Povero Simba, tanto vero da sembrare falso

Più vero del vero, più falso del falso. È Il Re Leone anno 2019 della Disney, che rispetto all’originale cartoon del 1994 è molte cose, ma poche in meglio. Per esempio, è più scorreggione: il facocero Pumbaa continua a non trattenersi, però il suricato Timon non censura più, la puzzetta è sdoganata, se non la benvenuta. Odorama a parte, la novità precipua è ovviamente visuale: il secondo The Lion King, dal 19 luglio nelle sale americane – e la chiamano estate – dal 21 agosto nelle nostre, è spacciato quale live action, ovvero “interpretato da attori in carne e ossa”, ma live action non è.

La ciccia e il pelo non si devono alle bestie, bensì al digitale: non è che il regista Jon Favreau, che già annovera lo scriteriato Il libro della giungla del 2016 (almeno lì c’era un attore, Neel Sethi per Mowgli), si sia messo ad ammansire e ammaestrare iene, mandrilli e buceri, al contrario, ha fatto ricorso ad algoritmi, realtà virtuale, CGI e cartapesta digitale. Insomma, non pensiate di poter accostare l’animazione originaria e questo calco, ehm, live action per un “trova le differenze” tra animale disegnato – peraltro, a mano – e animale vero: il secondo non lo è, anzi vi è più tecnologia che nel primo, giacché siamo dalle parti dell’ologramma piuttosto che del diorama.

Questo Re Leone, dunque, è un peana alle sorti magnifiche e progressive del fotorealismo, dell’iperrealismo digitale, del rendering o, se volete, del deepfake, la manipolazione e sovrimpressione di un volto a un altro: per capirci, molti spettatori crederanno che Simba, Nala e Musafa siano vere fiere così come hanno ritenuto che fosse il vero Jim Carrey a copiare Jack Nicholson alias Jack Torrance di Shining nel video recentemente diffuso dallo youtuber Ctrl Shif Face.

Poveri loro, anzi, poveri noi tutti: per ora il deepfake spopola nel porno – Scarlett Johansson è la vittima predestinata, ossia intestata su corpo e copula altrui – ma il battito animale garantito da questi leoni regali e prima dal Libro di Kipling contribuirà a spianare la strada all’utilizzo mainstream. Dipende pressoché esclusivamente dalla quantità di immagini per l’interpolazione che abbiamo a disposizione, ed ecco che un altro remake di Mary Poppins potrebbe non essere più appannaggio di Emily Blunt, ma dell’originaria Julie Andrews, seppur in versione “profondamente falsa”.

Comunque sia, cui prodest questo Re Leone? A nessuno, si direbbe, eccetto che alla Casa di Topolino: budget ventilato di 250 milioni, è atteso da un moltiplicatore assai lusinghiero, e vedremo quanto. Non mancano, tuttavia, le criticità né le critiche: rifare in live action i propri classici d’animazione, solo quest’anno già Dumbo e Aladdin, rimpinguerà pure le casse, ma ha il fiato corto e pure il braccino, perché dilapida l’immaginario e uccide una volta di più l’aura di quei cartoon. Per tacere, nel passaggio dalla matita all’attore, delle questioni politiche che si imbarcano: dal 25 marzo 2020 sui nostri schermi, il riadattamento di Mulan ha eluso il whitewashing affidando la protagonista alla cinese Yifei Liu, ma si fa tacciare di acquiescenza, se non collusione, al nazionalismo cinese; al grido, pardon, hashtag #NotMyAriel, viceversa, sui social si osteggia la scelta di affidare la Sirenetta in carne e ossa – regia di Rob Marshall, pre- produzione avviata – all’afroamericana Halle Bailey. Chissà, dopodomani il deepfake potrebbe affibbiare ai personaggi i volti, ossia i tratti somatici, che più si confanno al pubblico dei diversi Paesi: Mulan caucasoide da noi, mongoloide a Pechino, negroide ad Abuja, e che pena.

La parcellizzazione può attendere, per ora le criniere di Simba, Mufasa e Scar mettono quasi tutti d’accordo: meglio il cartoon di cinque lustri or sono.

Donald Glover e Beyoncé a dare ugola a Simba e Nala, da noi Marco Mengoni – gli dobbiamo una bella confessione: “Ci sono solo due immagini reali, non ritoccate nel film” – ed Elisa, cui però preferiamo Edoardo Leo (Timon) e Stefano Fresi (Pumbaa), la duplicazione è fedele sicché non lascia spazio alcuno alla re-immaginazione, a tal punto che lo spettatore salta dal déjà-vu alla percezione dell’inteso simulacro, la copia di un originale mai esistito.

