Senza il vaccino non si lavora più. Draghi non molla sul Super Pass

Nonostante l’opposizione della Lega e del M5S, il governo domani potrebbe approvare l’estensione del Super green pass che richiede vaccino o guarigione per l’accesso a tutti i luoghi di lavoro. Potrebbe essere inserito per gradi, a cominciare dalla Pubblica amministrazione, dando tempo fino al 1° o al 15 febbraio a chi deciderà di vaccinarsi. Nelle intenzioni del presidente del Consiglio, condivise dal ministro della Salute Roberto Speranza, come anche dal Pd, da Italia Viva e da Forza Italia, subito o in prospettiva toccherebbe a tutti, anche nel settore privato.

C’è l’ipotesi di differire la misura, senza precedenti, per l’edilizia e l’agricoltura, dove tra positivi e quarantenati mancano lavoratori. La strada però sembra segnata. Il governo, pur evitando l’obbligo che farebbe ricadere i vaccini anti-Covid in un quadro normativo rigido, intende rendere la vita impossibile a chi rifiuta l’immunizzazione. Draghi però dovrà superare le resistenze politiche: Salvini – pressato da Massimiliano Fedriga – ha fatto sapere a Palazzo Chigi che è contrario, il M5S è scettico e deciderà la propria posizione in una assemblea dei parlamentari. Nei corridoi di Palazzo Chigi preoccupa il Carroccio, più che i grillini. Ma Draghi non molla: lo considera l’ultimo lascito prima di puntare al Quirinale.

Fonti di governo sottolineano che le somministrazioni sono aumentate tra Natale e Capodanno, si rivedono le code, siamo arrivati a una media oltre le 40 mila prime dosi e a quasi 60 mila il 29 dicembre: “È l’effetto degli annunci e degli ultimi provvedimenti”. Possibile. Il decreto del 30 dicembre non è poca cosa: dal 10 gennaio senza vaccino o guarigione recente si può solo lavorare, andare a scuola o all’università e fare acquisti nei negozi, purché a piedi o su mezzi propri.

La Federazione delle aziende ospedaliere (Fiaso) ha reso noto che la legge di Bilancio consentirà la stabilizzazione di 48 mila operatori sanitari assunti a termine con l’emergenza Covid. Era un obiettivo di Speranza. Ma sono già al lavoro, le carenze strutturali restano e in questo momento si aggiungono circa 40 mila operatori sanitari fuori servizio perché positivi o sospesi per mancata vaccinazione. Tutto questo mentre negli ospedali si attende un ulteriore aumento dei ricoveri e degli accessi al pronto soccorso per Covid. La variante Omicron che prima o poi dovrebbe superare la Delta in termini di prevalenza, secondo le stime, determina “fra un terzo e metà di ricoveri in meno rispetto alla Delta – ragionano al ministero della Salute – però una crescita così rapida dei contagi non lascia tranquilli”. E la Delta non è ancora scomparsa.

Anche sulla scuola il governo fa sapere di non voler cedere: finite le vacanze tutti in classe, tra il 7 e il 10 gennaio, secondo calendari variabili su scala locale. Draghi sarà l’ultimo a mollare. Le Regioni studiano una nuova proposta, un’ipotesi è quella di tre o quattro positivi in una classe prima di mandare tutti a casa con la Didattica a distanza (Dad). Sembra invece terminato il dibattito sulla Dad per i soli bambini e ragazzi non vaccinati, impossibile in assenza di obbligo vaccinale come ricordato nei giorni scorsi dai dirigenti scolastici e ieri anche dall’ex ministra M5S dell’Istruzione, Lucia Azzolina. C’è una battaglia sulle mascherine Ffp2 nelle scuole, ora previste solo in alcuni casi.

Gli uffici del generale Francesco Paolo Figliuolo hanno annunciato ieri l’accordo con le farmacie per la vendita delle Ffp2 al prezzo calmierato di 75 centesimi di euro. Sono infatti obbligatorie per i mezzi pubblici, i cinema, i teatri e altri locali, nonché (per dieci giorni) per i contatti stretti di positivi ritenuti meno a rischio perché vaccinati con il booster o anche con due sole dosi o guariti da meno da 120 giorni, che non fanno più la quarantena ma l’autosorveglianza (per 5 giorni). Il prezzo è troppo alto secondo Stefano Fassina, deputato eletto con LeU. Del resto, i supermercati Coop le vendono da tre giorni a 0,50 euro e in diverse farmacie romane basta comprarne qualche decina per scendere a 40 centesimi e perfino a 30 o 20 l’una.

Fallimento totale

Qualunque cosa decida domani con l’ennesimo pacchetto di misure anti-Covid (il quinto in un mese), il governo Draghi ha fallito una delle sue due missioni (l’altra era il completamento del Pnrr). E non perché la quarta ondata Delta-Omicron sia colpa sua (era inevitabile come le precedenti, anche se si è pensato di bloccarla alle frontiere coi tamponi ai turisti). Ma per gli errori e le omissioni commessi prima e dopo la sua esplosione.

1. Della terza dose si sapeva da maggio, ma siamo partiti a novembre: intanto Figliuolo chiudeva un hub vaccinale su tre.

2. La copertura dei vaccini scemava (da 12 a 9 a 6 a 4 mesi), ma premier e commissario puntavano solo su quelli, garantendo “ambienti sicuri” e “immunità di gregge”, salvo scoprire (buoni ultimi) che ci salvano solo dalle forme gravi e mortali, non dai contagi.

3. Nulla s’è fatto per la ventilazione degli ambienti chiusi, le distanze nelle scuole (“un metro là ove possibile”, sennò finestre aperte e preghiere), su bus, metro e treni regionali (capienza al 100% senza nuovi mezzi), grazie all’inettitudine di Bianchi, Giovannini e Gelmini (rapporti regionali).

4. Quell’altro genio di Brunetta ha smantellato lo smart working nella Pa, prima arma usata in tutto il resto dell’Ue e raccomandata a novembre dall’Ecdc.

