“Sono un anarchico, ho fiuto e preferisco i monti alla galera”

Il parametro della ricchezza per Silvio Baldini è il frigo di casa pieno. Non è una questione di abbondanza assoluta, di opulenza, di esibizione, ma è la base dell’accoglienza, il piacere di condividere e aggiungere quel posto a tavola. Guardarsi negli occhi. Capire chi si ha di fronte. Confrontarsi. Cercare indicazioni anche attraverso la natura (“è passata una farfalla, buon segno”). Rispettare gli insegnamenti della montagna o della cultura contadina. Silvio Baldini si definisce uomo dei monti. E lì un giorno vuole tornare.

Oggi ha 61 anni, vive a Massa Carrara, quando stringe la mano ha una presa decisa, di chi quella mano la può chiudere a pugno e se necessario difendersi e difendere. Per anni ha allenato in Serie A, da quando è arrivata la chiamata del Palermo e dell’allora presidente Zamparini (“lì la mia carriera è finita. Ho sbagliato e perso i giusti stimoli”). È cresciuto tra bar, osterie, malavitosi, cozze raccolte all’alba e vendute ai ristoranti, fughe d’amore in Brasile e amici sempre più grandi di lui. Sa quali sono le regole della sopravvivenza, e come spiega spesso Daniele Adani, “è per molti un maestro di vita”.

Oggi allena gratis la Carrarese in Serie C “solo perché avevo bisogno di ritrovare il gusto originario”.

Maestro di vita.

Le definizioni non mi piacciono, comunque con Daniele abbiamo un rapporto bellissimo, una volta l’ho portato in montagna alle cinque del mattino. E da lì è cambiato il suo modo di vedere il calcio.

Perché?

Era squalificato, così gli ho mostrato un’alba differente.

Differenti prospettive.

È importante ribaltare i punti di vista e magari affidarsi alle sensazioni, che ogni tanto diventano intuizioni. Come per Antonio Conte.

Cioè?

La prima volta che l’ho visto a Coverciano ho pensato: “Lui diventerà un grande allenatore”. E non so il perché.

Poi siete diventati amici.

Diverse volte è venuto a pranzo, poi un giorno l’ho chiamato: “Devi imitare Guardiola”: lui si è presentato dal presidente del Barcellona e ha chiesto la panchina blaugrana; “Tu devi andare da Agnelli e proporti per la Juve”.

L’ha ascoltata.

Uscito dall’incontro con la dirigenza bianconera mi ha immediatamente chiamato: “Sono l’allenatore”.

Altra predizione?

Torneo di Viareggio, vedo giocare un giovanissimo Ciro Immobile, poco dopo incrocio il padre e lo tranquillizzo: “Suo figlio arriverà in Nazionale”. Adani è testimone.

Come sono i ragazzi della C?

Eccezionali, ovviamente sognano la Serie A, ma sono circondati da procuratori e genitori scemi.

Questo un po’ in tutte le categorie.

Un giorno mi chiamano a Coverciano (è il Centro Tecnico Federale) per i corsi di aggiornamento e parlare del 4-2-3-1, rispondo: “Se vengo, l’argomento lo decido io”.

Ovvio.

Così li ho edotti della storia di Mario, il pastore.

Qual è?

Per sei anni sono stato fermo, non allenavo, per questo partivo il primo novembre per la Sicilia, restavo quindici giorni lì, poi tornavo a casa una settimana, e altri quindici giorni sull’isola. Giù e su fino a febbraio.

Per cosa?

Vivevo sui monti insieme ai miei cani ed è lì che ho conosciuto Mario: la sera mangiavamo insieme, chiacchieravamo, dormivamo in una baita, non avevamo i sevizi igienici, ed era normale affrontare i temi centrali della vita. La sua, di vita, per me è una stella polare dell’esistenza.

Come mai?

Ultimo di sette figli, nessun lusso, solo praticità; per lui, da bambino, il giorno più bello dell’anno era la Fiera perché portavano gli animali da comprare o barattare.

Insomma, Mario…

Un gruppo di Rom possedeva un cavallo bellissimo, chi riusciva a cavalcarlo, dietro una scommessa di 5 mila lire, lo vinceva. Impossibile. Mario guarda l’animale e gli sussurra: “Sarai mio”. A quanto narra lui l’animale lo guarda con occhio diffidente ma curioso.

Catarsi.

Uno che non ha studiato, analfabeta, riesce a cogliere lati profondi della vita. Questo mi colpisce. Mario ha passione, parla con l’anima, e non serve cultura per suonare certe corde (Ci pensa) Cassano e Maradona non sono delle cime, eppure sono Cassano e Maradona: vivono d’istinto.

A Cassano l’istinto è costato caro.

Se si fosse allenato sarebbe arrivato al livello di Messi o Ronaldo.

Alla fine, il cavallo?

Mario chiede i soldi al padre che gli risponde: “Non ho 5 mila lire e non sei pronto”; oggi è impossibile trovare un genitore capace di capire qual è il momento: al campo arrivano frotte di parenti pronti a lanciare pargoli senza paracadute.

Presunti assegni circolari.

Mi chiamano in continuazione per far giocare chiunque, tutti chiedono favori. Il padre di Mario no. Il padre di Mario lo sprona a mettere da parte i soldi. Così passano gli anni, arriva il giorno della Fiera, e lui è pronto per la sfida, è il suo momento, è cresciuto, maturato e consapevole.

Ciò che manca al calcio.

Esatto. Ma al momento di affrontare il cavallo, si piscia sotto. Il padre gli molla un ceffone: “Sii uomo”. “Va bene”. Sale. L’animale prova a buttarlo a terra, corre, scalcia, lui non molla e lo doma. Alla fine i Rom non accettano la sconfitta, il padre estrae il coltello: “Ora è di mio figlio”. Dopo 8 anni, un giorno muore il padre e un’ora dopo pure il cavallo. Mario ha pianto per l’animale.

