“Poi ti spiego la storia di De Ficchy”: l’ipotesi di un grande ricatto

“Poi te spiego la storia di De Ficchy, tutti gli intrecci e tutto quanto, comunque facciamo la cosa e la Duchini viene, come sempre abbiamo fatto regolarmente perché lì non abbiamo mal fatto una cazzata Giovà … mai! E mai l’avrei fatta, viene trasferita e tutto quanto …”.

È il 23 maggio scorso quando Luca Palamara dice queste parole all’ex vicepresidente del Csm Giovanni Legnini. Il De Ficchy in questione, del quale Palamara avrebbe spiegato un giorno la “storia” e gli “intrecci”, è Luigi De Ficchy, ex procuratore di Perugia andato in pensione circa un mese fa. Come vedremo, in alcuni passaggi delle intercettazioni effettuate dalla procura di Perugia, si sostiene che De Ficchy sarebbe stato addirittura ricattato da qualcuno.

Antonella Duchini è invece l’ex procuratore aggiunto di Perugia, sotto inchiesta a Firenze con accuse di peculato, falsità ideologica, corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio e corruzione in atti giudiziari. È la stessa Duchini che ha istruito un fascicolo all’epoca esplosivo – che non rientra tra le contestazioni della procura di Firenze – sul presunto sequestro di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Muktar Ablyazov, che fu espulsa, secondo l’accusa di Perugia illegalmente, con sua figlia Alua, nel maggio 2013. Con l’accusa di sequestro di persona sono imputati, in questa vicenda, l’ex capo della squadra mobile di Roma, Renato Cortese, e il responsabile dell’ufficio immigrazione dell’epoca, Maurizio Improta.

Palamara si ritrova a dover gestire la posizione su Duchini in sede disciplinare e si lamenta del fatto che non fu avvertito di essere, a sua volta, nel mirino dalla procura di Perugia, perché avrebbe dovuto astenersi. E invece, racconta il 16 maggio mentre viene intercettato, che in quel momento era “l’uomo più esposto della corrente della magistratura (…) il più sovraesposto e mi chiedi della Duchini e Riccardo ti chiama dice… no no Luca non lo fate astene’ perché non c’è niente su Luca… mi iscrivono dopo la Duchini? Guarda che è una cosa…”. E ancora: “…Riccardo parla con De Ficchy… assolutamente Luca non si deve astenè…”. Di questa vicenda parla anche il pm di Roma Stefano Fava, indagato a Perugia per rivelazione del segreto istruttorio e favoreggiamento nei confronti di Palamara, quando viene interrogato dai pm umbri: “Lui (Palamara, ndr) poi ripeteva la storia della dottoressa Duchini, aggiunto di Perugia”, dice Fava, affermando che l’aveva sostanzialmente fatta trasferire contro la sua volontà su impulso di alcuni magistrati di Perugia. E di De Ficchy, Palamara e Fava, parlano in un’intercettazione del maggio scorso. I due accennano a un “ricatto” che però, dalle parole dello stesso Fava, non era realizzabile perché De Ficchy non aveva nulla da temere, in quanto il suo comportamento era risultato corretto.

“…Perché su… De Ficchy nel mio fascicolo non c’è un cazzo capito?”, dice Fava. “Se lui si è fatto ricattare per questa cosa…”, aggiunge, “è veramente… oltre che in malafede e disonesto… cioè è veramente il cretino più cretino che esiste perchè non c’è un cazzo… cioè è come se io ti vengo a dire… io ti ricatto perché tu hai rubato un chilo di luna… un chilo di terreno dalla… luna… non so se mi spiego… cioè non c’è nulla… nulla!”.

E se è chiaro che De Ficchy non era ricattabile, resta da capire a chi si riferissero Palamara e Fava, quando sostenevano che qualcuno stesse ricattando l’ex procuratore di Perugia. E soprattutto: a quale scopo.

