L’angelo in autostop che finisce su Mtv

Credo nell’ospitalità. Ma non sono praticante. Mi basta il pensiero. Nell’estate 2017 eccomi in un autogrill in Germania; osservo quel tizio secco secco che sta lì da un’ora con il pollice sollevato mentre le auto gli sfilano davanti. Eppure lui non le maledice. Osserva, si sistema sulla schiena l’assurdo zaino. Ah sì, dimenticavo di dirlo, sulle spalle ha due enormi ali. Deve essere quello che intimorisce gli automobilisti, il kit da angelo custode. Anch’io tirerò dritto. Di ragioni ne ho un vagone: moglie, tre figli, l’auto che è un carro bestiame. C’è perfino un aereo radiocomandato.

Ecco, però, che una donna si avvicina. Sì, lo porta con sé. È fatta. Ma oddio, quella è… mia moglie! “Sei matta?”, sibilo a Valeria mentre con l’altra metà della bocca sorrido al tizio dall’odore vagamente di capretto. “Steve”, allunga una mano sottile e trasparente come un aquilone. Così sfrecciamo tra valli e pianure con un signore che sorride. Tutto lo meraviglia. Speriamo che non decifri i miei pensieri: rivedo pagine di cronaca nera, famiglie fatte fuori da serial killer con le ali. Dai, prima o poi scenderà. Invece no, proprio a Genova vuole andare. E Valeria che fa? Lo invita da noi. Mentre lei fa il letto rovisto in cucina tra i coltelli, ma il più affilato non taglia il prosciutto. Amen, ammasserò mobili contro la porta.

Ma al mattino mi sveglia un arpeggio di chitarra dalla cucina. Steve tiene un concertino ai bambini. “Sono musicista, vado in Africa a cercare armonie”, racconta e sparisce. Steve come? Non gli abbiamo chiesto il nome. Meglio non scoprire la bugia.

Ma poi una sera ci si trova davanti alla tv a guardare un concerto su Mtv. E Giovanni con l’indice pietrificato indica un uomo sul palco. Non ha più le ali, ma è Steve, l’angelo dell’autostrada.

“Assalto dei fan di Vasco a Zocca”, ma in Paese sono arrivate 120 persone

“Ogni anno, prima che Vasco ritorni in città, facciamo una comunicazione alla prefettura in cui chiediamo qualche agente in più. Solo che quest’anno le agenzie l’hanno pescata in ritardo e hanno ‘gridato’ all’assalto. Ma è tutto nella norma, mica stiamo parlando di migliaia di persone”. Parola di Gianfranco Tanari, sindaco di Zocca, cittadina di 4500 anime che ha dato i natali al recordman di San Siro.

Ma potere del Blasco e necessità di riempire gli spazi estivi dell’informazione – a tutti i costi – a volte vanno di pari passo. Qualche giorno fa, su alcuni siti nazionali sono apparsi questi titoli: “Invasione di fan a Zocca anche sotto la pioggia”; “Assalto a Zocca, la prefettura assicura rinforzi”; “Invasione dei fan, il sindaco chiede aiuto”. E tutti lì a immaginare le cavallette impossessarsi della ridente cittadina sull’appennino emiliano. Anche perché, proseguivano gli articoli, quest’anno sarebbe addirittura peggio degli scorsi.

“In effetti un aumento di fan c’è stato – sostiene il sindaco –, sarà il 30 per cento in più. Ma noi qui siamo abituati”. Vasco Rossi torna “a casa” ogni estate e da sempre Zocca gli è grata, anche perché i suoi fedelissimi assicurano soggiorni negli alberghi e pasti nei ristoranti. Ma da qui a gridare all’emergenza ce ne vuole: “Sa di quante persone stiamo parlando? – conclude Tanari – Saranno 120, mentre fino all’anno scorso erano 70”. Un bell’incremento, decisamente, ma gridare all’“invasione” appare un tantinello esagerato. “Un afflusso facilmente gestibile con le misure messe in campo da tempo”. Quel che non si riesce mai a gestire, invece, è la voglia di un titolone.

