Ladri di passato: Pompei va a ruba

Sotto la terra vulcanica di Pompei si trovano ossa umane. E non sono solo quelle incenerite degli sfortunati abitanti di duemila anni fa avvelenati dai fumi del Vesuvio. Sono morti recenti: tombaroli intrappolati nei cunicoli che hanno scavato per rubare reperti. Perché ai piedi del Vesuvio c’è ancora un mondo da scoprire: domus disseminate fuori dalle mura, tra la campagna verdissima, profumata di ligustro e il mare. Almeno 22 ettari ancora da scavare, su 66 dell’area archeologica totale. Sono lì, aspettano soltanto di essere scoperti. È l’Eldorado dei ‘tombaroli’: meno controlli, meno turisti… Così alla periferia della zona scavata succede di tutto.

L’architetto Antonio Irlando conosce ogni strada, ogni incrocio, la vita, i nomi e le abitudini degli abitanti scomparsi. È lui a portarti, seguendo un meandro di stradine, fino alla località Civita Giuliana. Qui, dietro un muro di cinta, anni fa i Carabinieri fermarono degli scavi abusivi. È ancora tutto lì: tubi di ferro, mucchi di terra. E una buca da cui emergono i muri di un’antica Villa romana. All’estero basterebbe questo per farne un museo.

Per controllare questo Louvre a cielo aperto e per recuperare i beni rubati nell’intera regione Campania (che conta altri siti archeologici come Ercolano e Paestum), sono soltanto 10 i carabinieri del Nucleo Tutela del Patrimonio artistico e culturale, diretti dal Maggiore Giampaolo Brasili. Mentre le tecniche della “mafia dei reperti” diventano sempre più raffinate. Dimenticate l’epoca in cui a rubare erano dei ladruncoli un po’ disperati. Gente che, racconta Irlando, era armata di spilloni, aghi metallici lunghi fino a dieci metri da infilare nella terra, affidandosi alla loro esperienza. Quando lo spillone all’improvviso si piantava nel terreno, ecco raggiunta la quota dell’antica Pompei. E, se urtava contro qualcosa di duro, si maneggiava l’ago per cercare di capire, dalla superficie, se lì sotto ci fosse un muro. Una Villa. Il tesoro. Oggi, invece, ci sono i metal detector e gli scanner, capaci di individuare metallo a metri di profondità. Potrebbero essere monete, posate, come la stupenda argenteria ritrovata pochi anni fa nella domus di Boscoreale.

Ma potrebbe anche trattarsi, come abbiamo raccontato nelle scorse puntate di “Sherlock”, di bombe inesplose della Seconda Guerra mondiale.

Rubare reperti a pochi passi dall’area archeologica è più difficile. Così sono state elaborate tecniche particolari. Mimetiche. Si parte costruendo una serra, come ce ne sono centinaia in questa piana così fertile, coperta di lamiera o di plastica e lunga decine di metri. Poi in mezzo alla piante, ecco un piccolo buco. Poche decine di centimetri, giusto lo spazio per infilare gli strumenti e una telecamera. Se inquadra qualcosa, il buco diventa un tunnel di 60-70 centimetri di diametro per farci passare le spalle e calarsi. Il “tombarolo” scende nella terra, a testa in giù, con una luce frontale. Se crolla tutto, viene sepolto dai lapilli.

Parliamo di una “industria” che conta su decine e decine di addetti, ognuno con una sua specialità. I tombaroli non agiscono mai da soli. Sono paranze che vengono chiamate “squadre”: a comporle di solito tre persone. È il primo anello. Gli scavatori vengono da Castellammare di Stabia, Mondragone e Casal di Principe, le stesse cittadine che da sempre forniscono gli operai più qualificati per i cantieri di mezza Italia.

Per scavare sottoterra servono mani forti e delicate, scalpellini precisi per non danneggiare i reperti. Per non dire delle abilità che ci vogliono per rubare frammenti di un mosaico, merce assai richiesta sul mercato. Nel marzo 2014, l’allora direttrice degli scavi di Pompei, Grete Stefani, denunciò il furto di un intonaco affrescato raffigurante il volto di una donna seduta. Una porzione di 20 centimetri di diametro sottratta alla Casa di Nettuno, aperta al pubblico e senza video-sorveglianza. È da questo furto che partì la maxi-operazione “Artemide”, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Napoli, contro il traffico illecito di reperti archeologici rubati (oltre 2mila quelli sequestrati, tra anfore, monete, vasi, e 142 indagati).