Ancor più gravoso, e tristemente diffuso, è l’equivoco su cui poggia l’intera operazione: spacciare la (alta) definizione per qualità, laddove è il sinonimo contemporaneo della quantità. A suon di megapixel e megabyte, si contrabbanda l’illusione, ma chi ci casca? Aridatece Simba, quello, ehm, vero.

@fpontiggia1

Federer: 38 anni, 12 volte in finale

Federernadal rimarrà sempre una sola parola. Anche se ieri, sull’erba di Wimbledon nella sua 133ª edizione è Roger Federer ad aver vinto, aggiudicandosi così l’accesso alla finalissima contro il serbo Novak Djiokovic che si giocherà domani alle 14.

Lo svizzero ha vinto in 4 set (7-6, 1-6, 6-3, 6-4) nell’ennesimo match di tre ore e due minuti che passerà alla storia: per stile, bellezza, tensione sportiva, fierezza. Più di una partita, un rito cui si assiste in silenzio, as usual a Wimbledon (è il costume di ogni competizione tennistica).

Gli amici rivali, i Dioscuri del tennis, hanno iniziato a scontrarsi in singolo nel 2004 ai Miami Masters. L’allora ventiduenne Roger Federer era il nuovo re del tennis (l’eredità l’aveva raccolta dall’americano Pete Sampras, che batte proprio a Wimbledon nel 2001, buttandolo fuori agli ottavi di finale): aveva vinto due tornei del Grande Slam ed era il numero uno al mondo. Nessuno si aspettava che un misconosciuto Rafael Nadal, appena diciassettenne (e n° 34 al mondo) potesse sconfiggerlo in due set secchi: 6-3, 6-3.

Dal 2004 a oggi, 40 sono le sfide che li hanno visti avversari, divisi dalla rete. La prima a Wimbledon è del 2006, e in quell’occasione a trionfare fu il tennista svizzero. Rafa aveva più capelli, un gioco più muscolare e meno ponderato, basato principalmente sul suo talento. Roger non era ancora il giocatore che più a lungo sarebbe rimasto il n°1 al mondo (ben 310 settimane) e mancava di aggressività pur nella sua finezza tecnica. Ma già in quell’occasione, come pure nello scontro di ieri, si è scorto da vicino l’abisso della perfezione. Adesso, alla finale, tocca l’arduo compito di stupirci… ancora di più.

Angeli o “sfruttati”? I volontari di Jova 12 ore in spiaggia

“Aiuta a differenziare correttamente i rifiuti e invita gli altri a farlo. Diventa volontario al ‘Jova Beach Party’”. Nessuna paga. Non è un lavoro, ma per stare più di 10 ore sotto il sole, in spiaggia, a spiegare “agli altri” (che invece pagano 60 euro per ascoltare Jovanotti, ndr) come si fa la differenziata, in cambio ci sarà un panino, una bibita, i gadget e, soprattutto, l’accesso gratuito al concerto. Archiviati i problemi della prima tappa, riscontrati a Lignano Sabbiadoro, sulle code infinite alle casse, sul cibo (poco) e sui token (i gettoni che servono ad acquistare all’interno dell’area) non rimborsabili, dopo il concerto di Rimini la polemica esplosa sui social riguarda la scelta degli organizzatori del ‘Jova Beach Party’ di ricorrere ai volontari non pagati. “Beach Angel” li chiama la cooperativa ‘Erica’ che, nell’annuncio pubblicato sul sito, spiega cosa deve fare il volontario per ricevere il panino, l’ingresso gratuito al concerto e i gadget: “Il tuo impegno, dalle 14 alle 24, sarà di presidiare i contenitori della raccolta differenziata dislocati sull’area dell’evento e informare le persone su come fare bene la raccolta differenziata”.