Non per il padre.

È normale, è il ciclo della vita. Poco tempo fa ho perso il mio, aveva 87 anni, non c’è da disperarsi, tocca a tutti.

Cos’è il dolore?

Il tradimento dal punto di vista umano.

Hanno scritto che vuol diventare pastore.

Quando smetto desidero immergermi nella natura, senza rotture di coglioni, altrimenti mi tocca finire in galera.

Che c’entra la galera?

Qui intorno è pieno di scemi, hanno rubato a tutti, se ci provano sono cazzi, mica mollo facile.

Non ci sono dubbi.

In questa casa non c’è nulla da rubare, non ci sono gioielli, ma ho sempre il frigo pieno.

Per quanto intende allenare?

Fino a quando mi diverto.

Lei da ragazzo.

Sono cresciuto con i miei nonni, uno in particolare, fascista, mi portava al bar a giocare a carte.

Con gli altri ragazzi?

Sono sempre stato con i più grandi, i miei nonni possedevano un’osteria: lì si cimentavano con la morra, un gioco che al di fuori sembra cretino, al contrario è necessaria l’astuzia per anticipare il movimento dell’avversario.

Imparato da suo nonno?

Non si insegna. Chi sa non lo tramanda.

Alcool?

Astemio. Solo una volta mi sono ubriacato, ma per provare e capire: sono stato talmente male da lasciar perdere. Per sempre. Neanche fumo.

Anomalia.

Nel calcio invece girano le canne.

Tante?

La domenica sera capita.

Ha cambiato molte squadre…

Non le ho contate.

Le dispiace non essersi fermato per periodi lunghi?

È impossibile con i direttori sportivi di oggi: devono difendere il loro orto e ti scaricano alla prima difficoltà.

Ha provato con la televisione.

Andavo perché cercavo un modo di esternare, ma anche quel mondo è pieno di gelosie e invidie. Mi scappava da ridere.

Passa per comunista.

Mai stato. Anarchico sì.

Allora, come mai?

Forse perché sono cresciuto con molti amici di Lotta Continua, ma non sono mai andato a sentire un comizio di Adriano Sofri; mio nonno ripeteva: “Una volta erano tutti fascisti, poi all’improvviso no; noi italiani siamo un popolo di merda, sempre con il vincitore”.

Ha ceduto a Zamparini.

La colpa è di mia moglie.

Scarica su di lei?

Un giorno torno a casa e le dico: “Ho ricevuto un’offerta incredibile: tre anni a due miliardi l’anno”.

Tantissimo.

Allora quella cifra la prendevano solo gli allenatori delle big.

Risposta?

Abbiamo tre figli e niente alle spalle.

Era vero?

A quel tempo eravamo sempre sotto in banca: quando ho iniziato ad allenare il Chievo avevo un rosso di 28 milioni.

Quindi?

Ho accettato e da quel giorno ho smesso di essere un allenatore. Consapevole di ciò.

Consapevole.

Ho iniziato a controllare la Borsa o guardare il prezzo degli immobili; ho mollato la mia passione e ho raschiato il barile. Per questa ragione adesso alleno gratis.

Ha sbagliato, quindi.

Era più giusto finire in squadre come il Genoa, la Sampdoria o la Fiorentina, guadagnare meno, ma costruire. Invece ho perso.

Basta saperlo.

Oggi vivo con una pensione da 2.400 euro al mese e gestisce tutto mia moglie. Ribadisco: il frigo è sempre pieno, il superfluo non mi interessa (mostra l’orologio) : questo l’ho pagato 200 euro, lo indosso da anni.

Torniamo a lei da ragazzo.

A vent’anni sono partito per il Brasile e senza dire nulla ai miei.

Perché lì?

Ero innamorato di una brasiliana.

Conosciuta dove?

Al night. A quel tempo frequentavo i luoghi più equivoci della zona, molti miei amici di allora sono morti.

Morti di cosa?

Vivevano di espedienti, non temevano nulla, sfrontati, esagerati. Anche armati.

Proprio amici suoi?

Uno di loro è stato coinvolto nella vicende della Banda della Magliana.

Chi?

Dante Del Santo detto “Il Cinghiale”, lo conoscevo bene (è stato accusato di essere uno dei killer di Renatino De Pedis, ucciso a Roma nel 1990); chi ha rovinato questa generazione è la cocaina.

Lei presente ma esterno.

Mi ha salvato diventare allenatore: quando avevo trent’anni già guidavo una formazione di C e senza patentino. E poi la salvezza definitiva l’ho raggiunta grazie all’incontro con mia moglie: mi ha conquistato con il silenzio; se mi incazzo non dice nulla, si mette a piangere.

Altro che night.

La brasiliana era una spogliarellista, mi innamoro e la salvo, altrimenti la obbligavano a prostituirsi.

Astemio pure al night.

Gino, taglialegna anarchico, da ragazzo mi ha spiegato: “Se hai soldi non prendere mai la sbornia, altrimenti te li portano via; le sbornie vanno bene quando hai i debiti e dici all’oste: ‘Un giorno pago’”.

La sua giornata in Brasile.

Andavo al mare, in giro, poi magari allo stadio: nel 1980 ho visto la Nazionale brasiliana al Maracanà: 160 mila spettatori.

Già appassionato di calcio.

Tornato dal Brasile ho iniziato la carriera da allenatore.

Lei è un sopravvissuto.

Eccome. Un giorno mi hanno arrestato per bracconaggio.

A quanti anni?

Sempre 20 o 21. Gino mi rimproverò: “Te l’avevo detto di non andare con gli ubriachi”.

La colpa era di chi stava con lei.

