Legnano, sciolto il Comune del sindaco finito ai domiciliari

Il prefetto di Milano, Renato Saccone, ha deciso lo scioglimento del Consiglio comunale di Legnano e la nomina di un commissario. Un intervento ritenuto necessario dopo l’arresto del sindaco della Lega Gianbattista Fratus (nella foto), finito ai domiciliari dallo scorso maggio con accuse per turbativa d’asta e corruzione elettorale, e le dimissioni di tutti i consiglieri comunali di minoranza e due della maggioranza. A motivare le dimissioni, l’assegnazione della carica di assessore a Chiara Lazzarini, a sua volta ai domiciliari per turbativa d’asta, decisa da un primo commissario ad acta. Il Tar Lombardia ha accolto la domanda cautelare presentata dalla minoranza. Il provvedimento prefettizio tiene conto del fatto che “a causa della riduzione per impossibilità di surroga alla metà dei componenti” del Consiglio “non potrà essere assicurato il normale funzionamento degli organi e dei servizi”. Il prefetto ha quindi disposto la sospensione del Consiglio comunale di Legnano e la nomina di Cristiana Cirelli, quale commissario per la gestione provvisoria dell’Ente. Contestualmente il prefetto ha avviato la procedura per lo scioglimento.

I pm di Milano a caccia degli altri due: “Luca” e “Francesco”

I magistrati di Milano stanno cercando di individuare il “Luca” e “Francesco” registrati nella conversazione con il leghista Gianuca Savoini mentre parlavano con due russi (anche essi da identificare) del denaro che sarebbe dovuto arrivare attraverso una compravendita di petrolio. Tra le attività messe in cantiere dalla procura di Milano e dagli investigatori per individuare i due uomini italiani c’è anche l’eventuale acquisizione, dalla sede di Confindustria Russia, della lista di imprenditori italiani che parteciparono al convegno del 17 ottobre 2018.

La procura sta anche valutando di avviare una rogatoria in Russia per scoprire gli eventuali passaggi di denaro nell’indagine per corruzione internazionale sui fondi russi destinati alla Lega. Parliamo di quella nata in seguito alla registrazione pubblicata dal sito BuzzFeed, in cui si fa riferimento alla presunta trattativa per far arrivare fino a 65 milioni di dollari al Carroccio. I pm Gaetano Ruta e Sergio Spadaro, coordinati dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, cercano riscontro all’audio in cui si sarebbe cercato un accordo sulle percentuali di sconto, con il 4% destinato al movimento e il 2% a funzionari russi.

I titoli del Tg2 sul Capitano sono le parole del Capitano

“‘Un’inchiesta ridicola’, così Salvini commenta l’indagine sui presunti fondi russi alla Lega”. Il virgolettato non è tratto dalle quotidiane veline degli uffici stampa leghisti, ma è stato pronunciato – testuale – all’inizio del telegiornale di una rete pubblica: parliamo, ovviamente, del Tg2 di Gennaro Sangiuliano (ieri, ore 13). L’indagine sui soldi russi difficilmente poteva essere ignorata: si è deciso di presentarla, quindi, con le parole del leader: “Un’inchiesta ridicola”. È il secondo “lancio” del Tg, uno dei titoli che introducono la scaletta. All’interno, poi, i servizi sono due. Uno che racconta l’inchiesta della Procura di Milano con cautela british e inevitabili condizionali. Il secondo invece è un pastone politico, firmato con la sempre generosa solerzia dalla “salvinista” – ovvero la giornalista che si occupa tutti i giorni del ministro – Maria Antonietta Spadorcia. Come inizia il servizio? Lo sapete già. Faccione serio di Salvini in primo piano e dichiarazione stentorea: “Ritengo ridicola questa inchiesta”. Poi parte Spadorcia: “È la parola finale di Matteo Salvini sull’inchiesta per i presunti finanziamenti russi alla Lega” (il linguaggio è diabolico nei dettagli: la “parola finale”; abbiamo già un verdetto). In quella conferenza stampa (che raccontiamo nell’articolo a pagina 2), Salvini è stato messo in difficoltà – come mai successo prima – dalle domande di due giornalisti, ma gli spettatori del Tg2 non lo sapranno mai. Sapranno invece che ha fatto una battuta ironica (perché lo racconta la Spadorcia): “Sto nascondendo rubli sotto i cuscini del ministero”. E che “i bilanci della Lega sono puliti e trasparenti”. È il Tg2, bellezza.

Lo stesso che giovedì sera apriva la sua scaletta con un servizio su Emanuela Orlandi e poi proseguiva così: “Ho piena fiducia in Salvini. Così il premier Conte a proposito della vicenda dei presunti fondi russi alla Lega”.