È Napoli, ma sembra Marte: la Grotta studiata dalla Nasa

È dal III secolo a. C. che la Grotta del Cane, tra Napoli e Pozzuoli, affascina numerosi visitatori. Ora ha destato l’attenzione anche dell’ente aeronautico e spaziale degli Stati Uniti. La Nasa la studierà perché ipotizza sia simile a Marte. Gli scienziati di Washington vorrebbero approfondire le ricerche sulle possibili forme di vita batteriche in un ambiente così estremo. Il sito ipogeo di 32 metri quadrati, scavato nella conca di Agnano, uno dei crateri in stato di quiescenza dei Campi Flegrei, fungerà da laboratorio. Le indagini serviranno a elaborare eventuali analogie con il Pianeta rosso, dove gli habitat sono altrettanto inospitali.

I primi risultati della collaborazione tra gli scienziati europei e quelli statunitensi sono stati resi noti durante il convegno “Dai Campi Flegrei a Marte: ricerche alla Grotta del Cane”, tenutosi alla Città della Scienza di Napoli a fine giugno. La cavità campana è nota per la sua pericolosità, poiché scarseggia di ossigeno ed è ricca di anidride carbonica. Le esalazioni di gas mefitici al suo interno compaiono anche negli scritti di Plinio il Vecchio. Nel corso dei secoli è stata chiamata “antro di Caronte”. L’aria al suo interno è tossica e irrespirabile per via della mofeta, ovvero particolari emissioni a base di anidride carbonica. L’associazione di “Conca di Agnano” ha supportato le esplorazioni dello speleologo Rosario Varriale nel 2001 e poi nel 2013, assieme agli studiosi dell’associazione “Cocceius”. Tra questi c’è lo speleologo Graziano Ferrari, che da un anno collabora con Serban Sarbu della California State University. “Stiamo progettando – ha dichiarato – una linea di ricerca sull’interfaccia tra gas e gas all’interno della Grotta del Cane, dove emergono gas vulcanici, anidride carbonica e un po’ di metano in un’atmosfera terrestre”. Anche in ambienti così estremi, simili all’atmosfera marziana, potrebbero formarsi colonie batteriche. All’interno della cavità, secondo gli scienziati, c’è il 7% di ossigeno, mentre l’anidride carbonica raggiunge il 17% a una temperatura di 54°C. Gli scienziati italiani sono stati invitati a visitare un’altra delle grotte oggetto di studio da parte degli americani, la Movile in Romania, dove le ricerche sono condotte dall’Extreme Microbiome Project diretto da Scott Tighe dell’Università del Vermont. La Nasa, che indaga sulle forme di vita in un ambiente ricco di anidride carbonica come Marte, è coinvolta. Da qui nasce l’interesse per la nostrana grotta del Cane, denominata così per via dell’usanza a partire dal Seicento dei locali di introdurvi i cani per mostrare ai visitatori gli effetti che le emissioni avevano sugli animali. L’anidride carbonica, infatti, essendo più pesante dell’aria, tendono a ristagnare sul suolo. Tale particolarità indusse anche noti letterati, come Goethe e Dumas padre, a fare tappa ad Agnano durante il Grand Tour. Un tentativo di comprendere cosa accadesse agli animali, in molti casi sopravvissuti una volta condotti all’esterno, lo fece nel XIX secolo anche il medico Pasquale Panvini, piegandosi all’interno della cavità. Bruciori, pruriti, formicolii e la respirazione affannosa lo convinsero a interrompere l’esperimento. Sospesa tra mito e leggenda, la Grotta del Cane ha una fama consolidata. Nessuno, però, finora, l’aveva paragonata a Marte.

L’anno in cui vidi la Germania riunirsi

Memorabile, quell’anno. Per la caduta del Muro di Berlino, innanzitutto, il fatidico 9 novembre del 1989. Ma anche per una serie di eventi, ognuno a suo modo storico, che hanno cambiato la vita politica italiana. Nella redazione di un giornale come L’Espresso, che dirigevo già da cinque anni, li vivemmo tutti con grande partecipazione e con l’ansia professionale di chi, lavorando in un settimanale, è obbligato a “scavalcare” le notizie: cioè ad approfondirle, analizzarle e interpretarle, per offrire una chiave di lettura necessariamente diversa da quella dei quotidiani che hanno la possibilità di trattarle di giorno in giorno. E alcuni di quei fatti conquistarono di diritto la copertina, a cominciare proprio dal Muro, dalla sua storia e dalla sua fine. Due anni dopo, quando lasciai la direzione nel luglio del ’91, ne avremmo dedicata un’altra a Berlino e alla riunificazione della Germania divisa dal 1961, con il titolo Nostra Signora Capitale e un dossier di servizi, interviste e reportage, prefigurando la supremazia tedesca sull’Unione europea.