Scavatori e scalpellini sono il primo anello. C’è poi una zona grigia tra le mani sporche di terra del tombarolo e quelle ben curate dei milionari acquirenti. È quella che assicura, a vari livelli, di “ripulire” la storia del reperto rubato, dandogliene una nuova, più “rispettabile”, più appetibile. Le carte dell’inchiesta Artemide ricostruiscono il meccanismo. Ritraggono figure sorprendenti, come quella dell’ormai famoso “Raf”, così lo chiamano gli amici. Si tratta di Raffaele Monticelli, classe 1942, un maestro elementare di Lizzano, Taranto. “In Campania fanno riferimento a lui”, si legge nelle carte. Frida Tchacos, un’antiquaria-mercante con galleria a Zurigo, arrestata nel 2002 a Cipro, parlando con i pm raccontò di “un preciso triangolo di cui faceva parte Monticelli”, fornitore “di ogni cosa si trovasse nel Sud Italia: vasi apuli, terrecotte, bronzi”. “Raf” ha una conoscenza sconfinata del patrimonio archeologico italiano, ed è una persona abile, diffidente, scaltra. “Si sposta in treno e utilizza per le comunicazioni schede estere e/o pubbliche (cabine telefoniche) evitando così di essere oggetto di controllo”. Un “grande vecchio” del traffico delle opere d’arte, come lo definiscono gli investigatori, o un innocuo maestro appassionato di antichità? Le cronache, che si sono occupate spesso di questo anziano signore finito anche agli arresti domiciliari, ricordano che a Monticelli nel 2017 sono stati confiscati beni per 22 milioni di euro, tra cui un appartamento affacciato su piazza della Signoria, a Firenze. Lui, attraverso gli avvocati sentiti dai cronisti, si proclama innocente e ricorda di non avere condanne definitive. “La criminalità organizzata controlla e gestisce il traffico di opere d’arte, considerato secondo, per introiti e giro d’affari, solo a quello della droga e delle armi”: lo dicono le carte delle inchieste come l’operazione “Artemide”. Dietro il mondo dei tombaroli si muove, assai discreta, la camorra, che investe. Ne ha parlato anche un “pentito”, ex tombarolo, come Domenico Frascogna, che fece ritrovare un centinaio di reperti archeologici trafugati dall’area casertana e da Pompei, e portò a una inchiesta della Dda di Napoli con 35 indagati. “I capitali acquisiti da altri traffici illeciti vengono reinvestiti nell’acquisto di opere d’arte”, spiegano gli investigatori: l’anfora come mezzo per riciclare il denaro proveniente dal traffico di droga e dal pizzo. Una lavatrice perfetta.

Poche volte le opere d’arte finiscono a impreziosire le ville dei boss. Il resto vola lontano. A ogni passaggio – “tanti e velocissimi”, dicono gli inquirenti –, a ogni “canale delinquenziale” con cui viene in contatto, l’opera rubata si ripulisce, e aumenta così la sua quotazione. Fino ad arrivare “alle case d’asta di Monaco di Baviera, Svizzera, San Marino. In particolare – scrivono ancora gli investigatori – uno dei canali per commercializzare e ripulire i reperti archeologici sono proprio le case d’asta estere e quelle online”. Gli ambienti ovattati e luccicanti delle case d’asta sono un anello fondamentale: “Di fatto, il reperto archeologico uscito clandestinamente, all’atto della sua vendita è corredato da documentazione d’acquisto che ne certifica il valore e la legittima provenienza”. I mercanti d’arte vendono, per fare soldi e per ripulire i tesori: “È stato riscontrato – avvertono i Carabinieri – come alcuni reperti archeologici di particolare valore, una volta messi all’asta, venissero acquistati dalle stesse persone fisiche o giuridiche che avevano dato mandato a vendere”. Si vende un bene sporco e lo si ricompra pulito.

Oggi la nuova frontiera del traffico di reperti è internet. Non solo il deep web. Così, poche settimane fa, qualcuno ha notato che su eBay erano finiti due “frammenti di intonaco romano da Pompei con vernice originale, foto allegate. Prezzo: 185 euro”. La scoperta è finita in una segnalazione che il consigliere regionale della Campania Francesco E. Borrelli (Davvero Verdi) ha inviato al Parco Archeologico e ai Carabinieri, indicando anche il venditore, “sito nel Regno Unito, e che, secondo la descrizione a corredo dei reperti, garantirebbe l’autenticità attraverso una non meglio specificata certificazione”. Chissà cosa avrebbero pensato Poppea e i patrizi romani se avessero saputo che i frammenti delle loro ville sarebbero finiti in un mercato virtuale, venduti forse dagli eredi dei Britanni.

Valeriona e l’imitazione ipertrash della Ekberg

Capita sempre più spesso in questo Terzo millennio che un tentativo di citazione si riveli involontaria parodia. Da questo punto di vista, il confronto tra l’immortale bagno nella Fontana di Trevi di Anita Ekberg nella Dolce vita e il tuffo-lampo nella Barcaccia di Valeria Marini (fanno 540 euro di ammenda) può essere istruttivo. Anitona, quando Fellini si inventa la scena simbolo del film simbolo dell’Italia del boom, è sola con Marcello Mastroianni, ha 29 anni e arriva direttamente da Hollywood. Valeriona, quando prova a imitarla live, fendendo le comitive e i venditori di rose di Piazza Navona, conta 52 primavere e ha alle spalle un curriculum che spazia dagli avanspettacoli del Bagaglino (Champagne, Buccia di banana…) a film come Abbronzatissimi 2, al Premio Barocco a fianco di Daniele Piombi. Ma il suo capolavoro resta la campagna dove, in veste di benzinaia con la pompa in mano, apostrofava l’automobilista: “Passa a prendermi alla IP” (“Marcello!” non lo diceva, ma era sottinteso).

