Tav, migranti e il ritiro dalla politica: quando le balle le spara Matteo

“Se non riesco a superare il bicameralismo perfetto non considero chiusa l’esperienza del governo, considero chiusa la mia esperienza politica”. Matteo Renzi, 12 marzo 2014. La madre di tutte le fake news, come direbbe forse lui oggi in uno dei suoi convegni. Proprio ora che le fake news sono l’oggetto principale della sua campagna e il bersaglio a cui imputare la sua disfatta politica. Eppure di fake news (ma una volta si chiamavano “balle”) è piena la pur breve epopea renziana. A partire certo dalla promessa di ritirarsi dalla politica in caso di sconfitta al referendum costituzionale, ma spaziando poi sui più diversi temi.

Qualche esempio. Tav: “Prima lo Stato uscirà dalla logica ciclopica delle grandi infrastrutture e si concentrerà sulla manutenzione di scuole e strade, più facile sarà riavvicinare i cittadini alle istituzioni. Iniziative come il Torino-Lione non sono dannose, sono inutili: sono soldi impiegati male” (nel libro Oltre la rottamazione, 2013). Sei anni dopo: “Basta con quelli che vogliono fermare la crescita. Chi ferma la Tav ferma la crescita”. (12 gennaio 2019).

Andrà meglio sulla benzina? Maggio 2014, ospite a Porta a Porta, si lamentava: “Ma le sembra normale che si paghi le accise della benzina per la guerra in Etiopia? Io qui prendo un impegno: entro l’anno noi andiamo a razionalizzare, che vuol dire pulire, a decurtare, a eliminare tutte queste voci ridicole”. Promessa mancata.

Tema Giustizia: “Io credo in una regola aurea: dove il campo di gioco è presieduto dalla magistratura, la politica non dovrebbe metterci bocca. Dove la magistratura interviene, evidentemente ha delle buone motivazioni per farlo. Un politico serio aspetta che l’indagine venga portata avanti. Non partecipa al bar sport del commento del giorno dopo. Da politico, le indagini non le commento. Le rispetto” (18 gennaio 2013). La regola aurea vacilla, per così dire, per colpa delle vicende dei genitori: “Lo scandalo Consip è nato per colpire me, finirà per colpire chi ha falsificato le prove contro il presidente del Consiglio” (15 settembre 2017). “Privare persone della libertà personale per una cosa come questa è abnorme” (19 febbraio 2019).

Senza dimenticare che tutto iniziò con una celebre rassicurazione: “Diamo un hashtag: #enricostaisereno. Vai avanti, fai le cose che devi fare. Io mi fido di Letta, è lui che non si fida. Non sto facendo manfrine per togliergli il posto” (16 gennaio 2014). Andò in altro modo.

Renzi a Palazzo Chigi senza passare da elezioni? Follia: “Sono tantissimi i nostri che dicono: ma perché dobbiamo andare al governo senza elezioni? Ma chi ce lo fa fare? Ci sono anch’io tra questi” (9 febbraio 2014).

Poi: 23 marzo, al debutto in Senato da segretario dimissionario e senatore semplice (così si era definito): “Ora sto zitto per due anni”. Un mese dopo, a Che tempo che fa: “No all’accordo tra Pd e 5 Stelle”.

Ma si può stare anche su argomenti più d’attualità. L’altro giorno, per esempio, si è scagliato contro Minniti sull’immigrazione: “Nel funesto 2017 abbiamo considerato qualche decina di barche che arrivava in un Paese di 60 milioni di abitanti, una minaccia alla democrazia”. Peccato che il 12 febbraio 2018 Renzi dicesse altro: “Il Pd non ha alcuna remora a dire grazie a Minniti e al governo per il lavoro straordinario che è stato fatto”. Ora: quale delle due dichiarazioni è una fake news?