5. Mentre il Green Pass diventava super, mega, maxi e rafforzato, nessuno pensava a revocarlo ai positivi, lasciandoli liberi di contagiare con tanto di carta verde. Ora càpita pure che venga tolto dopo il primo test negativo: cioè quando non si può più infettare.

6. La caccia ai No Vax (molti meno che negli altri grandi Paesi Ue) con argomenti fallaci ne ha convertiti pochissimi, ma ha illuso noi Vax di esser immuni. E l’ossessione per i bimbi (che rischiano poco o nulla) oscura i tanti over 80 (uno su 5), i più esposti a rischi mortali, ancora senza terza dose.

7. Figliuolo, presunto esperto di logistica e approvvigionamenti, non ha calmierato i prezzi di Ffp2, tamponi molecolari e antigenici (fra i più cari in Ue), non ha garantito tende di testing nelle strade per evitare le ore di code al freddo, né ha procurato i reagenti, che scarseggiano come i vaccini.

8. Anziché inseguire ancora i No Vax con obbligo vaccinale o Super Gp per lavorare o lockdown selettivi, rischiando di paralizzare i servizi pubblici e il sistema produttivo, il governo faccia subito qualcosa per ridurre le occasioni di contagio, partendo dallo smart working. E garantisca la terza dose ai 18 milioni di bivaccinati in attesa del booster perché hub e farmacie non ce la fanno. Figliuolo aveva promesso 700 mila dosi al giorno: siamo a 400 mila. Dinanzi a un simile disastro, si stenta a credere che Draghi voglia andarsene al Quirinale. Però si capisce benissimo il perché.

“Rifamolo strano”: i sequel sono un genere fantozziano

Questione di marketing, emorragia di idee, tentennante coraggio. Pensiero debole, sceneggiatori e produttori dal respiro corto. Concorrenza delle piattaforme e incertezza dell’orizzonte. Contro il logorio del tempo moderno, l’ancoraggio più solido nel pianeta audiovisivo vecchio e nuovo resta la nostalgia. Una ritirata di massa nel porto delle emozioni, facce, battute e ambientazioni tranquillizzanti perché arcinote.

La tendenza pare irreversibile, nonché accentuata da due anni di pandemia. Al cinema e nelle serie tv proliferano così i remake, i reboot, i sequel, i franchising. Le formule vincenti del passato, magari tali una sola volta, vengono spremute come limoni esausti. Sezionate, rimpastate, centrifugate. Che il cast e lo sviluppo dell’intreccio siano poi i medesimi dell’alchemico prototipo, la sostanza non cambia. Basta un poco, di pubblico, e il revivalismo va su.

La retromania è un ansiolitico e semina un po’ di profitti. Gli esempi sono sterminati. Partiamo dagli ultimi arrivati sul grande schermo. C’era davvero bisogno del nono Fast and Furious, del bis di Ghostbusters (Legacy, regia di Jason Reitman) 37 anni dopo il capostipite, del ritorno di un blockbuster anni 90 come Mamma ho perso l’aereo, versione 2021, titolo stavolta Home sweet home alone? Intanto si annunciano con squilli convenzionali di tromba le riedizioni di Scream (il 13 gennaio), quinto capitolo del feuilleton horror sempre anni 90, e del post-fantascientifico Matrix – Resurrections, il quarto in assoluto. Diretto, segno spendibile di continuità, da Lana Wachowski, rivedremo Keanu Reeves e Carrie-Anne Moss.

E quest’anno riaffioreranno anche Mission: Impossible, il longseller spionistico con Tom Cruise, e molto probabilmente quella Musa dei box-office di Avatar (2). Non solo: dovrebbero seguire a stretto giro un Avatar 3 nel 2023, un Avatar 4 nel 2024 e un Avatar 5 nel 2025. “Sarà un’impresa epica”, ha sentenziato il regista James Cameron. A meno che non vada a finire come con gli infiniti Batman, Rocky e Rambo con Sylvester Stallone (il terminale Rambo, last blood del 2019 ha fatto incetta di pollici verso), i cinque Die Hard con Bruce Willis, i tre Ritorno al futuro, i cinque Jurassic Park, la saga di Star Wars, formata da nove film (in tre trilogie) e sei spin-off. Oppure i dieci Fantozzi (l’ultimo fu il resistibile Fantozzi 2000, la clonazione) e i rifacimenti de L’allenatore nel pallone ed Eccezzziunale veramente vent’anni e rotti dopo.

A lungo andare la minestra riscaldata stufa, e non c’è Paolo Villaggio, Lino Banfi o Diego Abatantuono che tenga. L’implosione del gradimento e dei tagliandi d’ingresso, la parabola calante è dietro l’angolo. Ed è meglio non scherzare col fuoco del mito. Poco prima dell’inizio del terzo millennio, è uscito Blues Brothers 2000: senza John Belushi e con un plot stiracchiato, il paragone con l’originale è stato impietoso. Si è salvata giusto la colonna sonora. Stesso amaro destino andato in sorte a Trainspotting 2, anno di relativa (dis)grazia il 2017; al terzo Blair Witch (Project) nel 2016 e al disneyano Il ritorno di Mary Poppins nel 2018. Ben poco supercalifragilistichespiralidoso. E che dire di Swept Away di Guy Ritchie, che nel 2002 ha osato ricalcare un totem come Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto di Lina Wertmüller? Madonna al posto di Mariangela Melato e il pur bravo Adriano Giannini invece del padre Giancarlo: può bastare. Volete un altro pugno nello stomaco della memoria? Gus van Sant, un cineasta generalmente talentuoso e avveduto, nel 1998 si è coperto di hybris firmando un suo personale ed esecrabile Psycho: Alfred Hitchcock deve essersi acceso un sigaro di imperturbabile stizza nella tomba. Doppia nomination alla rovescia per Nicolas Cage: per City of Angels (La città degli angeli), remake improvvido del 1998 di un capolavoro del rango de Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders, e soprattutto per avere interpretato nel 2006 Il prescelto, da un buon thriller del 1973. La pellicola è ascesa nell’olimpo delle più rovinose e informi di ogni epoca, alimentando fiumi di parodie.