Potrebbero bastare queste umili sineddochi per archiviare il confronto tra gli anni Sessanta e “i favolosi anni 80” di casa nostra. Ma forse, in questa caricatura dell’alba tipica dei più malinconici tramonti, c’è un’ulteriore morale. Certi Vip in fase terminale pensano di avere ancora il mondo ai loro piedi; ma ormai, direbbe Ettore Petrolini, sono ricercati solo dalla polizia. Come gli ultimi giapponesi, possono ancora diventare simboli di qualcosa; ma sarebbe consigliabile astenersi.

Il “bullismo” non sempre paga nella vita politica

“L’ascesa di Salvini non si fermerà se non quando lui sarà diventato il padrone assoluto del nostro Paese”.

(da “Il dittatore” di Giampaolo Pansa – Rizzoli, 2019)

Non c’è da meravigliarsi più di tanto che il “bullo” Matteo Salvini, secondo un sondaggio Ipsos, piaccia a una larga maggioranza degli italiani: in complesso, il 59% si dichiara molto (34%) o abbastanza (25%) d’accordo con la linea dura sull’immigrazione; il 29% contrario (poco o per nulla d’accordo); mentre il restante 12% “non sa, non indica”. Alla Casa Bianca, del resto, non c’è un altro “bullo” come Donald Trump, alla guida degli Stati Uniti?

Fa riflettere, piuttosto, il fatto che un tempo questo epiteto – per dire spavaldo, sfrontato, arrogante – non sarebbe stato mai applicato a un parlamentare o a un leader, quale che fosse il suo partito o la sua nazione. In Italia, per la verità, la categoria politica del “bullismo” aveva già trovato una prima incarnazione nell’ex presidente del Consiglio ed ex segretario del Pd, Matteo Renzi. Ma ora dall’“uomo solo al comando” rischiamo di passare a “un solo uomo al comando”. Come si può spiegare, dunque, il fatto che la stella dell’ex rottamatore sia caduta così rapidamente, mentre il “Cazzaro Verde” – come lo chiama il direttore di questo giornale, confortato da una sentenza che l’ha assolto dall’accusa di diffamazione – naviga (finora) sulla cresta dell’onda?

È pur vero che Renzi, a causa dei suoi difetti e dei suoi errori, è precipitato in poco tempo dal 40,8% delle elezioni europee 2014 nel baratro del referendum costituzionale, lasciando il Pd in brache di tela al 18,7% delle Politiche 2018. Mentre Salvini ha vinto le Europee in Italia con oltre sei punti in meno (34,2%), ma le ha perse in Europa insieme a tutto il fronte sovranista che non è riuscito a conquistare la maggioranza nel Parlamento di Strasburgo. E già questo dovrebbe indurre a una maggiore cautela il leader del Carroccio, a parte le sue inclinazioni filo-russe.

Sta di fatto, comunque, che di questi tempi il “bullismo” paga e porta consensi. Perché? La prima spiegazione può essere che in un mondo sempre più articolato e complesso, alle prese con questioni epocali come la globalizzazione e la crisi migratoria, gli elettori premiano risposte semplici, chiare e nette. Solo che spesso queste risposte sono tanto seducenti quanto ingannevoli, perché promettono ciò che non possono mantenere, buttano fumo negli occhi e costruiscono una narrazione mediatica che non corrisponde alla realtà. Una politica alla fine inconcludente, destinata presto o tardi a deludere il popolo in nome del quale viene usurpata e praticata.

In Europa e in Italia, c’è poi la crisi economica che indurisce i cuori e incattivisce le coscienze, innescando la reazione a catena dell’individualismo, dell’egoismo, del cinismo. Da questo malessere collettivo, impastato d’insicurezza e inquietudine, scaturisce un sentiment ostile nei confronti di quello che la cultura cattolica chiama il prossimo. L’intolleranza, la xenofobia, il razzismo strisciante finiscono così per prevalere sulla solidarietà sociale, privilegiando il “bullismo” nei comportamenti individuali e collettivi.

C’è, infine, la storia dell’“uomo forte”, declinata ieri nella figura del duce e oggi in quella del Capitano, che richiama e riassume nel nostro caso questo mix di istinti e di pulsioni. Non è (ancora) il caso di assimilare il “bullismo” politico al fascismo, un’esperienza irripetibile nel mondo contemporaneo. Ma è innegabile che le affinità esistano, se non altro in termini di linguaggio, atteggiamenti, posture autoritarie. E purtroppo, i miti sono duri a crollare.

Una nuova Ue senza paradisi fiscali

Scampato il pericolo della procedura d’infrazione, si pone adesso il problema di ricostituire in Europa le condizioni di parità fra gli Stati troppo spesso violate in sede di Consiglio di ministri. Confortevole è la nomina di Sassoli a presidente del Parlamento europeo, il quale ha dichiarato che vigilerà sul Consiglio europeo affinché prevalgano gli interessi di tutti i popoli dell’Unione e non solo quelli degli Stati economicamente più forti.

È una presa di posizione che vuole contrastare il predominio dei Paesi forti in sede di nomine alla Commissione e alla Bce (patto franco-tedesco) e fanno sperare in una ripesa dei principi fondanti dell’Europa federale.