“Guarda mamma come ci si diverte a far lavorare la gente gratis, a non fare i contratti e guadagnare un casino di soldi”. In un articolo pubblicato sulla rivista Jacobin Italia, Marta Fana (dottore di ricerca in Economia allo IEP Sciences Po di Parigi) prende in prestito le frasi della canzone Ragazzo fortunato, proprio di Jovanotti, per criticare la scelta degli organizzatori del concerto. “Verrebbe da fare ironia – scrive infatti l’autrice del libro Non è lavoro, è sfruttamento (Laterza) – se non si trattasse di una situazione talmente seria da non poterci permettere alcun sarcasmo. Pare che in media il costo di produzione di ciascuna data si aggiri attorno al milione e mezzo di euro e facendo due calcoli, con una media di 50 mila spettatori al modico prezzo di 60 euro ciascuno, il fatturato di tre milioni. Profitto 1,5 milioni di euro a serata. Panino più bibita più maglietta e cappellino per chi invece lavora dalla mattina a notte inoltrata”. Secondo Fana, “il caso del Jova Beach Party è emblematico. Sul lavoro gratuito, rinominato volontariato, oggi poggiano interi settori economici che fanno profitto, che hanno bisogno di lavoratori ma possono far leva sull’immaginario del volontario sorridente per risparmiare sui costi e quindi fare più profitti”. La pensa allo stesso modo Jasmine Cristallo, l’ideatrice della cosiddetta “Rivolta dei Balconi” che, partita da Catanzaro, ha accompagnato la campagna elettorale per le Europee del ministro Salvini. “Questo non è un evento di beneficenza – scrive su Facebook –. Questa storia mi ricorda tanto quella dei ‘volontari’ dell’Expo. Una vergogna”. “Non è così nella maniera più assoluta. I volontari non raccattano i rifiuti”. Dalia Gaberscik, tra gli organizzatori del tour, parla di informazioni errate: “Abbiamo una cooperativa che si chiama ‘Erica’ che si occupa di tante cose, come il Giro d’Italia, e che ha fatto un progetto di raccolta differenziata dei rifiuti al ‘Jova Beach Party’. Attraverso ‘Erica’ si reclutano questi volontari ai quali viene data l’opportunità di entrare al concerto a patto che diano una mano a presidiare le aree. Non c’è nessun lavoro di raccolta o di trasporto dei rifiuti. Potremmo anche non averli i volontari, non svolgono un lavoro collegato alla riuscita del concerto”.

Il perché lo spiega l’amministratore delegato della coop ‘Erica’ Roberto Cavallo: È un’opportunità di dare una mano. Noi non chiediamo ai volontari di raccogliere o trasportare i rifiuti”. Al “Jova Beach party” ci sono anche i volontari del Wwf. Anche per loro concerto gratuito, panino e maglietta di Jovanotti. L’associazione animalista, però, fa sapere che “non c’è nessun tipo di compenso. Si tratta di una collaborazione assolutamente gratuita”. “Quello che mi va di escludere in maniera netta – sottolinea Antonio Barone del Wwf – è che i nostri volontari si occupino di raccogliere i rifiuti perché non è vero. Fanno un’attività di sensibilizzazione contro l’emergenza da plastica”.

Mezzo milione di yankee vogliono assalire l’Area 51: “Basta, fateci vedere gli alieni”

All’attacco! Sono già in 400mila, ma potrebbero diventare molti di più. L’appuntamento è per il 20 settembre. Dove? Fuori dall’Area 51. Già, il posto più segreto del Nevada, dell’America e forse del mondo, ufficialmente base militare ma custode ora di segreti nucleari ora di reperti alieni, ora del buen retiro di Elvis Presley ora della pensione dorata di Hitler.

Ogni complotto è buono, ma gli americani si sono stufati. E così quasi mezzo milione di persone si è già attivato via Facebook per organizzare la più grande rivincita culturale dell’umanità: ritrovarsi tutti fuori dai recinti, cancelli, muri (o quel che c’è) dell’Area 51 e, semplicemente, spingere per entrare. O meglio, come scrivono su Facebook, “correre come Naruto”, personaggio dei fumetti giapponesi. Che poi vuol dire mettersi con la testa in avanti e “correre più veloce dei loro proiettili”.

Solo uno scherzo? Forse all’inizio. Perché poi la pagina Facebook si è presto popolata di persone pronte all’armi, pronte a sfidare cecchini e servizi segreti pur di “vedere gli alieni”.

Tanto è vero che Jackson Barnes, uno dei fondatori dell’evento, a un certo punto ha pure dovuto tranquillizzare i mirini rossi già puntati su di lui: “Ps. Ciao governo Usa, questo è uno scherzo. Non sono responsabile se le persone decidono davvero di assaltare l’Area 51”.

Tutti animati da una convinzione: “Se siamo così in tanti non ci potranno fermare”. Non fa una piega. Le porte si apriranno e il governo darà finalmente ogni spiegazione su quel luogo di mistero. D’altra parte: se corri come Naruto, di chi devi aver paura?

Quella pipì di troppo e… il treno si stacca

In un mondo senza telefonini anche una semplice pipì può trasformare la vacanza in un incubo. Avevo 18 anni (oggi ne ho 50) e d’estate partii con un mio amico per Amsterdam che all’epoca era un po’ il nuovo mondo. Tessera Interrail per girare in treno l’Europa. Partenza serale da Roma Termini e arrivo mattutino in Olanda. Notte “svaccati” sui sedili del treno. A notte fonda il convoglio arriva alla stazione di Monaco, dove è consuetudine che alcune carrozze vengano sganciate per proseguire per altre destinazioni. I freni del treno svegliano il mio compare di viaggio. La vescica preme. Entra in un’altra carrozza in cerca di un bagno. In quel momento il capotreno fischia e, dal finestrino, vedo il mio amico disperato passarmi davanti su un treno in movimento con destinazione vatteloappesca. Nel suo viso il terrore. Mi giro e vedo il suo zaino accanto a me, dentro tessera Interrail, documenti e soldi. Prima il panico, poi una crisi inarrestabile di riso.