L’ossessione di Renzi: “Abbiamo perso per colpa delle fake news”

“Li porteremo tutti in tribunale”. Matteo Renzi arringa così la folla del teatro Elfo Puccini, a Milano. Arringa cioè i suoi: Maria Elena Boschi, Mario Gozi, Roberto Giachetti, Ivan Scalfarotto, persino il sindaco di Milano Beppe Sala, tutti accorsi al primo incontro dei “Comitati azione civile”. Bersaglio dell’invettiva sono i falsari della rete, i fabbricatori di fake news. Per Matteo Renzi non c’è emergenza peggiore, come testimoniano l’hashtag di rito (#bastafake) e la scenografia, con i cartelloni con su disegnato un aeroplano, rimando a una serie di notizie che l’ex premier considera fake: l’uso allegro di aerei di Stato, l’inutilità dell’Air Force Renzi e via così. Per il senatore semplice il tempo corre veloce. Dopo le elezioni prometteva che sarebbe stato “zitto due anni”, oggi lancia la sua idea per recuperare terreno nei confronti della Lega. Il massimo dell’esame di coscienza per le precedenti batoste alle urne, però, si riduce al solito copione: “Quando ero a Palazzo Chigi non ho compreso bene l’emergenza delle fake news. Ecco la mia vera autocritica”. Non il Jobs act e l’Italicum riscritti dalla Consulta, non la riforma costituzionale bocciata dagli elettori, non il tema immigrazione su cui la collaborazione europea è ancora ai minimi. Anzi, la rinascita del Pd è un colpo di nostalgia: “Dobbiamo tornare a quello che eravamo fino al dicembre 2016”. Anche se gli italiani hanno preferito altro.

Renzi racconta di anni di reputazione distrutta a colpi di social: “Chiunque commentava in maniera positiva i miei post veniva insultato. Ma non da persone vere, da bot, da algoritmi”. Il resto c’è, ma in secondo piano. C’è il caso dei fondi russi, per cui Renzi non crede “che la Lega abbia preso soldi, ma anche solo chiederli è alto tradimento”. C’è la stoccata alla presidente del Senato Casellati, rea di non aver accolto la richiesta del Pd a Salvini di chiarire in aula. Ci sono poi le accuse al governo (Conte è “il vice dei suoi vice”, a loro volta “due buzzurri”) e ai compagni di partito, coloro che gli hanno “fatto la guerra” spalancando le porte ai gialloverdi. Ma poi si torna ai comitati e alle fake news. Con due novità: “Faremo una summer school, una scuola di formazione politica per gli under 30 che contribuirò a pagare con un mese di stipendio”. E poi i compiti a casa per i comitati: “Voglio che ognuno prenda due avvocati e vigili in Rete. Ogni volta che c’è una notizia falsa nei nostri confronti si cita in giudizio chi l’ha diffusa. Metà del ricavato va in beneficenza, metà lo usiamo per i comitati.” In tempi di vacche magre, le casse si riempiono anche così.

L’autopsia di Imane: indiscrezioni puntano sulla morte naturale

È atteso per l’inizio della prossima settimana il deposito della relazione dei consulenti medico-legali sulla morte di Imane Fadil, una delle testimoni chiave del caso Ruby, deceduta ormai più di quattro mesi fa, il primo marzo scorso all’Humanitas di Rozzano dopo una lunga agonia. Mentre, stando a indiscrezioni di questi giorni, gli accertamenti potrebbero aver escluso l’ipotesi dell’avvelenamento doloso e si propenderebbe per una morte per cause naturali, il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, che segue l’inchiesta coi pm Gaglio e Pavan, ha spiegato che, al momento, la consulenza “non è stata depositata” dagli esperti alla Procura. Il procuratore aggiunto, dunque, ha precisato che una risposta “ufficiale” sulle cause del decesso di Fadil si potrà avere con il deposito degli esiti finali dell’autopsia, dopo i complessi accertamenti di questi mesi. Anche se, già nei giorni scorsi, sono circolate indiscrezioni sugli esiti della consulenza. In Procura, già due giorni fa, a seguito delle indiscrezioni, avevano precisato che il pool di medici legali, guidato da Cristina Cattaneo, negli ultimi giorni era ancora al lavoro per chiarire “punti controversi”.