“L’indagato Palamara è sospeso. Ha minato la nostra credibilità”

Luca Palamara è stato sospeso in via cautelare dalle funzioni e dallo stipendio. Per la sezione disciplinare del Csm la rilevanza dei fatti che gli sono contestati “unitamente alla notorietà della vicenda, ha irrimediabilmente compromesso, al momento, la credibilità, il prestigio e l’immagine dell’incolpato, nonché la fiducia che i cittadini possono riporre in suo confronto”.

E ha anche messo in pericolo “la credibilità di un organo di rilevanza costituzionale quale il Csm” giustificando l’immediato collocamento fuori dal ruolo organico della magistratura di Palamara a cui verrà comunque riconosciuto un assegno alimentare. Questo in attesa del procedimento di merito in cui verranno utilizzate anche le intercettazioni reputate “casuali” – e quindi ritenute utilizzabili – dei colloqui e degli incontri con Luca Lotti e l’altro deputato dem, Cosimo Ferri. I legali di Palamara, Benedetto Marzochi Buratti e Roberto Rampioni, presenteranno ricorso in Cassazione entro la fine della prossima settimana o al massimo il 27 luglio: per ottenere l’annullamento della misura cautelare – sostengono – “lacunosa e appiattita sulle richieste del pg di Cassazione Fuzio”. Costretto nel frattempo al passo indietro proprio per via di un colloquio compromettente con il magistrato romano.

A ogni modo, dopo la decisione di ieri, a Palamara è impedito di esercitare “in qualunque sede” l’attività giurisdizionale. In ragione di condotte protratte sino a tutto il mese di maggio 2019, e ritenute dal Csm di tale “consistenza, pervasività, reiterazione, sistematicità, da configurare, complessivamente, una vera e propria frustrazione dell’immagine di integrità, indipendenza e imparzialità che ciascun magistrato deve possedere”. Nel mirino la “ripetuta concertazione” sulle nomine di importanti procure anche con soggetti imputati da quelle stesse procure, come nel caso di Lotti, nei guai a Roma per il caso Consip. E il disegno finalizzato a “screditare taluni magistrati a vantaggio di altri, al fine di consentire la realizzazione dei propri obiettivi”: un risiko giudiziario che riguardava anche Firenze e Perugia. Dove Palamara sapeva di essere indagato con l’accusa di aver messo le sue funzioni di magistrato a disposizione dell’imprenditore e suo amico Fabrizio Centofanti, coinvolto in vicende di rilevanza penale, in cambio di viaggi e regali. Una relazione che la sezione disciplinare del Csm reputa “pericolosa” e caratterizzata dalla fruizione di utilità che potrebbe non essere stata ancora completamente accertata.

Vw-Ford, accordo su auto elettriche e guida autonoma

Qualcuno lo ha già ribattezzato “The big deal”, il grande accordo. Certo, quello tra Ford e Volkswagen è destinato ad imprimere una forte accelerazione ai cambiamenti che stanno investendo i grandi produttori di auto nel mondo. I due colossi americano e tedesco sono acerrimi rivali, ma hanno deciso lo stesso di espandere la loro collaborazione al settore delle auto elettriche e di quelle a guida autonoma. Un’operazione da 7 miliardi di dollari il cui obiettivo è quello di gestire i costi esorbitanti legati allo sviluppo delle nuove tecnologie. In base all’accordo annunciato a Detroit, Volkswagen investirà 2,6 miliardi di dollari in “Argo AI”, la start up di Ford che sviluppa sensori, software e altre tecnologie per sviluppare l’auto senza pilota. Un avamposto in California su cui la casa americana ha già messo un miliardo di dollari e di cui Volkswagen acquisirà anche 500 milioni di azioni nei prossimi tre anni. In Argo confluirà quindi anche il progetto di auto a guida autonoma a cui da tempo lavora il gruppo tedesco, compresi i 200 dipendenti con base a Monaco di Baviera. Una scommessa, viste le stime che parlano di investimenti globali nell’auto a guida autonoma per 85 miliardi l’anno entro il 2025.