Il mio amico, verace idraulico del rione Trionfale, non sapeva una parola d’inglese. Oggi il problema si sarebbe risolto, con smartphone e whatsapp. All’epoca non c’era nulla: il Muro di Berlino sarebbe caduto un paio d’anni dopo. Erano in vigore le vecchie monete nazionali, il fiorino per l’Olanda, e le frontiere nazionali erano attive. Cominciai a girare per il centro di Amsterdam nella speranza di incontrare il mio amico (ma credevo fosse tornato in Italia). Dopo qualche giorno eccotelo lì: emaciato dopo giorni trascorsi a dormire nel parco e chiedere spicci per comprare la cosa più economica e disgustosa: le orrende crocchette del distributore automatico “Febo”. Racconti dell’avventuroso viaggio, trascorso scendendo e risalendo dal treno per evitare controllore e guardie doganali. Storie di un mondo che aveva il suo fascino. E che non c’è più.

Villasimius, vincono gli ambientalisti: via i paletti, arriva il ticket

Gli affari sono affari, si sa. E così a Punta Is Molentis, in Sardegna, qualcuno ha pensato bene di recintare anche il mare. Era diventata l’immagine simbolo dell’estate quella della splendida spiaggia isolana dove i paletti di un’area in concessione arrivavano a superare la battigia, finendo direttamente in acqua. Così come lettini e ombrelloni. Effetto delle mareggiate primaverili, del fisiologico cambiamento della linea di costa o piuttosto dell’erosione della spiaggia, ulteriormente aggravata dall’enorme carico antropico dei mesi estivi, sta di fatto che buon senso e norme di legge avrebbero dovuto suggerire la revisione spontanea del perimetro di recinzione.

Invece ci è voluta una denuncia dell’associazione ambientalista Gruppo d’Intervento Giuridico (Grig), insieme alle proteste dei bagnanti, per richiamare l’attenzione dell’amministrazione comunale di Villasimius che, preso atto dell’assottigliamento della lingua di sabbia e del preoccupante deterioramento delle dune retrostanti, è intervenuta con un’ordinanza lampo: spiaggia a numero chiuso, entrano solo 300 al giorno. Non solo: viene impedito l’approdo via mare sui due lati del promontorio sabbioso e anche per le auto l’accesso sarà off limits nelle ore serali. Aumentano anche le tariffe di accesso alla spiaggia: se prima il ticket unico giornaliero per il parcheggio era di 10 euro, adesso si aggiunge un euro a passeggero e tre euro per ogni persona che accede a piedi o in bicicletta.

Misura compensatoria rispetto ai circa 2000 accessi quotidiani che garantivano introiti per migliaia di euro ogni giorno, ma che rischiavano di mettere seriamente a rischio uno degli angoli più suggestivi della costa Sud dell’isola.

Il sindaco, Luca Dessì, spiega che l’obiettivo rimane la salvaguardia delle risorse naturali e la “garanzia del servizio necessario per la corretta gestione degli ingressi”. E davanti alle sollecitazioni degli ambientalisti precisa: “Non siamo rimasti ad aspettare i loro consigli, avevamo già in programma di intervenire in questo senso. Qualcuno dimentica che ci siamo insediati solo poche settimane fa”. Tutto vero.

Ma per Stefano Deliperi, attivista e presidente del Grig Sardegna, la tutela ambientale non può ammettere distrazioni, soprattutto quando in ballo c’è un progetto da tre milioni di euro, Providune, finanziato con fondi comunitari Life per la salvaguardia del cordone dunale.

“Siamo alle solite. Ambiente e bagnanti da spennare. Ok ai ticket per limitare gli accessi, ma il controllo sulla gestione dei beni in concessione deve essere costante. Invece, appena pochi mesi fa, nel mese di aprile, la Guardia Costiera aveva posto sotto sequestro un pontile abusivo lungo 14 metri realizzato da chissà chi. Stiamo parlando di un tratto di costa rientrante nel demanio marittimo, tutelato con vincolo paesaggistico e interessato da un sito di importanza comunitaria e dall’area marina protetta di Capo Carbonara”.

“Punta Is Molentis – conclude Deliperi – non può diventare un carnaio: un ecosistema così fragile non può tollerare un eccessivo carico antropico, né si può rischiare che per la carenza di spazio a qualcuno venga in mente di scavalcare le recinzioni che delimitano le dune”.

“Vorremmo un Dio, non troppo impegnativo”. “Fatevelo da soli”

Un bancone. Un commesso al telefono. In attesa, una coppia di mezza età.

Commesso …a domicilio… nessun sovrapprezzo… il fattorino è alto, col codino… non lo so perché porta il codino… grazie a lei…

C.(riattaccando) Scusate, è una persona anziana. Ditemi.