Separazione giudici-pm e intercettazioni. Bongiorno: “Pronti i nostri emendamenti”

Si prepara un serrato confronto tra i partiti della maggioranza gialloverde sulla legge delega per la riforma della Giustizia. “È importante che si faccia una riforma incisiva della giustizia, speriamo che non sia una riformicchia”. Così la vede il ministro della Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno, avvocato penalista e autorevole voce della Lega sui temi della giustizia, che ieri era ospite di In Onda su La7. “Nelle prossime ore vedremo”, ha detto ancora Bongiorno annunciando l’intenzione di presentare emendamenti “se nella riforma Bonafede non saranno accolte le richieste della Lega”. Posto che, sottolinea la ministra salviniana, “già sappiamo che nel pacchetto due temi cari alla Lega non ci saranno”. Si riferisce alla separazione delle carriere di giudici e pm e all’intervento sulle intercettazioni. La prima come è noto è il cavallo di battaglia di Forza Italia come degli avvocati penalisti e Matteo Salvini sottoscrisse pubblicamente la proposta avanzata dalle Camere penali. Allo stesso modo la Lega vorrebbe limitare l’utilizzo degli ascolti o per lo meno colpire drasticamente la pubblicazione di conversazioni agli atti di procedimenti giudiziari, come ribadito recentemente anche in occasione dello scandalo che ha investito il Csm a partire dall’inchiesta di Perugia su Luca Palamara, ma anche qui la distanza dai Cinquestelle è considerevole. Vedremo se i leghisti proveranno a formare maggioranze alternative. Ora quello che conta, ha concluso la ministra Bongiorno nel suo intervento televisivo, “è una riforma che riduca i tempi e dia certezze”. E su questi aspetti la bozza di Bonafede inserisce meccanismi di razionalizzazione delle indagini e dei processi che dovrebbero andar bene anche agli alleati leghisti.

Inchieste e processi più rapidi. Csm sorteggiato tra gli eletti

Eccola, l’annunciata riforma della Giustizia. È pronto il testo predisposto dal ministro Alfonso Bonafede che interviene nel processo civile e in quello penale per renderli più rapidi; riorganizza l’ordinamento giudiziario, anche bloccando le “porte girevoli” tra magistratura e politica; e cambia il metodo di scelta del Csm, introducendo un sorteggio tra i candidati eletti dalle toghe per far parte dell’organo di autogoverno della magistratura. È un disegno di legge che impegna il governo a varare, entro un anno dalla sua approvazione, i decreti legislativi che riformino il codice di procedura civile, il codice penale e quello di procedura penale, l’ordinamento giudiziario e la legge sul Csm. Ecco i punti salienti.

Csm. I componenti del Consiglio superiore della magistratura tornano 30, come prima del 2002 (riforma Castelli). I togati passano da 16 a 20, quelli di nomina politica da 8 a 10. Gli eletti dal Parlamento devono essere “scelti tra i professori ordinari di università in materie giuridiche e tra gli avvocati dopo 15 anni di esercizio professionale”. Ma non possono essere parlamentari, nazionali o europei, o membri del governo, o sindaci in Comuni con più di centomila abitanti: né in carica, né possono esserlo stati nei cinque anni precedenti.

La novità più forte è sul sistema di elezione. I venti togati del Csm sono scelti in due fasi. La prima è il voto dei magistrati, “personale, diretto e segreto” in venti collegi (ora c’è un collegio unico nazionale). La seconda sarà il sorteggio di uno dei cinque eletti in ogni collegio (senza distinzioni tra pm e giudicanti).

Dopo essere stati al Csm, i magistrati per quattro anni non potranno assumere incarichi direttivi (come procuratore) o semidirettivi e per due anni non potranno essere collocati fuori ruolo.

Più potere ai capi. Aumenta la gerarchizzazione delle Procure e dei Tribunali. Spariscono gli incarichi semidirettivi: i procuratori aggiunti e i presidenti di sezione dei Tribunali. Diventeranno “magistrati coordinatori”, non saranno più indicati dal Csm, ma scelti dai loro capi, i procuratori della Repubblica che designeranno i loro “coordinatori di dipartimento” e i presidenti di Tribunale che indicheranno i “coordinatori di sezione”. Saranno i procuratori della Repubblica, per “garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale”, a indicare anche i “criteri di priorità” con cui “selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, sulla base di criteri di priorità trasparenti e predeterminati”.

Sarà introdotto il whistleblowing, cioè la tutela per chi segnala illeciti dei magistrati e del personale amministrativo degli uffici giudiziari.

