Serie A, l’autogol sui diritti tivù: schiantate Mediaset, Sky e Tim

Come il mito del canto delle sirene, che attirano e divorano, i diritti tv del calcio sono davvero uno strano mostro. Un buco nero dove inesorabilmente finiscono per inabissarsi aziende che sembravano inaffondabili, uno scoglio su cui si schiantano manager rampanti sulla cresta dell’onda. La Tim che fu di Luigi Gubitosi, disarcionato dal flop del suo piano calcio, fin qui ha realizzato un clamoroso autogol. Non è la prima, forse non sarà l’ultima. L’accoppiata con Dazn, calcio e telecomunicazioni, sembrava perfetta nell’era digitale, e infatti la proposta ha sbaragliato la concorrenza un po’ desueta di Sky. L’intuizione probabilmente era giusta, il futuro del calcio è in streaming. Ma il presente non sta funzionando. I problemi di Dazn sono cosa nota. I disservizi di trasmissione hanno fatto imbufalire i tifosi. L’annuncio di voler cancellare la doppia utenza, rinviato a fine stagione per l’insurrezione popolare, è stato il colpo di grazia per la reputazione dell’azienda. I conti non tornano: numeri ufficiali non ci sono, ma con circa 1,2-1,5 milioni di abbonati a 20 euro al mese, non ci vuole un matematico per capire che l’operazione non sta in piedi, nemmeno col supporto di Tim che dovrebbe garantire 340 degli 840 milioni l’anno. Ma Dazn Italia è pur sempre la piccola costola di un gruppo internazionale che ha l’ambizione di diventare la Netflix dello sport e le spalle coperte dal magnate britannico di nascita ucraina Len Blavatnik.

Chi invece non si aspettava di rimetterci, e forse nemmeno poteva permetterselo, è Tim. Bilancio scompaginato, Cda decapitato. È evidente che il flop è stato in parte un pretesto per il ribaltone interno alla guida dell’azienda: imposto dal fondo Elliott con la sponda di Cassa Depositi e Prestiti, Gubitosi era espressione del fronte opposto ai francesi di Vivendi, primo azionista col 24%. Era stato messo nel mirino da mesi ed è stato impallinato ora, per la vera partita che si gioca sulla rete e sullo sfondo il tentativo di scalata del fondo americano Kkr. Il disastro dell’operazione calcio, la sua unica iniziativa industriale, lo ha però privato della possibilità difendersi con i risultati. Fin qui è venuta davvero male.

L’azienda ha collezionato tre profit warning (allarmi di revisione utili al ribasso) di fila. Nell’ultimo si dice esplicitamente che “il peggioramento è imputabile a minori ricavi della telefonia fissa, in parte connessi all’andamento dell’accordo con Dazn per la distribuzione della Serie A Tim”. Si parla di uno scostamento di circa 400 milioni di ricavi, di cui 300 dovuti al calcio. Un bagno di sangue per un gigante già non in salute: negli ultimi cinque anni il gruppo ha perso circa 4 miliardi di ricavi, per il 2021 si parla di un ulteriore taglio mentre il Pil del Paese cresce del 6 per cento. Lo sbarco nel mondo del pallone doveva essere la svolta, per aumentare utili e linee fisse, core business di una Telco. Per ora non è successo: TimVision avrebbe tra 500 e 700mila abbonati, ma se ne prefiggeva il doppio. La fibra è in crescita, ma per lo più sulle linee già attivate. L’esclusiva è stata pagata troppo. Quando Gubitosi si è presentato in Cda con l’unica soluzione, rinegoziare dopo pochi mesi il contratto con Dazn (che fa spallucce), pure i consiglieri indipendenti lo hanno mollato. Un giudizio si potrà dare solo alla fine del triennio, ma intanto l’uomo che doveva digitalizzare il Paese col pallone si è ritrovato senza poltrona. La patata bollente è passata nelle mani del suo successore, Pietro Labriola.

Eppure sarebbe bastato ripassare un po’ di storia per imparare che far soldi con i diritti tv del calcio non è scontato. L’unica che ci è riuscita è Sky, costruendoci intorno un prodotto che era diventato indispensabile nelle case italiane. È durata più di un decennio. Ma l’idillio non si è spezzato quest’estate col traumatico divorzio dalla Serie A: a ben vedere la rottura era iniziata tre anni fa. Quando, con le dovute differenze, Sky fece più o meno lo stesso errore ripetuto oggi da Tim: credere che con le partite sarebbe riuscita a monopolizzare il mercato e invertire una tendenza che cominciava a essere negativa per la concorrenza feroce degli Ott. Per questo, nell’estate 2018, Sky si fece cucire addosso un bando che prevedeva una forte esclusiva, convinta di poter assorbire i clienti Mediaset. Ricavi e abbonati sono aumentati, sì, ma non abbastanza, e tanti tifosi si son persi per strada.

