La lotta all’evasione è quasi ferma. Pochi controlli e solo sui piccoli

L’evasione fiscale, che divora ogni anno almeno un quinto delle entrate erariali, viene combattuta dallo Stato con gentilezza e poca persuasione. Tanto che “i livelli di evasione sono rimasti nel corso degli anni particolarmente elevati rispetto a quelli esistenti nei principali Paesi europei, mentre l’effetto generato dalla normativa e dall’azione dell’amministrazione non è ancora riuscito a modificare la condotta di quella parte di contribuenti ove più si concentrano le irregolarità”. Inoltre “le aspettative di future sanatorie, le criticità in cui versa l’amministrazione, le difficoltà esistenti nella riscossione dei crediti pubblici, sono tutti elementi che incidono sul corretto funzionamento del sistema il quale – è bene sottolinearlo – continua a fondarsi sul principio dell’adempimento spontaneo degli obblighi fiscali”.

A tracciare il quadro, tra l’impietoso e il paradossale, è la Relazione sul rendiconto generale dello Stato 2018 stesa dai magistrati della Corte dei Conti e presentata nei giorni scorsi. Delle 549 pagine del primo volume della Relazione, 110 sono dedicate a un’analisi dell’attività dell’amministrazione finanziaria, condannata con pochi mezzi a districarsi nell’applicazione di un vero e proprio ginepraio di condoni e di centinaia di regimi speciali che costituisce il corpus del nostro sistema tributario.

La pressione fiscale aumenta ma non per tutti. Nel 2018 le entrate tributarie costituivano l’84,7% degli introiti finali accertati, con un incremento dello 0,4% rispetto al 2017 e un Pil fermo al palo. Tra le imposte principali segnano un incremento l’Irpef (+5,8%) e l’Iva (+4,6%). Al contrario risulta in flessione l’apporto richiesto alle società. L’accertato Ires è, infatti, in calo del 6,4% a seguito del taglio dell’aliquota previsto con una legge del 2015. Più volte in passato la suprema magistratura contabile ha rilevato l’esigenza di una più articolata e coordinata strategia, basata sull’uso intenso della tecnologia per favorire e semplificare l’adempimento e supportare l’azione di controllo dell’amministrazione. Che continua a calare. Il dato di consuntivo del 2018 segna introiti per 5,5 miliardi di euro, in notevole flessione rispetto al risultato degli anni precedenti (-23,8% sui 7,3 miliardi del 2017 e -9% rispetto ai 6,1 miliardi del 2016) nonché da quelli conseguiti nelle annualità 2014 e 2015. La flessione, secondo la Corte, è attribuibile a diversi fattori, tra i quali anche il crescente ricorso all’istituto del ravvedimento operoso, che consente ai contribuenti di emendare le dichiarazioni anche successivamente alla conclusione dei controlli prima della notifica dell’accertamento, beneficiando di significative riduzioni delle somme dovute.

Va considerato, inoltre, che il 2018 è stato caratterizzato dall’attesa per la preannunciata definizione, particolarmente agevolata, dei verbali di constatazione consegnati fino al 24 ottobre 2018. Anche il numero degli accertamenti ordinari (ne sono stati fatti poco meno di 263 mila) risulta in picchiata rispetto all’anno precedente (-11,5%). Dopo la drastica flessione del 2016 (quando il numero degli accertamenti ordinari non aveva raggiunto i 200 mila), ci si allontana nuovamente dai livelli ante 2016 (in media poco più di 310 mila accertamenti all’anno). All’interno di questa tipologia di controlli, gli accertamenti da studi di settore diminuiscono ulteriormente (-28,3%) passando da 2.529 nel 2017 a 1.814 nel 2018. In forte flessione (-19,9%) anche il numero degli accertamenti parziali automatizzati, che passa da 266.443 nel 2017 a 251.907 nel 2018. Sono valori sensibilmente lontani da quelli raggiunti negli anni anteriori al 2016.