A Sassoli ha fatto eco il presidente dell’Antitrust, Roberto Rustichelli, il quale, come si è ricordato, ha preso di mira l’Europa dei paradisi fiscali, indicando nell’Inghilterra, nell’Olanda, nel Lussemburgo e nell’Irlanda gli Stati responsabili di praticare generosi sconti fiscali allo scopo di attirare le multinazionali nel proprio Paese, danneggiando così enormemente l’Italia.

Dopo anni d’inerzia dei nostri rappresentanti nel Parlamento europeo, i quali sono stati addirittura capaci di votare, contro gli interessi italiani, provvedimenti come il bail-in e la direttiva Bolkestein, c’è da sperare che ora i nostri parlamentari europei si comportino in modo di assicurare la parità degli interessi italiani con quelli degli altri Stati membri, nella cornice di un generale interesse europeo.

Si ricordi che l’Italia attira investimenti esteri per il 19% del Pil, mentre il Lussemburgo ne attira il 5.760%, l’Olanda il 535% e l’Irlanda il 311%.

D’altro canto l’Italia, anziché difendersi con le nazionalizzazioni delle fonti di ricchezza nazionale, svende le sue industrie strategiche tra le quali la Fiat e la Magneti Marelli, le quali versano le tasse per altissimi importi a Sua Maestà britannica.

In particolare è da sottolineare che la Fiat Fca, nel 2018, ha ottenuto un dividendo di un miliardo di euro e la svendita della Magneti Marelli ha prodotto un extra-dividendo di 2 miliardi, somme che avrebbero fruttato al fisco italiano più di 700 milioni di tasse.

È evidente che spetta al governo italiano mettere in campo una politica che faccia fruttare nell’interesse del popolo i proventi delle industrie strategiche, dei servizi pubblici essenziali e delle fonti di energia, come prevede l’articolo 43 della Costituzione e si schieri in sede europea affianco del nostro presidente Sassoli e non dalla parte del Consiglio europeo, dominato dagli interessi dell’asse franco-tedesco.

È arrivato il momento che sorga in Italia una forza politica trasversale che segua i principi espressi da Rustichelli e Sassoli in conformità con quanto andiamo ripetendo da anni: no alle privatizzazioni, no alle delocalizzazioni, no alle svendite. Sì alle nazionalizzazioni e al recupero delle fonti di ricchezza nazionale indebitamente cedute ai privati e alle multinazionali.

Un peso, due misure: viva il giornale unico

La condanna di Sala ha definitivamente dimostrato come, per il Giornale Unico, l’importanza da dare all’evento dipenda solo dal partito di appartenenza del reo. Se il condannato è del Pd come Sala, chi se ne frega: la notizia va sottaciuta, nascosta, minimizzata. Al contrario, se il condannato è grillino, occorre martirizzarlo, spezzargli le reni e gridargli in faccia “suca!”. Se la stessa condanna di Sala fosse toccata alla Raggi, ci sarebbero andati avanti per anni paragonandola come minimo a Eva Braun. Tale atteggiamento, si badi bene, è giusto e oltremodo condivisibile. Per questo ho chiesto e ottenuto dal Direttore di questo giornale che anche il Fatto si adegui subitaneamente a tale sbarazzina narrazione di regime. Ecco, di seguito, tre esempi atti a rendere edotti giornalisti e lettori su come vada d’ora in poi raccontata la politica in Italia.

Primo esempio. Luigi Marattin (Pd) e Nicola Morra (M5S) vengono beccati mentre rubano un pacchetto di chewing-gum all’autogrill. Stessa situazione, stesso reato. Narrazione su Marattin del Giornale Unico (a pagina 27, trafiletto con titolo neutro e poco sotto una pubblicità di intimo con Orfini modello per sviare ulteriormente l’attenzione). “Il noto economista Luigi Marattin, celebre volto della sinistra nonché capelluto oppositore ardimentoso del governo vilmente fascista, sarebbe stato pizzicato mentre si impossessava di una nota marca di chewing-gum presso l’autogrill di Fabro. È incredibile come la propaganda gialloverde inventi di continuo notizie per diffamare chi lotta per salvare la nostra democrazia. È infatti del tutto ovvio, come ha confermato a Repubblica anche il giovine compagno Zanda, che Marattin non stesse certo rubando – che sciocchezza! – bensì scegliendo i chewing-gum preferiti per poi regalarli all’amica e collega Alessia Rotta che lo attendeva in auto. Per questo è uscito dall’autogrill, in apparenza senza pagare il prodotto, che avrebbe certo pagato in un secondo momento”. Narrazione su Morra del Giornale Unico (prima pagina, titolo sparato: “Sono anche ladri ‘sti razzisti!”). “Gravissimo fatto accaduto a Fabro. Nicola Morra, e filosofo da strapazzo e sedicente antimafioso, ha rapinato l’autogrill omonimo brandendo come arma Toninelli. Uscendo, il Morra ha pure gridato ‘Colpirne uno per educarne cento!’. Non si sa a cosa si riferisse, ma del resto uno che si ferma a Fabro ha problemi in partenza. Mattarella ha chiesto una punizione esemplare: forza Presidente!”.