È in quel momento, quando il campionato passa a costare da 570 a 780 milioni l’anno, che qualcosa si rompe nei conti di Sky: il bilancio, che l’anno prima aveva chiuso con 100 milioni di utile, nel 2019 segna -18 (sull’anno solare). Poi è arrivato il Covid e lo sprofondo rosso (-690 nel 2020), ma i mali di Sky nascono da quell’asta venuta male, compresa la sentenza dell’Antitrust che, vietandole nuove esclusive online, l’ha di fatto tagliata fuori dal triennio 2021-24.

Non è un caso se l’artefice dell’operazione, Andrea Zappia, ha poi cambiato lavoro, proseguendo il suo percorso nel gruppo, ma lontano dall’Italia e dai diritti tv del pallone. Così come poi se n’è andato il suo successore Maximo Ibarra, dopo aver perso – per ragioni diverse – l’asta 2021.

Oggi Sky sta cercando di dimostrare a se stessa che può esserci vita anche senza calcio: alla ricerca di una nuova identità, l’azienda ha risparmiato 800 milioni l’anno e li ha reinvestiti in parte per provare a frenare l’emorragia di clienti. Anche il prossimo esercizio è atteso in passivo.

Il paradosso dei diritti tv è proprio questo: nessuno sembra poterne fare a meno (la stessa Sky sta cercando disperatamente di rientrare in partita, almeno con gli highlights), ma poi chi li tocca si brucia. Ne sa qualcosa Mediaset che, proprio per fare lo sgambetto a Sky, nel 2015 le aveva strappato a suon di milioni le partite della Champions League: anche qui l’investimento non si è ripagato. Il canale Premium (un’idea di Pier Silvio Berlusconi), che già prima non raggiungeva la marginalità, è letteralmente imploso, tanto da chiudere. Solo di recente il Biscione si è riaffacciato sui diritti tv, ma con un approccio completamente diverso, cogliendo qualche occasione a buon mercato (i Mondiali 2018, la Coppa Italia) e tenendosi alla larga dalle partite più pericolose.

Volevano far saltare il banco. Chi più chi meno, chi per un motivo chi per un altro, invece sono saltati loro. Se la maledizione dei diritti tv continua a ripetersi, forse c’è un motivo: le gare della Serie A costano più di quel che valgono. Questo perché i presidenti del pallone, incapaci di sviluppare il sistema, pretendono un prezzo sempre più alto per un prodotto che è sempre lo stesso. Le partite sono preziose, trasformano i tifosi in abbonati, ma non convengono se superano la soglia sostenibile da un unico operatore. Il miliardo che serve per mandare avanti il carrozzone della Serie A è davvero troppo. Ogni tre anni arriva qualcuno che ci casca. Chissà se prima o poi, invece, a cascare saranno i presidenti delle squadre di calcio.

Mail Box

 

In Italia chi fa frodi va al Colle, negli Usa in cella

Negli Stati Uniti il banchiere Bernard Madoff venne condannato a 150 anni di carcere per una gigantesca frode finanziaria. In Italia, un certo Berlusconi dopo aver sottratto al fisco, cioè a noi cittadini, milioni di euro tramite una “gigantesca frode fiscale” (parole della Cassazione), subisce una lieve condanna. Oggi è uno dei candidati alla più alta carica dello Stato. Andrei dai bambini delle scuole materne, più svegli di molti di quelli che compongono le redazioni dei vari giornaloni, solamente per porgli il seguente quesito: “Delle due nazioni citate, qual è la Repubblica delle banane?”

Maurizio Burattini

 

Quirinale, è ora di dire basta ai voti “firmati”

In occasione delle elezioni del nuovo presidente della Repubblica, assisteremo alla consueta porcata della riconoscibilità del voto (alcuni indicheranno nome e cognome, altri cognome e nome, altri ancora scriveranno titoli onorifici quali “prof”, “cav”, eccetera). Sarebbe auspicabile stabilire l’obbligo di indicare esclusivamente nome e cognome del candidato, pena l’annullamento della scheda. Inoltre, sono tra coloro che vorrebbe vedere finalmente una donna al Quirinale. E credo anche di avere il nome giusto: dopo aver letto attentamente gli articoli della Costituzione riguardanti il capo dello Stato, visto che non è previsto l’obbligo della cittadinanza italiana, la candidata ideale non può che essere l’ex cancelliera tedesca Angela Merkel.

Antonio Iacomacci

 

La crisi è degenerata ben oltre la pandemia

Per descrivere l’attuale situazione che stiamo vivendo in Italia, sono sufficienti poche parole per dire chiaramente che ormai ci troviamo nel regno del caos. Il governo è assolutamente incapace di gestire l’aumento vertiginoso dei contagi, e ciò che è più grave è la mancanza di un piano organico che sostituisca il delirio burocratico del Green pass. A questa situazione si aggiunge lo scontro fra esperti che litigano continuamente in televisione e sui giornali, sia fra di loro sia con gli altri che criticano questo disastro. La condizione in cui ci troviamo è talmente degenerata che è più preoccupante della crisi pandemica, infatti ci siamo infilati in una crisi politica e sociale difficilmente risolvibile. Dobbiamo fare perciò chiarezza su quello che sta avvenendo, perché i danni peggiori non provengono dai contagi, ma dalla disorganizzazione nella gestione della pandemia.