L’abbattimento del Muro, in seguito a una sequela di proteste popolari che indussero le autorità tedesco-orientali a riaprire le frontiere, fu indubbiamente un evento storico che cambiò la vita di tutti noi, occidentali, europei e italiani. Fino ad allora la “guerra fredda” aveva diviso il mondo in senso orizzontale fra Ovest ed Est, i Paesi del Patto Atlantico e quelli del Patto di Varsavia, il sistema capitalista e il regime comunista. Da quel giorno in poi, il pianeta si divise in verticale, fra Nord e Sud, Paesi ricchi e Paesi poveri. Ed è il mondo in cui abitiamo tuttora, nel pieno di una crisi epocale come quella migratoria che altro non è se non un lungo e sofferto processo per il quale i poveri tendono a essere un po’ meno poveri per sopravvivere e i ricchi saranno costretti a essere un po’ meno ricchi per ridurre le disuguaglianze sociali.

Molti, anche all’interno dell’Espresso, presagirono subito che la fine del Muro avrebbe stravolto l’equilibrio mondiale, alimentando la contaminazione fra i due blocchi e di conseguenza il disordine globale. Ma quella fu comunque una svolta democratica che nell’arco di 10-15 anni riunificò le “due Germanie”, mentre noi non siamo ancora riusciti a riunificare effettivamente le “due Italie” a un secolo e mezzo dalla proclamazione dell’Unità. Quando andai per la prima volta a Berlino dopo la caduta del Muro, da inviato di Repubblica, ebbi modo di verificare di persona che in molti campi – dalla rete elettrica a quella telefonica – l’ex Repubblica democratica tedesca era stata avvantaggiata dalla teoria del late comer, l’ultimo arrivato, rispetto alla Repubblica federale. Eppure, il nostro povero Mezzogiorno rivendica ancora condizioni di parità rispetto al resto d’Italia e la Lega di Matteo Salvini propugna l’autonomia differenziata.

Non si può dire con certezza se fu proprio la caduta del Muro, un evento allo stesso tempo fisico ed emblematico, a determinare o ad accelerare appena tre giorni dopo la svolta del vecchio Pci che era stato il più grande partito comunista dell’Occidente. Fatto sta che il 12 novembre, nella “rossa” Bologna, Achille Occhetto annunciò nel quartiere della Bolognina che il partito avrebbe cambiato nome, simbolo e programma politico: si sarebbe chiamato Partito democratico della Sinistra e avrebbe avuto la Quercia come emblema. Fu una mossa a sorpresa che suscitò grande disorientamento nella base, ma in realtà covava da tempo sotto le ceneri del riformismo adottato progressivamente con lungimiranza da Enrico Berlinguer. E anche a questo evento l’Espresso dedicò una copertina, con la foto di Occhetto e la riproduzione del nuovo simbolo in anteprima, per presentare un’intervista esclusiva al segretario del Pds raccolta da Ferdinando Adornato.

Un altro partito aveva cambiato segretario all’inizio di quello stesso anno: la Democrazia cristiana che a febbraio scelse come leader Arnaldo Forlani, soprannominato “il Coniglio Mannaro” nello zoo politico di Giampaolo Pansa, per definire un uomo apparentemente mite e conciliante ma in sostanza battagliero e imprevedibile. Nel frattempo, fra la Lombardia e il Veneto, quest’ultimo considerato da sempre la “Vandea bianca” democristiana, si preparava la fondazione della Lega Nord, il partito indipendentista nato il 4 dicembre dalla fusione fra il movimento di Umberto Bossi e altri gruppi minori. Ai giorni nostri, Salvini ha abolito l’originaria denominazione settentrionale per superare la dimensione territoriale e mietere consensi anche al Centro e al Sud, ma nessuno può dimenticare le campagne del Carroccio contro “Roma ladrona”, i terroni e in particolare i napoletani che “puzzano come i cani”.

Quel fatidico 1989 fu anche l’anno in cui a marzo Sir Tim Berners-Lee presentò il documento World Wide Web: Summary che segnò l’esordio del principale servizio Internet. E in Italia, a ottobre, entrò in vigore il nuovo Codice di procedura penale, con il passaggio dal rito inquisitorio a quello accusatorio, fondato sulla parità delle parti e sulla terzietà del giudice. Ma sappiamo tutti che nel bene o nel male il web è ormai una realtà globale, mentre il nostro nuovo processo penale deve in effetti ancora cominciare.