“Rappresento Matteo a Mosca”: le missioni di Savoini col ministro

“È stato un incontro emozionante e cordiale. Gli abbiamo portato una statuetta dell’Alberto da Giussano e una felpa con la scritta ‘No sanzioni’. Claudio D’Amico e Gianluca Savoini, che mi hanno accompagnato, gli hanno consegnato anche la copia del quotidiano la Padania con la scritta Spasiba Russia”. Così il 18 ottobre 2014 Matteo Salvini raccontava a La Padania il suo primo incontro con Vladimir Putin, avvenuto nella saletta privata di un hotel, in occasione dell’Asem (l’Asia Europe Meeting) a Milano. Lo stesso che ieri si affrettava a dire, parlando della sua visita in Russia dello scorso ottobre: “Non è stato il Viminale a invitare Savoini alla cena con Vladimir Putin a Villa Madama e non sono stato io che gli ho chiesto di venire a Mosca a ottobre”.

Formalmente è vero: Savoini non faceva parte della delegazione ufficiale del viaggio a Mosca (come lo staff del vicepremier all’epoca sottolineava con una certa insistenza) e a Villa Madama erano stati invitati tutti i partecipanti al Forum Italia-Russia che si era appena concluso nei locali della Farnesina, gestito dal Forum di dialogo Italia-Russia e dall’Ispi. Ma la sostanza del rapporto tra i due non cambia.

Eppure Savoini, oggi presidente di Lombardia-Russia, è presente in tutti i viaggi di Salvini nel mondo russo e non solo. Non si contano le dichiarazioni ufficiali e le foto a testimonianza. “Sono nella Lega dal 1991, coordino gli incontri di Matteo Salvini con gli ambienti russi. Non è che adesso sia cambiata la situazione”, dichiarava Savoini al Foglio il 18 luglio 2018, subito dopo il ritorno da un blitz in Russia del vicepremier. Un video (tirato fuori ieri dal deputato del Filippo Sensi) di quell’incontro parla chiaro: durante l’intervista alla Tass di Salvini, la giornalista ringrazia Savoini, seduto nel pubblico.

Arrivato alla Padania nel 1997, su iniziativa di Mario Borghezio, il “Cosacco della Lega” da subito si ritaglia il ruolo di ambasciatore negli ambienti russi. D’altra parte, basta scorrere le interviste che fa prima per quel giornale e poi per Libero per capire quanto abbia coltivato i rapporti con il mondo russo.

Savoini è con Salvini nell’ottobre del 2014, quando la delegazione della Lega è la prima di un paese occidentale ad andare in Crimea. Molte tappe vengono documentate sulla pagina Facebook di Lombardia-Russia. Il 29 ottobre 2015 Salvini e Savoini vengono ripresi, abbracciati, in procinto di partire per il Marocco per una visita istituzionale, dove l’allora segretario della Lega incontra il ministro dell’immigrazione, Anis Birou. Savoini è presente anche in una serie di scatti istituzionali. Il 18 dicembre 2015, Savoini, insieme a Salvini a Claudio D’Amico (altro fedelissimo del segretario) vengono ripresi alla Duma, a Mosca. E poi, sempre il 18 dicembre 2015 in una colazione di lavoro con Andrej Klimov, responsabile esteri di Russia Unita (partito di Putin). Ancora, in occasione, della stessa visita, Savoini appare con Salvini all’incontro con Alexey Pushkov, Presidente Commissione Esteri alla Duma. E poi ci sono tutta una serie di scatti della festa nazionale della Lega ad Arcore, il 4 agosto del 2016. Nel retropalco, i soliti Savoini e D’Amico. Tra gli ospiti, i due esponenti del partito Russia Unita, Alexey Komov (che è presidente onorario di Lombardia – Russia, oltre a essere rappresentante del Congresso internazionale delle famiglie) e Michael Zubarov.

Ancora. Un post del novembre 2016 dà notizia dell’incontro di Salvini e Savoini alla Duma, con il vicepresidente Sergey Zheleznyak. E poi, lo stesso profilo il 18 novembre 2016, Salvini e Savoini incontrano il vicepremier di Crimea, Georgy Muradov. Savoini è con Salvini, la leader nazionalista francese Marine Le Pen e Lorenzo Fontana (attuale ministro agli Affari europei) in un incontro del 2016 . Con la piazza Rossa alle spalle, un’istantanea dei due insieme, il 7 marzo 2017, Lombardia-Russia annuncia che il suo presidente sarà in diretta su Radio Padania Libera per parlare dell’incontro che hanno avuto con il ministro degli Esteri della Russia, Sergej Lavrov. Savoini si ritaglia un ruolo anche nei nuovi equilibri geopolitici: a febbraio 2017 è lui che accompagna Salvini a Londra a incontrare Ted Malloch, l’uomo più anti-Ue di Trump.