Politica più lontana. I magistrati che saranno eletti in Parlamento o all’Europarlamento o entreranno nel governo o saranno eletti sindaci in Comuni con più di centomila abitanti non potranno più tornare a indossare la toga. Saranno ricollocati in uffici non giudiziari, ma amministrativi. Chi si candida, ma non viene eletto, dovrà stare per 5 anni in uffici amministrativi e poi potrà tornare a fare il magistrato, ma in un distretto diverso da quello in cui si è candidato.

Le indagini. Tempi più stretti per le indagini preliminari: 6 mesi dall’iscrizione sul registro degli indagati, per i reati minori (che prevedono pena pecuniaria o detentiva non superiore a 3 anni); 1 anno e 6 mesi per i reati più gravi; 1 anno per tutti gli altri. La proroga può essere concessa una sola volta e per la durata massima di 6 mesi. Dunque la durata delle indagini, per i reati più pesanti, è al massimo di 2 anni. Il pm che non rispetta questi tempi commette “un illecito disciplinare, quando il fatto è dovuto a dolo o a negligenza inescusabile”.

Dopo 3 mesi dalla fine delle indagini, il pm deve o archiviare o esercitare l’azione penale. Se non lo fa, deve avvisare l’indagato e depositare gli atti raccolti fino a quel momento. L’indagato, visti gli atti della discovery, può chiedere a questo punto che il pm decida la sua sorte e il pm deve farlo entro 30 giorni.

A giudizio. Il pm avrà criteri più stringenti per mandare a processo i suoi indagati: non gli basterà, come ora, aver raccolto elementi sufficienti a sostenere il giudizio, ma non dovrà esercitare l’azione penale “nei casi in cui gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non consentano, anche se confermati in giudizio, l’accoglimento della prospettazione accusatoria”.

Processi più rapidi. Termini perentori per abbreviare la durata dei processi: 4 anni per il primo grado, 3 anni per l’appello, 2 per la Cassazione. Per chi non rispetta questi tempi, per “negligenza inescusabile”, “in più di un terzo dei processi civili e penali iniziati dal magistrato”, scatta uno “specifico illecito disciplinare”. Semplificate anche le notifiche agli imputati, che oggi allungano i tempi: solo la prima sarà fatta all’imputato, le successive saranno “eseguite mediante consegna al difensore”, via posta elettronica.

Primo grado e appello. “Quando non è possibile esaurire il dibattimento in una sola udienza”, il giudice deve subito comunicare il calendario delle udienze e prevedere il deposito delle consulenze tecniche “entro un termine congruo”. Saranno ridotte le possibilità di ricorrere in appello.

Processo civile. Saranno snellite le procedure e ridotte le udienze. Sarà diminuito il ricorso alla mediazione e alla negoziazione assistita, nei casi in cui non ha dato prova di essere utile. Nella negoziazione assistita, però, gli avvocati potranno fare una parte del lavoro che oggi viene svolto dal giudice, con “attività istruttoria, denominata attività di istruzione stragiudiziale, consistente nell’acquisizione di dichiarazioni da parte di terzi su fatti rilevanti”.

Concorso dirigenti scolastici, via libera del Consiglio di Stato

È stato sospeso dal Consiglio di Stato l’annullamento del concorso dei presidi deciso la settimana scorsa dal Tar del Lazio, accogliendo il ricorso presentato dal ministero dell’Istruzione. Così dal 1° settembre potranno essere in carica i 2.900 nuovi presidi. Tirano un sospiro di sollievo i candidati promossi, già arrivati agli orali. Insoddisfatti i ricorrenti che avevano sollevato dubbi rispetto alla legittimità della prova scritta che si è tenuta a ottobre scorso. Il Tar aveva annullato il concorso per incompatibilità di tre commissari: due perché formatori coinvolti in corsi per i dirigenti scolastici e un terzo perché sindaco, carica non compatibile con quella di commissario. Nell’ordinanza del Consiglio di Stato emerge chiaramente che “a prescindere da ogni valutazione sull’effettiva portata invalidante dei vizi riscontrati dal primo giudice deve ritenersi preminente l’interesse pubblico alla tempestiva conclusione della procedura concorsuale, anche tenuto conto della tempistica prevista per la procedura di immissione in ruolo dei candidati vincitori”. In questo modo si consente al Miur di concludere gli orali e completare il reclutamento. L’udienza pubblica per la decisione definitiva è fissata al 17 ottobre.