 

Pompei 2019, odissea nel trenino: il Metrostar 206

SHERLOCK torna sempre sul luogo del “delitto”. E così, da domenica (il giorno in cui è stata pubblicata la prima inchiesta, “Le 10 bombe su Pompei”, con cui si è inaugurata la nuova iniziativa editoriale del Fatto), Sherlock torna quotidianamente a Pompei per il nostro viaggio nel “patrimonio minato”. Non esistono solo gli ordigni inesplosi della Seconda guerra mondiale a minare Pompei. C’è anche (al di là della bellezza estrema del sito, e dei passi – tanti e importanti – che certo si sono fatti per la valorizzazione di uno dei parchi archeologici tra i più visitati al mondo) il degrado che la galleria degli “orrori” pubblicata due giorni fa ha documentato. C’è la difficoltà, denunciata da Tomaso Montanari, che abbiamo come Paese: non siamo in grado di svegliare un patrimonio culturale dormiente. E ci sono pure i disservizi nei trasporti che, ahinoi, imponiamo non solo ai turisti… Continua

 

Qual è il mezzo migliore per condurre i clienti degli alberghi di Napoli e della costiera sorrentina a visitare gli Scavi di Pompei? Annamaria, guida turistica, risponde subito: “Sarebbe la Circumvesuviana. La fermata di Pompei si trova ad appena 70 metri dall’ingresso di Porta Marina. Però…”. Però? “È una scommessa col destino. Non sai se parti. Non sai a che ora parti. Non sai se torni”.

Domanda all’apparenza semplice: qual è il mezzo migliore per condurre i clienti degli alberghi di Napoli e della costiera sorrentina a visitare gli Scavi di Pompei? Annamaria, guida turistica, risponde subito: “Sarebbe la Circumvesuviana (il trenino che collega Napoli alla provincia, ndr). La fermata di Pompei si trova ad appena 70 metri dall’ingresso di Porta Marina. Però…”. Però? “È una scommessa col destino. Non sai se parti. Non sai a che ora parti. Non sai se arrivi. Non sai quando torni. Non sei sicuro di tornare”.

“Sulla Circumvesuviana avvengono almeno dalle 20 alle 30 soppressioni al giorno, 5 o 6 proprio su quella tratta”, calcola Enzo Ciniglio, portavoce di un comitato di pendolari nato su Facebook. Anche il giornalista Ciro Oliviero ogni giorno pubblica sul suo profilo social la mappa dei treni cancellati. È del 6 luglio uno degli ultimi bollettini di guerra: “Soppressi oggi i treni: 60651 delle ore 06:51 da Napoli per Poggiomarino – 40756 delle ore 07:57 da Poggiomarino per Napoli – 40655 delle ore 06:55 da Napoli per Poggiomarino – 6080 delle ore 08:19 da Sarno per Napoli…” (l’elenco era molto più lungo, con tanto di imprecazioni). Da segnalare anche i ritardi, nelle partenze e negli arrivi (in media, da 20 a 90 minuti). E i turisti, che si affacciano in stazione per la prima volta, si disorientano.

“Accade ogni giorno”, lamenta Teresa, receptionist di un hotel tre stelle di Sorrento. “Metà del mio lavoro consiste nel calmare le proteste dei clienti stranieri che vanno a Pompei, per lo più inglesi e statunitensi… rientrano minacciando di non tornare mai più in Italia”. C’è chi prende il trenino (specie chi ama viaggiare in piedi), e c’è anche chi, più facoltoso, opta per il servizio Ncc, un minivan con conducente a disposizione fino al tramonto: costo 350 euro, comprensivi della “stecca” per l’albergo. Se ti accontenti di un taxi te la puoi cavare con 100 euro.

Le pagine nere della Circumvesuviana, il “trenino degli incubi”, sono molte. Domenica 16 giugno, la peggiore. La stazione di Pompei invasa da 2 mila turisti – tutto documentato in un video virale – che non possono entrare nei vagoni fermi e strapieni (i vandali ne avevano distrutto le portiere) e si sbracciano disperati.