I magistrati contabili rinnovano l’auspicio di un’evoluzione degli strumenti a disposizione dell’Agenzia delle Entrate per acquisire e incrociare le informazioni di rilievo fiscale prima della presentazione delle dichiarazioni. Si pensa in primis all’acquisizione dei dati relativi alle fatture, ai corrispettivi e ai flussi finanziari. La loro conoscenza è ritenuta dai magistrati contabili di “rilievo strategico per una effettiva riduzione dei fenomeni evasivi di massa”. Quanto alla maggiore imposta evasa accertata, il risultato del 2018, 17,4 miliardi di euro, risulta in sensibile costante flessione rispetto al quadriennio precedente (negli anni 2014 e 2015 la maggiore imposta aveva superato i 20 miliardi di euro). Anche nel 2018 si rileva l’elevata concentrazione dei controlli effettuati nelle fasce di minore importo: su un totale complessivo di 558.800 controlli, ben 283.338, pari al 50,7% del totale, hanno dato luogo a un recupero (potenziale) di maggiore imposta ricompreso tra 0 e 1.549 euro. Peggiora anche il rapporto tra la frequenza dei controlli sostanziali eseguiti e la numerosità dei contribuenti. Le probabilità di essere sottoposti a un controllo da parte dell’Agenzia delle Entrate continuano a restare praticamente inesistenti: nel 2018 solo il 2,4% del totale dei soggetti considerati ha ricevuto una visita del fisco.

Crac Qui!Group, arrestato il re dei buoni pasto

Gregorio Fogliani, presidente e fondatore di Qui!Group, impresa di distribuzione dei buoni pasto utilizzati anche dalla Pubblica amministrazione, è stato arrestato nell’ambito dell’inchiesta sul fallimento della società avvenuto a settembre. L’indagine, condotta dai finanzieri del comando provinciale di Genova è per bancarotta fraudolenta, riciclaggio, autoriciclaggio e truffa aggravata. I finanzieri del nucleo di polizia economico-finanziaria hanno eseguito altre due ordinanze di custodia in carcere e tre agli arresti domiciliari. Le Fiamme gialle stanno eseguendo un sequestro preventivo su conti, immobili e disponibilità finanziarie per 80 milioni di euro. Nel settembre dello scorso anno il Tribunale di Genova aveva dichiarato il fallimento della Qui!Group per debiti che ammontavano a oltre 325 milioni di euro. Tra i beni sequestrati anche i muri del Moody, locale-tavola calda in centro a Genova che era stato chiuso dopo il crac ed è stato riaperto solo cinque giorni fa dopo un accordo tra Hi Food Genova, società che vede tra i soci la Event Beach controllata da Gabriele Volpi e la Kofler, e Azzurra, società dello stesso Fogliani e proprietaria dei locali di via XII Ottobre.

Taglio tariffe dei binari, Rfi perde 200 milioni

Rete ferroviaria italiana (Rfi), la perla del gruppo Fs, la società che gestisce i 16 mila chilometri di binari, dovrà rinunciare da oggi al 2021 a circa 200 milioni di euro. Cifra che equivale a più di due terzi dei sostanziosi utili annuali (274 milioni nel 2018), ottenuti soprattutto con i pedaggi imposti alle imprese ferroviarie, sia quelle di casa Fs, dalle Frecce ai regionali, sia quelle private, dalle aziende dei treni merci fino a Italo.

La batosta che si sta abbattendo su Rfi è l’epilogo di una lunga storia cominciata quando Mauro Moretti non era ancora diventato il padrone delle Ferrovie, ma un semplice dirigente, anche se di primo piano, capo proprio di Rfi. Era metà del primo decennio del Duemila e Moretti studiò un sistema di pedaggi molto vantaggioso per le Fs in vista della concorrenza privata futura.

Per anni, per esempio, i treni Italo, il concorrente per antonomasia nell’Alta Velocità, hanno dovuto sborsare 15 euro a chilometro (poi ridotti a 8). L’impostazione tariffaria di Moretti fu sostanzialmente recepita un decennio dopo dalla nuova Autorità di regolazione dei Trasporti (Art) diretta da Andrea Camanzi. Era il periodo in cui Michele Mario Elia era succeduto a Moretti e il governo di Matteo Renzi vagheggiava l’idea di vendere quote di minoranza di Fs: dotare Rfi di un sistema di pedaggi vantaggioso avrebbe accresciuto il valore del gruppo. Così fu deciso. La scelta, però, non solo non piacque alle imprese ferroviarie non Fs, ma alcune di queste, in particolare quelle riunite nell’associazione dei treni merci Fercargo diretta da Giancarlo Laguzzi, si rivolse ai giudici per modificare quell’impianto regolatorio. Siccome l’Art ha sede a Torino, la vicenda finì nelle aule del Tar Piemonte che nel 2017 con due sentenze successive dette ragione a Fercargo.