Cristiano Martorella

 

Le notizie prima e dopo l’arrivo della “schiforma”

Una notizia, come la pubblicherebbe Il Fatto Quotidiano oggi: “Reggio Calabria, arrestato il sindaco del Pd Mario Rossi, colto con le mani nelle mazzette: caduto nella trappola della Polizia, con filmati e banconote segnate”. Ecco invece come Il Fatto dovrà pubblicare la stessa notizia dopo la “schiforma” Cartabia: “Presunto arresto in flagranza di innocenza di un funzionario di un Comune in Italia. Forti dubbi sulla costituzionalità delle modalità adottate dalla Polizia per tendere una trappola al malcapitato”. Siamo davvero destinati a essere gli zimbelli d’Europa?

Tristano Onofri

 

A 81 anni, sogno ancora un futuro che sia vero

Sono di natura sognatore e ho sempre sostenuto che per raggiungere una meta bisogna innanzitutto sognarla. Ho 81 anni, sono nato in un vicolo di Napoli e appartengo a quella generazione di vecchi che non sono stati mai bambini. Non si poteva esserlo in quei terribili anni Quaranta vissuti in una città distrutta dai bombardamenti, umiliata dalla miseria, mortificata dalla fame e lacerata da migliaia di vittime. Col passare del tempo ho iniziato a guardare oltre la siepe del mio piccolo giardino e ho cominciato a sognare che ogni anno nuovo fosse veramente “nuovo” e riuscisse a rinnovare tutte le coscienze. Continuare a sognare alla mia età significa volere credere ancora nella capacità dell’essere umano di sapere trovare dentro di sé quelle spinte emozionali capaci di cambiare il destino del mondo. Non dispero e sogno, perché voglio continuare a credere che l’umanità riuscirà prima o poi a “spalancare le porte chiuse delle proprie limitazioni per raggiungere distese più vaste in cui i sogni più belli diventeranno realtà”. Donne e uomini determinati e capaci di combattere la massa di quei malfattori assetati di sporco potere che vanifica i sacrifici di tutti gli onesti. Spero che il 2022 ci porti una classe dirigente capace di decapitare quella malefica piovra che ha creato metastasi mortali nel tessuto sano del nostro Paese. Sogno che il desiderio di cultura diventi il nostro pane quotidiano e nessun essere umano debba mai più versare lacrime per colpa di una società ingiusta.

Raffaele Pisani

Tamponi e ritardi. Un’emergenza prevedibile e mai affrontata sul serio

 

Voglio denunciare lo scandalo tamponi a Milano. È inconcepibile e disumano che si debba restare in coda al drive in 7 ore (sono arrivata all’ospedale San Carlo di Milano alle 13,13 e mi hanno fatto il tampone alle 20.15). All’ospedale San Carlo e San Paolo e negli altri hub gli operatori sono pochissimi, totale la disorganizzazione nel gestire la coda, persone anziane e bambini restano in auto per lunghe ore, i servizi igienici sono inesistenti. La struttura andrebbe organizzata in maniera almeno decente, ma la Regione Lombardia non si smentisce, ancora una volta, nella gravissima carenza sul piano sanitario. Le farmacie prese d’assalto non riescono a far fronte ale richieste, risultato: positivi e negativi in coda sulla strada per ore e al freddo. Possibile che la “grande efficienza lombarda” debba ridursi a questo punto? Vergogna, vergogna, vergogna!

Chiara Monticelli

 

Gentile Signora Chiara, la “grande efficienza lombarda” se davvero esisteva si è ammalata di long Covid all’inizio della pandemia, prima ancora di scoprire il virus. E salvo qualche sussulto non si è più ripresa. Oggi il disastro dei tamponi è sotto gli occhi di tutti, non solo in Lombardia. Come ha scritto la nostra Natascia Ronchetti il 22 dicembre, “le Regioni hanno tagliato il 24% dei ‘tracciatori’ in dodici mesi”: da 15 mila sono diventati 11 mila. La Lombardia ha un solo addetto ogni 10 mila abitanti per tracciare i contatti dei positivi, fare i test e portarli in laboratorio; il Lazio due, che pure non bastano. La sorveglianza sul Covid è stata delegata al mercato dei test privati, per lo più i discussi antigenici rapidi: a novembre solo i tamponi delle farmacie valevano 30 milioni di euro secondo i dati Iqvia riportati dal Sole 24 Ore, a dicembre potrebbero essere raddoppiati. Il Fatto Quotidiano ha sempre chiesto un maggiore investimento pubblico per la sorveglianza sanitaria, sulla scorta dell’esperienza positiva di alcuni Paesi asiatici ricordata più volte dal professor Andrea Crisanti. Fin qui abbiamo perso. I numeri dell’impennata dovuta a Omicron non erano prevedibili ma era comunque previsto l’aumento dei casi. E nessuno può sorprendersi per i tamponi legati al green pass o alle cene i Natale. Ben prima di Omicron, del resto, l’Istituto superiore di sanità dichiarava che il tracciamento era saltato.