Marito Vorremmo un Dio.

C. Pensavate a qualche modello particolare?

Ma. Siamo confusi, sa, con tutta la pubblicità che fanno si ha sempre paura di sbagliare…

Moglie In realtà non ci serve. Siamo sopravvissuti senza l’aspirapolvere, si figuri se c’è bisogno di un Dio. Ma nostro figlio insiste, dice che si trova benissimo e mio marito si è fatto convincere come sempre. Secondo me sarà solo un impiccio in più.

Ma. Cara, forse al signore non…

C. Quindi non avete preferenze. Lo chiedo perché i nostri clienti sono molto esigenti su prestazioni, misure e consumi…

Ma. Ci mostri qualcosa lei, ci fidiamo.

C. Un’ultima domanda, prima di proporvi qualche modello: mi date un’idea della vostra disponibilità?

Ma. Cioè?

C. Lei è disponibile solo al battesimo o possiamo ipotizzare la circoncisione o la sospensione per i muscoli pettorali? La signora sarebbe disponibile a sodomizzazioni sciamaniche o, che so, al taglio del clitoride?

Ma. Se è un Dio che non ci lascia in mezzo a una strada come quello che hanno appioppato a un mio collega che dopo sei giorni ha perso la fede e ha speso un occhio per rifarsi il prepuzio…

Mo. Ah, sì! Chi più spende, meno spende! Quanto al clitoride (guardando il marito) per quello che mi serve…

C. Bene. Vi mostro un modello molto intrigante! (porge un dépliant)

Mo. Col barbone! Ma è Babbo Natale!

Ma. Direi più Marx…

C. Un gran bel Dio, sì. Un’affidabile divinità monoteista, con una peculiarità che altri modelli non montano: è uno e trino. Paghi uno, prendi tre!

Mo. Nessuno regala niente, dov’è la fregatura?

C. Nessuna, signora! È progettato a nostra immagine e somiglianza per evitare confusioni! E di semplice utilizzo! Basta un’organizzazione di pensiero elementare, tipo papà-mi-premia-papà-mi-punisce. Punizioni peraltro blande, rimovibili mediante sacramenti. Paradiso con contemplazione di luce garantito per l’eternità.

Mo. Sporca in casa?

C. Totalmente trascendente.

Ma. Entra nel bagagliaio? Abbiamo una monovolume.

C. Non c’è bisogno di trasportarlo. È onnipresente, fa da sé.

Mo. C’è da pregare?

C. Beh, ha bisogno di adorazione regolare sennò appassisce. Due ore al giorno bastano…

Mo. Due ore al giorno ad adorare? E chi me le fa le faccende di casa? Qualcos’altro.

C. (porge un altro dépliant) Questo è garantito da milioni di persone disperse ovunque. Un Dio più impegnativo: libro di istruzioni da memorizzare, rinuncia al maiale e ai gamberetti, immobilità dal venerdì al sabato e eventuali sacrifici dei primogeniti. Ma dà una piacevole sensazione di far parte di un popolo eletto.

Mo. Costa?

C. A lei nulla, signora, se non le secca un ruolo marginale. Suo marito dovrà circoncidersi.

Ma. Altri modelli?

C. Questo, che sinceramente non consiglio, ma fate voi. È molto più vincolante: fede cieca e autoannullamento fino al martirio, faccia a terra per un’ora ogni giorno, né alcol né porchetta, digiuni e per la signora, uscire travestita da tenda da campeggio e obbedire al marito.

Ma. Carino.

Mo. Scusi, ma il bello dov’è?

C. Ci arrivo: dà un’inebriante sensazione di superiorità. La danno pure i modelli precedenti, ma questo la stimola di più. E ha un ottimo Paradiso: ogni uomo, 70 vergini.

Ma. Ok, questo.

Mo. Poi?

C. Ne ho altri, ma con minori garanzie per via dell’audience ridotta. Ma possono farvi anch’essi una buona riuscita. E poi i gusti della gente sono imprevedibili, un tipo mi ha fatto tirare giù tutto il campionario, compresi obsoleti dei dell’Olimpo e poi ha detto che andava a casa ad adorare il suo canarino!

Ma. Dio canarino?!

C. Ha detto che almeno cantava tutto il giorno…

Ma. Dio cantante?!

C. …senza pretendere che ammazzasse la gente o si amputasse l’uccello! (porge altri dépliant) Questo è discreto, lo lavoriamo molto in Groenlandia. Dà un buon sostegno per ansie come sei mesi di buio e penuria di trichechi. Paradiso non deluxe, soddisfacente se si apprezzano le aringhe. Sennò… soluzioni panteistiche?

Ma. Cioè?