Da solo non mi avrebbero mai pizzicato. Sono cresciuto in mezzo alla natura, vedo e sento tutto (indica due merli non lontano da noi, e inizia a spiegare qual è il maschio, la femmina, e perché uno è più paffuto dell’altro).

Nella lite televisiva tra Adani e Allegri, con chi stava?

Adani, ovvio. Sempre con lui. E comunque Allegri lo conosco bene e da anni.

Di lui cosa ne pensa?

Ha una capacità straordinaria nel capire chi ha di fronte e in poco tempo.

Bella dote.

Ha un’intelligenza da strada, la stessa velocità di giudizio dei banditi che ho conosciuto da ragazzo.

Lei e i soldi…

Dopo aver firmato il contratto con Zamparini me ne hanno chiesti tanti, una processione, e ho cercato di aiutare tutti, pure chi mi stava sulle palle, per questo a un certo punto ho pregato mia moglie di seguire tutti i conti.

Riconoscenza?

Raramente.

Domani inizia la nuova stagione con la Cararrese.

Siamo in piena campagna acquisti. Mi aiuta mio figlio grande.

È bravo?

Un genitore non deve dare un giudizio di merito; posso rispondere: mi serve (si incupisce) Ho paura di avergli trasmesso dei valori difficili da gestire, lui uno come Gino il taglialegna non lo ha conosciuto, ma solo un babbo allenatore.

La segue nelle partite?

Sempre, e se a volte resto calmo è perché so che c’è lui (ora sorride) Ci abbracciamo solo quando vinciamo.

Solo?

Non ho cresciuto i miei figli a bacini, queste storie non le sopporto. Quindi la partita è la nostra scusa per un contatto fisico (interviene la moglie: “È come un fiammifero, così si accende, così si spegne. Ed è generoso: se esce e vede qualcuno da solo, lo porta a casa anche se non lo conosce”).

Gioca a carte?

No, perché per vincere è necessario imbrogliare. Mio nonno imbrogliava.

Ma tra i 21 anni e la carriera d’allenatore, come impegnava le giornate?

D’estate ero un bagnino.

Ha mai salvato qualcuno?

Più di uno; riuscivo a stare in apnea tre minuti e mezzo.

Fenomeno.

Per mantenerci mi svegliavo alle quattro del mattino, indossavo la muta, pescavo branzini e 70-80 chili di cozze; mia moglie tornava a prendermi alle 8, con la colazione, quindi mangiavo, portavamo a casa i molluschi, lei li puliva e la sera li vendevo ai ristoranti. Guadagnavo 80 mila lire al giorno.

Non male.

E poi affittavo gli ombrelloni alla spiaggia pubblica, mille lire al giorno. Alla fine della stagione racimolavo 10 milioni che mi servivano per l’inverno.

Altro che Zamparini.

Avevo addosso una cattiveria unica. Una cattiveria sana. Mai stato con i più forti. Io sono un anarchico.

 

I lobbisti dei signori delle autostrade e i riti terrapiattisti

Gli italiani stanno perfezionando una micidiale tecnica di suicidio di massa, la correlazione spuria. Gli economisti – che spesso usano la loro scienza non per spiegare a chi non sa, ma per irridere l’ignoranza di lavoratori grazie ai cui sacrifici hanno potuto studiare – definiscono correlazione spuria l’arbitrario rapporto causa-effetto tra due fenomeni contemporanei. Esempio: da quando è stato introdotto l’euro le condizioni economiche dell’Italia sono peggiorate, quindi l’euro è causa della crisi. Oppure: lo scioglimento dei ghiacci (effetto) accelera da quando sono esplosi i social network (causa). Il problema è grave ma non serio finché la correlazione spuria resta confinata tra gli svaghi di quel popolo annoiato e disperato che estrae dai propri neuroni la prova logica che la Terra è piatta e che non siamo mai andati sulla Luna. Diventa serissimo quando la correlazione spuria è arma di dominio di un sistema che da anni con una mano distrugge l’economia con la sua disonestà e insipienza, e con l’altra arraffa una quota crescente del reddito calante prodotto.

L’Oscar 2019 della correlazione spuria (e in malafede) spetta a Fabrizio Palenzona, sconosciuto al grande pubblico ma con un ruolo centrale nello sfascio italiano. Lobbista a 360 gradi sferici, è in grado di difendere contemporaneamente gli autotrasportatori e le concessionarie autostradali, le banche e gli aeroporti. È stato fatto fuori dalla vicepresidenza dell’Unicredit e dalla presidenza degli Aeroporti di Roma, ma ancora troneggia come presidente all’Aiscat (Associazione della concessionarie autostradali) e all’Assoaeroporti. E proprio come Aiscat è sceso in campo con una fluviale intervista all’ospitale Corriere della Sera per attaccare frontalmente l’Authority dei trasporti, colpevole di aver costruito per lo Stato concedente un nuovo sistema tariffario di pedaggio autostradale a tutela degli automobilisti spolpati al casello dai Benetton, Gavio e soci, i danti causa del lobbista totale. Per convincerci che dovremmo dire grazie ai signori delle autostrade, Palenzona intima: “Rispetto al 2001 oggi abbiamo 340 morti in meno (-57%). Evidentemente qualcosa l’abbiamo fatta”. Uno legge e pensa: ah però, bravi e modesti, i pedaggi li hanno destinati a manutenzione e sicurezza per salvare vite umane. Che le concessionarie autostradali si mettano in tasca come profitto un euro ogni quattro incassati al casello (una redditività senza pari in tutta la Via Lattea) è dunque una fake news propalata dall’Authority dei trasporti, indipendente di nome ma di fatto al servizio (come insinua Palenzona) di un governo nemico delle imprese.