Alessandro Mantovani

Questa sera? Io sto a casa: niente è meglio di “C’era una volta in America”. Così sogno

Stasera ho voglia di starmene a casa, sola, a vedere un bel film in videocassetta, nel buio del mio salotto mi sento piena di vitalità. È come vivere grandi esperienze, soprattutto se il film è bello. Sono assetata di conoscenza, il cinema per me è esperienza, è come fare un pieno di vita, e sento di vivere grandi emozioni, soprattutto se il film è : C’era una volta in America, un titolo che sa di favola, il regista è Sergio Leone, il mito western del mio vecchio papà. Ho fatto una bella scorta di pop corn, coca e patatine. Dalla prima immagine rimango folgorata, immobile e magicamente assorta in una storia senza tempo. Una storia di amicizia, di bambini già adulti e mai giovani nell’anima: il bimbo che divora il dolce, le risse, i massacri tra gangster, un sogno d’amore spiato da un buco nella parete del bagno, mentre lei si esercita per diventare ballerina, concluso però in uno stupro. Una storia di maschi e di donne abusate e poi rimpiante. “Hai aspettato molto?” e De Niro risponde “Tutta la vita!”. E poi la meravigliosa e misteriosa battuta “Cosa hai fatto in tutti questi anni?”- “Sono andato a letto presto”. Strano che piaccia a una ragazza come me, tanto da stregarla per tre ore. Finito il film rimango in silenzio come sospesa, voglio fare il cinema anch’io , è come se avessi addosso i personaggi. Ho respirato ogni fotogramma. “Cazzo che film!” È un omaggio al cinema che merita la definizione di capolavoro. È un insegnamento. Voglio rivederlo! Davanti ai titoli di coda imparo a memoria i nomi degli attori: Robert de Niro, James Woods, Joe Pesci, Elisabeth MacGovern mi è rimasta dentro, la sua danza di bambina, il sogno realizzato, il cerone nello specchio del camerino. La notte mi addormento con in testa la colonna sonora del film: è di Ennio Morricone. Fosse per me gli darei l’Oscar a vita.

 

Recensione a un amico. Caro Antonio, sappiamo bene che il riderci su nasconde… la costernazione

Il libro è Sette cose di cui vergognarsi, il tema è la vita contemporanea nel giornalismo italiano. L’autore è Antonio Padellaro. La domanda è: puoi metterti a scrivere del libro di un amico, ovvero “recensirlo” come si ama dire fra i titolari di piccole rubriche, come se fosse qualcuno conosciuto solo da queste pagine? Mi sembra evidente che anche chi legge e commenta debba passare la prova delle sue sette cose su cui riflettere.

La prima: conosco l’autore del libro con grande amicizia e con stima. Posso fingere di “esaminarlo” come un estraneo”?

La seconda: abbiamo lavorato insieme in due giornali andati bene, e ognuno dei due lo deve all’altro.

Conta o non conta?

Il terzo: conosciamo a fondo lo stesso mondo e sappiamo che il riderci su è solo apparenza. In realtà è costernazione.

Il quarto: l’esaltazione dell’eroe resistente può apparire raccomandazione amichevole, ma anche il compianto “il mondo si è fermato lì e non ti resta che riconoscerlo”. Diciamo (come dice il libro di Padellaro) che viviamo (abbiamo vissuto) senza illusioni ma anche senza mettere tutto a carico degli altri. Brutta gente, a volte, ma anche gente perduta nella foresta.

Il quinto: la lista che produci non è gloriosa. Ma non neghi che ci sia pur sempre uno spazio per fare altro e fare di meglio e che ci siano persone (non tante) che ti seguono se lo fai.

Il sesto: non serve credere o fingere che sia tutta colpa della politica che ti tiene la mano e guida la scrittura, e Padellaro lo sa e lo dice. Il libro che state per leggere dimostra che restare liberi non è facilissimo né eccessivamente conveniente. Ma c’è, come l’autore di cui parliamo, chi lo ha fatto, fino al punto da fondare il solo giornale su cui può (possiamo) scrivere.

Settimo: se il lavoro te lo fai da solo e fuori dalle istruzioni ricevute, anche il premio te lo dai da solo, e te lo dà un certo numero di cittadini che notano la differenza. È un libro sulla differenza fra l’attesa da giovani e il mondo pubblico (governo, cultura, informazione) in cui ci siamo trovati a vivere.

All’autore di Sette cose di cui vergognarsi devo riconoscere di avere usato un raccontare lieve e quasi festoso, e spolverato di umorismo come espediente riuscito per scansare il rito della denuncia, già fatta e archiviata.