E poi D’Amico, che con Savoini ha una società (la Orion), oggi è consulente per gli esteri di Salvini a Palazzo Chigi. Difficile per il vicepremier mantenere la posizione di “Savoini chi?” . Ieri l’Espresso pubblica una foto che vede il capo della segretaria di Salvini, Andrea Paganella parlare con Savoini, lo scorso 17 ottobre, durante l’incontro con Confindustria russa di Salvini. Tanto per dire quanto passasse di lì.

Janko-Giancotti, l’uomo del 4%: gli strani incroci delle sue aziende russe

“Janko dice che il 4% è abbastanza per loro”. Nella conversazione avvenuta all’hotel Metropol di Mosca, pubblicata da BuzzFeed, Janko appare, per gli interlocutori russi, come un gran conoscitore del mondo delle mazzette in quel di Mosca. “Guardi, io non so se quel Janko sono io o meno, ma per me e per i miei legami qui è importante capire chi fossero questi russi che hanno parlato in questi termini”.

Non si nasconde Bruno Giancotti, imprenditore 63enne originario di Serra San Bruno (Calabria) in Russia da quando di anni ne aveva 30, dopo una laurea in Lingue e letterature straniere. Se lo dovessero chiamare in procura, dice che ci andrà senza problemi.

Comunista convinto (durante la militanza incrociò pure quel Pino Neri poi arrestato e condannato perché ritenuto uomo di contatto dei clan calabresi in Lombardia), folgorato sulla via di Putin “da quando – precisa a Irpi – la Russia ha ripreso a farsi portatrice di valori ormai persi nella nostra Italia”. Un riferimento alla retorica che Salvini ha ormai fatto propria di Dio, patria e famiglia, promossa da tempo da certa oligarchia russa. Conosce bene Gianluca Savoini e dubita che Eni si possa prestare a un’operazione di questo tipo: “Quando viene in Russia, Savoini si occupa di andare dai giornali, dai politici, di frequentare gli ambienti culturali, ma mai l’ho sentito discutere di denaro. Si figuri se poi Eni si infila in questo genere di giochi per Salvini”.

Tramite Giancotti, che di mestiere aiuta italiani a portare aziende in Russia, Savoini in Russia ha aperto una società, la Orion, nel 2016, al 7 di Furmannyy Pereulok, uno dei due indirizzi di Giancotti. “Quell’attività di fatto non ha mai portato reddito e sarà chiusa”. Da visura, a maggio dello stesso anno, nasce Italagro, società figlia del Gruppo Agroindustriale Italiano. Giancotti non compare come socio, ma al telefono rivendica di essere tra i proprietari. Italagro si occupa di macchinari agricoli e impianti e intermedia tra acquirenti russi e venditori italiani. Rappresenta 17 aziende, registrate a Mosca al suo indirizzo, il civico 38 di Lomonosovsky Prospect.

Già nel 2015 ci sono però attività a marchio Italagro: il consorzio compare come co-organizzatore del forum di imprenditori italiani in Crimea insieme all’associazione Lombardia-Russia, presieduta dallo stesso Savoini. Un’iniziativa per contrastare le sanzioni europee imposte a Mosca dopo l’annessione della penisola sul mar Nero.

Tra le società aperte attraverso Bruno Giancotti, c’è anche la Del Corona & Scardigli Russia. La sede legale, ancora una volta, è la stessa di Orion. La società fa parte di un gruppo di 19 aziende, con 50 uffici in tutto il mondo. Umberto Del Corona, il presidente della società, è un vecchio conoscente di Giancotti, il quale lo definisce “una persona d’altri tempi che non fa politica, tantomeno con la Lega”. Tuttavia il nome di Del Corona come rappresentante della sua Associazione Cristo Re, di casa a Livorno, appare nell’elenco degli invitati italiani del Forum internazionale “Famiglie numerose e futuro dell’umanità”, tenutosi a Mosca tra il 10 e l’11 settembre 2014.

Quella manifestazione è stata la versione russa del Congresso mondiale delle famiglie, che nel 2019 ha occupato Verona con il fortissimo sostegno dell’allora ministro leghista della Famiglia, Lorenzo Fontana, e di altre associazioni cattoliche tradizionaliste. A raccomandare l’invito di Del Corona è stato Alexey Komov, ovvero il presidente onorario dell’associazione Lombardia-Russia e ambasciatore all’Onu del Congresso mondiale delle Famiglie. Non solo.