Bene, se le balle di Palenzona vi hanno fatto pensare che la mortalità sulle autostrade sia crollata grazie allo spirito di sacrificio dei Benetton e dei loro lobbisti, mentre sulle arterie sfigate dell’Anas gli italiani continuano a morire come le mosche, andate a vedere le statistiche ufficiali dell’Istat. Sapete di quanto sono calati nello stesso periodo i morti fuori delle autostrade? Del 57 per cento come sulle autostrade, pari pari. E senza bisogno di pagare il pedaggio. Ecco che cos’è una correlazione spuria (e spudorata) brandita per prendere per i fondelli il prossimo. E a proposito, egregio dottor Palenzona: le 43 vittime del ponte Morandi, di cui ella come lobbista capo delle concessionarie sente l’obbligo di nulla sapere (“Mi pare che non siano ancora state individuate le reali cause del crollo”), sono morte in autostrada facendo sballare la sua statistica da terrapiattista? Oppure i decessi li considerate avvenuti al di fuori del viadotto visto che da qualche istante, in effetti, non c’era più? Così, per sapere.

 

Il buon samaritano svela la compassione di Dio verso la nostra umanità

In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: “Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”. Gesù gli disse: “Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?”. Costui rispose: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”. Gli disse: “Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai”. Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è mio prossimo?”. Gesù riprese: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: ‘Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno’. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?”. Quello rispose: “Chi ha avuto compassione di lui”. Gesù gli disse: “Va’ e anche tu fa’ così” (Luca 10,25-37).

La domanda che suscita la semplice parabola del buon samaritano è di un dottore della legge che chiede: Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna? La risposta dello scriba alla contro-domanda di Gesù, cosa sta scritto nella Legge?, è dottrina, chiara e ufficiale: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore … e il prossimo tuo come te stesso. Ma chi è il prossimo? Per i maestri, il prossimo erano i fratelli nella fede, i connazionali, la gente della stessa discendenza, al massimo i proseliti; per alcuni persino tutti gli uomini. Gesù, invece di rifarsi a citazioni, risponde raccontando una storia elementare e commovente. Un sacerdote e un levita evitano di fermarsi per soccorrere un ferito. L’osservanza del comandamento “non uccidere” si estendeva fino a non toccare il sangue umano, rendeva impuri, significava venirne contaminati ed esigeva una conseguente purificazione rituale.

Forse non è per indifferenza o durezza di cuore che gli addetti al culto non si fermano. Ma Gesù sceglie volutamente di inoltrarsi nel confronto delicato con il tema della pratica del culto: quello vero, infatti, non distrae dal dovere della giustizia, dal perdono e dal dono della cura vicendevole. La parabola, infatti, tace sull’identità del bisognoso: un uomo! Ma evidenzia l’estraneità del soccorritore: samaritano. Se capita d’incontrare un bisognoso, sconosciuto o nemico, è necessario liberarsi da ogni ragionamento, pregiudizio, ed entrare piuttosto nell’evento di quel malcapitato nelle mani dei briganti: prossimo è colui nel quale t’imbatti e che ha bisogno di te. Ma il farsi prossimo è una scelta di vicinanza e di condivisione. Non è gesto occasionale, come dare un’elemosina. Significa farsi carico della sua vita, conoscerne le necessità, provvedere alle sue esigenze immediate, anticipare le future. Questa prossimità, che lega tutti gli uomini, non deriva dal fatto che tutti possiamo avere bisogno dell’aiuto altrui, ma è il fondamento di tutto il Vangelo: in Gesù, senza differenze, tutti sono amati da Dio, peccatori e giusti, credenti e no, amici e nemici, vicini e lontani, ricchi e poveri! Amare chiunque, ma come Dio ama.

Con la domanda “chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?” Gesù vuol portare lo scriba, e con lui tutti gli uomini a chiederci: chi sia l’altro per me? E chi sono io per l’altro? Il samaritano è la rivelazione della compassione di Dio verso la nostra umanità ferita e mortale. È Gesù Cristo che cambiandoci il cuore con la sua morte e risurrezione ci dice: Va’ e anche tu fa’ così.

 

2019: la scomparsa dell’America

La Russia decide sul mondo e comanda ai suoi dipendenti europei: come è possibile? Ecco la storia. All’improvviso, con l’elezione alla presidenza di Donald Trump, è venuta a mancare l’attenzione degli Stati Uniti su ogni terra o Paese fuori dagli Usa. Trump, anche se viaggia con bella figlia e stravaganti consiglieri al seguito, vede ma non vuole sapere niente di quello che vede. Di ogni viaggio non resta traccia.