Dunque alla fine mi accorgo che queste righe che ho scritto usurpando il ruolo del “recensore” è stato per dire a Padellaro “bravo!”. La parola non funziona solo per i bambini. Sono tempi in cui anche certi adulti (non tanti) riconoscono se stessi, e sono riconosciuti, per la fermezza, la tenacia, l’audacia del proprio lavoro e non percorrono “la strada giusta” nonostante gli avvertimenti benevoli e quelli minacciosi.

 

7 cose di cui vergognarsi

Antonio Padellaro

Pagine: 144

Prezzo: 12,00

Editore: PaperFirst

Il pallone del 2022. Dybala dove andrà? E il Mancio ripeterà l’impresa di Londra?

31 gennaio. 29 marzo. 22 maggio. Pur se nel pianeta pallone pochi ne parlano, anche per non disturbare i capataz freschi di gita premio a Dubai col presidente Figc Gravina nelle vesti di allegro capo comitiva del carrozzone made in Italy, le tre date che avete letto sono le più importanti della stagione calcistica 2021-22 che il 30 giugno andrà a concludersi. Riguardano il mercato, il mondiale in Qatar e quel che resta dei ribelli della Superlega. Tre temi che potrebbero riservare brutte sorprese: e forse è il caso di spendere due parole per evitare che qualcuno, poi, ci rimanga male.

31 gennaio. È il giorno in cui si chiuderà il mercato invernale, il giorno in cui i giocatori in scadenza – il cui contratto si esaurisce cioè il 30 giugno 2022 – saranno liberi di scegliersi il futuro club senza che al club d’appartenenza venga pagato un centesimo. Detto che gli occhi di tutti sono puntati su Mbappè che da tempo ha comunicato la sua intenzione di lasciare Parigi per accasarsi a Madrid, e che la curiosità di vedere dove se ne andrà Pogba dopo 5 stagioni deprimenti allo United è forte, venendo a noi la domanda è: che ne sarà di Dybala? Perché anche se la Juventus sostiene di averlo messo al centro del suo progetto, il 2021 si è chiuso senza alcuna firma e con le parole irritate di Arrivabene sui giocatori “più attaccati al procuratore che alla maglia”. E allora, conoscendo la stima che nutre per Paulo il dirigente che nel 2015 lo acquistò dal Palermo per 32 milioni più 8 di bonus, dirigente che risponde al nome di Beppe Marotta: qualcuno si sente davvero di escludere che Dybala se ne vada all’Inter? Sarebbe il bis, molto più in grande, dell’operazione-Calhanoglu, il giocatore che l’Inter scippò al Milan a zero, e la ciliegina sulla torta della vendetta che Marotta va servendo fredda al club di Agnelli. Vedere per credere.

29 marzo. È il giorno in cui l’Italia, che il 24 marzo dovrebbe agevolmente sbarazzarsi della Macedonia in semifinale, giocherà la finale playoff per ottenere la qualificazione ai mondiali in Qatar. Finale che l’Italia giocherà in trasferta contro la vincente di Portogallo-Turchia; stando ai pronostici, quindi, probabilmente contro il Portogallo di Cristiano Ronaldo e Bruno Fernandes, Bernardo Silva e Ruben Dias, Pepe e Rui Patricio, Renato Sanches e Diogo Jota. Nazionale fortissima. Riuscirà Mancini nell’impresa di battere il Portogallo a Lisbona (o la Turchia a Istanbul) dopo aver battuto l’Inghilterra a Londra nella finale dell’Europeo? Quel che è certo è che restare a casa un’altra volta dopo il naufragio di Russia 2018 sarebbe una catastrofe. Per il nostro movimento, una rovina.

22 maggio. È il giorno in cui si concludono i campionati in Italia e Spagna, le due nazioni che dopo il dietrofront dell’Inghilterra e il rifiuto di Germania e Francia annoverano i tre club che a dispetto del fallito progetto vaneggiano ancora, irriducibili, di Superlega: Real Madrid, Barcellona e Juventus. Ebbene: sarà curioso dare un’occhiata alle classifiche finali di Liga e Serie A. Ad oggi, sia Barcellona che Juventus, in totale sfacelo finanziario prim’ancora che tecnico, non avrebbero i numeri per qualificarsi alla prossima Champions League; e al momento potrebbero aspirare ad esibirsi al massimo nel triste e mal frequentato teatrino dell’Europa League, dove il Barça è peraltro già precipitato. Così va il mondo. Per dirla alla Comencini: mio Dio come sono caduta in basso!