Secondo esempio. Nicola Zingaretti (Pd) e Luigi Di Maio (M5S) rispondono troppo piccati a un utente che, su Facebook, li ha criticati nella loro bacheca. Narrazione su Zingaretti del Giornale Unico: “Quando Nicola ha detto che voleva cambiare musica nel Pd, si riferiva anche alla riscoperta del contatto diretto con gli elettori. In questo senso, la sua capacità di intervenire personalmente per rispondere a tutti i suoi fan – nonostante i mille impegni – è encomiabile. Perfino commovente. E pazienza se ieri Nicola abbia scritto ‘Ciao merda!’ a un compagno che gli ricordava come l’unica cosa buona nella sua vita fosse forse la cognata. Un po’ di ardore è il sale della vita. Anche in politica”. Narrazione su Di Maio del Giornale Unico: “Non bastavano i congiuntivi vilipesi. Non bastavano gli strafalcioni geografici. Non bastavano Pinochet e il Venezuela. Adesso Di Maio si mette pure a insultare gli italiani. Nulla di nuovo: lo fa ogni giorno come ministro! Ora però si è messo a farlo anche nella sua odiosa pagina Facebook. Ieri ha addirittura scritto ‘Vergognati!’ a un garbato utente che gli aveva democraticamente augurato la morte. Non hanno proprio pudore”.

Terzo esempio. Andrea Romano (Pd) e Alessandro Di Battista (M5S) ci provano con una commessa dell’Ikea. Narrazione su Romano del Giornale Unico: “Con quel suo fascino d’altri tempi, e quel suo porro schierato a guardia della democrazia, il fascinoso Andrea Romano avrebbe circuito una commessa – si dice non consenziente, ma invero fatichiamo a immaginarla tale! – dell’Ikea. Detto che come noto siamo femministi e odiamo qualsivoglia forma di sessismo, se rifiuti la corte di Andrea Romano o sei deficiente o voti Grillo. Che è poi la stessa cosa”. Narrazione su Di Battista del Giornale Unico: “Sempre sopra le righe e fascistamente spavaldo, il volgare Che Guevara di Roma Nord si scopre ora anche stupratore. Avrà mai fine questo incubo a occhi aperti? In tutta onestà, a Norimberga furono processate persone con meno colpe di questo Di Battista. Vien quasi voglia di rimpiangere Farinacci”. Buona catastrofe a tutti.

Mail box

 

Fauci spalancate sul Salone dell’Auto, ma nessuno investe

La storia del Salone dell’Automobile risulta essersi interrotta, a Torino, appena festeggiato il nuovo millennio. Non si ricorda, allora, il levarsi di tante “grida di dolore”. E non c’era, allora, la sindaca Appendino che, vent’anni dopo Torino 2006, ha salvato la città dall’aggiunta di nuovo debito pubblico a quello accumulato allora. Né è lei colpa di tutti i mali di una città che da tempo è incapace di visioni di futuro. Le ultime, giuste o sbagliate che fossero, risalgono alle giunte Castellani. I successivi governi della città hanno vissuto di rendita, via via affievolita sino a meritare il giudizio negativo degli elettori, senza lasciare alcun progetto in eredità. Oggi si agitano parecchi presunti protagonisti della classe dirigente, politica e imprenditoriale (anche alle pulci ogni tanto – recita un arguto detto toscano – gli vien la tosse…), pronti a protestare. Pressoché nessuno a investire nel futuro della città. Unico atteggiamento: insaziabili fauci spalancate in attesa del pasto di Stato, di pubblica alimentazione, di soldi nostri. Loro, tra le categorie maggiormente indiziate di evasione delle tasse. La mensa pubblica la reclamiamo per i poveri e per i migranti in cerca di dignità che con il loro lavoro sostengono gran parte del welfare di questo ingrato Paese… Per gli altri porte chiuse.

Melquiades

 

Più lo indagano, più cresce nei consensi. Ce lo meritiamo

Ogni giorno un qualche personaggio leghista è indagato, condannato o sospettato di malaffare. Da Bossi a Belsito, poi Siri, Rixi e non si sa ancora come andrà per Garavaglia. È di questi giorni la vicenda russa che vede coinvolto un personaggio molto vicino al cazzaro verde e che potrebbe diventare uno scandalo enorme per un partito che non rappresenta e non ha mai rappresentato “il cambiamento” ma la vecchia politica che ritorna camuffata da “nuova”. Vedremo nei prossimi giorni che implicazioni comporteranno le vicende russe, ma si può già affermare che c’è una certa disinvoltura leghista nella scelta della classe dirigente e politica. E verificheremo se il consenso che molti elettori hanno assegnato al cazzaro verde diventerà più mobile, fluttuante o si muoverà in altre direzioni. Se così non fosse, occorrerà concludere che gli italiani meritano questa classe politica e tutti i danni che sta provocando alla vita del nostro Paese.