I tanti scippi di Milano. Ma le rassegne Fiat erano tutt’altra cosa

C’è della follia nella politica della Torino di questi tempi, e anche un’abbondante dose di cattivo gusto. Quello, per intenderci, di chi rappresenta le istituzioni e si veste (in Piemonte ma anche a Roma) come se fosse sempre carnevale: ora da poliziotto, da ufficiale dell’esercito, da vigile del fuoco, senza peraltro esserlo. Così può capitare che, nello stesso giorno, la sindaca Chiara Appendino riesca a farsi fotografare a Mirafiori con addosso la felpa di Fca (un gesto che neppure i suoi predecessori più vicini all’azienda, gli ex comunisti Sergio Chiamparino e Piero Fassino, avevano osato compiere) e, nel contempo, lasci filtrare la possibilità di dimettersi dopo un patatrac mediatico-politico combinato dal suo vice, Guido Montanari, che si è trasformato subito nell’argomento usato dagli organizzatori del “Salone dell’auto” del Parco del Valentino per giustificarne il trasferimento a Milano.

Montanari, nei giorni scorsi, facendo seguito ai malumori di una parte del gruppo comunale dei 5stelle e alle proteste che il Salone (una kermesse, sarebbe più giusto dire, allestita e “diffusa” all’aperto, lungo i viali del Valentino, e con sfilate di vetture nelle piazze e nelle vie del centro) suscita nel quartiere della città che sorge lungo la riva sinistra del Po, aveva fatto appello alla grandine, unica soluzione possibile per far scomparire la manifestazione. Parole molto stupide che hanno subito prodotto una mozione a sostegno delle tesi del vicesindaco da parte di una manciata di consiglieri M5S della traballante maggioranza comunale, dilaniata soprattutto sul no “senza se e senza ma” al treno ad alta velocità in Val di Susa.

Ma invece di pretendere un’immediata rettifica da Montanari (se non addirittura le dimissioni), la sindaca ha preferito scegliere la strada del tatticismo politico: alludendo alla possibilità delle proprie dimissioni (riporterebbero Torino alle urne, ma si possono ritirare entro 20 giorni dalla presentazione) e puntando sull’incontro tra lei, il gruppo consiliare e Luigi Di Maio, salito ieri pomeriggio a Torino. Lo scopo della minaccia è evidente: avere garanzie su un futuro più tranquillo per gli ultimi due anni di mandato, ma soprattutto ottenere un chiarimento sulla questione del Tav, un argomento che turba i sonni anche a Di Maio, visto il netto sì di Salvini alla Torino-Lione. Producendo così due risultati ancora una volta negativi e sempre per la stessa persona: la sindaca.

Il primo è stato quello di rinfocolare l’eterna lamentazione subalpina per tutti gli scippi subiti da parte di Milano (dalla moda, un tempo celebrata in riva al Po con un salone denominato Samia, sino al libro, poi finito però con la sconfitta meneghina), ingigantendo nella polemica il ruolo dell’attuale salone, neppure lontano parente di quello nato agli inizi del Novecento e poi diventato gemello, all’ombra della Fiat, di quelli di Parigi e Francoforte. La sua ultima edizione si tenne nel 2000 al Lingotto Fiere, mentre quella del 2002 (organizzata dalla stessa società che gestiva il Motor Show di Bologna) fu annullata per mancanza di adesioni.

Da sette anni, si svolge invece la manifestazione che ora ha scelto Milano: una grande fiera popolare a cielo aperto, per nulla concorrente di Parigi e Francoforte (due piazze peraltro anch’esse in crisi, tenuto conto che ormai, per ragioni di mercato, le case automobilistiche annunciano continuamente le loro novità, mentre i consumatori si informano soprattutto sulla rete).

Il secondo, invece, ha consentito ai critici della giunta M5S di aggiornare il lungo elenco delle occasioni mancate della città a guida pentastellata. A cominciare da quelle Olimpiadi invernali finite a Milano e Cortina, rimpiante da chi a Torino dimentica sempre che, ancora oggi, il Comune sta cercando di rientrare dai debiti accumulati negli anni dell’ubriacatura a cinque cerchi del 2006. Magari rifiutandosi di ammettere che la cosa più imbarazzante capitata l’altro ieri a Chiara Appendino è stata proprio la partecipazione, con quella felpa addosso, allo “spot” per il futuro di Mirafiori. Un futuro che persino i media più attenti a non infastidire l’azienda hanno definito “difficile”. Il futuro della produzione dell’auto a Torino, non quello di un suo “salone” all’aria aperta.