Tra i mille misteri che ancora resistono intorno alla conversazione dell’hotel Metropol pubblicata da BuzzFeed, una riguarda proprio una società di trasporto marittimo. A un certo punto si fa riferimento a una “Esse Di Maria”, società che parrebbe aiutare Eni in alcune operazioni di trasporto di petrolio. Per quanto suoni diverso, possibile che sia la Del Corona & Scardigli? “Per quanto condivida i valori di tradizioni e famiglia, non ce lo vedo proprio in questo giro”, dice Giancotti al Fatto. L’azienda interessata, contattata sia all’ufficio italiano sia a quello di Mosca, “non vuole commentare questioni politiche”.

Sentito da AdnKronos sulla vicenda dell’hotel Metropol, Komov ha negato ogni possibile finanziamento da parte dei russi. “Quello che posso dire – ha aggiunto – è che da noi davvero molti guardano con favore al partito di Matteo Salvini perché è portatore di valori tradizionali, come quelli della famiglia naturale, gli stessi a cui guardano i russi”. Komov è un uomo di Konstantin Malofeev, l’oligarca di riferimento della Chiesa ortodossa russa. L’uomo intorno al quale si costruisce l’internazionale pro-vita che guarda al papato di Francesco con grande ostilità.

 

Salvini come Silvio: niente domande, stampa cattivona

Il senso di Matteo Salvini per l’inchiesta sui soldi russi è tradito dal suo linguaggio del corpo: non si era mai mostrato tanto irritato. Al Viminale (per un incontro con i gestori delle discoteche) esordisce con una battuta: “Scusate il ritardo, stavo nascondendo gli ultimi rubli sotto i cuscini”. Sarà l’unico sorriso della sua mattinata.

Glielo spengono due giornalisti: Manolo Lanaro de ilfattoquotidiano.it e Marco Billeci di Fanpage. Con domande puntuali, precise, corrette. Inizia Lanaro: “L’audio di Buzzfeed – Salvini già lo interrompe facendo finta di russare per la noia – svela una trattativa per un finanziamento occulto portata avanti da Savoini in favore della Lega. Se è avvenuta a sua insaputa, perché non agisce per vie legali contro Savoini?”. Risposta: “Farò tutto ciò che è necessario a tutelare me e la Lega”. Poi Billeci: “A che titolo Savoini partecipa alla riunione con il ministro dell’Interno russo? È stato invitato da lei? E al ricevimento a villa Madama con Putin?”. Salvini interrompe con una ripetizione robotica: “No, no, no, no…”. Billeci insiste: “Può produrre i documenti della missione per dimostrare che Savoini non fosse invitato da voi?”. Dal ministro solo ironie: “Produco i documenti di tutti… persone sospette… dal passato oscuro”. Altra domanda: “Cosa ci faceva Savoini a quel tavolo?”. Replica: “Chiedetelo a lui, che ne so? C’era tanta gente”. Billeci insiste: “Non ritiene di dover chiarire questi aspetti?”. “Ritengo ridicola questa inchiesta”.

Dicevamo del linguaggio del corpo: Salvini non guarda mai in camera, i suoi occhi sono puntati altrove, in un punto alla sua destra; un errore insolito per un comunicatore esperto. Ancora Lanaro: “Non la indigna la trattativa svelata dall’audio?”. Risposta: “Mi indigna che ci sia la stampa italiana…”. Il giornalista: “Qualcuno si presenta a nome della Lega a quel tavolo…”. Il ministro lo blocca ancora: “A nome della Lega parlo io!”.

La chiusura è in pieno stile Berlusconi: “Scrivete su questo, mi fate un favore. Poi domandatevi perché i giornali italiani vendono sempre di meno”. Dispiace per il Capitano: a fargli perdere le staffe sono stati i cronisti di due siti che godono di eccellente salute. Era distratto. E nervoso.

Dal pirla al pirla

Diceva Marx che “la storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia e la seconda come farsa”. Nello scandalo di Gianluca Savoini e dei presunti finanziamenti occulti alla Lega da Santa Madre Russia, invece, la storia si ripete due volte: ma la prima come farsa e la seconda pure. Come sempre, quando ci sono di mezzo la Lega e i soldi. Il 7 dicembre 1993 il pool Mani Pulite, che indaga sulla maxitangente Enimont, fa arrestare Alessandro Patelli, di professione idraulico e dunque tesoriere della Lega Nord. Questi ammette di aver ricevuto 200 milioni di lire da un emissario di Carlo Sama al Bar Doney di Roma ladrona: “Poi sono tornato a Milano, sono andato alla sede di via Arbe, li ho chiusi a chiave in un cassetto e me ne sono andato a casa a dormire. Quella notte, però, la sede venne scassinata, portarono via carte di ogni tipo e anche i quattrini. A Bossi non ho detto niente”. Il Senatùr la fa facile: ”Grazie a Di Pietro, scopriamo che con una mano il sistema dava e con l’altra toglieva. Questa è roba da servizi segreti deviati. Siamo caduti in un trappolone. Patelli è un povero pirla”. Poi raccoglie 200 milioni dai militanti in un pentolone di rame e li bonifica su un conto della Procura. Ma al processo si scopre che è stato Bossi a chiedere aiuto a Sama. Condannati sia il Senatur sia il Pirla.