L’avvenire della settima arte, predica la vulgata, è nelle serie televisive. Ma allora perché anche qui ci si guarda ossessivamente alle spalle? Da pochi giorni ha colonizzato le tv il sequel del culto di 20 anni orsono Sex and the city. Amatissimo da un pubblico non esclusivamente femminile, Mr. Big si è appesantito, ma tranne Samantha (Kim Cattrall) le nostre altre amiche newyorkesi ci (ri)sono in blocco, in testa Carrie-Sarah Jessica Parker. Con un sovrappiù di inclusione e diversità. E poi il reboot di Gossip Girl e la serializzazione senza soluzione di continuità de La casa di carta. E gli eterni anni 80: quelli soap di Dinasty (ricominciato nel 2017), spy di MacGyver (si è appena conclusa la quinta e ultima stagione), polizieschi di Magnum P.I. (rentrée nel 2018, senza Tom Selleck). “Coraggio, il meglio è passato”, diceva Ennio Flaiano.

Evviva, le Terme di Caracalla non saranno mai un fast food

Mario Draghi non ha i lunghi capelli biondi di Janie Orlean (Meryl Streep), la mostruosa presidente americana dello strepitoso Don’t Look Up, il film che racconta, attraverso un apologo fin troppo realistico, la nostra umanità lanciata irreffrenabilmente verso il suicidio collettivo, tra pandemia e disastro climatico. Ma le differenze finiscono lì: quel film parla (anche) di questa Italia, dominata da una classe dirigente anziana quanto avida, capace di tradurre in colate di cemento e in fiumi di profitto privato anche un Piano di resilienza e ripartenza scaturito da una catastrofe ambientale, sanitaria e politica. Una classe dirigente che non vede il futuro prossimo di tutti, ma solo l’interesse immediato di pochissimi. E che dunque continua a banchettare sulla nave che ormai sta affondando. Ma se in Don’t Look Up gli eroi positivi (che pure falliscono) sono vistosi scienziati eccentrici, quelli che fra noi provano a fermare la macchina hanno un profilo assai più normale. Donne e uomini che continuano a fare il loro dovere, provando, malgrado tutto, ad applicare le leggi scritte nell’interesse generale. E che, incredibilmente, riescono ancora a vincere qualche partita.

È proprio quel che è successo il 21 dicembre scorso, quando una sentenza del Consiglio di Stato (la 8641 della sesta sezione) ha messo la parola fine a una vicenda che i lettori del Fatto ricorderanno. Una vicenda piccola, certo, rispetto alla grande questione della sopravvivenza del pianeta: ma che svela esattamente la stessa mentalità che – nella realtà come in Don’t Look Up – impedisce di tirare il freno a mano, e cioè la convinzione (ideologica, anzi religiosa) che a salvarci sia sempre e solo il mercato.

Nel 2019 Mc Donald’s provò ad aprire uno dei suoi fast food alle Terme di Caracalla: uno dei santuari di un paesaggio senza tempo in cui storia e natura si abbracciano ancora. Come se davvero non ci fosse un freno alla “crescita” capace di divorare simultaneamente passato e presente. L’allora presidente del I Municipio, Sabrina Alfonsi, ribadì pubblicamente il suo atto di fede nel credo ultra-liberista del suo partito (il Pd…): “Siamo nel libero mercato – disse – un Mc Donald’s vale come un qualsiasi altro ristorante”. Interpretava perfettamente lo spirito dei tempi, e chi poteva (e doveva) dire di no, disse invece di sì: la Soprintendenza si sdraiò e disse che nessun vincolo impediva quello scempio. Ma, proprio nel suo ultimo giorno prima della pensione, l’allora direttore generale dell’Archeologia, belle arti e paesaggio Gino Famiglietti avocò a sé il provvedimento, e ritirò l’autorizzazione, perché qualunque intervento in quell’area delicatissima avrebbe dovuto essere sottoposto a una autorizzazione paesaggistica. Le norme, le regole così odiate da sindaci e ministri: quelle che il Pnrr dei Migliori ora travolge con procedure semplificate e soprintendenze speciali. Apriti cielo: Famiglietti fu definito signornò, fuori dal tempo, statalista, nemico dei privati e del mercato… Seguì l’immancabile stagione di ricorsi e appelli, attraverso i quali Mc Donald’s ha provato ad averla vinta.

Ora, finalmente, la sentenza del Consiglio di Stato mette la parola fine: affermando solennemente che Famiglietti aveva ragione, perché la legge impediva di far lì quel fast food; e che il direttore aveva fatto benissimo a fermare il sì di una Soprintendenza ormai piegata alle ragioni del mercato. I magistrati di Palazzo Spada hanno affermato che bisogna sempre tener conto “del particolare atteggiarsi dell’interesse pubblico in materia di tutela del territorio e dei valori che su di esso insistono, che possono indubbiamente essere prevalenti, se spiegati, rispetto a quelli contrapposti dei privati”. Un passaggio che conferma la costante giurisprudenza del sommo organo della nostra giustizia amministrativa, che in una sentenza del 2014 aveva, per esempio, stabilito che il “‘paesaggio’… non va però limitato al significato meramente estetico di ‘bellezza naturale’ ma deve essere considerato come bene ‘primario’ ed ‘assoluto’, in quanto abbraccia l’insieme ‘dei valori inerenti il territorio’ concernenti l’ambiente, l’eco-sistema ed i beni culturali che devono essere tutelati nel loro complesso, e non solamente nei singoli elementi che la compongono. Il paesaggio rappresenta un interesse prevalente rispetto a qualunque altro interesse, pubblico o privato, e deve essere anteposto alle esigenze urbanistico-edilizie”.

La morale è molto chiara: vale la pena di lottare, con tutti i mezzi della nostra legislazione, per opporsi a chi continua a sacrificare i beni comuni sull’altare del mercato. Il Ministero della Cultura non ha sentito il dovere di fare nemmeno mezza riga di comunicato stampa sulla sentenza per Caracalla: come al solito la differenza la fanno i singoli che rimangono fedeli. Che si tratti delle Terme di Caracalla, o della salvezza del pianeta.