Leonardo Gentile

 

Inps: da marzo aspetto il Reddito di cittadinanza

Ho fatto domanda di Rdc tramite il nuovo portale dedicato alla misura il 6 marzo 2019, primo giorno utile. Da quando la pratica arrivò all’Inps a oggi sono passati più di 4 mesi e ancora non so se e quando avrò i benefici della misura Rdc. La mia richiesta risulta in status: “in evidenza alla sede” con 11.04 come data di ultima elaborazione. Sorvolo sui dettagli tecnici, le segnalazioni fatte tramite il Conact Center (il servizio “Inps Risponde”), e le visite di persona alla sede di Milano, a via Fortezza. Avevo commesso un errore in fase di creazione dell’Isee, corretto non appena mi venne chiarito che fosse quello il motivo del blocco della pratica. Dopo due mesi, non sono in grado di sbloccarla. Si tratta di un limbo frustrante e la condizione economica, emotiva e fisica va degradandosi… Possibile non ci sia modo di elaborare le pratiche in evidenza?

Maurizio Pagin

 

Giochi 2026: costi insostenibili per un Paese impreparato

Siete una delle poche voci che si sono levate contro la vittoria dell’Italia alle Olimpiadi lnvernali. Ho trovato oscene le manifestazioni di gioia dei vari Malagò, Sala e compagnia di nani e ballerine di craxiana memoria… Le Olimpiadi sono un costo insostenibile per un Paese ridotto come l’Italia che ha bisogno di altri urgenti interventi. Promuovere un Paese sarebbe molto meno costoso se disponessimo di un ufficio del Turismo efficiente. Guardate alla Tunisia e alla Turchia che, pur avendo avuto un crollo di turisti molto elevato, con una campagna promozionale intelligente, ben orchestrata e a costi sostenibili sono riuscite a rilanciare l’affluenza dei loro turisti. Purtroppo, sulle campagne stampa c’è poco da grattare… A buon intenditor, poche parole…

Rodolfo Kaufmann

 

Basta dire che i marò sono una questione italiana

Noto con sorpresa che la cronaca giudiziaria italiana, riferendo della seduta del Tribunale dell’Aia sui due marò, si sia soffermata unicamente sulle dichiarazioni del governo italiano. Quelle che ripetono inutilmente da anni che i marò non sono giudicabili dall’India in quanto trattasi di personale militare a bordo di nave italiana in acque internazionali. Come invece ribadito dal rappresentante indiano, le vittime (a cui spetta di diritto la giurisdizione) sono indiane, il loro omicidio si è perpetrato all’interno di una barca indiana, che è dunque territorio indiano, in zona economica esclusiva (Zee) indiana, su cui l’India ha ovviamente competenza e giurisprudenza. Inoltre Enrica Lexie, la petroliera da cui sono partiti i colpi era una nave commerciale privata, non militare. A che serve insistere su questa tattica processuale già sconfessata? E che accompagna un inutile ricorso arbitrale, promosso dall’Italia che non farà che allungare i tempi del giudizio?

Franco Prisciandaro

Genova. Si multano i clochard, si tace sulla ’ndrangheta e sui nostalgici

Un senzatetto di Genova è stato multato di 200 euro perché dormiva in una piazza in centro. È un’ingiustizia sociale per un clochard che non ha un posto dove stare e che probabilmente non ha la disponibilità economica per pagare la contravvenzione. Andrebbe aiutato, altro che multato.
Gabriele Salini

 

Duri con i barboni, teneri con gli amici di Salò. Purtroppo, caro signor Salini, è questa la linea del centrodestra. Di quello ligure in particolare. È facile prendersela con i poveri cristi che non possono protestare, che non hanno nessuno disposto a difenderli (a parte i cittadini attenti come lei). Ma soprattutto i clochard e gli immigrati non votano.

Da mesi a Genova assistiamo alle esternazioni sconcertanti della maggioranza. In particolare dell’assessore leghista alla Sicurezza, Stefano Garassino. Una persona arrivata a dire (a “La Zanzara”): “Li avete visti i migranti? Sono un metro e 85 per 80 chili. Chi conosce la storia, sa benissimo che chi scappava da Auschwitz era pelle e ossa da quanto pativa la fame. Io razzista? Ma che razzista – sostiene Garassino –. L’Italia non ha la capacità economica di poter assorbire una quantità così enorme di persone a spese nostre, ma questo è un dato di fatto. A Genova si dice è comodo fare il buliccio con il culo degli altri. Ecco, questo dovrebbe rendere bene l’idea”. Quel Garassino che, come scritto da “Repubblica”, ha dichiarato: “Vogliamo andare a vedere le condizioni igieniche dei centri di accoglienza. Se la prefetta ce lo nega, allora manderemo affanculo… anche la prefetta”. Frasi che si commentano da sole. Eppure il sindaco, il cattolicissimo Marco Bucci, non sembra scomporsi. Fioccano multe e controlli ai clochard (sarebbe utile altrettanto zelo verso gli abusi edilizi). Purtroppo il sostegno della Lega pesa. Ci vorrebbero coraggio e polso per contrastare lo strapotere del Carroccio e di certi ambienti di estrema destra che a Genova – città Medaglia d’Oro della Resistenza – si comportano da padroni.