Trump non è né isolazionista né interventista, è il solo che può dire davvero di se stesso che non è né di destra né di sinistra. Impossibile spiegargli di che cosa si tratta e impossibile trattenere la sua attenzione. Come i gialloverdi italiani, usa la parola “comunisti” non per indicare un nemico o un pericolo, ma per lanciare un insulto che non identifica, una posizione politica troppo complicata da spiegare, ma certamente spregevole. Trump dunque ha molti nemici, ma le sue avversioni più aspre volano via quando gli viene la curiosità di vedere davvero o di sapere per primo che cosa c’è dietro. Il passo quasi da allunaggio sul terreno della Corea del Nord, mentre qualcuno lo tiene per mano, primo e ovviamente unico presidente degli Stati Uniti a compierlo, politicamente non ha né un senso né l’altro, non accosta e non conquista. Voleva provare e ha provato. Una rivelazione sulla vera natura del presidente l’avete dando un’occhiata ai consiglieri e assistenti più stretti. Il vicepresidente, noterete, non ha nulla da dire di suo, ma è sempre presente (mai accaduto, solo con Trump) e applaude da solo, a un passo di distanza dal suo capo. Il consigliere della strategia, William Bolton, è un uomo con una lunga carriera e una solida fama di uomo cattivo. Ma è anche un frequentatore di lungo corso di Case Bianche conservatrici. Potrebbe dire cose che non dice, prendere iniziative che non prende, perché il presidente si fa promotion da solo e non vuole che si compiano in anticipo gesti che devono apparire tipicamente suoi e assolutamente sorprendenti. La Casa Bianca di Trump è una caldaia in cui sono in lavorazione progetti di tutti i tipi sul mondo, improvvise pacificazioni, guerre inattese, bombardamenti di cui non si vede la ragione, rivolte locali di popoli contro popoli in nome di scontri religiosi guardati da Washington come una partita di calcio. Infatti dal laboratorio senza pace non esce nulla, perché Trump vuole vedere, come un turista del privilegio politico di cui gode, non come un interprete e un operatore degli eventi. L’estraneità praticamente totale al resto del mondo (bene espressa dalla frase “America First” che suona bene anche come “America Only”) permette a Donald Trump di non lasciar traccia, umana o politica benché sia protagonista apparente di moltissimi eventi. Tanto che un diplomatico inglese lo ha definito, in questi giorni, un inetto. Come si sa, al successore e spregiatore di Obama, al più potente leader del mondo piace atteggiarsi a dio delle piccole cose. Per esempio, poche migliaia di migranti sudamericani con donne e bambini a carico arrivati al confine col Messico lo sconvolgono. La sua risposta è costruire subito immensi muri, mandare migliaia di soldati alle inesistenti frontiere, sequestrare i bambini di quella carovana di profughi e inviarli in campi di detenzione sconosciuti, separare le donne dagli uomini in modo da impedire che esistano famiglie e poi prendere tempo, in modo che i profughi siano terrorizzati dalla perdita del coniuge e dei figli, e suggeriscano a chi viene dopo di non provarci.

Donald Trump è molto occupato, però, non con un mondo in tempesta ma con i suoi giochi di cattiveria per cui viene molto ammirato e molto imitato da persone come lui, che un po’ dovunque, da Myammar a Lampedusa, tormentano e terrorizzano i profughi (negando, naturalmente quello che fanno, e citando fantasiosi e impossibili complotti). Tutto il resto nel mondo viene lasciato, come i profughi in mare, a un destino impossibile e nessuna attenzione o interesse a ciò che accade. Non c’è siccità nel Sahel, non ci sono stragi nel Sud Sudan, non ci sono predoni nel Niger e in Nigeria, nessuno fa razzia di ragazze e soldati bambino nel Mali. Etiopia e Eritrea, che hanno trovato da soli una via di pace, non hanno visto arrivare nessuno a garantire la loro tenue ma vera speranza. In questo paesaggio alterato appare enorme il vuoto lasciato dall’America che non vuole essere presente, non decide, non ha voglia di tener testa alla Russia, non ha niente da dire sulle stragi di civili e la mattanza di bambini della guerra dello Yemen. Anzi, come l’Italia, fornisce armi. Ai nostri giorni, fra l’intrico di eventi del mondo, bisognerà lasciare uno spazio vuoto per il monumento che fra poco sarà dedicato “alla scomparsa dell’America”.

Mail box

 

Ragusa, il delitto imperfetto del principale sospettato

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna a vent’anni di reclusione per Antonio Logli, colpevole di omicidio volontario della moglie Roberta Ragusa, sparita dalla sua casa di Gello, a San Giuliano Terme, nella notte tra il 13 e il 14 gennaio 2012. La Suprema Corte ha ritenuto Logli responsabile anche della distruzione del cadavere della donna. È il caso di citare il saggio proverbio “il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi”. Antonio Lolli aveva architettato il delitto perfetto, delitto senza cadavere, né arma, né la minima traccia. Ma a qualcosa non aveva pensato. Non aveva pensato che in quella casa, in quella famiglia, quella notte, l’unico a poter realizzare il delitto perfetto era Antonio Lolli. Non ha pensato che era l’unica persona della quale si poteva sospettare. Il che rendeva il delitto perfetto non del tutto perfetto.

Carmelo Dini

 

Scavi di Pompei: esiste anche la Metropolitana

Non è affatto vero, come scritto sul Fatto del 12 luglio, che la Circumvesuviana sia l’unico mezzo pubblico per raggiungere Pompei. Il Servizio Metropolitano di Napoli delle Ferrovie dello Stato (prima metropolitana in Italia; 1925!) offre un ottimo servizio garantendo un treno a Pompei ogni trenta minuti durante l’intero arco della giornata. I convogli attraversano tutta Napoli in sotterranea con diverse stazioni di accesso facilmente fruibili.

Attanasio Mefalopulos

Non ho scritto l’unico, ho scritto che era il migliore per raggiungere gli Scavi. Il treno che lei indica lascia i passeggeri lontano dagli ingressi delle aree archeologiche. La stazione Fs però è a poca distanza dal Santuario ed è ottima per il turismo religioso pompeiano.

Vin. Iur.

 

Connessione web sui traghetti a prezzi esorbitanti

Montando su un traghetto diretto in Sardegna o in Corsica, superato il limite delle acque territoriali, la connessione dati del telefonino viene agganciata da un ponte radio del traghetto che mantiene per noi la connessione internet. Tutto ciò avviene a costi esorbitanti e senza nessuna identificazione del proprietario del cellulare.

Se è vero che secondo le leggi del mare il traghetto italiano è territorio italiano, perché non procede all’identificazione prima della connessione?

Maurizio Mariotti

 

Addio grammatica: le lacune di ogni ordine e grado

Italiano e matematica: è quasi tutto da rifare. Le recenti prove Invalsi hanno rimarcato ataviche lacune. Periodicamente si stigmatizza la scarsa conoscenza della grammatica italiana. Pazienza che faccia un errore lo scolaro di terza elementare. Strafalcioni e sgrammaticature sono presenti anche nelle tesi di laurea, nei curricula e nei racconti e romanzi inviati a case editrici. Anche le scuole di grado superiore e l’università dovrebbero mettere al primo posto l’insegnamento della lingua italiana, in ogni sua parte costitutiva, perché la base grammaticale studiata e appresa durante gli anni della scuola dell’obbligo non è sufficiente a trasmettere una sicura padronanza delle tecniche che disciplinano la nostra lingua.