Iran. Il petrolio in cambio di tè: così si aggira l’embargo Usa

Il baratto aiuta l’Iran ad aggirare l’embargo internazionale, inasprito dopo la decisione iraniana di continuare ad arricchire l’uranio nelle sue centrali nucleari in violazione dell’accordo raggiunto nel 2015 con le Potenze Occidentali.

L’Iran ha deciso di accettare il tè di Ceylon come pagamento di un debito petrolifero dello Sri Lanka del valore di 251 milioni di dollari, raccontano i media iraniani. “Nei recenti negoziati, abbiamo raggiunto un accordo scritto per rimborso del debito e degli interessi dell’Iran sotto forma di una spedizione mensile di tè prodotto in Sri Lanka”, ha annunciato il capo dell’Organizzazione per la promozione del commercio iraniana. Alireza Peyman-Pak ha spiegato sulla stampa che “è stato raggiunto un accordo, secondo il quale lo Sri Lanka esporterà tè in Iran ogni mese per saldare un debito di 251 milioni di dollari per il petrolio iraniano fornito allo Sri Lanka nove anni fa”. Nel 2016, il tè di Ceylon rappresentava quasi la metà del consumo iraniano, ma la percentuale è poi diminuita negli ultimi anni.

L’accordo di baratto consentirà all’Iran di non dover utilizzare la scarsa valuta pregiata di cui dispone, per pagare le importazioni del prodotto di base ampiamente consumato e potrebbe aprire la strada ad accordi simili con altri Stati debitori per le forniture petrolifere ricevute in passato. “Iran e Sri Lanka hanno un grande potenziale per sviluppare il commercio reciproco”, ha detto il capo del commercio iraniano, aggiungendo che le esportazioni non petrolifere dell’Iran nel Paese asiatico sono valutate meno di 100 milioni di dollari l’anno. Il ministro delle industrie delle piantagioni dello Sri Lanka, Ramesh Pathirana, ha tenuto a spiegare che l’accordo “non violerà alcuna sanzione delle Nazioni Unite o degli Stati Uniti poiché il tè è stato classificato come alimento per motivi umanitari”, secondo il sito web di Economynext.

Inoltre le banche iraniane che sono state inserite nella lista nera in base alle sanzioni statunitensi contro Teheran non saranno coinvolte nella “Operazione Cylon”.

 

Modi, il carbone a tutti i costi: tanto la salute non porta soldi

Lungo la strada che porta fuori dalla città di Raigarh, si incrociano più camion che persone. Con le loro ruote sollevano tanta di quella polvere e di quella cenere da ricoprire completamente la terra e gli alberi. Si vedono solo le immense sagome delle ciminiere, delle fabbriche e delle centrali elettriche. Sugli alti portali, i nomi dei grandi gruppi indiani del settore minerario: Adani Power, Jindal Steel and Power… La strada porta fino a Gare Palma, una delle più grandi miniere a cielo aperto dell’India, che si trova nello Stato di Chhattisgarh, dove vive solo il 2% della popolazione del paese, ma è presente il 14% della riserva di carbone. Poiché i tre quarti dell’elettricità dell’India è prodotta dal carbone, i terreni del Chhattisgarh sono particolarmente ambiti. A farne le spese sono gli abitanti. A due chilometri dalla gigantesca miniera, si trova il villaggio tribale di Sarasmal, con le sue case di terracotta. “Mia madre ha problemi di stomaco, mio fratello maggiore di pelle. Diverse persone soffrono di tosse cronica – racconta Shivpal Bhagat, 33 anni, il capo villaggio -. È ingiusto perché i minatori hanno un’assicurazione sanitaria, mentre noi contadini non abbiamo nessuna copertura”. In causa, l’aria satura di ceneri e le acque inquinate dall’industria del carbone.

Secondo il ministero dell’Ambiente, il 20% delle persone nella regione soffre di problemi polmonari, contro il 2% nel resto dell’India. A Sarasmal è anche peggio. Uno studio del 2017 ha concluso che l’87% degli abitanti del villaggio è malato a causa dall’inquinamento. “Ho sempre più pazienti – osserva il dottor Haria Patel, 73 anni, che pratica la medicina ayurvedica e si batte da anni per i diritti delle popolazioni tribali locali -. Il problema è che la gente del posto è poco istruita e si fa facilmente imbrogliare. Gli industriali comprano la loro terra per una miseria, falsificano le autorizzazioni e poi sfruttano la terra a dispetto di tutte le leggi sull’ambiente”. Diversi testi come il “Forest Right Act” proteggono infatti le terre delle popolazioni tribali. Ma nel Chhattisgarh, e soprattutto nella regione di Raigarh, violare le leggi è diventato una regola. È così nella foresta di Hasdeo, dove dormirebbero cinque miliardi di tonnellate di carbone. A ottobre, centinaia di abitanti del posto hanno marciato verso Raipur, la capitale del Chhattisgarh, per protestare contro un progetto minerario del gruppo Adani, le cui autorizzazioni sarebbero state falsificate. Chi si oppone agli industriali riesce purtroppo raramente a farsi sentire. Spesso viene minacciato. “A causa delle scosse causate dalle esplosioni nelle miniere, nella mia casa sono comparse delle crepe e il pozzo sta crollando – spiega Anand Patnaik, 55 anni – . Sono andato a manifestare a Raigarh per chiedere un risarcimento, ma alcuni giorni dopo qualcuno mi ha tagliato la strada mentre guidavo. La cintura di sicurezza mi ha salvato”. Gli abitanti delle regioni minerarie dell’India subiscono regolarmente le pressioni delle mafia locali. Inoltre, da quando è salito al potere, il primo ministro Narendra Modi ha deciso di “liberare il carbone”, cioè di mettere all’asta le risorse fossili del Paese. “Nuove aziende stanno setacciando la regione e l’attività è destinata ad aumentare – osserva Shivpal Bhagat a Sarasmal, preoccupato -. Fino al 2014, la Costituzione vietava l’acquisto delle miniere, anche se in pratica la Coal India Limited, l’azienda statale, spesso delegava le proprie attività estrattive al settore privato – spiega Lydia Powell, esperta di energia alla Observer Research Foundation.