Il presidente dell’Eav, Umberto De Gregorio, fedelissimo del governatore Pd Vincenzo De Luca, è il capo di questa percolante baracca, nella quale governo e Regione hanno iniettato quasi un miliardo di euro negli ultimi anni. Si è autonominato direttore generale a 143.000 euro annui. Tre giorni dopo la domenica di terrore a Pompei, De Gregorio ha promesso ai sindaci migliorie e guardie giurate. Tre giorni dopo ancora, il 22 giugno, il Metrostar 206 si ferma in avaria in una galleria tra Castellammare di Stabia e Vico Equense: i passeggeri hanno percorso due chilometri al buio a piedi, per rivedere la luce, e la linea è stata paralizzata per ore (per la cronaca, il Metrostar 206 si fermerà di nuovo venerdì 5 luglio, più o meno nello stesso punto).

“Ci vorrebbe una commissione d’inchiesta: questo treno andrebbe ritirato”, si sfoga il macchinista Gennaro Conte. “I Metrostar hanno da subito evidenziato problemi strutturali e progettuali – sostiene il sindacalista – ma sinceramente non pensavamo di precipitare così in basso: si riparano i pezzi rotti invece di ordinare i ricambi, si sopprimono linee…”.

“Noi, come albergatori, incoraggiamo l’uso della Circumvesuviana per non appesantire la statale sorrentina, che regge a fatica gli arrivi e le partenze delle comitive da e per l’aeroporto di Capodichino”, spiegano in un hotel a Sorrento. “Ma temo ormai che dovremo riorganizzarci in proprio, con bus turistici”. In piazza Esedra, il secondo punto di ingresso degli scavi di Pompei, già ora decine di pullman quotidianamente ronzano intorno allo spiazzo, tra chioschi e bancarelle, stressando il traffico cittadino. “In questa piazza c’è un caos intollerabile”, ha scritto il soprintendente degli Scavi, Massimo Osanna, al sindaco di Pompei chiedendo di spostare la casbah altrove.

P.S. Non è una soluzione migliore pensare di arrivare a Pompei con la propria auto. Il forestiero può cadere nella trappola dei “chiamanti”, che ti invitano a lasciarla nei campeggi di fronte: tariffa fissa 10 euro. Mentre il trenino, per il biglietto Napoli-Pompei costa 2 euro e 60 centesimi. Poi incroci le dita, e speri di arrivare.

Tornado, 7 morti e 30 feriti in Calcidica

L’esordio dell’esecutivo guidato dal conservatore Kyriakos Mitsotakis non poteva essere peggiore e richiama alla mente la “nemesi”. A un anno dal catastrofico incendio che divampò sulla costa dell’Attika facendo più di 100 vittime, un tornado mai visto prima d’ora ha devastato alcune località della penisola Calcidica, nel Nord della Grecia uccidendo 7 turisti stranieri, tra cui 2 bambini, e ferendone alcune decine. Venti minuti di terrore, con raffiche di vento e grandine che hanno sradicato alberi e spazzato via camper e tende. “In cinque minuti abbiamo visto l’inferno”, sono state le prime parole del proprietario di un locale a Nea Plagia. Secondo quanto riferito da Charalambos Stériadis, capo della Protezione civile nel nord della Grecia, “si tratta di un fenomeno senza precedenti”. Almeno 140 pompieri sono stati chiamati in servizio e coinvolti nelle operazioni di salvataggio. Il governo regionale ha chiesto lo stato d’emergenza e il portavoce del governo Stelios Petsas ha confermato che la regione è stata colpita da venti oltre i 100 km/h.

L’accesso alla Calcidica resta ancora difficile, soprattutto a causa della caduta di un traliccio dell’alta tensione: secondo Petsas, ci vorranno almeno due giorni per ripristinare la corrente nella zona. Il neo ministro della Protezione dei cittadini Michalis Chrisochoidis da ieri mattina è sul posto per sovrintendere alle operazioni. Si tratta di uno di qui ministeri creati ex novo da Mitsotakis che, dopo il terrificante rogo scoppiato nel luglio 2018 a Mati e Rafina, dall’alto dei banchi dell’opposizione aveva puntato il dito contro “l’insipienza e sciatteria criminale” dell’allora governo targato Syriza, “incapace di prevenire e gestire i disastri climatici”. Le conseguenze nefaste dell’incendio – dovuto alla combinazione di una temperatura più torrida del solito e della mancanza di un piano regolatore in una zona punteggiata di case abusive – erano state attribuite dall’attuale neo-premier alla mancata revisione da parte del suo predecessore Alexis Trispras delle norme che regolano la protezione civile. In realtà a trasformare l’impatto dell’incendio in una tragedia biblica contribuirono anche i tagli che l’esecutivo di sinistra fu costretto a fare in tutto l’apparato pubblico dall’ex troika. Per mettere da parte il surplus finanziario statale, la misura principale richiesta da Bruxelles e Washington (Fmi), il governo Tsipras non poté effettuare nei suoi tre anni di governo l’ammodernamento dei mezzi in uso al corpo dei pompieri, tantomeno procedere alle assunzioni per sostituire i vigili del fuoco andati in pensione.