C. Un Dio che alberga in ogni creatura, compresi lombrichi e cicoria.

Mo. Dentro di noi? Sempre?

C. Sì, come parti dell’Universo che si compenetrano.

Mo. Come no, questo già mi trova un sacco di scuse per dormire, pensa se c’è qualcuno che guarda! Senta, ripassiamo.

Ma. Non vogliamo rifletterci, cara? 70 vergini…

C. (furtivo) Vi do un consiglio, ma non dite che ve l’ho detto, sennò mi cacciano: fatevelo da soli, il vostro Dio.

Ma. Che?

C. In casa e risparmiando… io me lo sono fatto, su misura. E funziona esattamente come quelli che vendiamo qua, dove pagate solo la griffe. L’ho chiamato Johnpaulgeorge.

Ma. E Ringo?

C. È un nome da cane, lo trovavo irriverente. Johnpaulgeorge me lo prego quando mi pare e non prevede peccati. Anzi, mi fa fare un sacco di risate. Ho anche stilato delle Sacre Scritture. 4796 Like su Facebook.

Mo. Ma che garanzie le dà? Se l’è inventato lei!

C. Le stesse che dà un Dio progettato da qualcun altro. A parità di prestazioni, meglio il mio.

Ma. È difficile inventarsi un Dio?

C. Macché. Si lascia andare il cervello, come una trance. C’è chi se lo inventa davanti a una tempesta e chi davanti al sorriso di un bimbo. Un mio amico ne ha ideato uno ottimo, in moto, volando giù da un viadotto. Lo racconta soddisfattissimo.

Ma. Se è così facile… che dici, cara?

Mo. Sarà a mia immagine e somiglianza…

C. Allora auguri! Non mi tradite o perdo il posto…

Mo. (uscendo) …e lo chiameremo Patrizia come mia sorella.

Ma. Jimi Hendrix? Suona bene: “Jimi Hendrix che sei nei cieli”…mi piaceva tan…

Mo. Patrizia.

Ma. Patrizia.

 

Missili russi per Erdogan, la Nato trema

Come la Lega di Salvini, ma – si direbbe – con maggiore successo, anche perché il potere negoziale è maggiore, la Turchia di Erdogan fa lo slalom delle alleanze, districandosi fra la Russia e l’America. Nonostante sia un Paese della Nato, e nonostante Washington osteggi l’affare, Ankara acquista da Mosca il sofisticato e performante sistema missilistico russo di difesa anti-aerea S-400. La consegna del primo lotto è avvenuta ieri, sulla base aerea di Murted, è stata annunciata dal ministro della Difesa turco e confermata dal servizio federale di cooperazione tecnico-militare russo: “Le forniture – assicurano da Mosca – procedono secondo quanto stabilito”.

La Nato dichiara la propria preoccupazione: “Spetta agli alleati decidere quali attrezzature militari comprare – dice una fonte dell’Alleanza –. Ma siamo inquieti per le potenziali conseguenze della decisione turca d’acquisire il sistema S-400. È fondamentale garantire che le forze armate alleate siano inter-operative, per condurre con successo operazioni e missioni Nato”. Gli Usa avevano già reagito con durezza, minacciando la Turchia di sanzioni e dell’esclusione dal programma dei cacciabombardieri F-35, di cui Ankara vorrebbe acquisire oltre 100 esemplari. Il presidente turco Erdogan difende l’acquisto, sostenendo che serve per la sicurezza nazionale. Il ministro della Difesa turco Hulusi Akar fa però sapere che “i colloqui con gli Stati Uniti continuano”, verso un possibile acquisto anche di missili Patriot Usa. La Turchia non considera gli S-400 e i Patriot alternativi, ma gli Stati Uniti escludono che i due sistemi possano essere contemporaneamente in dotazione alla stessa forza armata, “per motivi di sicurezza”.

Cercando di dare un equilibrio alla posizione turca, l’ambasciatore di Turchia a Roma Murat Salim Esenli spiega ai giornalisti che Ankara vuole l’S-400 russo e non vi rinuncerà, ma che al contempo non è disposta a privarsi degli F-35, che sono funzionali alle sue ambizioni di potenza “più che regionale”. I turchi tentano di tenere separati i due dossier, considerandoli entrambi “politici” – e non tecnico-militari –, così da avere margine di manovra direttamente con Trump. Ma, questa volta, la crisi turco-americana potrebbe non risolversi in una tempesta in un bicchier d’acqua.