Le sentenze sono dure nei confronti dell’Autorità dei trasporti: “L’Art, soggetto pubblico e neutrale deputato alla verifica della tariffazione, non può limitarsi a sostenere che l’impostazione contabile scelta da Rfi è stata avallata da una società di revisione contabile privata, individuata e retribuita dal soggetto controllato, che per definizione opera in una posizione priva di analoghe garanzie di indipendenza proprie del solo organo di controllo pubblico”. In pratica i giudici amministrativi sostengono che in quell’occasione l’Art ha preso a scatola chiusa le scelte di Rfi. Nella relazione annuale di fine giugno 2019 il presidente Camanzi ha annunciato che l’Art ha ora recepito le sentenze riscrivendo la delibera sulle tariffe con un metodo basato sui costi reali di gestione molto meno vantaggioso per Rfi che prevede una riduzione media del 4 per cento dei pedaggi.

La società Fs che gestisce i binari ora è alle prese con i conteggi per restituire il dovuto a chi ne ha diritto. Finora hanno accertato che a regime i minori introiti saranno di 48 milioni di euro l’anno per tre anni, dal 2019 al 2021; questa cifra comprende parte delle quote indebitamente incassate da Rfi nel 2016 e 2017. Sono ancora in corso i conteggi per il 2018: considerando che anche per l’anno passato la cifra finale non dovrebbe essere molto diversa da quella accertata per ogni anno del triennio 2019-2021, il totale di minori incassi per Rfi dovrebbe alla fine attestarsi sui 200 milioni.

Una parte di questa somma, quella relativa alle Frecce e ai treni di Trenitalia, è solo una partita di giro contabile all’interno delle Fs. Una parte, invece, andrà a vantaggio dei privati: per esempio 2,5 milioni alle aziende dei treni merci, una decina a Italo.

In Alitalia tornano i Benetton: Atlantia avvia le trattative

Sembra un semplice déjà vu, se non ci fosse stata di mezzo la tragedia del ponte Morandi di Genova e lo scontro sulla concessione di Autostrade. Fatto sta che dieci anni dopo i capitani coraggiosi di Roberto Colaninno, l’Atlantia dei Benetton è pronta a partecipare all’ennesimo salvataggio di Alitalia. Dopo giorni di rumors, ieri il cda ha avviato le trattative. “Preso atto dell’interesse della controllata Aeroporti di Roma per una compagnia di bandiera competitiva e generatrice di traffico – ha spiegato la società in una nota – è stato dato mandato all’amministratore delegato Giovanni Castellucci di approfondire la sostenibilità ed efficacia del piano industriale relativo ad Alitalia – inclusa la compagine azionaria e il team manageriale – e gli opportuni e necessari interventi per un duraturo ed efficace rilancio”.

Atlantia andrebbe così a comporre il terzo partner industriale delle Ferrovie, a cui il governo ha affidato a ottobre scorso il compito di salvare la compagnia. La nuova società necessita di capitali freschi per 850 milioni: le Fs avrebbero il 35%, l’americana Delta e il Tesoro il 15% a testa; Atlantia chiuderebbe il cerchio con un altro 35%, un impegno da 300 milioni. In teoria la scadenza per le offerte è lunedì. I Benetton vorrebbero però avere più tempo, fino a due mesi, per negoziare. Le Fs, guidate da Gianfranco Battisti, non si metterebbero di traverso, ma l’ultima parola spetta al ministero dello Sviluppo, che invece non vuole più rinvii. Se la situazione non si dovesse sbloccare, lunedì mattina gli attori in causa dovranno garantire in qualche modo l’impegno a tirare fuori i capitali. Dopo di che partirà il negoziato sul piano industriale e la governance della futura società, e poi le trattative con i sindacati (sono previsti 2mila esuberi su 11 mila dipendenti). Restano alla porta gli altri pretendenti che si sono fatti avanti in questi mesi. L’unico che ha presentato qualche garanzia è Carlo Toto, proprietario di Strada dei Parchi. Luigi Di Maio vorrebbe che entrasse diluendo l’impegno di Atlantia, ma l’imprenditore abruzzese non è ben visto da Delta e Fs (con cui è in contenzioso), e peraltro non avrebbe intenzione di entrare insieme ai Benetton. Che a loro volta ricambiano la diffidenza. Il patron della Lazio, Claudio Lotito e l’imprenditore colombiano Germán Efromovich, azionista di Avianza, non hanno fornito garanzie.