E a proposito di surplus, Mitsotakis proprio ieri avrebbe ricevuto un niet da Angela Merkel (Nea Demokratia e la Cdu tedesca sono entrambi ne partito popolare europeo) alla richiesta di abbassarlo.

Caso De Rugy: soldi pubblici anche per ristrutturare e arredare l’appartamento

Mediapart ha pubblicato ieri il secondo capitolo dell’inchiesta che da due giorni imbarazza François de Rugy, ministro della Transizione ecologica di Emmanuel Macron. Già colpito dalle prime rivelazioni sui lussuosi festini a base di aragoste e pregiati champagne a spese del contribuente, mentre era presidente dell’Assemblea Nazionale, il ministro deve rendere conto anche di oltre 63 mila euro spesi per rinnovare gli appartamenti del ministero dove vive con la moglie.

Spese anche queste sostenute con i soldi dei contribuenti. Mediapart ha scoperto che tra fine 2018 e inizio 2019, De Rugy ha fatto realizzare degli importanti lavori nell’alloggio di funzione che occupa all’Hôtel de Roquelaure, il palazzo settecentesco sede del ministero. Ha fatto rifare la pittura (35.390 euro), la moquette e i parquet (4.639 euro), i bagni (6.057 euro). Soprattutto ha fatto montare una “cabina armadio gigante” costata ben 16.996 euro. “Non c’erano armadi”, ha dichiarato Séverine de Rugy, moglie del ministro, già interrogata sulle fastose serate tra amici che lei stessa organizzava. Da parte sua, De Rugy ha spiegato che le stanze erano “vetuste” e i lavori “necessari”. Mediapart ha pubblicato però le foto dei locali prima dei lavori e il loro stato generale era “buono”, come hanno confermato al giornale alcuni testimoni. Nicolas Hulot, predecessore di De Rugy, ha detto per esempio che l’appartamento era “impeccabile, sovradimensionato, ma triste”. Sembra di tornare alle polemiche di un anno fa sul servizio di piatti dell’Eliseo da 500 mila euro, voluto da Emmanuel e Brigitte Macron, e i 34 mila spesi per installare una piscina nel giardino del Forte di Bregançon, dove la coppia passava le vacanze. Come all’epoca, anche le spese di De Rugy stridono con quel “principio di esemplarità” di cui Macron si dice garante. Ieri De Rugy è stato convocato d’urgenza dal premier Philippe. Ha dovuto accorciare una visita nel centro della Francia e rientrare a Parigi. Per ora conserva la poltrona, ma ha accettato di sottoporsi a “un’ispezione ministeriale” e si è impegnato a “rimborsare ogni euro contestato”.

Spagna: “Rianimate Teresa”. Un milione per l’eutanasia

Due storie si intrecciano in questi giorni in Europa, riaprendo il dibattito sul fine vita e l’eutanasia. Ieri mattina, poco dopo le 8:30 moriva nell’ospedale di Reims in Francia Vincent Lambert, il paziente da quasi undici anni in stato vegetativo a cui i medici avevano deciso di interrompere le cure. Il caso – al centro di una lunga disputa giudiziaria della famiglia – si era chiuso con una sentenza di terzo grado che dava ragione ai medici del 45enne tetraplegico dal 2008, che volevano interrompere i trattamenti che lo tenevano in vita.