 

Il film Dont’ look up: la cometa che illumina un’umanità “disunita”

 

PROMOSSI

Non guardate in alto (ma nemmeno da un’altra parte)

Tutti parlano di Don’t Look Up, uscito tre settimane fa nelle sale poi anche su Netflix. E’ una commedia satirica, firmata del regista Adam McKay, che sta dividendo molto sia gli spettatori che i critici (che per lo più l’hanno stroncata). Il film, che ha un cast stellare (Leonardo Di Caprio, Jennifer Lawrence, Meryl Streep, Cate Blanchet) ed è costato 75 milioni di dollari, racconta la scoperta, da parte di due astronomi, di una gigantesca cometa che si dirige dritta dritta verso la Terra. L’umanità ha sei mesi per prevenire l’impatto e la conseguente estinzione di massa, solo che… Insomma, il film è un esplicito manifesto ambientalista e affronta tutti i tic dell’umanità “disunita”, ma è una metafora che si adatta benissimo alla attuale emergenza. Non vogliamo spoilerare, ma solo consigliarvi vivamente di vederlo per farvi un’idea e provare a leggere tra le righe. Per esempio si può vedere che gli scienziati non sempre agiscono per amore di scienza e coscienza (e non disprezzano la popolarità mediatica); che i media sono spesso schiavi dei click più che della deontologia; che a volte chi governa non pensa al bene dei cittadini; che le grandi multinazionali hanno voce in capitolo nelle scelte delle amministrazioni. Il tutto senza mettere in scena un complotto poco credibile, ma solo scelte avventate e interessate, per lo più subite una società che si limita a essere un aggregato di individui incapaci di pensiero critico e distratti dal proprio ombelico. Sarà mica per questo che ha dato tanto fastidio?

 

NON CLASSIFICATI

Variante Vip

Dopo Jovanotti, Nicola Savino, i Ferragnez (e Hugh Jackman), anche Al Bano ha il Covid. Cosa che gli ha impedito di salire sul palco del Teatro Petruzzelli di Bari per festeggiare la notte di San Silvestro accanto a Federica Panicucci, conduttrice dello show in programma su Canale 5 (forfait anche per Pio e Amedeo, per lo stesso motivo). “Sto bene, ma purtroppo non potrò esserci, mi dispiace moltissimo. Non ho sintomi, sto benissimo, quando l’ho scoperto non mi sembrava vero”, ha detto il cantante pugliese. “Sono qua che devo combattere, un braccio di ferro con questo maledetto che è invisibile ma colpisce. Lo chiamo il nemico più importante, più squallido che rappresenta un po’ il nemico della terza guerra mondiale, perché di quello si tratta. Che dire, finirà, perché tutto passa. Io ho già preparato il funerale, la bara l’ho comprata: si chiama Coronavirus, ho messo la data di nascita, aspetto solo la benedetta data di morte”. Ma che metafora è?

 

Un diavoletto a San Remo

Vittorio Sgarbi sarà ospite al Festival della Canzone Cristiana Sanremo 2022 venerdì 4 febbraio (il contro-festival andrà in scena il dal 3 al 5 febbraio ed è patrocinato dal Comune di Sanremo, in collaborazione con la Diocesi di Ventimiglia-Sanremo). L’idea è quella di evidenziare “l’ineludibile valore artistico della canzone, rimarcando la sua appartenenza al piano dell’Arte vera e propria, nella sua espressione più elevata ed autentica”. E se poi facesse una capatina all’Ariston?

 

Ama d’oro

In attesa di capire che Sanremo sarà, Amadeus ha incontrato i giornalisti per la presentazione del Capodanno di RaiUno. “Lavoro con il sorriso e la rabbia perché la normalità non torna”. E non gli si può dare torto. Per l’Ariston, con qualunque soluzione di pubblico, ormai è vaccinato: le sue due edizioni del Festival sono state una più vista dell’altra. Quest’anno non ci sarà Fiorello, ma in gara ha molti super big. E la porterà a casa. Abbiamo apprezzato la sincerità con cui ha detto a Tv Sorrisi e canzoni che non vuole escludere l’ipotesi un poker. Meglio dire la verità, invece che escludere e negare per poi ritornare…

 

Uno strano scontrino. Siamo finiti a cena in un ristorante dove si paga “l’atmosfera”

Ragazzi, ma quante volte bisogna prendere atto che il diavolo sta nei dettagli? Appena pensi che si tratti di un proverbio vuoto, devi ricrederti e ne riscopri la grandezza. Perfino osservando lo scontrino di un ristorante. E mica per un prezzo taroccato o una somma bislacca. Troppo facile. Ma per qualcosa (il dettaglio appunto) che può sfuggire anche al cliente più occhiuto. Tipo una voce di spesa creativa dall’importo trascurabile, ma che trascurabile concettualmente non è affatto.