Di Maio blinda Appendino contro i “consiglieri nemici”

Arriva alle 18 con la scorta nel parcheggio dell’albergo, evitando i cronisti che lo attendono fuori. Poi nella sala conferenze del Qualys Hotel Royal di Torino il capo politico del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio siede coi parlamentari accanto a Chiara Appendino, la sindaca “furiosa” (come ha detto lei stessa) sia per la decisione degli organizzatori del Salone dell’Auto di lasciare Torino e spostarsi a Milano, sia per le “prese di posizione autolesioniste di alcuni consiglieri e le dichiarazioni inqualificabili del vicesindaco”, Guido Montanari.

“È giustamente molto arrabbiata per un’occasione di investimento che ha perso Torino, in cui ci sono anche responsabilità dei consiglieri M5S di maggioranza – rimarca in un post su Facebook Di Maio – qualsiasi decisione prenderà io starò sempre dalla sua parte. Dalla parte di chi, con il buon senso, ogni giorno passa il tempo a costruire una nuova Italia e non a demolire”. Il vicepremier punta molto sul lato istituzionale: “Quello che ha dovuto affrontare Chiara Appendino in questi tre anni – scrive ancora – avrebbe steso una mandria di bufali”.

Poi attacca i consiglieri ribelli, definiti “nemici della contentezza”, ma loro reagiscono con sarcasmo. Eppure l’arrivo di Di Maio a Torino dovrebbe servire a compattare i ranghi intorno alla sindaca nel pieno della bufera scatenata dal comitato organizzatore del Salone dell’Auto che ha dato alle opposizioni e alle associazioni di categoria una nuova occasione per accanirsi contro di lei. “Basta, non si governa solo con i no”, attacca il ministro dell’Interno Matteo Salvini, che spera nelle dimissioni che possono portare Torino al voto.

Nel mattino circolano voci di dimissioni alimentate dalle “valutazioni politiche del caso” di Appendino, ma non è ciò a cui lei pensa. Sembra più probabile che cambi il ruolo di Montanari. “Sono tre anni che si minaccia la caduta di questa giunta, ma siamo ancora qua”, commenta il consigliere comunale Massimo Giovara. Giorgio Bertola, consigliere regionale e candidato alla presidenza alle elezioni di maggio, esclude una rottura: “Non penso si possa creare una spaccatura nel Movimento per un tema come il Salone dell’Auto”. Se c’è qualche divergenza è sulla Torino-Lione, come ha dimostrato la riunione di attivisti ed eletti di venerdì scorso nella quale sono emerse chiaramente le due anime: quella “governativa”, aperta a modifiche dell’opera, e quella più ortodossa, legata alla battaglia degli inizi. Una buona parte del Movimento torinese non vuole cedere e molti dei 150 iscritti a “Riorganizziamoci insieme” sono arrivati per far sentire al capo politico la voce dei territori, quella che sarebbe stata inascoltata. “Chiederò di rispettare l’impegno preso con la Val di Susa e di fermare l’opera”, ha detto Francesca Frediani, capogruppo M5S nel Consiglio regionale del Piemonte.

Crescita, Bankitalia taglia le stime sul Pil. Tria: “No, resta +0,2%”