Così si assiste allo spettacolo di un consigliere comunale con fascia tricolore che, accompagnato da militanti di nero vestiti, va al cimitero per rendere omaggio ai caduti di Salò. Mentre un presidente di Municipio inoltra su Facebook frasi che elogiano il Ventennio. Il sindaco tace.

Avanti così. Ma per Genova i problemi più seri sono i clochard oppure, per dire, le infiltrazioni della ’ndrangheta su cui si sente soltanto silenzio?
Ferruccio Sansa

L’autonomia devasta paesaggi e beni culturali

Pur di devastare impunemente paesaggio e patrimonio culturale, la Lega nordista cerca ispirazione nel già vituperato Sud. E infatti le richieste di “autonomia” avanzate da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna (nella quale ultima le istanze leghiste sono targate Pd) ricalcano l’autonomia speciale di cui gode la Regione Sicilia. Il 16 maggio le intese fra il presidente del Consiglio e le tre regioni sono state siglate, e prontamente occultate. Possiamo leggerle, con due mesi di ritardo, solo grazie al sito Roars.

Scopriamo così che l’Italia che ci attende si appresta a ridurre in polvere la scuola, sminuzzata secondo immaginarie sotto-verità regionali, riducendo la storia italiana a una congerie di dialetti. Scopriamo che si porrà fine alla “tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione” prevista dalla Costituzione, cancellando manu militari l’articolo 9 della Costituzione.

Su questo punto, la Sicilia è il precedente. Ci provò nel primissimo statuto regionale, sanzionato con Regio decreto 15 maggio 1946 e dunque anteriore alla stessa Costituzione, ma ottenne piena autonomia solo con due decreti di un governo “balneare”, emanati il 30 agosto 1975. Una data che fa riflettere, perché solo otto mesi prima era nato il ministero dei Beni culturali, il cui titolare Spadolini subì senza fiatare la mutilazione della Sicilia, la più grande regione d’Italia e, quanto a paesaggio e patrimonio culturale, non certo l’ultima. Misteri dei ministeri: il coltissimo Spadolini, nella prefazione a un volume del 1976 che celebra la nascita del ministero di cui era titolare, ricorda le leggi di tutela del 1902 e 1909 come le sole “su cui riposa ancora quel che è stato fatto nel trentennio della Repubblica”, dimenticando non solo la legge Croce sul paesaggio (1920) e le leggi Bottai (1939), ma lo stesso art. 9 della Costituzione, peraltro ignorato anche nella legge istitutiva del ministero. Così dal 1975 la tutela dell’Isola è distaccata da quella del resto d’Italia e nulla può, varcato lo Stretto, il ministero dei Beni culturali. Il qual ministero non ha mai studiato le conseguenze di tale autonomia: funzionari sottomessi alla politica assai più che “sul continente”, sprechi inauditi e degrado del paesaggio, abusivismo dilagante, sconsiderata gestione del territorio, amministrazione del personale non comunicante con il resto d’Italia (un archeologo in forza a Messina non può spostarsi a Reggio Calabria, e viceversa).

Che simili appetiti si destassero nel resto d’Italia non è una sorpresa, e ne creò le premesse la sciagurata riforma del Titolo V della Costituzione voluta nel 2001 dal centrosinistra in risposta al federalismo sbandierato dalla Lega di Bossi. Quella riforma rispondeva al disegno fallimentare di arginare la Lega Nord con una devoluzione ‘leggera’. Al contrario, inseguendo la Lega sul suo stesso terreno si allargarono le competenze delle Regioni a detrimento di quelle dello Stato. L’autonomia sui beni culturali fu quindi chiesta nel 2003 dalla Toscana, nel 2007 dalla Lombardia e dal Veneto: in ambo i casi, da regioni governate da una coalizione politica diversa da quella del governo nazionale del momento. Ma solo oggi la Lega, fiancheggiata in Emilia dal Pd, va all’incasso di quel che già aveva ottenuto con la riforma del 2001. Era facile profezia (ne ho scritto su questo giornale lo scorso 18 ottobre): infatti le intese del governo con le tre regioni assegnano a esse, fra l’altro, la “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”. Le altre regioni fatalmente seguiranno, trasformando l’Italia in un arcipelago di staterelli.

Questa devoluzione annunciata è contraria alla Costituzione. Prima di tutto perché l’Italia non è uno Stato federale, formato (come gli Stati Uniti) per aggregazione di entità pre-esistenti. Il federalismo all’italiana, al contrario, sarebbe un “federalismo dissociativo” come quello della defunta Cecoslovacchia, dove la dissociazione “federale” portò (1992) alla secessione in due distinte Repubbliche. Sul fronte dell’articolo 9 della Costituzione, poi, i casi sono due: o si intende abolirlo, secondo la procedura costituzionale prevista dall’art. 138, o lo si deve rispettare. Quell’articolo disegna il nostro diritto alla cultura, ingrediente essenziale della “pari dignità sociale” dei cittadini, del “pieno sviluppo della persona umana”, dell’uguaglianza e della libertà (art. 3), dei “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2).