Un’altra volta, per finanziarsi, la Lega mise in vendita le zolle del prato di Pontida: fallimento totale. Poi fondò la banca Credieuronord, per sottrarre i risparmi padani alle grinfie dei banchieri rapaci: l’istituto – usato anche per riciclare miliardi rubati al Tribunale fallimentare – fallì all’istante, con una scia di risparmiatori truffati. Ed evitò la bancarotta solo perché la rilevò Gianpiero Fiorani, il banchiere di Lodi, in cambio dell’appoggio leghista al doppio mandato per il governatore Fazio (costretto a dimettersi per lo scandalo prima di finire il primo). Allora i finanzieri del Carroccio ebbero l’ideona di battere moneta contro l’odiata lira: nacque il tallero padano, detto anche calderòlo in onore del noto economista che l’aveva pensato. Ancora peggio andò col mitico villaggio “Skipper” in Croazia che doveva garantire ai nordisti vacanze sicure, al riparo da négher e terùn, e rimpinguare le esangui casse del partito. L’astuta operazione, condotta personalmente dagli on. Bossi (con signora), Stefani e Balocchi, che avevano convinto un centinaio di dirigenti e militanti a investire decine di milioni di lire, fece bancarotta. Così, dopo Patelli, Stefani e Balocchi, arrivò il neotesoriere Francesco Belsito, calabro-genovese, già autista del ministro Biondi, dunque esperto in alta finanza.

Ora è passato alla storia per aver fatto sparire una parte dei 49 milioni di fondi elettorali, con investimenti in diamanti della Tanzania e in lauree farlocche in Albania per Bossi jr. detto il Trota. Frattanto, il nostro Savoini da Alassio, classe 1963, leghista della prima ora, si faceva le ossa come giornalista del Corriere mercantile su su fino alla Padania, dove tutti lo ricordano simpaticamente come “un nazista”, e all’ufficio stampa della Regione. Bossiano, poi maroniano e infine salviniano, ma sempre putiniano, divenne il portavoce del neosegretario Salvini. Sposò Irina Shcherbina da San Pietroburgo e fondò l’associazione Lombardia-Russia, con sede sul retro della sede di via Bellerio a Milano. Ogni volta che Salvini va a Mosca, se lo porta dietro come mascotte, anche se ora fatica a ricordare. Il “Savo” è sempre defilato, in fondo alle foto di gruppo, a mordere il freno. Il 18 ottobre, a Mosca al seguito di Matteo suo, la grande occasione della vita dopo trent’anni di onorata gavetta: un conciliabolo top secret con due italiani e tre russi sul petrolio da esportare in Italia e la cresta che riempirà finalmente le casse vuote della Lega. Lui pontifica sull’imminente new deal che rivoluzionerà l’Europa grazie a Matteo & Vladimir in cambio di un modico 4%. Nella foga, purtroppo, né lui né gli altri cospiratori s’accorgono di trovarsi nella hall dell’Hotel Metropol, infestato di cimici fin dalla Guerra fredda. Vengono tutti intercettati e il nastro finisce in pasto agli amerikani.

È il remake de Il compagno don Camillo, che si traveste da compagno Tarocci e vola con Peppone&C. in Russia. Lì la polizia li chiude a chiave in albergo, perché è caduto Kruscev a loro insaputa: infatti temono che il prete sia stato scoperto dal Kgb e cercano le leggendarie microspie in tutte le stanze, parlandosi a gesti. Quando poi ripartono per l’Italia, scoprono che i russi hanno sempre saputo la vera identità di don Camillo. Il quale, per contrappasso, deve poi portarsi in America Peppone travestito da monsignore. Un po’ come Salvini che, di ritorno da Mosca, volò tosto a Washington travestito da filoamericano antemarcia, facendo incazzare Putin e forse pure Savoini. Che, alla fine, può dirsi fortunato. Oltre alle cimici, da quelle parti sono anche specializzati in ricatti sessuali. Basta aver visto un altro film, Italians, con Carlo Verdone nei panni di un dentista che, a San Pietroburgo per un convegno, viene coinvolto in una serata sadomaso con una escort nella villa di un oligarca. Si aspetta un “soft massage sulla cervicale”. Ma lei, master and commander, lo colpisce sulla nuca col tacco 16 della scarpa. E lui: “Ma che te sei ‘mpazzita? Mica stai a attacca’ ‘n quadro! Mortacci tua! A cocainomane! A fija de ‘na mignotta! Tu matta totale! Tu malata mentale e forse anche molto drogata! I danni che fa ‘sta droga! A stronzi, ma che ve drogate a fa’?!”. Quindi all’incauto Savoini poteva capitare di peggio che un avviso di garanzia per corruzione internazionale. Fra l’altro solo tentata, perché pare che lui, diversamente da Patelli, alla Lega non abbia portato un rublo. Se quello era un pirla, lui che cos’è?