Con la delibera del cda, ieri Atlantia ha risposto all’invito a valutare il piano industriale arrivato nei giorni scorsi da Mediobanca, advisor delle Ferrovie, che già dei mesi fa aveva contattato la holding dei Benetton. Col fallimento di Alitalia, infatti, la controllata Aeroporti di Roma perderebbe quasi il 40% dei ricavi. Dopo mesi di stallo, smentite e scontri con i 5Stelle, la svolta è arrivata su pressione degli altri partner coinvolti, dalle Fs a Delta – che ieri ha inviato una lettera confermando il suo impegno – fino al ministero dell’Economia. Dietro le quinte, però, si è mosso anche altro.

Il piano industriale studiato per Alitalia dalle Fs non è certo sconosciuto ad Atlantia. A cui serve invece più tempo anche per capire la direzione che prenderà lo scontro su Autostrade. Luigi Di Maio ripete da giorni che i due tavoli – Alitalia e la guerra sulla concessione – sono separati. Castellucci professa la stessa cosa, ma è chiaro che il salvataggio del vettore può far prendere un’altra piega al contenzioso aperto dopo il disastro del Morandi. La relazione dei giuristi del ministero delle Infrastrutture, per dire, ha aperto alla revoca della concessione per “grave inadempimento”, ma anche alla possibilità di rinegoziarla evitando il rischio di dover pagare salate penali. Dopo aver definito Atlantia “decotta”, accusando i Benetton di essere i responsabili della tragedia, Di Maio è pronto a usare l’avvio dell’iter di revoca per spingere Autostrade a rinegoziare la concessione, riducendo i pedaggi. È il segnale già mandato prima delle Europee a Castellucci dal premier Giuseppe Conte. Che ieri ha ribadito la volontà di chiudere su Alitalia “entro lunedì”.

Scandalo al San Carlo: cerca ufficio stampa “senza difetti fisici”

Tra i requisitidi ammissione dei candidati al concorso pubblico per un posto di ufficio stampa a tempo indeterminato del Teatro San Carlo di Napoli, all’articolo 1, comma C, si legge: “Siano fisicamente idonei ed esenti da difetti o imperfezioni che possano limitare il pieno ed incondizionato espletamento, in sede e fuori sede, delle mansioni previste dai contratti collettivi di lavoro per i dipendenti delle Fondazioni lirico-sinfoniche”. Su questo passaggio si è scatenata l’ira del Sugc, la branca campana del sindacato giornalisti. “Ma siamo all’eugenetica? Cercano un giornalista di razza ariana o dalle fattezze di Roberto Bolle?”, si chiede il segretario Sugc Claudio Silvestri, che ha scritto alla sovrintendente del San Carlo Rosanna Purchia per evidenziarle questa e altre anomalie. “Per la gravità di questa discriminazione – sottolinea Silvestri – ho provveduto a informare il sindaco De Magistris, nella sua qualità di presidente del teatro. E siamo pronti a impugnare il bando”. Purchia era fuori sede e contattata dal Fatto, ha risposto che replicherà dopo aver incontrato Silvestri.

“Sonotuttimaschi”, ma la app del Financial Times ti avvisa

Too many suits. Troppi maschi. Che parlano, scrivono, sbandierano il loro punto di vista come se fosse l’unico degno di occupare le colonne del giornale. E così si impongono, scoraggiando le donne a fare sentire la loro voce. Non è una sintesi delle femministe contemporanee, ma il bilancio delle lettrici che il Financial Times ha sentito per capire come mai il suo pubblico fosse fatto per l’80 per cento di uomini e le donne relegate alla riserva indiana del 20.

Un divario che oggi non è solo sintomo di disuguaglianza di genere, ma un allarme di business mancato. Di fette di mercato finora sottovalutate che se incluse possono diventare fatturato, Pil, aumento della ricchezza e del benessere collettivo. In Europa e nel resto del mondo, come dimostrano istituti internazionali dall’Onu al World economic forum. Vale ovunque: dall’informazione alle imprese e alla ricerca, perché i dati dimostrano che incorporare la visione femminile significa migliorare performance e lavoro di squadra. “Le pari opportunità convengono anche agli uomini. E la diversità, dati alla mano, fa bene a tutti. Anche economicamente”, sintetizza Enrico Gambardella, presidente del Winning Women Institute, ente impegnato nella certificazione delle aziende virtuose in termini di gender equality.