“La Repubblica promuove la cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”: questo dice l’art. 9. Cultura, ricerca, tutela formano una triade inscindibile, che si aggancia alla libertà di pensiero (art. 21) e al diritto all’istruzione (art. 33). In questo articolo, la parola più importante è “Nazione”, che nella Costituzione torna pochissime volte: all’art. 67 (“Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione”, all’art. 98 (“I pubblici impiegati sono al servizio della Nazione”) e nella disposizione XV, secondo cui ministri e sottosegretari “giurano sul loro onore di esercitare la loro funzione nell’interesse supremo della Nazione”. “Nazione” nella Carta è sempre e solo l’Italia nel suo insieme. Corrisponde al “territorio nazionale” degli artt. 16 (libertà di circolazione dei cittadini in qualsiasi parte del territorio nazionale), 117 m (diritti civili e sociali garantiti su tutto il territorio nazionale) e 120 (diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale), e all’“unità nazionale” rappresentata dal capo dello Stato (art. 87), nonché alla “Repubblica una e indivisibile” di cui all’art. 5. Il riferimento alla Nazione comporta che la tutela debba essere identicamente esercitata in tutta Italia e non segmentata per regioni. E dato che i principi fondamentali (tra cui l’art. 9) sono sovraordinati alle altre parti della Costituzione, le pretese ora avanzate dal secessionismo strisciante di tre regioni sono in sostanza incostituzionali.

Le devoluzioni in arrivo non hanno nulla a che vedere con i diritti dei cittadini e la funzionalità delle istituzioni. Puntano solo alla spartizione del potere, a prezzo di disperdere il patrimonio civile e la memoria culturale in favore di una brutale lottizzazione. La recente riforma Bonisoli, per quanto timida, ha fatto un passo avanti nella direzione giusta riportando a una miglior distribuzione delle competenze fra centro e periferia. Ma il M5S si ricorderà, in questo frangente assai rischioso, di essere il partito di maggioranza relativa? O vorrà affiancare la Lega puntando su un cambiamento a ogni costo, anche per il peggio?

Behre non è il super trafficante. Ma prende 5 anni

Il falegname eritreo Medhanie Tesfamariam Behre non è “il Generale”, super trafficante di esseri umani, ma è stato condannato per le telefonate con altri trafficanti in Libia che servivano per aiutare il cugino a imbarcarsi verso l’Italia: questo sarebbe il suo favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, aver aiutato un parente. Ma la cosa che più conta è che sia finita la battaglia per essere scagionato dall’accusa di essere “il Generale” Medhanie Yehdego Mered, uno dei principali trafficanti di esseri umani, motivo per il quale era stato arrestato in Sudan nel 2016 ed estradato in Italia. Detenuto per tre anni al Pagliarelli, il difensore Michele Calantropo ha provato in ogni modo a dimostrare lo scambio di persona. In udienza sono stati presentati i documenti d’identità e studio di Behre, il test del dna della madre, le testimonianze dei connazionali, delle vittime del vero trafficante, della moglie, del fratello e di un ex sodale di Mered. La Procura di Palermo aveva chiesto 14 anni di carcere, convinta che l’eritreo facesse parte della rete dei trafficanti. Behre è stato scarcerato dopo la sentenza del giudice Alfredo Montalto della Corte d’Assise di Palermo.

Abuso d’ufficio, Saguto assolta. Resta imputata di corruzione

Assolta dai colleghi di Caltanissetta perché il fatto non sussiste dal reato di abuso d’ufficio nel primo dei tre processi in cui è imputata, giunto a sentenza, Silvana Saguto confessa la sua “amarezza’’ tirando per la giacchetta Giovanni Falcone: “L’assoluzione di oggi è solo il primo passo – ha detto –, oggi dico che aveva ragione Falcone quando sosteneva la separazione delle carriere. Allora non lo avevo capito, oggi sì’’. Una frecciata indiretta al pm che per lei aveva chiesto un anno e quattro mesi, ma con una tesi, sebbene sostenuta in questi anni da diversi osservatori, del tutto infondata, come ha ben spiegato il pm Armando Spataro in un convegno del 2016: “Falcone teorizzava, in realtà, in modo assolutamente condivisibile, la necessità di una più accentuata specializzazione del pm nella direzione della polizia giudiziaria, rispetto a quanto era richiesto nel regime vigente prima del codice di rito dell’89’’. E “le sue affermazioni, risalenti a prima del ’92 e a epoca anteriore alle ben note aggressioni subìte in anni seguenti dalla magistratura – aveva concluso Spataro – non possono dunque essere strumentalizzate da alcuno’’.

Radiata dalla magistratura, decisione contro cui ha presentato ricorso, perché accusata di avere creato un “cerchio della fiducia” finalizzata alla gestione dei beni confiscati a Cosa Nostra al Tribunale misure di prevenzione del tribunale di Palermo che presiedeva, il giudice Saguto è stata assolta dal tribunale nisseno presieduto da Francesco D’Arrigo dall’accusa di avere nominato un coadiutore giudiziario in aggiunta all’amministratore in carica nella gestione del complesso turistico Torre Artale, a Trabia, confiscato per mafia. Per lei restano ancora due scogli giudiziari, il troncone principale in cui è imputata di corruzione, falso, abuso d’ufficio e truffa aggravata, e un altro legato a una presunta truffa a un’assicurazione.