Il procuratore di Reims, Matthieu Bourrette, ha annunciato di aver aperto comunque un’indagine sulla “ricerca delle cause di morte” di Lambert, “alla luce del contesto molto particolare di questa morte dopo anni di ricorsi giudiziari e di conflitto aperto tra i membri della famiglia”, e ha disposto l’autopsia sul cadavere “come sempre accade se una persona muore in circostanze particolari o sospette senza che si presupponga l’esistenza di un reato”. Mentre i genitori di Vincent hanno denunciato che il loro figlio sarebbe stato “ucciso dalla ragion di Stato e da un medico che ha rinunciato al giuramento di Ippocrate”, sul caso si sono levate voci diverse. A partire dal papa che ha twittato: “Dio Padre accolga tra le sue braccia Vincent Lambert. Non costruiamo una civiltà che elimina le persone la cui vita riteniamo non sia più degna di essere vissuta: ogni vita ha valore, sempre”; passando per l’Osservatore Romano che ha accusato i medici di “mancanza del vocabolario dell’umanità”, per finire con la presidente del Congresso Mondiale delle Famiglie che ha parlato di “sconfitta della modernità e ritorno al nazismo e al razzismo”, gridando al “ritorno dell’eugenetica in Occidente”. Nell’Occidente tutto, visto che nelle stesse ore, ad Alcalá de Henares, vicino Madrid, in Spagna, un giudice disponeva la prosecuzione delle cure per María Teresa Blanco, la donna di 54 anni ricoverata per la ventesima volta per le conseguenze della atassia neurodegenerativa per cui i medici hanno disposto lo stop alla rianimazione, ritenendo che “ogni intervento di rianimazione sarebbe troppo aggressivo per la paziente”. La sentenza dà così ragione ai fratelli della donna che avevano fatto ricorso contro la decisione dei medici. Anche il caso di Maria, come quello di Lambert, sta dividendo l’opinione pubblica, già provata dalla morte di María José Carrasco. Ad aprile, a 30 anni di distanza dall’ultimo caso mediatico di eutanasia in Spagna, un’altra Maria, 61 anni, malata di sclerosi multipla si toglieva la vita con l’aiuto del marito Ángel Hernández, dapprima arrestato e poi rilasciato grazie al video che Maria e Ángel avevano registrato, in cui la donna confermava la sua richiesta di farsi somministrata l’iniezione fatale.

Quest’ultimo caso aveva riportato in Parlamento il dibattito su una legge per l’eutanasia, che ieri ha ricevuto un grosso input grazie al milione di firme arrivate in Parlamento. Legge che non riguarderebbe questa Maria, la quale – seppure, a detta di suo fratello Maximo, “ride e fa capricci” se i familiari escono dalla stanza – a mala pena riesce a muoversi e non può parlare. “In questo caso non si sta parlando di eutanasia”, ha specificato il presidente del Collegio dei medici di Toledo, Juan José Rodriguez Sendin. Tema chiamato in causa invece dagli Avvocati cristiani, l’associazione che difende i valori del Cristianesimo che sul suo sito raccolgono le firme perché non venga applicata a Maria.

Il copione di Putin per il Sudan

Nonostante l’accordo raggiunto tra i dimostranti della società civile, che da dicembre protestano per le strade, e i generali dell’esercito – residui dei militari golpisti (che avevano preso il potere il 30 giugno 1989 e da allora non l’hanno più mollato) – per un governo di transizione che organizzi elezioni generali tra tre anni e tre mesi, il Sudan è ancora nel caos. Il cambio di alleanze internazionali sta giocando un ruolo piuttosto perverso. Mentre gli Stati Uniti hanno sempre mostrato la loro ostilità verso la dittatura sudanese del generale Omar Al Bashir, la Russia che all’inizio delle manifestazioni aveva cautamente simpatizzato con i dimostranti, ora ha cambiato campo e si è schierata apertamente dietro ai generali.

Mosca teme che un cambio di regime possa farle perdere quella posizione di favore che le consente di avere voce in capitolo nello sfruttamento delle risorse minerarie del Paese, prima di tutto il petrolio. Non è un mistero che le navi militari russe godano inoltre di un attracco privilegiato a Port Sudan, lo scalo situato in una posizione strategica a metà del Mar Rosso. La partita che si sta giocando a Khartoum non è più quindi solo una questione interna dell’ex protettorato anglo-egiziano, ma si è spostata nel più ampio scacchiere dell’antagonismo tra Washington e Mosca nell’area mediorientale.