Il Financial Times, regno dell’informazione finanziaria – che insieme alla politica è tra i settori tradizionalmente più maschili – l’ha capito ed è tra i primi nel panorama internazionale dei media. E da pioniere si è organizzato: dal 2015 ha creato un team che si occupa esclusivamente di audience engagement. A capo una donna, Renéè Kaplan, prima nello stesso ruolo a France24. La squadra ha notato che spesso le donne trovavano il tono dei pezzi sgradevole perché non includeva la loro voce. C’erano poche intervistate e opinioniste e il quotidiano era tutto sbilanciato su un eccesso di presenza maschile. Il Ft allora ha deciso di cambiare marcia anche attraverso i bot, programmi automatici che intervengono nel sistema editoriale mentre i giornalisti scrivono il pezzo e li avvertono: non hai incluso abbastanza voci femminili nel tuo articolo, le donne sono sottorappresentate. I risultati sono arrivati: più clic da parte delle lettrici, significa più abbonamenti.

La strada per la parità è tutta in salita anche a Hollywood: nei film che nel 2015 hanno vinto l’Oscar, per esempio, le donne sono state sullo schermo solo per il 32% del totale con un tempo di parola del 27%. Cifre sconfortanti che trovano una corrispondenza oltre il cinema.

Basta guardare alla presenza femminile tra i relatori di convegni e conferenze, dove sono spesso chiamate come moderatrici. Un ruolo in cui non esprimono pareri o punti di vista, ma sono incasellate per presentare, passare parola (agli uomini), fare in modo che il dibattito scorra senza intoppi. Li chiamano manels, ovvero male panels: incontri che non includono donne relatrici. Un fenomeno tutto negativo che ilfattoquotidiano.it vuole raccontare anche per immagini. Fate uno screenshot da mobile o da pc o una foto allo schermo e mandateci gli eventi dove le donne sono invisibili (o quasi) a sonotuttimaschi@ilfattoquotidiano.it. Li pubblicheremo sul sito. Spesso una foto è più efficace delle parole. Eppure dai giornali ai produttori di auto le aziende iniziano a capire che le donne decidono sempre di più. Tagliarle fuori significa eliminare sviluppo, crescita e possibilità di nuovi posti di lavoro. Per tutti.

Casamonica, altre condanne: tocca a Ferruccio e Guido

Alla fine Ferruccio Casamonica, appartenente all’omonima famiglia sinti, è stato condannato in abbreviato a cinque anni e quattro mesi per tentato omicidio, rapina, furto in abitazione e minacce aggravate. Tre anni e quattro mesi per tentato omicidio e rapina al figlio Guido Casamonica e Samir Ramovic. La vicenda risale al novembre 2017, quando i Casamonica avevano prima minacciato, poi derubato e infine pestato, il nigeriano Odiase Richie Osazele, venditore ambulante. Era stato Ferruccio (detto Massimo) a colpirlo alle spalle, ferendolo diverse volte con un cacciavite, fino a perforargli un polmone. Il diverbio era nato perché Odiase, che abitava in un appartamento all’interno di un complesso nella Romanina, gestito dai Casamonica, aveva chiesto di regolarizzare il contratto d’affitto. Nel piccolo stabile, come ricostruito nell’inchiesta del pm Andrea Cusani, risiedevano una decina di famiglie nigeriane che avevano fatto le stesse richieste, ma avevano subito diverse minacce, furti e intimidazioni da Ferruccio e dei suoi sodali.

“Risulto decaduto per il Viminale? Se permettete sono di diverso parere”

Alberico Gambino è il sindaco più sfortunato d’Italia.

Ci metto passione, concretezza, sorriso. Ogni giorno mi faccio venire un’idea.

Lei ora è sindaco appena eletto e già decaduto di Pagani, città del Salernitano martoriata dalla camorra.

Questo lo dice lei.

Questo lo dice il ministero dell’Interno.

Lei riferisce un parere scritto dalla burocrazia. E se permette io sono di diverso parere.

Lei è legibus solutus?

Sarei decaduto perché incandidabile. Ma incandidabile in ragione di cosa?

Il suo Comune è stato sciolto per infiltrazioni mafiose.