Bollette a 28 giorni, respinto il ricorso delle compagnie: scattano i rimborsi

Non è un sogno di mezza estate: dopo oltre due anni di battaglie tra sentenze e ricorsi, ora arriva la parola fine a uno dei più grandi inganni nel mercato della telefonia: sono stati respinti dal Consiglio di Stato i ricorsi presentati dalle compagnie telefoniche Vodafone, Wind-3 e Fastweb contro le decisioni del Tar relative alle bollette telefoniche a 28 giorni. Così ora i big telefonici dovranno ora restituire i giorni illegittimamente erosi dal giugno 2017, quando hanno deciso in rapida successione di modificare la periodicità nell’invio delle bollette: da mensile a settimanale, facendo pagare ai clienti non più 12 mensilità ma 13, con un aggravio dell’8,6%. La sentenza del Tar, confermata dal Consiglio si Stato, prevedeva inizialmente la restituzione di questi giorni entro il 31 dicembre 2018, ma il ricorso delle compagnie aveva bloccato la procedura. Per mettere fine alla pratica sono serviti diversi interventi dell’Agcom (che ha stoppato solo i 28 giorni sulla telefonia fissa e lo scorso aprile ha imposto il dietrofront sugli aumenti in massa comunicati dai gestori) e della politica (il decreto Fiscale ha messo fine alla fatturazione ogni 28 giorni tanto nella telefonia quanto nella pay-tv).

Sul fronte della restituzione del maltolto, il meccanismo sarà quello della compensazione con le fatturazioni future, una cifra tra i 30 e i 50 euro a utente. Le multe iniziali, che ammontavano a un milione e 60 mila euro, rimangono quindi ridotte a 580 mila euro. Nelle sentenze non figura ancora Tim, che aveva presentato ricorso successivamente.

Tra le 100 donne più influenti c’è Monteverdi, ceo di Seif

Dalla scienza allo sport, dalla cultura all’impresa ci sono donne che, portando avanti giorno dopo giorno il proprio lavoro, sono diventando figure di rilievo, in grado di fare la differenza nel settore di competenza. Forbes Italia ogni anno stila la classifica di queste “Donne di successo”, le 100 più influenti nel nostro Paese. Figure femminili che hanno saputo “interpretare il proprio ruolo, in azienda o nella società, valorizzando ogni giorno un patrimonio personale fatto di competenze, creatività, carisma, tenacia, capacità di innovare e visione del futuro”. Nella classifica sono presenti attrici, scienziate, campionesse sportive, donne di cultura e giornaliste, designer e soprattutto imprenditrici e manager alla guida di aziende grandi o piccole. Riflettori puntati sull’ad del gruppo editoriale Gedi Laura Cioli, l’astronauta Samantha Cristoforetti, la tuffatrice Tania Cagnotto, le attrici Valeria Golino e Paola Cortellesi e Nadia Toffa, ma anche le giornaliste Lucia Annunziata, Lilli Gruber e Diletta Leotta. Tra le rappresentanti del mondo del business, citate da Forbes Italia come donne più influenti, anche Cinzia Monteverdi, presidente e ad di Seif, la società editrice de il Fatto Quotidiano. Sotto la sua guida, Seif ha avviato una trasformazione in media company a tutto tondo, quotata in Borsa da quest’anno, che si avvicina ora alla quotazione anche sul mercato Euronext Growth di Parigi, nell’ottica di un respiro sempre più internazionale. Grazie alla strategia di crescita avviata, Seif ha portato avanti un percorso di diversificazione dei propri prodotti: Il Fatto Quotidiano, il sito ilfattoquotidiano.it, il mensile FQMillenniuM, la casa editrice Paper First e la piattaforma Tv Loft , il ramo della produzione televisiva. Sui prodotti audiovisivi la società editoriale concentrerà in modo particolare lo sviluppo futuro. Il tutto caratterizzato da una forte impronta digitale e dall’uso dei Big Data, come strumento per modellare sempre più l’offerta sul profilo degli utenti e allargarsi a nuovi mercati.