Una volta al potere, Narendra Modi ha fatto modificare la legge e messo in vendita 72 “blocchi” di miniere di carbone”. Le vendite si sono accelerate durante il lockdown per l’epidemia di Covid-19, mentre il principio di precauzione è stato più o meno cancellato dal codice dell’ambiente. Le privatizzazioni portate avanti in nome dell’indipendenza energetica del Paese hanno conseguenze disastrose per l’ambiente. “Gli industriali cercano innanzi tutto il profitto, se ne infischiano delle norme ecologiche e sociali e il governo fa finta di non vedere – sottolinea Lydia Powell – . Le prime vittime sono i lavoratori delle miniere e gli abitanti del posto che vedono la loro salute degradarsi, mentre l’ambiente viene distrutto”. Le conseguenze non sono solo locali. “Il carbone indiano, in cui viene mescolato il 40% di ceneri, è generalmente di scarsa qualità – spiega Sudhir Paliwal, ingegnere e membro della South Asian People’s Action on Climate Crisis – . Se il carbone non viene lavato prima della combustione e filtrato all’uscita delle ciminiere, genera molta più CO2 e zolfo, con un aggravamento dell’effetto serra”. Queste precauzioni, dal momento che sono onerose, vengono spesso trascurate. Sudhir Paliwal conosce bene la situazione poiché vive nell’India centrale, non lontano da Chandrapur. In questa “città dell’oro nero”, dove si trova una gigantesca centrale termica, inaugurata nel 1984 con un tecnologia ormai obsoleta, i livelli di inquinamento superano quelli di Nuova Delhi. “In teoria la centrale possiede dei precipitatori elettrostatici per intrappolare le ceneri, ma non sono efficaci”, osserva l’attivista. Terzo più grande emettitore di CO2 al mondo, l’India sottolinea spesso di essere uno dei paesi meno inquinanti al mondo per numero di abitanti, con 1,8 tonnellate emesse all’anno contro le 7,4 tonnellate del rivale cinese. Il paese, quinto produttore di energia solare al mondo, punta tra l’altro a raggiungere una capacità di energia rinnovabile di 500 gw entro il 2030, un obiettivo che è stato rivisto al rialzo. Ma Nuova Delhi rifiuta di rinunciare al carbone. Nel testo finale della recente Cop26 di Glasgow, la delegazione indiana ha voluto sostituire il termine “phase out” (“uscita”) dal carbone per la produzione energetica con il termine “phase down” (“riduzione”). “I paesi in via di sviluppo hanno diritto a un uso responsabile dei combustibili fossili”, aveva spiegato a Glasgow il ministro dell’Ambiente Bhupender Yadav. “Il carbone è destinato a durare, ma la questione è sapere a quali condizioni – osserva Sudhir Paliwal – . Bisogna chiudere le vecchie centrali inquinanti e attrezzare le nuove con delle moderne tecnologie per il filtraggio”. La posizione è condivisa da Lydia Powell: “Una regolamentazione industriale consentirebbe almeno di limitare le emissioni di gas serra”. Ma l’India non sembra intenzionata a introdurre una regolamentazione per proteggere l’ambiente e il clima. “La maggior parte delle centrali termiche esistenti o in costruzione non dispone di alcun dispositivo di desolforazione”, spiega Sunil Dahiya, analista per il Center for Research on Energy and Clean Air. Allo stesso tempo, l’India si è fissata l’obiettivo di estrarre 1,5 miliardi di tonnellate di carbone all’anno, il 50% in più rispetto al 2019. Oltre ad avvelenare l’aria e gli abitanti, la politica del carbone a tutti i costi potrebbe rivelarsi una impasse anche per l’economia. Secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia, il fotovoltaico indiano è ormai il 75% circa meno caro del carbone. Inoltre, le vendite all’asta del governo Modi non stanno riscuotendo il successo sperato. Su 72 miniere, solo 31 hanno finora trovato un acquirente e a basso costo. “In realtà, la domanda sta diminuendo e la maggior parte delle centrali termiche funziona a basso regime – osserva Lydia Powell- . Il problema è che il governo e le banche pubbliche hanno prestato molti soldi all’industria del carbone e stanno ottenendo solo una piccola parte degli introiti sperati dal rilancio del settore”. Una boccata d’aria fresca per gli abitanti di Raigarh e di Chandrapur? (Traduzione di Luana De Micco)

Limiti ai contanti. Il tetto è sceso a 1000 euro. Slittate le sanzioni per chi non accetta le carte

Da sabato sono tornate a stringersi le maglie sull’uso del contante in Italia: il tetto è sceso da 1.999,99 euro agli attuali 999,99 euro. La nuova soglia viene applicata per qualsiasi passaggio di denaro tra persone fisiche o giuridiche. Questo significa che non solo l’acquisto di un bene o la prestazione di un professionista, ma anche una donazione o un prestito a un figlio per una cifra di almeno 1.000 euro dovrà essere giustificato ed effettuato con un tipo di pagamento tracciabile, come carte di credito, bancomat, bonifici, conti correnti o assegni. I nuovi paletti per i pagamenti cash sono stati previsti dal decreto fiscale collegato alla manovra 2020, approvato dal governo Conte 2, che ha previsto due tappe. La prima è scattata il primo luglio 2020 e ha previsto fino a fine 2021 una riduzione della soglia del contante da 3.000 a 2.000 euro. Mentre la seconda, che è partita il primo gennaio, ha ulteriormente abbassato il tetto a mille euro.