I documenti pubblicati dal Guardian e dal sito di notizie in lingua russa, MHK Media, elaborati da “Dossier Centre”, un gruppo investigativo finanziato dall’imprenditore russo in esilio, Mikhail Khodorkovsky, sono piuttosto inquietanti e hanno rivelato il ruolo svolto finora dalla Russia in Sudan. I documenti – che sembrano all’apparenza del tutto veri – mostrano come Mosca abbia messo a punto piani per rafforzare la posizione della Russia in tutta l’Africa, costruendo relazioni con i governi, stringendo accordi militari con diversi Paesi, sostenendo una nuova generazione di leader e infiltrando una rete di agenti sotto copertura. Il dossier riporta anche i dettagli di una campagna russa per diffamare i manifestanti anti-governativi in ​​Sudan. Il piano contiene anche rielaborazioni della campagna del governo moscovita per combattere l’opposizione al presidente Vladimir Putin, addirittura in un documento con riferimenti alla Russia erroneamente non sostituiti con il Sudan.

Così si apprende che la Russia per screditare i manifestanti ha consigliato alle forze armate sudanesi di usare notizie e video falsi per dipingerli come anti-islamici, pro-israeliani e pro-Lgbt. Il piano suggerisce inoltre di aumentare il prezzo della carta da giornale per rendere più difficile la stampa e la diffusione delle notizie sulle dimostrazioni. Di infiltrare poi nelle manifestazioni individui europei e mostrare le loro foto per denunciare “gli stranieri” ai raduni anti-governativi. Tra i documenti del “Dossier Centre” c’è anche una lettera di Yevgeny Prigozhin, un uomo d’affari di San Pietroburgo stretto collaboratore di Putin, che si lamenta con il dittatore sudanese Omar Al Bashir, prima che fosse rovesciato l’11 aprile scorso, perché non segue i suoi consigli, di non essere abbastanza attivo e di adottare una “posizione estremamente cauta”. Prigozhin, incriminato a suo tempo dal consigliere speciale statunitense Robert Mueller per aver gestito sui social media la diffusione di fake news per favorire la campagna presidenziale di Donald Trump nel 2016, è stato, secondo i documenti, un attore chiave negli sforzi per rafforzare l’influenza russa in Africa.

Effettivamente sembra ora che i suggerimenti russi siano stati accolti. La scorsa settimana i militari hanno invitato in Sudan un gruppo di giornalisti stranieri perché si rendessero conto della situazione. Per prima cosa sono stati accompagnati in alcuni ospedali saccheggiati, secondo le guide, dai manifestanti e come stessero tornando alla normalità. In realtà quelle strutture erano state attaccate dai famigerati paramilitari del Rapid Support Forces (gli ex janjaweed). “Portarci lì deve essere sembrata a qualcuno una buona idea, anche se non riesco a immaginare perché – ha commentato il giornalista della Bbc Fergal Keane – . Il piano era di mostrarci quanto i manifestanti si fossero comportati in modo terribile. Se il mondo potesse vedere come sono andate realmente le cose, capirebbe che il regime non ha avuto altra scelta che mandare la milizia. Ma non è così. I paramilitari, guidati dal generale Mohammad Hamdan Daglo detto Hemetti, sono dappertutto anche negli ospedali “saccheggiati” e appaiono più un esercito di occupazione che una forza di sicurezza interna”.

 

Salone Auto, Parco Valentino dice addio a Torino: va a Milano

Dopo cinque edizioni di successo, il Salone dell’Auto all’aperto dice addio a Torino e dal prossimo anno si trasferisce in Lombardia, a Milano e Monza. Ad annunciarlo gli organizzatori del Parco Valentino, lo show che si è concluso lo scorso 23 giugno facendo registrare numeri record con 700 mila visitatori e 54 case automobilistiche presenti. “Seguendo la nostra vocazione innovativa – ha spiegato il presidente del Salone Andrea Levy – abbiamo scelto per il 2020 di organizzare la sesta edizione in Lombardia, ringraziando la città di Torino”. A nulla dunque è valso il tentativo della sindaca Chiara Appendino di trattenere la manifestazione dopo le critiche della sua maggioranza che ha presentato una mozione per bocciare l’allestimento del Salone automobilistico nel nome dell’ambiente e dell’ecologia. La Appendino – dopo aver incontrato Levy – si era detta pronta a votare contro la mozione. Una mossa che, però, non ha convinto gli organizzatori a recedere dalla fuga. La sindaca si è detta “fuori di sé”: “Sono furiosa per la decisione. È una scelta che danneggia la nostra città, a cui hanno anche contribuito alcune prese di posizione autolesioniste di alcuni consiglieri del consiglio comunale del Movimento”.