Glovo, la beffa: il rischio d’impresa ora è dei rider

“Ho pedalato andando da una parte all’altra di Roma per 10 chilometri. Arrivato al negozio per ritirare la merce da consegnare, ho scoperto che il cliente aveva annullato l’ordine. Allora Glovo mi ha pagato solo 2,20 euro, senza indennizzarmi la lunga distanza coperta”. Marco, nome di fantasia, è un fattorino dell’azienda spagnola che porta cibo (e non solo) a domicilio in diverse città italiane. Pochi giorni fa, dopo questa disavventura, ha fatto un’amara scoperta: la piattaforma ha da poco mutato le regole sulle retribuzioni che si applicano quando la prenotazione viene cancellata. Ora al rider viene riconosciuta solo la tariffa base – appunto 2,20 euro – per aver accettato la chiamata, e non anche quella agganciata allo spazio effettivamente percorso, che nel caso di Glovo è 45 centesimi ogni mille metri. Questa voce, da quando la policy è stata modificata, viene pagata solo se la persona che ha ordinato ha annullato troppo tardi la richiesta e l’addetto in sella è già arrivato a casa sua. Se, invece, il fattorino viene a conoscenza della revoca quando è ancora nel punto di ritiro, resterà a mani quasi vuote. Poco cambia se per raggiungere il ristorante, o l’esercizio commerciale, ha battuto pochi metri o, come Marco, ha attraversato tutta la Capitale.

“L’azienda – racconta – ha modificato in maniera unilaterale le condizioni senza informare i rider, decidendo di trasferire su di essi il rischio di impresa”. Navigando con attenzione sul sito dell’app si scopre che dal 2 maggio è entrato in vigore il nuovo trattamento, peggiorativo rispetto a quello precedente: “In caso di cancellazione dell’ordine – si legge – le condizioni di pagamento saranno: 1) se ti trovi al punto di prelievo dell’ordine, tu riceverai la base dell’ordine; 2) se ti trovi nell’area di consegna dell’ordine, il cliente pagherà l’ordine e tu riceverai il pagamento totale dell’ordine”. La quasi totalità del rischio viene in effetti scaricata sul lavoratore: Glovo onorerà la fatica del rider solo se il cliente, avendo cancellato in ritardo, sarà costretto a pagare lo stesso. Se, per esempio, il rider staziona a Monti Tiburtini (un quartiere a Nord-Est di Roma) – e accetta una consegna da un ristorante che è alla Garbatella (si trova dall’altra parte della città), deve sperare che nel frattempo la persona a casa non ci abbia ripensato prima del suo arrivo, altrimenti avrà fatto tutta quella strada per soli 2,20 euro. C’è pure una terza possibilità, ancora più beffarda, che Glovo non menziona sul portale: che succede se il rider viene avvisato dell’annullamento prima ancora di arrivare al punto di ritiro? Marco lo ha scoperto nello scambio di email con lo staff dell’impresa: in quel caso l’azienda non paga nulla, nemmeno i 2,20 euro.

“A differenza di altre app – fa notare Marco – Glovo non divide le città in aree. Il rider può accettare richieste che vengono da molto lontano. La paga per chilometro ti incentiva a preferire ordini che richiedono lunghi tragitti, perché più redditizi, ma questo sistema lo fa diventare un azzardo”. In pratica, una sfida alla sorte che potrebbe tradursi addirittura in lavoro totalmente gratuito. C’è pure un’altra novità risultata indigesta ai “ciclisti”: un nuovo passo indietro sulla trasparenza. Quando il rider aspetta più di 5 minuti i pasti al ristorante, è abitudine di Glovo indennizzare l’attesa con 5 centesimi al minuto. “Ma di recente ha tolto il sistema del timer – aggiunge – quindi è più difficile controllare il tempo reale”.

Negli ultimi mesi, Glovo e altre imprese del food delivery hanno via via stretto sempre di più la cinghia sulle condizioni dei collaboratori in bici. Un paradosso, se si pensa che a gennaio la Corte d’appello di Torino ha stabilito che questi ragazzi, benché pretestuosamente inquadrati come autonomi, hanno diritto alle tutele del lavoro dipendente, partendo dalle paghe previste dal contratto nazionale della logistica. Le piattaforme, però, hanno fatto finta di niente continuando con le retribuzioni a cottimo, a consegna o con tariffe miste che prevedono una base per ogni ordine accettato e una voce parametrata sui chilometri. Nessun riconoscimento di ferie, malattia e maternità, nessuna copertura Inail contro gli infortuni ma solo polizze private per eventuali incidenti.