Nuovo taglio delle previsioni di crescita da parte di Bankitalia, che nel nuovo Bollettino economico ha ridotto la stima di progresso del Pil nel 2019 a +0,1% rispetto al +0,3% di giugno e al +0,6% di gennaio. In compenso ha migliorato leggermente quelle per il prossimo anno, da +0,7 a +0,8%. La nuova sforbiciata allinea il dato alle ultime previsioni della Commissione Ue. Anche se a ostentare ottimismo è il ministro dell’Economia Giovanni Tria che, intervenendo all’assemblea dell’Abi, ha detto che si attende un +0,2%. “Un anno fa ero qui a descrivere uno scenario significativamente diverso dall’attuale, e sono sfumati, di fronte alla realtà dei fatti e delle azioni, i dubbi immotivatamente diffusi sulle coerenze politiche del nuovo governo con il quadro delle regole europee”. Secondo il titolare del Tesoro, in un “contesto internazionale difficile” l’andamento dell’economia italiana “da inizio anno è nel complesso soddisfacente” perché è diventato più stabile. Di conseguenza “riteniamo che la previsione della crescita del Pil per il 2019 allo 0,2% reale”, lo 0,1% in più rispetto alle stime di Ue e Bankitalia, “e all’1,2% nominale sia ancora valida seppure permangano rischi al ribasso”.

Alitalia, Di Maio chiude ai Benetton sulla proroga

La sintesi brutale è questa: entro lunedì il ministero dello Sviluppo vuole che il consorzio che deve salvare Alitalia prenda forma, in modo che il dossier si chiuda entro luglio; i Benetton vogliono invece più tempo e sperano in una proroga, che Luigi Di Maio non ha intenzione di concedere, anche per evitare che la partita incroci in qualche modo quella sulla concessione di Autostrade.

Ieri fonti del Mise hanno ribadito che “ci si aspetta la chiusura del consorzio entro il 15 e che la scadenza, come ribadito dal ministro Di Maio, non può essere prorogata”. Un mossa che serve per valutare le effettive intenzioni di Atlantia, dopo che giovedì il cda ha dato mandato all’amministratore delegato Giovanni Castellucci di valutare il piano industriale studiato dalle Ferrovie, che hanno il compito di mettere in piedi il consorzio. La holding dei Benetton sarebbe il quarto partner della nuova società: un investimento da 300 milioni per il 35% del capitale, stessa quota delle Fs, mentre il Tesoro e l’americana Delta chiuderebbero la compagine con il 15% a testa.

Nel giorno in cui Atlantia, dopo mesi di rumors e smentite, avviava le trattative, Mediobanca ha inviato a tutti i partner interessati una lettera in cui chiede di presentare entro domenica alle 18 le manifestazioni di interesse con le relative garanzie. Una richiesta che vale anche per tutti gli altri pretendenti, dal patron della Lazio Claudio Lotito al colombiano Germán Efromovich, all’imprenditore abruzzese Carlo Toto. Certezze sui primi due non ce ne sono. Efromovich avrebbe presentato una letterina di garanzia di Ubs che, però, non viene ritenuta sufficiente, mentre Toto, pare, presenterà la documentazione richiesta. Di Maio spera di inserirlo nel consorzio per diluire l’impegno di Atlantia, ma Delta ha inviato una lettera per dire che vuole solo i Benetton. Che dal canto loro non vorrebbero la coabitazione con il proprietario di Strada dei Parchi.

Nonostante gli ultimatum, Atlantia spera ancora di ottenere più tempo, forse qualche settimana: ritiene di aver di fatto già manifestato il suo interesse giovedì e vuole valutare bene il piano industriale. Per il Mise, invece, questa fase può avvenire solo dopo che il consorzio si sarà formato. Dopo di che partirà il negoziato per modificare il piano, e discutere gli assetti di governance, con l’obiettivo di chiudere entro fine luglio con le offerte vincolanti. La tempistica non è casuale: il 14 agosto a Genova il governo presenzierà all’anniversario del disastro del Morandi. I 5Stelle hanno promesso che entro quella data si presenteranno con l’avvio della revoca della concessione ad Autostrade.

Dietro le quinte, però, si punta a costringere Atlantia a evitare questo scenario sedendosi a un tavolo con la disponibilità a ridurre i pedaggi, rinegoziando la concessione. Di Maio ripete che sono due partite separate, linea ora sposata anche da Atlantia, a cui però uno slittamento dei tempi servirebbe per capire che direzione si prenderà sulla concessione. Per i 5Stelle, non chiudere il dossier Alitalia entro luglio sarebbe uno smacco.