Ecco, qui la voglio. Sciolto sulla scorta di un procedimento nei miei confronti che i giudici, alla fine di un calvario, hanno ritenuto inesistente. Assolto perché il fatto non costituisce reato. Ma io mi dico: se non costituisce reato allora quel fatto non è criminale. E se non c’è, tutti i provvedimenti che seguono sono viziati.

Seguendo questo filo lei si è fatto proclamare realizzando un bellissimo consiglio comunale nel cinema.

Questa è democrazia partecipativa.

Ha sostituito seduta stante il segretario comunale che riteneva lei un abusivo.

Nossignore. Il segretario aveva dei giorni di ferie arretrate e io, per non arrivare a gravare sulle casse già disastrate, l’ho messo a riposo. Altrimenti 17 giorni da monetizzare!

Lei cura il bilancio al centesimo. Ha fatto intervenire i carabinieri per portarlo via.

Ho solo messo in atto provvedimenti di legge.

Gambino, ama tanto la politica eppure tante sono le delusioni.

Amatissimo dalla mia città, vengo sospeso dall’incarico nel 2009 per una ingiusta condanna per peculato.

Aveva usato allegramente la carta di credito del Comune.

Assolto. Dopodiché le dico: in tre anni avrò speso sì e no 20mila euro e tutto per il bene comune.

Si fa eleggere consigliere regionale della Campania.

E neanche mi fanno entrare. Sospeso sempre per quella condanna di peculato.

Nel 2011 la tragedia.

Ventuno mesi tra carcere e domiciliari.

Addirittura voto di scambio politico-mafioso e altre cose brutte.

Tutto risolto, e come detto, sempre assolto.

Oggi è alla terza elezione da sindaco.

Amatissimo.

Amatissimo dalla gente e seguitissimo dalla Dia.

I poliziotti fanno il loro lavoro. I processi cui mi sono sottoposto dicono che sono innocente, pulito. Ed è un fatto. Ho la certificazione di qualità!

Neanche il tempo di festeggiare!

A un certo punto della vita uno si fa un po’ di conti e dice: sai che c’è? Lascio tutto e torno dai miei amori.

Lei ama la musica.

Batterista di Pino d’Angiò.

Capperi!

Trent’anni fa lo accompagnai in tournée. Date memorabili: Messina, Lucerna.

Lucerna? In Svizzera addirittura.

Lucera, vicino Foggia.

Il sindaco fuorilegge di FdI che manda in ferie la Severino

Il segretario generale al sindaco: “La informo che il ministero dell’Interno, ritenendola incandidabile, la giudica decaduta dall’ufficio a cui è stato appena eletto”. Il sindaco: “Lei da ora si consideri in ferie”. Il segretario: “Guardi che non può nemmeno nominare la giunta giacché tutti i suoi atti saranno nulli”. Il sindaco: “Il consiglio comunale si tiene regolarmente e nomino la giunta”. Il segretario comunale: “Io metto a verbale che si sta violando la legge”. Il sindaco: “Lei, essendo in ferie, non può verbalizzare alcunché. C’è chi la sostituirà”. Comandante dei carabinieri: “Segretario, per motivi di ordine pubblico la consiglio di allontanarsi”.

Come in un film. Si registra a Pagani, 36 mila abitanti a nord di Salerno. Città difficile, insediata dalla camorra, assediata dal cemento che tombina quello che una volta era l’Agro nocerino. La sintesi del confronto che avete appena letto è chiusa in un plico di corrispondenze che tra il 9 giugno e il 30 giugno intercorrono tra la prefettura, il ministero dell’Interno e il municipio della città sulla figura e la capacità di Alberico Gambino, per la terza volta sindaco, di indossare la fascia tricolore. La legge Severino è tassativa: colui che è stato coinvolto nello scioglimento del consiglio per infiltrazioni mafiose, anche se non penalmente responsabile, salta un giro, perdendo, nella consultazione successiva, l’elettorato passivo. Il ministero formalizza la decadenza, la prefettura trasmette, il segretario notifica e il decaduto?

