggio che suscita forti contrapposizioni: nei sei mesi in cui fu sindaco della capitale iraniana, venne fortemente osteggiato dai fondamentalisti, fino a che, nell’aprile del 2018. Subito dopo l’arresto, la sua confessione, in diretta tv, aveva fatto grande impressione, ma anche suscitato molti dubbi: “Litigavo spesso con mia moglie, volevo divorziare ma lei non era d’accordo, poi oggi mi è partito accidentalmente un colpo dalla pistola e l’ho uccisa”, aveva detto Najafi. Un tono surreale, quanto – racconta Alberto Zanconato, un giornalista che è stato per molti anni corrispondente da Teheran dell’Ansa – il tono calmo e distaccato, o le premure riservategli al commissariato dove si era costituito, sotto gli occhi delle telecamere (per chi conosce la brutalità dei poliziotti iraniani la scena era irreale). C’era quanto bastava per sollevare dubbi e dare luogo a interpretazioni complottistiche sulla vicenda. La moglie uccisa, un’attrice, aveva circa la metà degli anni di Najafi ed era solita postare immagini romantiche con il marito su Instagram. Martedì 28 maggio il suo corpo senza vita è stato trovato nel lussuoso appartamento che i due condividevano, nel quartiere di Saadat Abad, nel nord-ovest di Teheran. Poche ore dopo Najafi, un politico laureato in Matematica al Massachusetts Institute of Technology, s’era consegnato agli agenti. In serata, era andato in onda l’incredibile show che lo mostrava mentre dava la sua incongrua versione di quanto successo – un particolare bastava a confutarla: lui parlava d’un colpo partito per errore, mentre la moglie era stata raggiunta da due colpi –. Successivamente, il giornalista che lo intervistava lo smentiva, prendendo in mano l’arma che doveva essere quella del delitto, estraendone i proiettili e mostrando che i colpi sparati erano stati ben cinque. Troppi perché la versione dell’incidente reggesse. Nel frattempo, Najafi, seduto tranquillo alle spalle del giornalista, sorseggiava un tè che gli era stato portato dalle guardie. Nulla di quanto era stato mostrato, insomma, sembrava naturale e tutti, a partire dall’arrestato, e compresi il giornalista e i poliziotti, sembravano recitare una parte. Comprensibile, dunque, l’ondata di reazioni scioccate, scandalizzate ma soprattutto incredule che s’era creata sui social media. E c’era chi ricordava che l’ex ministro dell’Istruzione, ex sindaco di Teheran e consigliere di Rohani era già stato più volte preso di mira dal fronte conservatore del regime teocratico iraniano.

Anche le dimissioni da sindaco di Najafi erano state conseguenza di una vicenda personale, più che politica. Gli estremisti integralisti lo avevano criticato per avere partecipato a una cerimonia dove alcune bambine delle scuole elementari avevano ballato, evocando balletti rosa e altre – apparenti – fantasie. E molti avevano allora sottolineato che Najafi, in quanto sindaco, aveva denunciato il malaffare e la corruzione nella compravendita di beni immobili da parte d’uomini d’affari legati ai conservatori. Ce n’è a sufficienza perché sui social si evochi un complotto dell’intelligence. C’è chi ipotizza che la vittima, sposata da Najafi senza divorziare dalla prima, grazie alla legge sulla poligamia, fosse una agente dei servizi messa al fianco di un politico scomodo. Il che non ne giustificherebbe l’assassinio.

Spazio, la Russia lancia Spektr-Rg, alla ricerca dell’energia oscura

Tre milioni di buchi neri supermassicci è il bottino galattico che potrebbe portare sulla terra il telescopio Spektr-Rg lanciato ieri nell’universo dal programma spaziale russo nella prima missione importante post-sovietica. Partito dalla base di Baikonur in Kazakhstan avrà il compito ambizioso di ricercare i segreti dell’evoluzione dell’Universo mappando il cielo con un dettaglio senza precedenti. Frutto di un progetto congiunto con la Germania, il telescopio portato da un razzo Proton-M è decollato con successo, stando alle immagini trasmesse sul sito di Roskosmos, l’agenzia spaziale russa, ed è “specializzato” nell’analisi dei raggi X, attraverso cui potrà esplorare gli oltre 100 mila “cluster di galassie”, le più grandi strutture aggregate dell’Universo, ognuno dei quali contiene mille galassie e un milione di miliardi di soli. Si cercherà quindi di capire meglio le caratteristiche dell’energia oscura, che governa l’espansione dell’Universo.”Il progetto era stato proposto più di 30 anni fa, come parte di un piano dell’Unione Sovietica per una serie di ambiziosi “grandi osservatori” sul modello del telescopio Hubble – spiega il sito di Science – ma Spektr-RG è rimasto vittima dei tagli nella economicamente disastrata Russia post sovietica”.