Il luogo del delitto è via Castelmorrone, una bella strada alberata milanese, tempo fa prima cintura periferica e ora parte del “grande centro” metropolitano. Lì, fra i tanti, vi è un ristorante con qualche talento comunicativo. Un menù costruito con (quasi sempre) sapienti giochi di parole, facce simpatiche dei titolari e del personale, apprezzabili varietà gastronomiche. Ed è qui che al pagamento del conto mi cade l’occhio sul “dettaglio”. Una voce di spesa del tutto inedita: “atmosfera, accoglienza”. Testuale. In cima all’elenco. La cifra è minima, 2.50 a testa, 5 euro in due. Tralascio di discutere, sarebbe insensato. Ma poi non è insensato rifletterci. Che cosa vuol dire, infatti, “atmosfera, accoglienza”? Forse è sinonimo di “coperto”? Ma no, nessuna tovaglia di Fiandra, anzi proprio nessuna tovaglia. Se mi si vuol dire che ho avuto il piatto con le posate ci mancherebbe, quella è una precondizione per chiamarsi “ristorante”, se no sarebbe un chiosco. E allora quale atmosfera, quale accoglienza? Forse al mio ingresso si è avanzato un maggiordomo incaricato di prendermi il giaccone e di riporlo in qualche luogo felpato? Di nuovo no, il giaccone l’ho sobriamente appoggiato io sulla spalla della mia sedia. Forse si è avanzato qualcuno o qualcuna per propormi un massaggio rigeneratore prima della cena? Qualcuno mi ha offerto un bicchierino di benvenuto, come ogni tanto si usa? Nossignore. Né massaggio, né speciale benvenuto. Tutto assolutamente nella norma dei locali normali. Buona sera, prego, dove volete sedervi? Avete già deciso o dovete ancora vedere il menù? Ripasso mentalmente le fasi di quella cena e non scorgo alcuna “atmosfera” o “accoglienza” definibile come un extra. Non un mandolino che suona dolce né un danzatore di flamenco cui suddividere il costo tra i clienti. L’unica “atmosfera” mi è venuta dai molti racconti di chi sedeva con me a tavola. Ma, al di fuori di quelli, calma piatta. Tranne qualche brano gradevole del sottofondo musicale, come un Let it be che mi ha strappato a un certo punto un sorriso di malinconia, compensando qualche suono più rustico.

Così un po’ alla volta si è fatta larga nella mia mente la convinzione che quella “atmosfera, accoglienza”, così speciale da dovere essere pagata a parte, non fosse nient’altro che la buona educazione dei titolari e del personale, la loro indubbia cortesia. E ho desolatamente pensato che a questa stregua anche un medico dovrebbe farsi pagare come un extra l’affabilità verso il proprio paziente, un negoziante dovrebbe farsi pagare di più (diciamo 2.50?) per dire “prego si accomodi” al cliente sull’uscio, anziché fargli un cenno sbrigativo. Mentre io ho sempre pensato che la gentilezza, la capacità di fare atmosfera, siano doti distintive di ogni professionista, commerciante, venditore di servizi. Di ogni essere umano o azienda. E che questa dote, naturale o acquisita, sia proprio ciò che giustifica la nostra scelta di quel negoziante o di quel professionista. Se invece diventa un costo a parte (ossia è artificiosa) perde del tutto il suo valore. Non vado da chi non conosce la gentilezza. Ma nemmeno da chi la conosce e mi ci fa pagare sopra una (grande o piccola) tassa speciale. Una società dove l’educazione costa è malata, non sta bene. Vedete come i dettagli aiutano a capire?

 

C’è il Black Christmas di Figliuolo: operatori in ferie, vaccinati in fila

 

BOCCIATI

E nun ce vonno sta

La polemica sanitaria è mutevole, quasi camaleontica verrebbe da dire. A seconda della predominante del momento, la disputa si riorganizza di conseguenza, utilizzando gli ultimi spunti come nuova linfa per rafforzare il contrasto. Questi giorni natalizi hanno visto molti personaggi noti contrarre il Covid. Da Jovanotti a Chiara Ferragni e Fedez, passando per Bobo Vieri e Nicola Savino, sono stati parecchi i vip a contagiarsi, ma tutti hanno avuto sintomi relativamente lievi che vanno dalla febbre al raffreddore, o addirittura sono rimasti del tutto asintomatici. Il virus è intimorito dalla notorietà e si lascia scoraggiare? No, semplicemente erano tutti vaccinati. “Sto sentendo che tutte le persone vaccinate hanno sintomi molto blandi, quindi per fortuna. In bocca al lupo a tutti”, scrive, senza giri di parole Chiara Ferragni. Ed ecco che subito la polemica individua la sua nuova preda: i vaccinati che raccontano come il vaccino li stia proteggendo dal Covid severo. Così Alberto Contri, docente di Comunicazione Sociale allo Iulm, esponente della “Commissione Dubbio e precauzione” insieme a Cacciari e Agamben, fervido rappresentante dell’area no vax-no pass, commenta subito così: “Con Jovanotti e i Ferragnez è partita la nuova propaganda: abbiamo il Covid, ma non ci fa niente perchè siamo vaccinati!”. Ci dispiace per Contri, ma le cose stanno effettivamente così: i vaccinati nella stragrande maggioranza dei casi hanno sintomi relativamente lievi. Se chiamare un fatto propaganda, può rendere più dolce l’ammissione dell’evidenza tanto a lungo negata, lasciamo al professor Contri la libertà di scegliere gli appellativi che preferisce.