Da quando è alla Casa Bianca, Trump ha alternato fasi di tensione con Erdogan, come al tempo della vicenda del missionario cristiano Andrew Brunson, che sarebbe stato coinvolto nel presunto golpe anti-Erdogan del luglio 2016, ad apprezzamenti per il contributo di Ankara alla lotta contro l’Isis. Anche se è proprio in Siria che la Turchia gioca le sue carte in modo più spregiudicato, stando in tutte le alleanze: con gli Usa, contro l’Isis; ma, soprattutto, con Putin e con il presidente iraniano Hassan Rohani. Turchia, Russia e Iran hanno impostato una sorta di spartizione del Paese in aree d’influenza, in un processo di pace lanciato ad Astana quasi parallelo – e di maggiore efficacia – rispetto a quello degli Occidentali a Ginevra. E Ankara è soprattutto ansiosa di avere mano libera contro i curdi.

Gli S-400 sono davvero un pomo della discordia in Medio Oriente (e non solo): l’Arabia Saudita, migliore cliente militare degli Stati Uniti, ne ha acquistati per tre miliardi di dollari – re Salman è andato di persona a Mosca –, però dopo avere speso 15 miliardi di dollari per una partita di missili Usa Thaad, Terminal high altitude area defense. Altri tre Paesi della Nato (Slovacchia, Grecia e Bulgaria) si sono dotati del sistema missilistico russo S-300, versione “minore” dell’S-400.

“A Natale Silvia ancora viva”. Ostacoli all’indagine del Ros

È durato tre giorni il vertice straordinario alla Procura di Roma sulle indagini per il rapimento di Silvia Romano, la ragazza milanese sequestrata da un commando di cinque persone la sera del 20 novembre dell’anno scorso a Chakama, un villaggio a un’ottantina di chilometri da Malindi. Presenti agli incontri non solo gli inquirenti italiani, il gruppo antiterrorismo dei carabinieri del Ros, ma anche investigatori kenioti. Inoltre il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Federico Cafiero de Raho, il procuratore generale di Roma, Giovanni Salvi, e il sostituto Sergio Colaiocco titolare delle indagini. Per il Kenya, tra gli altri, il procuratore generale Noordin Mohamed Haji. Durante gli incontri si è parlato di Silvia Romano e di uno scandalo che sta emergendo in Kenya sulle supposte tangenti pagate per costruire tre dighe dalla CMC, ditta di Ravenna.

Su Silvia Romano si è deciso qualcosa di sorprendente: i Ros torneranno in Kenya, ma l’impianto investigativo resterà nelle mani degli inquirenti locali. Speriamo che finalmente i carabinieri ottengano il permesso di investigare anche sulla costa e non siano costretti a restare solo a Nairobi, come è successo in marzo. Il reato che viene ipotizzato finora è quello di terrorismo anche se fonti che vogliono restare anonime, parlano dell’esistenza di “altre ipotesi investigative”.

Dallo scambio di informazioni tra gli inquirenti è emerso che la ragazza il giorno di Natale è stata vista, ancora nelle mani dei rapitori, da due cittadini kenioti arrestati il giorno dopo. Probabilmente due degli esecutori materiali del sequestro. Secondo il loro racconto era poi stata ceduta a un’altra banda criminale.

Durante gli incontri tra i due gruppi di inquirenti sono state ricostruite le fasi del sequestro, avvenuto ormai otto mesi fa. Una descrizione che però non collima con quella tratteggiata dal Fatto Quotidiano in base a testimonianze raccolte in Kenya. A Roma hanno raccontato che i rapitori (otto, ma a noi risultano cinque) erano armati di mitra e sono scappati in moto. In Africa hanno parlato solo di pistole e di una granata fatta esplodere più per spaventare che per uccidere e che la fuga è avvenuta portando la ragazza in spalla nella savana e le moto erano al di là di un fiume distante poco meno di un chilometro.

Tra gli arrestati (tre come risulta dalle testimonianze del Fatto) spunta fuori il nome di Moses Luali Chende, un giovane dal passato turbolento come contrabbandiere, noto per il suo carattere irascibile e aggressivo, di etnia ghiriama e proveniente dal villaggio di Kwamwanza, nel comprensorio di Chakama.

Moses è marito di Elizabeth Kasena, residente proprio vicino alla casa di Africa Milele (la onlus per cui lavorava Silvia), anche lei arrestata e poi rilasciata su cauzione. Elizabeth fa la cameriera in un bar dove l’italiana andava tutti i giorni a fare colazione. E Moses è imparentato con Ronald, il ragazzo che si è preso una forte bastonata durante l’aggressione e il rapimento di Silvia. Se dapprima si pensava che Moses avesse solo aiutato i rapitori, dagli elenchi delle presenze alla guest house Togodi Chakama, emerge che la notte del 13 novembre insieme a Said Adhan Abdi, identificato come il capo della banda, il ragazzo ha dormito lì. Inoltre è autista di bodaboda, cioè mototaxi, e avrebbe trasportato il giorno successivo a Malindi Said e poi il 20 novembre avrebbe partecipato al rapimento. Perché Moses è a piede libero? Comunque è atteso a giudizio al Tribunale di Malindi per il processo che comincia il 29 luglio.