Solo sulla punteggiatura, per fare un esempio non secondario, si dovrebbero studiare capitoli interi e fare esercizi in continuazione. Il guaio è che s’intende spesso scrivere sulla scorta di una preparazione sommaria, ritenendo il contenuto più rilevante della forma.

Fabio Sicari

 

La Francia animalista adesso licenzia i cacciatori

Jacques Alboud e la moglie Martine erano i proprietari di un supermercato. Un punto vendita in franchising del marchio “Super U”, vicino a Lione. Ma nell’era della comunicazione digitale gli scheletri sono sempre meno nell’armadio e sempre più in rete. Perché un attivista di Associazioni Animaliste ha scovato sul web foto nelle quali i due posavano orgogliosi accanto ad animali selvatici cacciati da loro stessi. Leoni, leopardi e altre specie vittime della cosiddetta “caccia grossa”. I dirigenti della catena di supermercati hanno dichiarato che le foto sono in totale contrasto con i valori difesi dalla loro catena e condannano quanto successo anche se si tratta di attività privata. E hanno licenziato la coppia. I due infatti, si guardavano bene dal parlare di questa loro passione e dal mostrare sui social i loro trofei. Foto però postate dalla compagnia di caccia che li ha avuti come clienti in Sudafrica. Il Parti Animaliste (Partito Animalista) in Francia ha recentemente raddoppiato i consensi e l’opinione pubblica si è schierata contro Jacques e Martine.

Cristian Carbognani

 

I NOSTRI ERRORI

Ieri, nell’articolo “Janko-Giancotti, l’uomo del 4%: gli strani incroci delle sue aziende russe” abbiamo scritto per errore che Giancotti si trovava al Metropol. In realtà era citato dai presenti. E nella scheda sui protagonisti era riportato che fosse citato da Savoini, quando invece sarebbe stato chiamato in causa dai russi. Ce ne scusiamo con gli interessati e con i lettori.

FQ

Tv e consensi, il Pd a scuola di comunicazione (da Salvini)

“Renzi si è infatti presentato al Paese quasi sempre sotto il segno del troppo, della sproporzione. Eccesso di movimento. Eccesso di ottimismo, eccesso di hybris, eccesso di comunicazione, eccesso di parola: il ‘di più’ è stato consustanziale sia alla sua figura, sia alla sua ascesa che al suo declino”. Giandomenico Crapis : “Matteo Renzi dal pop al flop”. Mimesis

Perché parlare ancora di Renzi quando “se ne sono perse le tracce” (Libero)? O quando, come un pugile suonato, egli attribuisce le sconfitte al destino cinico e baro? Ovvero, al complotto delle fake news, proprio lui che ne ha prodotte in quantità industriale: “Tav, Consip e l’addio alla politica” (Il Fatto Quotidiano)? Infatti il libro di Crapis, che usa l’ex statista di Rignano come modello negativo per spiegare tutto ciò che con la comunicazione è meglio non fare, dovrebbe essere adottato dall’intero Pd come manuale. Per cercare, almeno, di non essere travolti da Matteo Salvini pure alle prossime elezioni. L’abuso di televisione, tanto per cominciare. Mezzo che resta fondamentale (bella scoperta) per acquisire e consolidare il consenso purché le si faccia fare il lavoro sporco. Mentre Renzi occupava militarmente le tv sfinendo il paese con clamorosi effetti di contropropaganda (essendo antipatico pure a se stesso), sono state le tv a occuparsi di Salvini seminando e innaffiando il terreno della sua campagna elettorale. Per esempio, con il lavorio incessante e a tappeto sul senso di insicurezza degli italiani, soprattutto a cura del palinsesto Mediaset. Restano indelebili le immagini di fiaccolate in borghi sperduti, con i cortei di “cittadini esasperati” al solo annuncio dell’arrivo di una decina di migranti. Mentre inviati invasati raccoglievano cupe minacce di rivolta. Bastava guardare la messe di ascolti raccolti dai Paolo Del Debbio e Mario Giordano per capire come si orientava l’elettorato. Così, mentre Renzi parlava di sé in ogni dove, Salvini riempiva in silenzio il granaio dei voti. Se invece di scrivere libri, ne avesse letto uno in più il Matteo Uno avrebbe meditato questa riflessione di Christian Salmon (citata da Crapis) sulla “cerimonia cannibale”: “l’uomo politico, che non è mai stato tanto visibile, tanto esposto nei media, tanto telepresente… sparisce sotto gli occhi di tutti, al colmo della sua esposizione, in una sovraesposizione mediatica, per una sorta di divoramento. La scena di questo divoramento è la televisione”. Pericolo che il Matteo Due può tranquillamente evitare lasciando che a lavorare per lui siano le notizie su Carola Rackete (se ne torni a casa) o sull’arresto di un nigeriano fuori di testa (basta non se ne può più). Quanto ai 600 mila clandestini da espellere, naturalmente sono ancora tutti lì ma di fiaccolate e barricate fortunatamente non c’è più necessità. Sembra che Nicola Zingaretti abbia finalmente capito che la battaglia sull’immigrazione è perduta e che il Pd deve darsi un’agenda diversa che punti – sostiene – “sull’economia green e sulla riforma del sistema fiscale”. Suggeriamo anche una qualche presenza nelle fabbriche a rischio chiusura, poiché una volta la sinistra si occupava di lavoro (anche se fa caldo e le ferie incombono). Ma se nel Pd pensano di comunicare la nuova “agenda” con le solite soporifere comparsate da talk show, Salvini può dormire tranquillo.