Ed Sheeran, re delle collaborazioni inattese

Sarà invidiato da ogni singolo artista esistente. A 28 anni, Ed Sheeran si appresta a consolidare il suo trono da Re incontrastato delle classifiche globali con No.6 Collaboration Project, una cassaforte con quindici inediti e un totale di 22 artisti ospiti tra i suoi preferiti. Si viaggia nel tempo tra l’hip hop old school di Eminem e 50 Cent (Remember The Name) sino al più ricercato tra i contemporanei, Travis Scott (Antisocial). È l’album che ogni buon amante della musica vorrebbe incidere, ricco di influenze r’n’b, soul, funk, folk, blues e perfino hard rock. A sorpresa, a chiudere il disco, Bruno Mars firma e produce con Ed una esplosiva Blow, sin dal primo assolo di chitarra. Un riff irresistibile a testimoniare il mood di puro divertimento, vero fil rouge di un album nato quasi per caso, per stessa ammissione del compositore di Suffolk nell’unica intervista rilasciata al presentatore radiofonico americano Charlamagne Tha God. “Prima di avere un contratto discografico ho fatto diversi Ep; uno di questi si chiamava No. 5 Collaborations Project con alcuni rapper inglesi di cui ero fan a quei tempi. Ho scritto nell’arco dell’ultimo anno delle cose sul mio laptop mentre ero in tour e ogni volta che incontravo un artista di cui ero fan o possedevo un suo album gli chiedevo di andare in studio, non tanto per realizzare una canzone, ma solo per il mio piacere”. No. 6 Collaboration è un compendio di quello che di bello e di brutto passa nelle radio inglesi e americane, tra beat, hip hop e suggestioni pop. “Io non vedo generi diversi, vedo solo cuore”, chiosa Ed, “se quello che sento mi smuove qualcosa mi piace”. Dalla ballata acustica Best Part Of Me feat. Yebba si esplora il soul in puro stile Motown di I Don’t Want Your Money feat. H.e.r. sino al crossover di South Of The Border feat. Camilla Cabello & Cardi B, una hit micidiale. Ed è diventato l’equivalente maschile di Adele: record di vendite e credibilità conquistata con stile e personalità ma, soprattutto, la chiave è la semplicità ovvero il traguardo più ricercato e quasi mai trovato nello show business.

Il timido nerd che sollazza 50 mila spettatori a San Siro con una chitarra acustica senza sovrastrutture e trucchi è uno schiaffo a tanti “colleghi” abituati a doversi inventare sempre nuovi fuochi d’artificio. Ci sono almeno dieci potenziali singoli pronti a influenzare altri artisti contemporanei: senza Ed – ad esempio – Justin Timberlake non avrebbe mai composto Say Something con l’artista country Chris Stapleton che guarda caso ritroviamo nell’ultimo brano insieme a Bruno Mars. E il cerchio si chiude, stavolta verso un enorme chewing gum pop che ogni artista vorrebbe masticare.

Lucio su Spotify? Le Emozioni non sono ancora così libere

Due parole, poi il familiare suono della linea che cade. “Sì, pronto?”, e quella che a tutta prima sembrerebbe la voce della signora Grazia Letizia Veronese torna subito nella blindatura di tutta una vita. Un “no comment” sarebbe già stato un mezzo scoop, ma il legittimo – e del tutto prevedibile – rifiuto a parlare al telefono con il giornalista del Fatto conferma la linea d’azione della famiglia Battisti votata alla riservatezza assoluta e alla difesa “per sottrazione” della memoria del caro estinto. La vedova di Lucio, in arte “Velezia” (lo pseudonimo con cui scrisse i testi di E già dopo la rottura del marito con Mogol) prepara verosimilmente la strategia di contrattacco dopo la mossa di Gaetano Presti: il liquidatore nominato dal Tribunale di Milano ha inviato a tutti i soci della Edizioni Musicali Acqua Azzurra Srl e alla Siae la comunicazione con cui si dispone l’estensione dei diritti sul catalogo del cantautore scomparso anche alle piattaforme online.