Con quest’ultima, sono nove le volte che negli ultimi 20 anni è stato modificato il tetto dei contanti, la quinta volta negli ultimi 10 anni. Ora siamo tornati al livello fissato nel 2011 dal decreto Salva Italia del governo Monti e poi cambiato nel 2016. Fu, infatti, l’ex premier Matteo Renzi a varare una riforma sull’utilizzo del contante portandolo da 1.000 a 3.000 euro. Un innalzamento che, ha scritto la Banca d’Italia in un report pubblicato a novembre, “ha avuto l’effetto collaterale di allargare il sommerso” e ha “spostato verso l’alto” la sua percentuale “dello 0,5% circa”, che è in media al 18,9% del cosiddetto “valore aggiunto non dichiarato dalle imprese”. Ma la decisione di Renzi altro non è stata che la riedizione di quanto era stato fatto in precedenza dal secondo e dal quarto governo Berlusconi, nel 2002 e nel 2008, quando la soglia era stata portata in entrambi i casi a 12.500 euro.

E così, proprio per arginare il sommerso, il governo Conte 2 – oltre alla fatturazione elettronica e al cashback (cassato dal governo Draghi) – aveva imposto di abbassare la soglia del tetto del contante nonostante la contrarietà di Forza Italia, Fratelli d’Italia e renziani. Sul fronte delle sanzioni, chi non rispetta il nuovo tetto può incorrere in una sanzione da 3 mila a 50 mila euro. L’ammontare è quintuplicato nel caso in cui vengano movimentati in contanti oltre 250 mila euro.

La stretta sul cash non riguarda invece le misure contro gli esercenti che continuano a rifiutare i pagamenti con carte di credito e bancomat tramite il Pos. Nonostante la legge preveda dal 2014 l’obbligo per esercenti e professionisti di accettare i pagamenti a mezzo carta di credito o bancomat, non ci sono ancora le multe. A rimandare alle calende greche l’applicazione delle sanzioni, fino a 30 euro, era stato prima il Consiglio di Stato e poi la politica. Ora, per effetto di un emendamento di Stefano Fassina (Leu) e Rebecca Frassini (Lega) al decreto Recovery, si prevede che le sanzioni scattino dal 2023. Chi non accetterà i pagamenti elettronici pagherà 30 euro più il 4% del valore della transazione. Forse.

 

Troppa inflazione? Reprimerla potrebbe essere anche peggio

L’inflazione venne definita la peggiore delle imposte da Luigi Einaudi. A questa definizione del 1945 si fa spesso riferimento quando si deve spiegare come l’aumento dei prezzi al consumo impatta sulla vita e le tasche dei cittadini. In effetti per chi percepisce un reddito fisso, non così elevato, l’aumento dei prezzi dei beni che consuma normalmente determina un peggioramento del proprio potere di acquisto: a parità di reddito potrà consumare di meno. Se la nostra analisi si fermasse a questo punto, come spesso si sente fare, non potremmo far altro che concordare con il fatto che qualsiasi tipo di rialzo dei prezzi sia dannoso per cittadini. Ma se andiamo un po’ più a fondo cercando di capire l’origine del rialzo dei prezzi potremmo anche ragionare su come le misure destinate a contrastarlo possano migliorare o peggiorare la posizione dei comuni cittadini.

Le contromisure da prendere sono infatti differenti a seconda che l’inflazione dipenda dal solo aumento delle materie prime, oppure da una spirale tra salari e prezzi, oppure dalla saturazione della capacità produttiva con la crescita dei consumi che non riesce ad esser soddisfatta da quello che il sistema economico riesce a produrre. Abbiamo visto che l’inflazione negli Usa ha quasi raggiunto il 7%. In Europa è arrivata quasi al 5. Si dibatte sul fatto di interpretare questo rialzo dei prezzi come transitorio, quindi destinato ad esaurirsi in maniera autonoma una volta conclusa la fase pandemica, oppure permanente, quindi che necessiti di una vigorosa restrizione monetaria anche se l’economia non è ancora ritornata al suo potenziale. È importante per capire le future scelte di politica monetaria e gli effetti sulla crescita e sull’occupazione. Se ci trovassimo in una situazione simile agli anni Settanta, con prezzi in crescita oltre le due cifre, stagnazione economica e perdita di posti di lavoro, una stretta monetaria potrebbe forse essere l’unica soluzione. Ma siamo davvero in questa situazione?

Lo spettro della stagflazione ritorna ogni volta che l’inflazione rialza la testa, ma fu un fenomeno abbastanza particolare, un paragone difficile rispetto alla situazione attuale. L’inflazione di oggi è sì sostenuta dal rialzo generalizzato dei prezzi delle materie prime, come negli anni Settanta, ma è anche accompagnata alla crescita economica, al recupero dei posti di lavoro persi con la pandemia, all’aumento dei profitti e degli investimenti delle imprese. Se le banche centrali volessero riportare immediatamente sotto controllo la crescita dei prezzi, riportarla cioè intorno al 2%, dovrebbero solo scegliere quanto danno infliggere all’economia. La domanda da porsi per capire le scelte di prudenza compiute da Fed e Bce in questi mesi è se ha senso soffocare la ripresa economica, la ripresa degli investimenti e dei posti di lavoro, per avere il 2% di inflazione piuttosto che il 5 o il 7. È chiaro che una decisione piuttosto che un’altra avvantaggia alcuni gruppi sociali rispetto ad altri: l’inflazione alla fine è il risultato di un conflitto tra gruppi di interesse (creditori verso debitori, imprese verso subordinati, produttori verso consumatori) e risolvere questa contrapposizione a favore di una parte piuttosto che dell’altra è anche una scelta politica, affidata nel caso delle principali economie moderne ad un organo, la banca centrale, che nella forma dovrebbe essere indipendente.

Si potrebbe anche discutere all’infinito su quanto sia giusto ritenere che la crescita del 2% dei prezzi sia appropriata a risolvere questo conflitto senza incidere sulla capacità di crescita e di creazione di posti di lavoro. Da tempo esiste un dibattito in accademia intorno al fatto che il 2% possa essere un target troppo basso, che non tiene sufficientemente al riparo dalla deflazione. Ma quello che preme ricordare, soprattutto in momenti di incertezza, è che il controllo della crescita dei prezzi non può non avvenire attraverso il controllo della crescita economica e dei posti di lavoro. Questo non significa che non si possa far nulla per mitigare gli effetti di un rialzo dei prezzi, soprattutto se non è generalizzato e legato a fenomeni transitori. Come nel caso dei recenti rialzi dei prezzi dell’energia, la scelta di intervenire o meno per mitigarne gli effetti su alcune categorie di persone o imprese, è una scelta politica per trasferire attraverso la fiscalità generale il costo di questi rialzi. Ma in questi momenti, se l’inflazione è la peggiore delle imposte, cercare di ridurla quando la crescita è solo abbozzata, quando ancora non si son recuperati i posti di lavoro persi con la pandemia, quando le imprese stanno faticosamente ritornando ai livelli di attività precedenti alla pandemia, potrebbe essere un’imposta ancora peggiore da pagare.