Sullo sfondo resta l’impegno del ministro Luigi Di Maio di approvare un pacchetto di norme dedicate agli addetti della gig economy da far entrare nel disegno di legge sul salario minimo. Una promessa della quale i sindacati autonomi nati a Torino, Milano, Bologna e Roma si fidano poco.

“L’uomo di Descalzi all’Eni voleva il ritiro delle accuse”

Il 2 luglio 2019 è una data che i vertici Eni ricorderanno a lungo. L’avvocato Giuseppe Calafiore, sentito dalla Procura di Milano, racconta che il braccio destro di Claudio Descalzi, Claudio Granata, ha chiesto a un testimone chiave di ritrattare le sue deposizioni. Quelle che riguardavano le sue accuse a Descalzi – oggi imputato per corruzione internazionale – nell’inchiesta sulla presunta maxi-tangente versata per il giacimento petrolifero Opl 245 in Nigeria.

Calafiore è un avvocato molto legato a Piero Amara, ex legale esterno dell’Eni, con il quale, in altri fascicoli, è stato indagato per corruzione. Il suo racconto parte dal luglio 2014 quando l’ex dirigente Eni Vincenzo Amanna – anch’egli indagato per corruzione internazionale dalla procura di Milano – “inizia a rendere dichiarazioni accusatorie nei confronti di Descalzi” sulle “tangenti pagate in Nigeria”. “Amara – continua Calafiore – mi diceva che secondo lui le prove contro Eni erano schiaccianti. (…) C’erano rapporti tesi tra Eni e Armanna perché quest’ultimo era stato licenziato malamente dall’Eni ed era particolarmente risentito. Voleva rientrare e lavorare in Eni. (…) Amara mi disse che Granata gli aveva chiesto di tenere a bada Armanna (…) di ‘lavorarselo’, in modo da indurlo a ritrattare o edulcorare le dichiarazioni che aveva reso all’autorità giudiziaria nei confronti di Descalzi. (…) Amara cominciò a frequentarlo più assiduamente e a cercare di registrarlo”.

In questo contesto, spiega Calafiore, tra aprile e maggio 2016 c’è “un incontro a Roma, in piazza Fiume, davanti alla Rinascente, tra Granata, Amara e Armanna”. “Amara – racconta Calafiore – mi aveva detto che Granata era disposto a fare un accordo con Armanna, garantendogli che l’Eni lo avrebbe riassunto, se avesse edulcorato le dichiarazioni rese nei confronti di Descalzi. (…) Io stesso accompagnai Amara con un taxi all’appuntamento e vidi fuori dalla Rinascente Granata e Armanna che lo stavano attendendo. Poi andai via”. Calafiore dice di aver poi saputo da Amara l’esito dell’incontro: “Granata ha offerto ad Armanna di tornare a lavorare per Eni, so anche che Amara disse ad Armanna di non accettare e non fidarsi” poiché “Eni subordinava la riassunzione a una ritrattazione o all’attenuazione delle accuse nei confronti di Descalzi. Ho saputo poi da Amara che (…) Armanna ha accettato la proposta di Granata”. Ma c’è di più.

In quel periodo la Procura di Siracusa, ricevendo un fascicolo da Trani, avvia un’indagine farlocca che avrebbe dovuto dimostrare un “complotto” contro Descalzi e delegittimare i consiglieri indipendenti di Eni, Luigi Zingales e Karina Litvack, per indebolire l’inchiesta milanese sulla presunta tangente nigeriana. Per questa indagine, il pm che la conduceva, Giancarlo Longo, ha già patteggiato una condanna per corruzione in atti giudiziari, mentre Amara e Calafiore hanno chiesto il patteggiamento.

Il procuratore aggiunto di Milano Laura Pedio e il pm Paolo Storari ricordano a Calafiore che Armanna, dopo aver inviato un’email a Longo, fu convocato dalla Procura di Siracusa, per un interrogatorio, il 6 luglio 2016. “La presentazione di Armanna a Siracusa – chiedono – è la prima prova della volontà di ridimensionare le dichiarazioni rese ai danni di Descalzi?”. “Amara – risponde Calafiore – non mi ha mai collegato esplicitamente la presentazione di Armanna a Siracusa con l’accordo intervenuto tra Armanna e Granata”. Ma aggiunge: “Sono certo che, dal momento in cui il processo cosiddetto ‘complotto’ o ‘operazione Milano’ è stato trasferito da Trani a Siracusa, Granata ne è stato informato e messo a conoscenza degli obiettivi dell’operazione. (…) Me lo disse Amara”. Secondo Calafiore, quindi, il braccio destro di Descalzi era al corrente dell’operazione – per la quale Eni s’è costituita come parte offesa – mirata a indebolire l’inchiesta milanese sulla maxi tangente nigeriana.