Sangue sul voto: attacco Al-Shabaab in hotel: 26 morti

Gli shebab, i terroristi somali legati ad al Qaeda, che controllano gran parte dell’ex colonia italiana (escluse le città) sono tornati a colpire venerdì sera con un sanguinoso attentato a Kisimaio, la seconda città del Paese: i morti accertati sono 26, ma il bilancio potrebbe salire perché tra gli oltre 50 feriti molti sono gravissimi, in fin di vita.

L’altra sera all’Hotel Asasey vicino al porto era stata convocata un’importate riunione con la partecipazione di politici locali, qualche straniero e diversi giornalisti. Si doveva cominciare a organizzare la campagna per le elezioni locali che si terranno a fine agosto. La riunione era appena cominciata quando un’auto imbottita di esplosivo è entrata nel cortile e l’autista kamikaze ha fatto esplodere il suo arsenale. Immediatamente dietro ha fatto irruzione, sparando all’impazzata, un gruppo di miliziani armati.

Dopo una breve scaramuccia il commando ha neutralizzato il drappello di guardie di sicurezza a difesa della palazzina ed è entrato – praticamente senza trovare resistenza – all’interno, scaricando i caricatori dei suoi mitra contro chiunque incontrasse sul suo passaggio. È entrato nella sala riunione, dove i partecipanti al meeting si erano barricati, e ha ammazzato tutti i presenti. Tra gli altri la prestigiosa giornalista somalo-canadese Hodan Naleyah e suo marito, il reporter della televisione di Kisimaio Sbc Tv, Mohamed Sahal Omar, un candidato alle elezioni presidenziali del Jubbaland (la repubblica semi-autonoma del sud della Somalia), tre kenioti, tre tanzaniani, due americani e un britannico. Hodan Naleyah è ben conosciuta nella diaspora somala: è la fondatrice di Integration Tv un’emittente che manda in onda storie di integrazione dei somali nei Paesi che li ospitano dopo la fuga di massa degli anni scorsi (e con continua ancora oggi) a causata dalla guerra civile che imperversa dal 31 dicembre 1990.

Due assalitori – che un testimone scampato alla strage ha definito “drogati” – sono rimasti al pian terreno mentre altri due sono saliti ai piani superiori dove ci sono le camere dell’hotel, molte delle quali fortunatamente vuote. Le hanno aperte per cercare eventuali ospiti da freddare. Allertate dalla sparatoria le forze dell’ordine hanno circondato l’hotel ingaggiando una battaglia con gli intrusi, due dei quali dal terrazzo bersagliavano chiunque vedessero. Lo scontro a fuoco è durato oltre 14 ore, fino alla mattina alle sette “quando l’ultimo dei terroristi è stato ammazzato”, ha raccontato all’Associated Press il colonnello Abdiqadir Nur, ufficiale della polizia. Mentre il ministro della pianificazione del Jubbaland Just Aw Hrsi non ha voluto fornire nessuna cifra sul numero dei feriti: “Purtroppo – ha detto – rischierei di sbagliare per difetto”. Quando gli agenti sono riusciti a entrare nel palazzo si sono trovati di fronte a uno spettacolo spaventoso: morti e feriti agonizzanti dappertutto, pozzanghere di sangue mobili e suppellettili distrutte.

Gli shebab fino al 2011 controllavano praticamente tutta la Somalia e le truppe della missione dell’Africa Union (Africa Mission in Somalia) erano confinate in alcune roccaforti. Nell’estate di quell’anno gli islamisti sono stati cacciati da Mogadiscio e i loro resti si sono raggruppati fuori dalle città. Nel 2012, sono stati espulsi anche Kismayo, il cui porto era una delle principali fonti di entrate per il gruppo terrorista. Ora sono asserragliati in alcune zone del Jubbaland dove opera, come parte dell’Amisom, un corpo di spedizione dell’esercito keniota. Gli shebab qualche mese fa si sono spaccati tra i sostenitori della confluenza nello Stato Islamico e chi invece riteneva essere più proficuo restare fedeli ad al Qaeda.