Sicché molti tra i fan hanno sparato salve di giubilo, immaginando di poter scaricare nei prossimi giorni Mi ritorni in mente o Emozioni su Spotify. La realtà è meno entusiasmante: i tempi prima (e se) di poter ascoltare Lucio in digitale si annunciano lunghi e non privi di insidie. Al tavolo della Acqua Azzurra raramente son stati brindisi e lanci di fiori tra i soci.

La maggioranza delle quote è detenuta dalla signora Veronese con il figlio Luca: un 56 per cento equamente distribuito tra i due eredi sotto il marchio Aquilone Srl. Il 35 è invece appannaggio della Universal Publishing (o per dirla in altro modo la Vivendi di Bollorè). Il restante 9 per cento è nelle mani di Mogol e de L’Altra Metà Srl. Un mosaico dove i pezzi non si incastrano mai gli uni sugli altri pacificamente. L’Acqua Azzurra fu fondata da Lucio e dallo stesso Mogol il 5 marzo 1969: data fatidica, perché era il giorno del 26mo compleanno di Battisti (nato notoriamente 24 ore dopo Dalla, nella più luminosa congiuntura astrale della musica italiana), e mentre le presse davano alle stampe l’album d’esordio del fenomeno di Poggio Bustone, quello con Un’avventura, 29 settembre e Non è Francesca. Lucio si era appena fidanzato con Grazia Letizia, ex segretaria del Clan di Celentano. Il resto è una cinquantennale storia di contrasti tra due che si amavano e due che scrivevano insieme: un totale che fa tre, con Lucio sempre in mezzo. Morto lui nel 1998, il terreno di scontro si è spostato su Acqua Azzurra: Mogol nel 2012 ha intentato causa contro la presidente Veronese, accusandola di “mala gestio” del capitale societario: chiedeva 8 milioni, la sentenza di primo grado del 2016 gliene ha riconosciuti più di due e mezzo, ma c’è l’opposizione in appello.

La Universal ha premuto per la soluzione liquidatoria della Srl, ma l’iter che doveva concludersi con la vendita al 31 dicembre 2017 è ancora lungi dal concludersi. Nel frattempo, già da un paio d’anni, Luca Battisti si è mosso in sede legale contro quella che definisce “la messa all’asta” dei diritti delle canzoni del padre. Il pacchetto del catalogo vale qualcosa come 14-15 milioni di euro, e tutti i maggiori editori musicali italiani osservano alla finestra l’evolversi della situazione: la Emi, la Curci, la Sugar di Caterina Caselli, la Sony (proprietaria dei master originali degli album battistiani, dettaglio non secondario) e ovviamente la Universal Publishing, il cui presidente Claudio Buja ci dice: “L’assenza di Battisti dal digitale è grave, lui è uno dei più grandi autori del Novecento. Valutiamo gli eventi con prudenza e speranza, ma i tempi non saranno brevissimi”. Anche perché, se il liquidatore del tribunale agisce con pieni poteri, i legali dei Battisti ricordano che la legge sull’esercizio economico del diritto d’autore premia in prima battuta gli eredi del compositore delle musiche. Che era Lucio, non altri.

Si andrà avanti a carte bollate chissà per quanto, con buona pace dei fan che hanno varato l’iniziativa di petizioni su change.org per far risuonare su internet i capolavori del Nostro. E chissà, pur nel pieno rispetto di una famiglia che si oppone allo “sfruttamento commerciale” di un repertorio leggendario, chissà davvero cosa accadrebbe se gli adolescenti del Ventunesimo secolo si trovassero di fronte a un tesoro artistico altrimenti destinato a un oblio privato. Magari i ragazzi scoprirebbero che mezzo secolo fa i loro genitori e nonni ascoltavano canzoni indimenticabili, mica quei tristissimi tormentoni balneari che non valgono nemmeno una settimana di ricordi.

Tutti scrivono Coppi 246 i titoli sul campione

Siamo a quota 246. Di libri. Quelli su Fausto Coppi e dintorni, e mancano ancora più di due mesi al fatidico centenario della nascita, il prossimo 15 settembre. Parafrasando il gergo dei pedalatori, è un Gran Premio della montagna editoriale, una Cima Coppi di biografie, riedizioni, scopiazzature, testimonianze (sono ancora vivi 28 dei 107 gregari di Coppi, i suoi “angeli” custodi in corsa e soprattutto nel tramandarne l’epopea). Un turbinìo di allunghi, scatti, sprint a chi pubblica prima degli altri: ecco Coppi raccontato da chi lo conosceva bene (minuziosi lavori di archeologia giornalistica), volumi fotografici, Coppi mai visto, ricognizioni psicologiche, le strade da brivido percorse da Coppi, tornanti di parole, impennate di pagine, fughe di capitoli, traguardi di segreti non ancora svelati. Persino Ennio Doris, fondatore di banca Mediolanum, non ha resistito al richiamo della passione e della memoria, dando alle stampe Coppi e Bartali. Una storia italiana raccontata ai miei figli.