Durante gli incontri i kenioti hanno chiesto agli italiani informazioni su uno scandalo scoppiato in Kenya e che riguarda una società italiana sospettata di corruzione, la CMC, incaricata di costruire tre dighe: a Kimwarer, ad Arror, nella contea di Elgeyo Marakwet, e a Itare, nella contea di Nakuru. Un business di 870 milioni di euro. I cantieri della CMC in Kenya sono stati chiusi e i suoi beni messi sotto sequestro.

“Patagonia Saudita”. La frontiera energetica della nuova Argentina

Nell’immaginario collettivo la ricchezza dell’Argentina ha come prima immagine non solo le immense “pampas” in cui pascolano greggi di bovini, ma anche campi altrettanto estesi dove si coltiva di tutto e che, anche in anni recenti, hanno costituito la salvezza del Paese in tempi di crisi. Basti pensare al tragico dicembre 2001, quello del default dello Stato argentino, che però poté riprendersi abbastanza rapidamente anche per la soia, il cui valore salì bruscamente da 125 a 500 dollari la tonnellata alla Borsa di Chicago. Il boom di questo prodotto, che vede l’Argentina al terzo posto nel ranking mondiale (insieme agli Usa e al Brasile fornisce l’80% del fabbisogno globale) diede una spinta importante alla rinascita, anche se a scapito di una diminuzione della produzione di carne.

Paese con un’estensione pari a dieci volte l’Italia, ma con una popolazione di soli 40 milioni di abitanti, con la sua agricoltura (e la carne) produce materie prime in grado di sfamare 450 milioni di persone, cifre che però contrastano con la sua situazione sociale. Il livello di povertà è elevatissimo. Questo perché sono bastate due svalutazioni del peso, a maggio e agosto dello scorso anno, a far precipitare una situazione che continua a essere difficile soprattutto perché l’agricoltura, produttrice di materie prime, non è supportata come dovrebbe da un’industria elaboratrice dei derivati di un livello importante.

Ma allora come mai parallelamente al G20 che si è tenuto quest’anno a Buenos Aires, c’è stata una gara, che altri Paesi come Francia e Italia avevano anticipato, per offrire a Macrì, spesso a costi ridottissimi, le infrastrutture necessarie allo sviluppo del Paese? Nel Nord del Paese sono stati trovati da tempo giacimenti di litio, in un’area, al confine con la Bolivia e il Cile, che al momento divide con questi due Paesi l’80% della produzione mondiale di un materiale necessario per l’industria elettronica ed automobilistica. Ma, secondo dati pubblicati lo scorso anno, nel 2019 l’Argentina potrebbe sfondare il tetto di 300 mila tonnellate del prezioso materiale, diventandone il primo produttore mondiale. E questo fattore sta attirando investimenti, anche italiani, per la creazione di fabbriche di batterie in loco , con grandi prospettive di sviluppo.

Ma non è finita qui: da un po’ di tempo si parla insistentemente di una “Patagonia Saudita”. In un’area famosa fino a non molto tempo fa per il ritrovamento di resti fossili di animali, vicino alla città di Neuquen, è stato scoperto un giacimento che inizialmente sembrava essere principalmente di petrolio a cui successivamente si è aggiunto il gas. Vaca Muerta, questo il nome della riserva energetica, non ha ancora raggiunto un potenziale produttivo notevole, ma nelle sue profondità si celano uno dei principali giacimenti petroliferi del Sudamerica e la seconda riserva di gas del continente latino-americano al punto che, in tempi brevi, ciò permetterà al settore di garantire, per il solo petrolio, con una produzione di 500 mila barili al giorno, esportazioni con ricavi per più di 20 miliardi di dollari l’anno, superando quelli della soia.

Le infinite distese patagoniche sono solcate continuamente da venti spesso fortissimi. Ed è stato calcolato che proprio questi venti, se sfruttati con pale eoliche, garantirebbero l’approvvigionamento di elettricità all’intera America Latina. Fatto tra l’altro decisivo visto che solo un mese fa proprio tra Argentina e Uruguay si è verificato il più grande black-out elettrico della storia dei due Paesi.

Nella provincia del Chubut sono presenti, e continuano a svilupparsi, i più estesi parchi eolici dell’Argentina. Anche qui c’è una partecipazione italiana attraverso Edesur (di cui è proprietaria Enel) che, a dispetto delle difficoltà e dei problemi che si registrano ancora nella sua rete elettrica di Buenos Aires, ha investito nel futuro di una regione tra le più ricche della terra.

Ora il problema principale dell’Argentina resta quello del raggiungimento di una stabilità politica che, attraverso progetti per lo sviluppo concertati con piani di Stato tra le varie forze che la compongono, le eviti di cadere nelle crisi a scadenza decennale che la coinvolgono.