“Non decidiamo noi qual è la musica giusta: smettiamola di fare gli snob”

“Il suono è parte integrante della vita di tutti. Nessuno è musicalmente analfabeta: il mondo
è una vibrazione, lo sapevano gli antichi, lo hanno riscoperto i fisici. Semplicemente
ognuno di noi percorre una strada diversa e in alcuni
di questi percorsi la musica
è meno presente”. Questa visione della musica sembra spiegare l’attitudine del compositore Stefano Bollani, che il 22 luglio suonerà alle Terme di Caracalla col jazzista cubano Chucho Valdés.

Lei è un musicista particolarmente eclettico: come descriverebbe questa condizione e quali sono i suoi limiti e vantaggi, pregi e difetti?

In realtà faccio sempre la stessa cosa: cerco di comunicare gioia. Se nel farlo posso utilizzare linguaggi differenti,
bene, eccomi, sono pronto, andiamo!

Non di rado torna al repertorio classico: con Stravinskij, Weill e Ravel. Che rapporto ha con la grande tradizione “eurocolta” e in quale periodo si trova più a suo agio?

Domanda facile: mi trovo
a mio agio col primo Novecento, l’epoca in cui – guarda caso – nasceva il mondo del jazz. I compositori dell’epoca mi ammaliavano sin da ragazzo. E aggiungerei Prokofiev, Gershwin, Puccini, Debussy, Satie, Poulenc, Milhaud
e molti altri.

Anche la canzone e gli autori pop richiamano spesso
la sua attenzione: la canzone può avere pari dignità artistica rispetto ad altre forme considerate più nobili
o altolocate?

A decidere chi o cosa abbia “dignità artistica” è quello che Timothy Leary negli anni ’60 definiva reality-tunnel, il nostro tunnel di realtà: ognuno di noi ha un reality-tunnel differente, e quella che chiamiamo “cultura” è il tunnel
di realtà “ufficiale” di un’intera popolazione. Ecco, uscire dai propri tunnel e farsi
un giro fuori è molto salutare. Si va a scoprire, così, che le distinzioni fra alto e basso nel mondo della cultura sono bizzarre invenzioni del nostro cervello.

Che destino hanno il jazz e la musica d’autore in questo panorama non particolarmente entusiasmante?

Cambierà la fruizione della musica: sta accadendo già con la scomparsa del CD e fra poco potrebbero sparire i concerti così come li concepiamo. Questa idea di pagare un biglietto per stare in silenzio ad ascoltare qualcuno che suona è relativamente recente, nella storia del mondo. Quello che andremo a riacquistare, credo, è il rapporto simbiotico che tutti possiamo avere con il mondo dei suoni, e anche un’idea di musica come rito collettivo.

Ha collaborato con alcuni fra i più grandi musicisti e jazzisti contemporanei: se fosse nato negli anni Quaranta e Cinquanta del ‘900 chi avrebbe voluto incontrare?

Louis Armstrong, senza il minimo dubbio. Poi tutti i boppers, da Charlie Parker a Dexter Gordon. E Dizzy Gillespie. Poi mi sarei divertito davvero molto a duettare con i pianisti di stride di Harlem, da Earl Hines a Fats Waller passando per James P. Johnson e Willie the Lion Smith.

La sua ironia è stata qualche mese fa fraintesa dall’accademia musicale durante un suo personale aneddoto su Beethoven.

In quell’intervista mi han chiesto degli anni del conservatorio. Mi è venuto da raccontare che, ai tempi del diploma, non amavo la sonata di Beethoven op.110 che il mio insegnante mi faceva studiare, perché la sentivo distante. L’aneddoto credo servisse per sostenere la tesi che c’è una musica per ogni momento della propria vita. Quella, all’epoca, non era la mia. Ognuno di noi entra nella musica da una porta tutta personale e va bene così, perché l’importante è entrare. Naturalmente mi spiace se qualcuno si è sentito offeso, ma la buona notizia è che Beethoven non ha commentato nulla al riguardo. Possiamo dire che almeno lui l’ha presa con filosofia.

Sinisa e la partita della vita: “Ho la leucemia, vincerò”

“Proprio non invidio la malattia che si troverà a dover combattere contro Sinisa Mihajlovic”. In questo lapidario ma splendido tweet (di Unfair Play) è ben racchiuso il succo dell’ultimo accadimento che ha messo a rumore il mondo del calcio: l’annuncio del tumore, leucemia acuta, fatto ieri dallo stesso Sinisa, tumore che ha colpito il 50enne allenatore del Bologna, guerriero per antonomasia, e che fa seguito a quelli recenti che hanno colpito Gianluca Vialli (55 anni), il c.t. spagnolo Luis Enrique (49), la moglie giornalista di Iker Casillas, Sara Carbonero (35) e la moglie di Radja Nainggolan, Claudia Lai (36). Il tutto mentre in Spagna il Real Madrid annuncia che Zinedine Zidane deve abbandonare per qualche giorno il ritiro “per motivi personali”.

“Ho la leucemia – ha annunciato Mihajlovic –. Esami medici hanno rivelato anomalie che quattro mesi fa non c’erano. Ho preso una bella botta, a mia moglie ho provato a raccontare che avevo la febbre alta, sono stato due giorni chiuso in camera a riflettere e a piangere, mi è passata davanti tutta la vita. Ma martedì comincio le terapie e sono sicuro di vincere: per mia moglie, per la mia famiglia che adoro. E a tutti vorrei dire: la malattia ha colpito me che sono grande e grosso, sono uno sportivo e mi alleno tutti i giorni. Vuol dire che può colpire tutti e che prevenire è fondamentale. Mio padre è morto di cancro, per abitudine faccio sempre esami di controllo. Se non li avessi fatti, oggi sarebbe un guaio”. Mihajlovic, che nella conferenza di Casteldebole era accompagnato dal d.g. Sabatini e dal dr. Nanni, comincerà le cure martedì all’Istituto di Ematologia del Sant’Orsola a Bologna. “Ogni tanto non potrà essere con la squadra per le terapie – ha detto il dr. Nanni –, ma Sinisa potrà tranquillamente continuare ad allenare. Vent’anni fa era diverso, ma oggi dalla leucemia si può guarire. Sinisa poi ha un vantaggio: il suo male è insorto da pochissimo tempo”.