Il collega Giorgio Viberti dice che se leggi Fausto senti vibrare i raggi della bicicletta: suo fratello gemello Paolo, con Adriano Laiolo, ha appena pubblicato Coppi, l’ultimo mistero, centrato sull’assurda morte per la malaria contratta in Alto Volta. Le ricerche certosine di Paolo hanno portato a una sconcertante scoperta: Coppi rifiutò di assumere il chinino quando era in Africa.

E pensare che gli inizi del Coppi inchiostrato furono stentati. Il primo libro dedicato al Campionissimo era solo una brochure. Otto pagine stampate in tempi autarchici dalla tipografia milanese L. Rosio. Titolo frettoloso: Fausto Coppi recordman mondiale dell’ora. Oggi lo trovi solo alla Biblioteca Nazionale di Firenze. Quanto al primato, Coppi lo stabilì il 7 novembre 1942 al Velodromo Vigorelli, durante la guerra, portandolo a 45,871 km, e 31 metri oltre il vecchio primato del francese Maurice Archambaud. Il record restò imbattuto per 14 anni.

Da allora, i libri su Coppi hanno riempito gli scaffali delle librerie. Due o tre li scrisse lui: “Quando a un corridore si allunga la lingua significa che gli si sono accorciate le gambe”, disse da uomo schivo e solitario. Fausto non era loquace, diffidava dei chiacchieroni ma scrisse come correva. Leggere l’autobiografia apparsa nel 1955 sul periodico il Campione e ripresa in Coppi racconta Coppi a cura di Luciano Boccacini nel 2010. Un secondo testo apparve nel 1946, dopo la clamorosa vittoria alla Milano-Sanremo. Fuga solitaria di 145 chilometri, avversari schiantati. Nicolò Carosio avvisò i radioascoltatori: “Primo Fausto Coppi… in attesa degli altri, trasmettiamo musica da ballo”. Il francese Teisserie, secondo, tagliò il traguardo dopo 14 minuti.

Settant’anni fa, il boom editoriale. Coppi vince il Tour del 1949. Bartali l’aveva vinto per la seconda volta, nel 1948. Nove titoli consacrarono la fiera rivalità tra Coppi e Bartali, e l’orgoglio di un’Italia redenta dalle loro travolgenti vittorie. Baedeker dei tifosi fu Coppi e Bartali, dal Giro al Tour di Emilio De Martino. Fece scalpore Curzio Malaparte con il saggio Coppie Bartali (in francese), riedito nel 2009 da Adelphi: “Mi ha sempre affascinato, nella vita degli assi del ciclismo, il loro precoce senso di predestinazione, ciascuno di loro, all’età di sei, otto anni, sa già che avrà un rivale, un nemico fraterno. Ogni Oreste, prima ancora di inforcare la prima bicicletta, sa già che avrà il suo Pilade. Ogni Girardengo sa che avrà il suo Ganna, ogni Binda ha il suo Guerra, ogni Bartali il suo Coppi”.

E poi, la celebre sintesi: “Bartali appartiene a coloro che credono alle tradizioni e alla loro immutabilità, Coppia coloro che credono nel progresso. Gino è con chi crede al dogma, Fausto con chi lo rifiuta, nella fede, nello sport e nella politica così come in ogni altro ambito”.

Gli anni Cinquanta e Sessanta produssero le più belle pagine su Coppi: fior di firme. Come Orio Vergani, Alfonso Gatto, Indro Montanelli, Jean-Paul Ollivier, Mario Fossati, Gianni Brera (Coppi e il Diavolo, magnifico). Brera, coetaneo di Coppi (aveva sette giorni di più), riteneva che la morte tragica di Fausto fosse la sua ultima fuga. Da una vita difficile, stressata, controcorrente. Dal pesante fardello di “uomo solo al comando, la sua maglia è biancoceleste, il suo nome è Fausto Coppi”, geniale annuncio del radiocronista Mario Ferretti, che era di Novi Ligure, non lontano da Castellania, il paese del grande amico Fausto (si conoscevano fin da ragazzi). Coppi morì il 2 gennaio del 1960, Brera pubblicò Io, Coppi (edizioni Vitagliano) il 15 gennaio. Su Ferretti nessuno ha scritto un libro, che invece meriterebbe.