Fa orecchie da mercante. Avanza indisturbato e procede alla rimozione degli ostacoli. Letteralmente toglie dalla sedia il segretario Francesco Carbutti, che annota: “La mia postazione veniva occupata da una persona che portava seco un cane nero di grossa taglia dal pelo lungo”. È la nuova segretaria comunale che, in un incredibile e fulmineo processo sostitutivo, giunge a Pagani il giorno 30 giugno, proprio per redigere il verbale di consiglio che il suo collega aveva definito contra legem. La burocrazia, quando vuole, fa faville. E infatti due giorni prima, il 28 giugno il sindaco con una nota mette in ferie forzate il segretario recalcitrante notificandogli 17 giorni non goduti e la conseguente istantanea rimozione: alle 13.30 di quel giorno egli deve già considerarsi in vacanza, allontanandosi istantaneamente dall’ufficio. Alle 15.30 l’agenzia dei segretari emette il decreto di sostituzione e chiama la dottoressa Perongini, che due giorni dopo si farà scortare nell’aula consiliare (per la seduta inaugurale si è scelto il cinema della città), da un cane “di grossa taglia dal pelo lungo”.

Il sindaco, eletto ma decadente o addirittura già decaduto, è noto per i fatti e anche i misfatti di una carriera politica dai tratti volutamente pirotecnici. Gambino fa il sindaco per la prima volta nel 2002, poi nel 2007 è rieletto con la percentuale nazionale più alta in assoluto: 78 per cento. Gambino è il politico che piace a Pagani: corre, cura, parla, corregge. È sempre in piazza e con la piazza fila d’amore. Delle regole ha una percezione più affievolita, ritenendo che il fare possa giustificare più che uno strappo. “Il popolo mi vuole bene, io sorrido sempre”, dice. Il sorriso scompare nel 2009 quando subisce una condanna per peculato. È accusato di aver indebitamente alleggerito la carta di credito comunale. È anche consigliere regionale della Campania, e la condanna gli costa la sospensione dalla carica. Uscirà assolto, ma prima che si pronunci la Corte d’appello, la Dia fa irruzione nel suo domicilio e lo arresta. La Procura gli contesta voto di scambio politico-mafioso. Tra cella e domiciliari si farà 21 mesi di carcere preventivo. “Un dolore fortissimo, una sciagura immane che ho superato con l’aiuto e l’amore della famiglia”, commenta.

Le vicende giudiziarie si susseguono quasi di pari passo con i successi politici. In gabbia o no, Gambino è sempre sugli scudi. Intanto il consiglio comunale è sciolto ma Gambino, che sarà pienamente assolto anche dalle accuse più pesanti, veleggia in Regione dove nel 2015 risiede, voluto dal popolo, nel consiglio. Nel 2018 tenta l’avventura in Parlamento, ma non gli riesce il salto. Allora vira di nuovo su Pagani, la sua città che è la sua culla. Oggi è in Fratelli d’Italia. Ha dato molto e tolto parecchio. Le sua aziende partecipate sono fallite, i conti li ha posti in disordine. Ma la cura della clientela e una indubitabile empatia con gli elettori, lo rimettono in sella.

Nemmeno il tempo di brindare che gli ricordano che la Cassazione ha confermato la sua incandidabilità. Poi lo spettacolo pirotecnico del consiglio comunale neoeletto e forse già morto. “Ma io non ci credo”, dice tra gli applausi. Mette a verbale il diverso parere, nominando la giunta e, chissà domani, portando Pagani verso l’autonomia dalla Repubblica e dalle sue leggi.

Anche l’ultima pista è sfumata: le tombe teutoniche sono vuote

La segnalazione era arrivata alla famiglia di Emanuela Orlandi, la ragazza scomparsa a 15 anni nel 1983, con una fotografia, ricevuta l’estate scorsa, e il messaggio anonimo: “Cercate dove indica l’angelo”. L’angelo è uno di quelli di marmo presenti sulle tombe di Carlotta Federica di Mecklemburgo e Sophie von Hohenlohe nel cimitero teutonico in Vaticano. Ieri, però, una volta aperte su disposizione delle autorità vaticane, le due tombe delle principesse sono risultate vuote. Nei due sepolcri non ci sono bare, né urne funerarie o resti umani. Men che meno i resti di Emanuela Orlandi, la ragazza sparita il 22 giugno del 1983 e mai più ritrovata. Sotto la tomba della principessa Sophie è stata però scoperta una camera di 4 metri per 3, in cemento armato. Un ambiente recente e di certo incompatibile con i due sepolcri risalenti all’Ottocento e per il quale sono in corso verifiche documentali su interventi strutturali avvenuti nel cimitero alla fine dell’Ottocento e negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. “Tutto mi aspettavo tranne che trovare tombe vuote” è il commento del fratello di Emanuela, Pietro.