Più vero del vero, più falso del falso. È Il Re Leone anno 2019 della Disney, che rispetto all’originale cartoon del 1994 è molte cose, ma poche in meglio. Per esempio, è più scorreggione: il facocero Pumbaa continua a non trattenersi, però il suricato Timon non censura più, la puzzetta è sdoganata, se non la benvenuta. Odorama a parte, la novità precipua è ovviamente visuale: il secondo The Lion King, dal 19 luglio nelle sale americane – e la chiamano estate – dal 21 agosto nelle nostre, è spacciato quale live action, ovvero “interpretato da attori in carne e ossa”, ma live action non è.
La ciccia e il pelo non si devono alle bestie, bensì al digitale: non è che il regista Jon Favreau, che già annovera lo scriteriato Il libro della giungla del 2016 (almeno lì c’era un attore, Neel Sethi per Mowgli), si sia messo ad ammansire e ammaestrare iene, mandrilli e buceri, al contrario, ha fatto ricorso ad algoritmi, realtà virtuale, CGI e cartapesta digitale. Insomma, non pensiate di poter accostare l’animazione originaria e questo calco, ehm, live action per un “trova le differenze” tra animale disegnato – peraltro, a mano – e animale vero: il secondo non lo è, anzi vi è più tecnologia che nel primo, giacché siamo dalle parti dell’ologramma piuttosto che del diorama.
Questo Re Leone, dunque, è un peana alle sorti magnifiche e progressive del fotorealismo, dell’iperrealismo digitale, del rendering o, se volete, del deepfake, la manipolazione e sovrimpressione di un volto a un altro: per capirci, molti spettatori crederanno che Simba, Nala e Musafa siano vere fiere così come hanno ritenuto che fosse il vero Jim Carrey a copiare Jack Nicholson alias Jack Torrance di Shining nel video recentemente diffuso dallo youtuber Ctrl Shif Face.
Poveri loro, anzi, poveri noi tutti: per ora il deepfake spopola nel porno – Scarlett Johansson è la vittima predestinata, ossia intestata su corpo e copula altrui – ma il battito animale garantito da questi leoni regali e prima dal Libro di Kipling contribuirà a spianare la strada all’utilizzo mainstream. Dipende pressoché esclusivamente dalla quantità di immagini per l’interpolazione che abbiamo a disposizione, ed ecco che un altro remake di Mary Poppins potrebbe non essere più appannaggio di Emily Blunt, ma dell’originaria Julie Andrews, seppur in versione “profondamente falsa”.
Comunque sia, cui prodest questo Re Leone? A nessuno, si direbbe, eccetto che alla Casa di Topolino: budget ventilato di 250 milioni, è atteso da un moltiplicatore assai lusinghiero, e vedremo quanto. Non mancano, tuttavia, le criticità né le critiche: rifare in live action i propri classici d’animazione, solo quest’anno già Dumbo e Aladdin, rimpinguerà pure le casse, ma ha il fiato corto e pure il braccino, perché dilapida l’immaginario e uccide una volta di più l’aura di quei cartoon. Per tacere, nel passaggio dalla matita all’attore, delle questioni politiche che si imbarcano: dal 25 marzo 2020 sui nostri schermi, il riadattamento di Mulan ha eluso il whitewashing affidando la protagonista alla cinese Yifei Liu, ma si fa tacciare di acquiescenza, se non collusione, al nazionalismo cinese; al grido, pardon, hashtag #NotMyAriel, viceversa, sui social si osteggia la scelta di affidare la Sirenetta in carne e ossa – regia di Rob Marshall, pre- produzione avviata – all’afroamericana Halle Bailey. Chissà, dopodomani il deepfake potrebbe affibbiare ai personaggi i volti, ossia i tratti somatici, che più si confanno al pubblico dei diversi Paesi: Mulan caucasoide da noi, mongoloide a Pechino, negroide ad Abuja, e che pena.
La parcellizzazione può attendere, per ora le criniere di Simba, Mufasa e Scar mettono quasi tutti d’accordo: meglio il cartoon di cinque lustri or sono.
Donald Glover e Beyoncé a dare ugola a Simba e Nala, da noi Marco Mengoni – gli dobbiamo una bella confessione: “Ci sono solo due immagini reali, non ritoccate nel film” – ed Elisa, cui però preferiamo Edoardo Leo (Timon) e Stefano Fresi (Pumbaa), la duplicazione è fedele sicché non lascia spazio alcuno alla re-immaginazione, a tal punto che lo spettatore salta dal déjà-vu alla percezione dell’inteso simulacro, la copia di un originale mai esistito.
Ancor più gravoso, e tristemente diffuso, è l’equivoco su cui poggia l’intera operazione: spacciare la (alta) definizione per qualità, laddove è il sinonimo contemporaneo della quantità. A suon di megapixel e megabyte, si contrabbanda l’illusione, ma chi ci casca? Aridatece Simba, quello, ehm, vero.
@fpontiggia1