Contro Big Pharma Strasburgo progetta la ricerca targata Ue

Nell’anno della grande corsa ai vaccini contro la pandemia, l’industria farmaceutica dell’Unione Europea – nonostante abbia ottenuto contributi pubblici per miliardi – si scopre fragile. Il suo tallone d’Achille pare essere proprio la ricerca e sviluppo di nuove medicine: in questa gara, i produttori farmaceutici del Vecchio Continente stanno perdendo contro gli Stati Uniti. Al di là dell’emergenza Covid, che ha visto una quantità senza precedenti di denaro versata dai governi alle imprese, nel lungo termine l’Europa rischia così di essere sconfitta in un settore strategico. Ecco perché, secondo una ricerca del think tank del Parlamento europeo, ha senso mettere in campo nuove misure di sostegno pubblico.

La più ambiziosa di queste potrebbe essere un’infrastruttura di ricerca e sviluppo comunitaria che progetti nuovi farmaci e tecnologie biomediche. Se ben finanziata, questa agenzia “potrebbe diventare il più importante attore globale nell’innovazione biomedica” e creare grandi ricadute economiche e occupazionali, sostengono gli autori dello studio.

L’analisi è stata condotta da un team composto, tra gli altri, da numerosi italiani. La ricerca di base e preclinica farmaceutica è finanziata da fonti pubbliche in molte forme e la mano pubblica è spesso determinante. A livello globale, nel 2016, 55 importanti finanziatori pubblici e filantropici della ricerca sanitaria hanno speso in un anno 93 miliardi di dollari, di cui 26,1 dagli Stati Uniti, seguiti dalla Ue (3,7). Secondo l’Ocse, la spesa in R&S farmaceutica è cresciuta del 14% in termini reali tra il 2010 e il 2016, arrivando a 20,1 miliardi di dollari nei Paesi Ue i cui governi ne hanno stanziati 11,3. D’altronde i costi di sviluppo di nuovi farmaci sono aumentati negli anni. Nel 1994 il costo medio era di 802 milioni, nel 2009 ammontava a 1 miliardo, nel 2018 era arrivato a 1,3. Big Pharma ha i margini di profitto più elevati in uno dei settori più redditizi dell’intera economia, con una redditività doppia rispetto a quella media delle 500 maggiori aziende mondiali. Nel 2019, i ricavi farmaceutici globali sono stati pari a 1.250 miliardi di dollari, con il Vecchio Continente al secondo posto, con il 22,9% delle vendite, dopo il 48,7% del Nord America. Le vendite Ue valevano 213 miliardi di euro, concentrate per il 60% in Germania, Francia, Italia, Regno Unito e Spagna.

Il settore nella Ue è caratterizzato da un numero relativamente piccolo di imprese, circa 4.700, con 652mila addetti e un valore aggiunto di 119,2 miliardi. A far la parte del leone è la Germania (23% del giro d’affari), davanti a Francia (14%) e Italia (11%). Nel 2017, il fatturato del settore Ue è stato pari a 284 miliardi, in aumento del 24% dal 2011. Il comparto in Europa ha il rapporto più elevato tra investimenti in R&S e vendite nette (16%), superiore di oltre un terzo rispetto al software e informatica che, con il 12%, è in seconda posizione. Secondo stime basate su dati Eurostat, nel 2019 l’industria farmaceutica nella Ue ha investito 37,5 miliardi in R&S, in crescita del 25% rispetto al 2010. Nonostante questo impulso, le aziende farmaceutiche europee perdono costantemente investimenti in ricerca e sviluppo che vanno negli Stati Uniti. Nel 1990, la spesa totale per R&S farmaceutica Usa era leggermente inferiore a quella europea, ma dieci anni dopo gli States avevano superato il Vecchio Continente. Inoltre, l’industria europea sta affrontando la crescente concorrenza delle economie emergenti, in particolare di Brasile e Cina. Nel 2016, l’industria farmaceutica cinese ha speso 14 miliardi di dollari in ricerca e sviluppo, più del doppio rispetto al 2010.E ancora: nell’ultimo decennio la grande esternalizzazione della catena di approvvigionamento dei farmaci in Europa ha creato una situazione in cui l’industria farmaceutica continentale è sempre più dipendente dalla fornitura dall’Asia. Nel 2019 l’Europa ha importato principi attivi farmaceutici per 11,1 miliardi e ne ha esportati per 7,4, con un deficit di 3,7 miliardi che si è approfondito in particolare verso i mercati del Far East.

Emergono così alcune determinanti del mercato farmaceutico e dei suoi fallimenti. La prima è la disconnessione tra le scelte aziendali di ricerca e sviluppo e le priorità di salute pubblica. Sebbene l’industria abbia avuto e abbia tuttora un brillante track record di innovazioni, ci sono prove che la produttività della sua R&S è diminuita, in termini di nuovi farmaci e del loro costo. C’è poi l’aggravarsi del disallineamento tra scienza aperta nel settore pubblico e tutela dei brevetti per la protezione degli investitori privati, che consente a questi ultimi di ottenere rendite finanziarie derivanti dai sussidi governativi in R&S. Questo si traduce in un mercato oligopolistico dal lato dell’offerta che crea problemi di accesso ai farmaci. Secondo la ricerca europea, questi fallimenti del mercato e delle politiche farmaceutiche suggeriscono di esplorare un approccio politico basato su un intervento pubblico più diretto, come è stato sperimentato con successo per la politica spaziale e altri settori.