Dieci anni fa, ai tempi della Fiorentina, in un’intervista a La Tribù del Calcio (Premium) Sinisa parlò a lungo di guerra e di morte: la guerra e la morte che di colpo avevano preso a volteggiargli accanto, in Jugoslavia, a inizio anni 90. “Avevo 18 anni, giocavo a Vojvodina e tornavo a casa ogni due-tre settimane. Fino ad allora nessuno badava a chi fosse serbo, croato o bosniaco: anzi, ci si sposava gli uni con gli altri come avevano fatto mio padre, serbo, e mia madre, croata. Ricordo che un giorno telefonai a casa per salutare mia madre: le chiesi cosa fossero i rumori che sentivo in sottofondo; lei mi rispose che fuori stavano sparando e che il giorno prima avevano ucciso molte persone nel paese vicino”. “Quando in estate mi trasferii alla Stella Rossa, i miei genitori scapparono e mi raggiunsero a Belgrado perché ormai il nemico era ovunque, non solo nelle case vicine ma nella tua stessa famiglia. Un mio zio, Ivo, fratello di mia madre, un giorno le telefonò e le intimò di non lasciare il paese: doveva restare a casa, le disse, così sarebbero venuti a ‘scannare’ suo marito, cioè mio padre, che era serbo”. In quell’intervista Sinisa parla anche di Arkan, il leader paramilitare serbo che si macchiò di terribili crimini di guerra. “Arkan era mio amico: lo avevo conosciuto perché era il capo dei tifosi della Stella Rossa. Quando Arkan andò a liberare Vukovar, fece molti prigionieri e a uno di questi trovò un’agenda con i miei numeri. Così mi chiamò e mi disse: “Qui c’è uno che dice di essere tuo zio: se è vero lo libero, altrimenti lo ammazzo”. Era mio zio Ivo, quello che voleva far fuori mio padre. Gli dissi che sì, quell’uomo era mio zio. Arkan lo risparmiò”.

A 50 anni Mihajlovic ha scoperto di avere un’ultima punizione da battere: deve farlo con forza, come solo lui sapeva fare. Forza Sinisa, buttala dentro! Per Arianna, tua moglie; per Viktorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nicholas, i tuoi cinque figli; ma anche un po’ per tutti noi. È stato impossibile non volerti bene.

“Nei film gli uomini sono ancora più di noi”

“Per sconfiggere le molestie, bisogna educare a non vivere nella paura”. Anna Ferzetti, 37 anni, attrice e conduttrice. Madre di due figlie e compagna di Pierfrancesco Favino. Una carriera versatile la sua, che l’ha portata alla candidatura come miglior attrice non protagonista ai Nastri d’Argento per il film Domani è un altro giorno.

Il mondo del cinema è finito nella bufera per i casi di molestie sessuali. Cosa ne pensa?

L’ho trovato terribile. Ma le cose stanno cambiando in tutti i campi. La donna purtroppo da sempre viene percepita in un determinato modo, a partire dagli apprezzamenti per strada. Non giudico le scelte delle mie colleghe. Ognuna è libera di pensare e agire come vuole. A me non è mai capitato di subire molestie. Da madre, trovo importante educare a non vivere nella paura.

Oggi a Siracusa inizia l’XI edizione dell’Ortigia Film Festival, di cui è la madrina. Un evento tutto al femminile. Contenta?

Sì, è una cosa bella. Trovo giusto dare spazio alle donne. Nei film le figure maschili sono numericamente di più. È un aspetto che ci penalizza. A Siracusa saranno presenti Milena Vukotic, Noemi, Fulvia Caprara, Paola Minaccioni e Valeria Solarino.

Figlia e compagna d’arte. Un privilegio o uno stimolo a migliorarsi?

È difficile. Ci sono aspetti positivi e negativi. Ho avuto la fortuna di crescere accanto a mio padre che ha sempre fatto questo lavoro. Ma l’etichetta di figlia richiede un lavoro doppio. Sono un’attrice molto diversa da mio padre e dal mio compagno. Quando ho conosciuto Pierfrancesco, lui non era famoso. Sono sempre stata una sua ammiratrice. Finora abbiamo evitato di lavorare insieme. “È giusto che trovi la tua strada”, mi ha detto. Adesso che ho un mio percorso, ci piacerebbe collaborare.

Nel frattempo Favino è diventato Favino. Purtroppo, con Marco Bellocchio, sono tornati a mani vuote da Cannes dove hanno portato Il Traditore, che pur osannato dalla critica non ha ricevuto premi. Come se lo spiega?

Anche Sorrentino tornò a mani vuote da Cannes con La grande bellezza e poi vinse l’Oscar. Il Traditore è un film bellissimo. La verità è che bisogna abituare il pubblico a ritornare al cinema, raccontando storie interessanti. Vanno molto le serie ora. La gente si impigrisce e non esce.

Quali sono i progetti per il futuro?

Riprendo uno spettacolo di Roberto Andò, con Anna Foglietta e Paolo Calabresi. Si intitola Bella figura. È un testo di Yasmina Reza. Il tour partirà in autunno. Insieme con un gruppo di colleghi vorremmo riprendere lo spettacolo Girotondo e sto valutando la novità della conduzione. Fare entrambe le cose mi diverte.