Il Fatto ha interpellato Armanna. “Nel 2016 – dice – ero in una situazione terribile. Da allora, anche per le dichiarazioni che Descalzi aveva pubblicamente fatto su di me, non ho mai più potuto lavorare in Italia. Mio figlio, nato nel 2014, aveva poco più di un anno. È in questo contesto che ho incontrato Amara e Granata. E Granata mi ha offerto di rientrare in Eni facendomi tre richieste. Confermare che Descalzi era il mio vero capo e che la mia resistenza agli intermediari della tangente era stata decisa dallo stesso Descalzi, che aveva fatto una guerra alla corruzione sull’Opl 245. Smussare le dichiarazioni sugli sponsor politici nigeriani legati al giro della tangente. Fare dichiarazioni a Siracusa a favore di Descalzi avallando l’idea che Zingales e Litvack fossero tra gli organizzatori principali del complotto contro di lui. A Siracusa non ho mai rivolto accuse a Zingales e Litvack mentre, sul ‘complotto’ contro Descalzi, che a mio avviso esisteva, ho riferito quel che sapevo. Granata mi consegnò una nota che trasfusi in una memoria che depositai alla Procura di Milano: alleggerii le mie accuse come mi aveva chiesto. Ne avevo bisogno, ero in difficoltà, non sotto il profilo finanziario, ma non avevo più un futuro in Italia. In cambio ho avuto la promessa, mai mantenuta, di essere riassunto in Eni dopo il primo grado di giudizio”.

Il 30 maggio scorso la Procura di Milano sente come persona informata sui fatti Salvatore Carollo, dipendente di Eni ed esperto di trading. Carollo riferisce di essere stato contattato da Amara pochi giorni prima affinché “veicolasse” alcuni messaggi a un altro importante funzionario Eni, Roberto Casula: “Mi disse che esisteva un blocco di potere di cui lui stesso faceva parte unitamente a Scaroni (Paolo, ex ad di Eni, ndr), ai servizi segreti e ad alcune Procure non meglio identificate che avevano come obiettivo di far fuori Descalzi dal suo incarico – usò metaforicamente il termine ‘ammazzarlo’ – e mi disse: ‘I vertici Eni sanno che io non ho detto tutto quello che sapevo e che sono sempre stato in mezzo a queste vicende giudiziarie per proteggerli’. I nomi che mi fece furono Descalzi e Granata. Disse che l’operazione per il silenzio di Armanna gli era costata mezzo milione”. E ancora: “Mi disse che grazie ai suoi buoni rapporti con Mantovani (Massimo, ex responsabile ufficio legale Eni, poi responsabile trading, indagato a Milano per il fascicolo siracusano sul falso complotto, ndr) aveva continuato a fare attività di trading (…) che la società Napag, nella quale ha una partecipazione, ha guadagnato circa un milione di dollari l’anno scorso (…). In sostanza diceva che Eni doveva continuare a salvaguardare Mantovani in modo che lui continuasse a guadagnare. (…) La protezione di Mantovani faceva parte di quel negoziato di cui ho parlato prima e che mi chiedeva di veicolare a Casula”.

Il Fatto ha contattato Amara: “A maggio ho incontrato Carollo – racconta – e ho discusso con lui di Granata e Descalzi ma non ho alcuna partecipazione in Napag, società per la quale sono stato solo consulente”. Infine il Fatto ha contattato l’Eni per chiedere se confermava o smentiva le versioni di Calafiore, Armanna e Carollo sul ruolo di Granata e dell’ente petrolifero. In un’articolata risposta smentisce radicalmente queste ricostruzioni. Aggiunge che “è del tutto evidente lo stato di grave astio di Armanna verso Eni e verso Granata che ne curò di persona l’allontanamento nel 2013 e non l’ha mai più incontrato”.