Sul possibile ingresso di Atlantia si sono spesi ieri sia il ministro dell’Economia Tria che il vicepremier Matteo Salvini. Entrambi hanno aperto all’ipotesi, definendo la holding dei Benetton “un partner serio”. I sindacati sono invece preoccupati per gli esuberi previsti nel piano: nell’ipotesi peggiore verrebbero lasciati a casa duemila lavoratori.

“Deve distrarre dai suoi guai…”: Fico smaschera Salvini

Matteo Salvini ha un problema che fa rima con Russia, quindi deve urlare per far parlare d’altro. Per questo tra giovedì e ieri ha paventato la crisi di governo sugli emendamenti al decreto Sicurezza bis che prevedono fondi per polizia e Vigili del fuoco (buoni pasto, divise, straordinari): prima bocciati in commissione alla Camera tra giudizi di inammissibilità e ricorsi più o meno fondati, alla fine recuperati in vari modi. E sempre per questo il capo del Carroccio ha addentato alla gola più volte il presidente della Camera Roberto Fico, 5Stelle con storia e idee molto a sinistra, insomma il nemico tra i nemici: “Domando al grillino Fico perché blocca otto emendamenti co-firmati da Lega e M5S, questo non è un favore a me o al sovranismo”.

Ma nel venerdì in cui la presunta ferita si ricuce, “il grillino Fico” non fa spallucce. “Il ministro dell’Interno in queste ore è nervoso, e mi dispiace per lui. Era chiaramente in cerca di un bersaglio per distrarre dagli altri problemi che ha”, dice ai suoi il 5Stelle. E la parola Russia non c’è, ma è un sottinteso rumoroso. Già in giornata Fico aveva diffuso frasi al curaro su Facebook: “La Camera è intervenuta per ovviare alle amnesie del ministro dell’Interno che si era dimenticato di prefetti, polizia e Vigili del fuoco quando ha scritto il decreto”. Già, perché il presidente di Montecitorio aveva appena riammesso nel testo gli emendamenti per la Polizia di Stato e il Viminale, inizialmente bocciati dai presidenti delle commissioni Giustizia e Affari costituzionali, i 5Stelle Francesca Businarolo e Giuseppe Brescia. Mentre aveva respinto come non attinenti per materia quelli su Vigili del fuoco e polizia locale. E Salvini ne aveva approfittato per sparare, ancora: “La Lega non molla, ora serve l’ok anche agli altri emendamenti”.

Dal M5S, la consueta contraerea: “Il ministro usa le forze di polizia per la campagna elettorale e come pretesto per minaccia la caduta del governo”. Nel frattempo il sottosegretario dei 5Stelle Simone Valente trattava con le opposizioni, ottenendo il voto unanime delle commissioni a favore dell’emendamento sui Vigili del fuoco, via obbligata per recuperarlo. Così l’incendio minacciato, quello della crisi, si rivela per ciò che era: un bau-bau utile solo per intasare le agenzie. Lo riconosce anche il leghista Giancarlo Giorgetti, che conosce i Palazzi quanto Salvini: “Fico fa il presidente della Camera, avrà fatto le sue valutazioni, il governo non rischia di saltare”. L’esecutivo resta dov’è, come Fico, che con il suo staff ragiona: “Quelli di Salvini sono attacchi scomposti, una grave mancanza di rispetto per la Camera, per un’istituzione”. Affondi “confusi” sostiene il grillino, perché “sono arrivati addirittura prima che la Lega presentasse i ricorsi sugli emendamenti”. Tradotto, per fare rumore a prescindere. Anche perché, punge ancora il 5Stelle, “mentre approvava in Consiglio dei ministri la legge sulla polizia locale chiedeva di ammettere emendamenti al decreto Sicurezza sullo stesso argomento”. Ed è l’ennesima conferma della distanza.