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Black Christmas

Che la missione toccata al commissario Figliuolo sia tutt’altro che semplice è risaputo, che le terze dosi siano ancora troppo poche va sicuramente considerato, e che la variante Omicron non abbia mandato un telegramma per preavvisarci del suo arrivo non ha certo semplificato le cose, ma le file lunghissime per un tampone, alle quali gli italiani sono stati costretti nei giorni di Natale, hanno abbattuto l’umore collettivo. Interpellato sulla questione, il generale ha risposto così: “Bisogna avere molta pazienza, i cittadini fanno le file al Black Friday e vorremmo tutti vivere in un Paese perfetto, ma c’è gente che da due anni tira le fila e se si è preso un po’ di pausa il commissario se ne fa una ragione. Noi ci stiamo organizzando e abbiamo messo in campo risorse della Difesa. Non è la panacea di tutti i mali ma un concorso in più alle Asl”. Ora, date tutte le premesse apologetiche di cui sopra, era davvero questa la risposta migliore che si potesse dare a milioni di cittadini vaccinati, chi con la seconda, chi con la terza dose, che zelantemente si sono messi in coda per ore, al fine di evitare che i cenoni natalizi si trasformassero in potenziali focolai? Fare la fila al Black Friday è un gesto di sano individualismo e ciascuno decide arbitrariamente se e quanto valga la pena, aspettare in coda di potersi tamponare (soprattutto a Natale) è invece esempio di senso civico e attenzione al prossimo: mettere le due cose sullo stesso piano è quantomeno inappropriato.

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Destra clericale. La parabola di monsignor Negri: dall’amicizia con BXVI alla guerra a Francesco

Il quotidiano più arcigno della destra clericale no vax, omofoba e anti-migranti, La Verità, lo ha ricordato così in prima pagina: “Negri, il vescovo da battaglia. Maestro di fede e di educazione”. Tono guerriero anche su Libero, per la firma di Renato Farina: “Il primo allievo di don Giussani. Un combattente”. Più sobrio Il Giornale, ma forse solo per una questione di spazi nel titolo: “Il vescovo conservatore”.

Ciellino delle origini, al fianco del fondatore don Luigi Giussani, monsignor Luigi Negri è morto l’ultimo giorno dell’anno in provincia di Milano, all’istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone (dove B. fece i servizi sociali dopo la condanna per frode fiscale). A differenza dei tre giornali di destra che hanno dato rilievo alla notizia, il quotidiano dei vescovi italiani, Avvenire, gli ha dedicato solo un breve articolo all’interno. Arcivescovo emerito di Ferrara e Comacchio, Negri è stato uno degli alfieri più vigorosi del fronte dottrinario e anti-misericordioso che dal 2015 conduce una feroce battaglia contro Francesco.

Non a caso, raggiunse in quell’anno l’apice della sua fama per uno scoop di Loris Mazzetti sul Fatto. L’arcivescovo di Ferrara venne “intercettato” il 28 ottobre su un Frecciarossa partito da Roma-Termini. In quell’occasione avrebbe sfogato con queste parole la sua rabbia per l’opera del papa argentino: “Speriamo che con Bergoglio la Madonna faccia il miracolo come aveva fatto con l’altro”. Cioè con Giovanni Paolo I, morto dopo soli 33 giorni di pontificato. In particolare, a rendere all’epoca furibondo il monsignore sarebbero state le nomine dei due arcivescovi di Bologna e Palermo, rispettivamente Zuppi e Lorefice, due cosiddetti preti di strada. Negri non confermò ma neanche smentì. E ieri su Libero, Farina – che secondo la ricostruzione di Mazzetti avrebbe raccolto al telefono quel 28 ottobre lo sfogo dell’arcivescovo ma lo stesso Farina disse che non era vero – ha scritto che “riteneva non si dovesse umiliare a smentire”. Aggiungendo poi che il Vaticano e la Curia approfittarono dell’episodio per “scaricarlo”.

Del resto di problemi alla linea di Bergoglio, monsignor Negri ne aveva creati parecchi, insieme con il suo “collega” Carlo Maria Viganò e i cardinali Burke e Müller. Nel maggio del 2020 aveva aderito all’appello del famigerato Viganò contro i vaccini anti-Covid, laddove si imputa la pandemia a una cospirazione massonica per un Nuovo Ordine Mondiale. Molto legato a Benedetto XVI che lo nominò a Ferrara nel 2012 e ardente crociato contro l’Islam, Negri arrivò a dire che la clamorosa rinuncia di Ratzinger nel 2013 era dovuta alle pressioni di Obama: “Benedetto XVI ha subito pressioni enormi. Non è un caso che in America, anche sulla base di ciò che è stato pubblicato da Wikileaks, alcuni gruppi di cattolici abbiano chiesto al presidente Trump di aprire una commissione d’inchiesta per indagare se l’amministrazione di Barack Obama abbia esercitato pressioni su Benedetto. Resta per ora un mistero gravissimo, ma sono certo che le responsabilità verranno fuori. Si avvicina la mia personale ‘fine del mondo’ e la prima domanda che rivolgerò a San Pietro sarà proprio su questa vicenda”. Chissà se San Pietro gli avrà risposto.