C’è dunque spazio per immaginare la creazione di un’infrastruttura di ricerca e sviluppo paneuropea di medicinali, aperta a collaborazioni con centri di ricerca e aziende del settore, che benefici dei risultati dei progetti e gestisca i propri diritti di proprietà intellettuale esclusivamente nell’interesse pubblico. L’istituto pubblico europeo di ricerca e sviluppo di medicinali, vaccini e innovazioni biomediche avrebbe come missione la costruzione di un portafoglio di progetti innovativi sino al 2050 in aree terapeutiche non sufficientemente coperte dai privati o dove le aziende applicano prezzi esorbitanti o non garantiscono forniture. A seconda della dimensione dell’intervento, stimano i ricercatori, si andrebbe da un budget annuale minimo di 3,5 miliardi, pari a quello del programma di ricerca intramuros degli Nih, gli Istituti nazionali di sanità degli Usa, a uno più oneroso di circa 6,5 miliardi l’anno, pari a quello stanziato dalla Commissione Ue nel 2021 per l’Agenzia spaziale europea (Esa). A seconda degli stanziamenti, tra il 2023 e il 2050 si potrebbero realizzare dagli 80 ai 100 nuovi farmaci, nell’opzione meno costosa, o dai 130 ai 150 in quella più generosa.

Sin qui lo studio europeo. Resta da chiedersi se l’apertura a un progetto farmaceutico pubblico da parte delle istituzioni Ue, al di là del sostegno a un settore strategico, non rischi di trasformarsi ancora una volta nella socializzazione dei costi (nel caso di progetti di farmaci che non vadano a buon fine) e privatizzazione dei profitti, com’è già avvenuto nel caso dei vaccini contro il Covid.

Genoa, i giochetti di Preziosi tra fisco e maxiplusvalenze

Nell’affaire delle plusvalenze, spesso fittizie, che ha scosso il mondo del calcio con le inchieste sulla Juve e le perquisizioni all’Inter, c’è chi ha giocato più di altri la partita dei bilanci gonfiati dal calcio mercato. È il Genoa dell’ex Enrico Preziosi, il patron di Fingiochi e Giochi Preziosi che ha ceduto di recente la squadra al fondo Usa 777Partners. Il Grifone in rossoblu vanta un primato: quello del peso monstre delle plusvalenze sui ricavi.

Nel 2019 sono state iscritte a bilancio del Genoa plusvalenze per ben 79 milioni su un fatturato totale di 154. Un record con un peso di oltre il 50%. Ma anche negli anni precedenti le plusvalenze erano il “sale” nei conti dei rossoblu: 49 milioni su 121 di ricavi nel 2018, 30 su 93 nel 2017. Numeri ben sopra la media: per la Juve, sotto indagine, le plusvalenze pesavano mediamente per il 25% dei ricavi. Del resto con i bilanci spesso in perdita e con il capitale netto del tutto bruciato in più di un esercizio, il club genovese finiva così per usare i guadagni del calcio mercato per ripristinare il capitale eroso dalle perdite. Senza la girandola degli scambi (spesso incrociati, come dimostra il caso più eclatante quello di Rovella contro Petrelli e Portanova, scambiati tra Genoa e Juve per 18 milioni senza flussi di denaro tra le 2 squadre) il Genoa avrebbe dovuto in più di un’occasione ricapitalizzare la squadra pena l’esclusione dalle gare. Basti vedere i conti del 2018-19 con il patrimonio netto a fine anno negativo rispettivamente per 15 e 5 milioni, che imponeva la ricapitalizzazione, evitata grazie alle poderose plusvalenze.

Nel 2020 il Covid ha ridimensionato il bottino di plusvalenze chiuso con “soli” 11 milioni su 75 di ricavi e con una perdita secca di 33. Occorrevano misure straordinarie per evitare il crac. Così Preziosi ha messo in campo tutte le misure concesse dal Governo per l’emergenza pandemica. Il bilancio si è salvato (mancando le plusvalenze) con ben 50 milioni di rivalutazioni patrimoniali di beni e asset. Il Genoa ha rivalutato il marchio per ben 34,6 milioni e i diritti di archivio Rai per 3,7. Ma ancora non bastava. Ecco il colpo di genio: rivalutare il solo calciatore Rovella per 12,9 milioni prima della cessione incrociata con la Juve. Lo scambio per 18 milioni (solo sulla carta) con la Juve ha portato così a un impatto a conto economico (sempre sulla carta) per poco più di 5 milioni e per 12,9 a patrimonio, salvando così il capitale tornato “magicamente” positivo, nonostante il rosso di 33 milioni. Un capolavoro di ingegneria finanziaria che dice molto sull’uso delle plusvalenze per salvare i conti.

Negli anni di Preziosi, difficili sul piano economico, il Genoa è stato a lungo “moroso” nei confronti del Fisco. Basta ritardare o saltare il pagamento di tasse e contributi per avere risorse finanziarie aggiuntive. Di fatto Preziosi si è finanziato grazie allo Stato. Nel 2020 i debiti tributari del Genoa superavano i 60 milioni e si trascinano in questo ordine di grandezza da anni. Nel 2017-18 i debiti tributari erano a 60 milioni su un indebitamente totale di 250. Una quarantina circa sono rateizzati con l’Erario da anni, altri sono maturati di recente. Di fatto, pagando in ritardo e rateizzando, Preziosi si è assicurato un polmone finanziario che (oltre alle plusvalenze) ha tenuto in piedi i conti negli ultimi anni. Basti pensare che le pendenze con il Fisco del Genoa sono da sole un quinto dell’intero debito con l’Erario di tutta la serie A. Un’anomalia profonda sotto gli occhi di tutti (Federcalcio e Covisoc in primis) che dev’essere apparsa normale, ma non lo è. Pare uno dei tanti espedienti del calcio malato di perdite per evitare di affondare. Ora toccherà al nuovo padrone, il fondo 777 Partners, e al suo neo presidente, il medico Alberto Zangrillo, decidere se affrontare i debiti con lo Stato sanando o meno il pregresso.