Giovedì sera, a polemica già ampiamente deflagrata, Fico e Salvini si erano incrociati al Quirinale, alla cerimonia di presentazione dei nuovi distintivi di qualifica della Polizia. Ignorandosi, visibilmente. Ma pubblicamente, nell’arena delle tv e dei giornali, non possono farlo. Troppo facile per il leghista tirare in ballo Fico, di cui conosce bene la diversità da Di Maio. E troppo naturale per il presidente della Camera fare muro al leader della Lega, protestare su immigrazione e diritti parlando a lui ma anche ai suoi, ai 5Stelle per i quali Salvini è una pillola da assumere tutti i giorni per rimanere in vita. E infatti l’approdo in aula del dl Sicurezza, fa sapere Brescia, slitterà da lunedì al 22 luglio. Due giorni dopo il 20, l’ultima data entro cui poteva saltare tutto. Poteva, sia chiaro.

Santo subito, assicura la Boschi

Un uomo in missione per conto di Dio. Per un alto compito “educativo e culturale”. Nella sua nuova vita da senatore semplice Matteo Renzi ha tolto i panni del vile segretario politico, di colui che si sporca le mani in mezzo alla bagarre quotidiana di governo. A descriverne le gesta in un’intervista al Quotidiano Nazionale è Maria Elena Boschi, già ministra per le Riforme durante il suo governo: “Oggi Renzi è impegnato in una sfida educativa e culturale, non nella costruzione di un nuovo partito. Per adesso un nuovo partito è soltanto una fantasia”. Che sciocchi noi a pensare che l’italico Macron volesse mettersi in proprio, mandando “ciaoni” agli zingarettiani e a chi vuole rimettersi con i “traditori” di Articolo 1. Renzi ora vola alto, altissimo. Ma chissà a cosa si riferiva nello specifico la Boschi quando parlava di missione culturale. Forse all’ingente opera di divulgazione del documentario su Firenze? O alle conferenze in giro per il mondo durante le pause dal Senato? O magari anche soltanto agli illuminanti discorsi in aula, chissà. Si attendono i dovuti chiarimenti dall’interessata per procedere con la beatificazione.

Toti ne combina un’altra: mischia cantanti porno e sovranisti

Cinquantamila euro della Regione Liguria per il festival con il cantante hard. Ma anche il turbosovranista Steve Bannon, il redivivo Armando Siri. E poi Giovanni Toti che sarà presente due volte.

Siamo ad Ameglia, buen retiro appunto del governatore che ligure non è, se non per l’ombrellone. Qui fino a domani si tiene il festival Liguria d’Autore 2019 organizzato dal giornalista del Foglio Alessandro Giuli. In tanti, però, hanno puntato il dito sugli ospiti e sul finanziamento della Regione di Toti. Moreno Vesco, coordinatore di Articolo 1, attacca: “È stata segnalata la partecipazione del cantante Edoardo Barbares, detto Max Felicitas, che canta di ‘cagne’ parlando di donne”. Felicitas sarà protagonista domani di un incontro dal titolo “Porno subito”. Nelle canzoni intona tra l’altro: “Noi vogliamo le più cagne… rosso di sera, anale si spera”. Ritornello: “Si sborra”. Ma ci sono anche i politici: “Toti ha speso denaro pubblico per personaggi come l’eminenza grigia dell’ultradestra americana Steve Bannon o Philippe Vardon del partito di Marine Le Pen”, attacca il capogruppo Pd in Regione, Giovanni Lunardon, che parla di “festival dei sovranisti pagato dai liguri”. Del centrodestra ci saranno Mara Carfagna, Daniela Santanché e Marco Campomenosi. Del M5S è segnalato Gianluigi Paragone, mentre il Pd – che una volta dominava i festival liguri – si affida ad Alessia Morani e Luigi Marattin. Il curatore Giuli giura: “Toti ha seguito passo passo l’ideazione della rassegna. Ho cercato di far venire Renzi e la Boschi. Ho provato a invitare la comandante Carola. Ma ci sono Nicola Gratteri, che non è un magistrato di destra, e Alessandro Profumo di Leonardo”. E il cantante che parla di Cagne? “Sarà sul palco con un ispettore della polizia postale e una psicoterapeuta. Io vorrei che fosse lì come testimone di una redenzione”.