Oliverio: “Né illeciti né appalti: contro di me soltanto pregiudizi”

Egregio direttore, nel Suo editoriale del 10 luglio mi utilizza per criticare il modo come la segreteria nazionale del Pd affronta il tema del rapporto tra il partito ed i suoi rappresentanti istituzionali investiti da indagini giudiziarie. Tanta attenzione è davvero stupefacente per una vicenda giudiziaria che i fatti narrano in maniera assai diversa dal Suo giornale. Sembra quasi che la riflessione che Lei cerca di infondere fosse indotta dalla necessità di dare più credibilità ed enfasi ad ipotesi accusatorie che appaiono, anche ai lettori più sprovveduti, tanto risibili quanto inconsistenti ed infondate.

Lei per sostenere la critica verso il Pd è costretto a fare leva sulla classificazione delle ipotesi di reato oltre che esporre una costruzione dei fatti ancora più forzata di quanto non faccia l’ufficio del pubblico ministero. Lei stesso può verificare, anche per vie documentali, che il Suo editoriale opera una alterazione del merito del procedimento penale e rappresenta con toni ridondanti i reati attribuiti. Lei afferma che “il processo riguarda gravi illeciti nella gestione degli appalti sull’avio superficie di Scalea, l’ovovia di Lorica e per di una piazza a Cosenza”. Niente di più falso, perché l’Amministrazione regionale non ha bandito nessuno di questi appalti. E poi “la Regione aiutò Barbieri a mettere mani sui fondi europei”. Niente di più falso: la Regione non ha mai erogato, programmato o impegnato fondi di nessun tipo destinati a Barbieri.

Abbastanza fantasiosa è, poi, la descrizione che Lei fa intorno alla roboante ipotesi di corruzione. Anche dagli stessi atti giudiziari non si evince quello che Lei scrive, cioè che “Oliverio convinse a Barbieri a rallentare i lavori a Cosenza per danneggiare il sindaco di centro-destra e conseguire un tornaconto politico a danno della città”.

Inoltre, omette di scrivere che la richiesta di rinvio a giudizio, di cui non ho avuto ancora notifica e di cui alla data odierna non c’è ancora traccia presso l’ufficio del Gup, sopraggiunge dopo che la Corte di Cassazione ha sancito la insussistenza indiziaria e l’assenza di qualsiasi ragione che abbia potuto costringermi, per ben tre mesi, alla misura cautelare dell’obbligo di dimora. Immagino sappia che la Corte di Cassazione ha addirittura affermato che esiste un fondato “pregiudizio accusatorio”.

Un pregiudizio accusatorio che, di fatto, è provato anche dal Gip il quale, nel rigettare la richiesta di una ulteriore misura restrittiva in una altra indagine denominata “passepartout”, di cui non mi meraviglierei se presto anche per essa si formulasse una ulteriore richiesta di rinvio a giudizio, ha sottolineato, anche qui, la mancanza di indizi di colpevolezza. Un pregiudizio che si era già potuto intravedere, quando a distanza di pochi giorni dalla notifica dell’obbligo di dimora, l’ufficio del Gup ha sentenziato il proscioglimento di fronte ad un’altra richiesta di rinvio a giudizio della stessa Procura. Penso, dunque, che la vicenda giudiziaria che mi riguarda non sia affatto da paragonare con nessuno dei casi citati nell’articolo.

Mi auguro, poi, che Lei non voglia assumere come garanzia di certificazione della infallibilità del pubblico ministero che ha sottoscritto le ordinanze giudiziarie, il fatto che Matteo Renzi lo volesse nominare Ministro, a dispetto della funzione e delle sentenze emesse da giudici terzi e dalla Cassazione. Se così non è, mi sento di affermare, allora, che il mio caso giudiziario sarebbe meritevole di una Sua forte attenzione per un’inchiesta giornalistica, per conoscere e comunicare ai lettori le ragioni del pregiudizio accusatorio che anima l’ufficio della procura nei miei confronti e non, invece, per strumentalizzarlo in maniera più o meno interessata nelle manfrine della politica romana.

Egregio Oliverio, pubblico la sua lettera per pura cortesia, non avendovi alcun obbligo ai sensi della legge sulla stampa che lei impropriamente evoca, visto che non smentisce pressoché nulla del mio articolo. Ma si limita, com’è suo diritto, a proclamarsi innocente. Lei però è ufficialmente imputato per corruzione e abuso in seguito a una richiesta di rinvio a giudizio. E io ho chiesto legittimamente al Pd come mai abbia fatto dimettere per accuse molto meno gravi l’ex sindaco Marino e l’ex governatrice umbra Marini, mentre non dice una parola e non fa nulla per il caso di un imputato (non più solo indagato) come lei. I pronunciamenti della Cassazione e del Gip riguardano misure cautelari, mentre sul merito delle accuse a suo carico si deve ancora pronunciare il Gup. Ora apprendo che, a suo avviso, il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri è un malfattore che usa la giustizia per perseguitare un politico innocente con “ipotesi risibili, inconsistenti e infondate”, animato da “pregiudizio accusatorio”. Alle mie domande al segretario Zingaretti aggiungo anche questa: il Pd condivide il giudizio del suo governatore su Nicola Gratteri?

Il “calciomercato” di Meloni saccheggia in casa di B.

Sotto l’ombrellone sovranista di Fratelli d’Italia i riflettori se li prende tutti il sindaco di Catania, Salvo Pogliese. Padrone di casa nella convention organizzata ieri pomeriggio dal partito di Giorgia Meloni. Volata in Sicilia per celebrare “il ritorno a casa” del primo cittadino.

Ormai da qualche mese ai ferri corti dentro Forza Italia. Pogliese diventa così un vero e proprio colpo di mercato. Era infatti l’ultimo sindaco di una grande città italiana che poteva vantare tra le sue fila Berlusconi. “Con Giorgia ci siamo conosciuti nel 1993 quando lei era rappresentante degli studenti. Il mio – spiega il sindaco – è un percorso di assoluta coerenza”. Prima di arrivare a Fratelli d’Italia per lui c’è stato anche il corteggiamento serrato della Lega. Con il partito di Matteo Salvini schierato per l’approvazione dell’emendamento che ha salvato il Comune di Catania, dichiarato in dissesto e con debiti da 1,5 miliardi di euro. “Salvini e il sottosegretario Candiani sono state persone serie ma non hanno mai barattato i fondi per la mia città con un passaggio al loro partito”, spiega dal palco il sindaco. Nella sala che ospita l’evento c’è anche Guido Castelli, ex sindaco di Ascoli Piceno e delegato Anci, il presidente dell’Abruzzo Marco Marsilio e Ignazio La Russa. Non mancano nemmeno trasformisti e impresentabili. Insieme a Pogliese il più applaudito è il nuovo assessore della Regione siciliana Manlio Messina. Sotto processo per truffa ai danni dello Stato per dei rimborsi che avrebbe intascato, secondo la procura illegittimamente, quando era consigliere comunale a Catania. C’è poi Raffaele Stancanelli, ex sindaco della città oggi eurodeputato. Nel 2014 finito prescritto in un processo in cui la procura ipotizzava l’utilizzo illecito dei fondi per i Servizi sociali quando era assessore di Totò Cuffaro.

Anche per Pogliese non mancano i problemi. Davanti il Tribunale di Palermo è imputato per i presunti rimborsi che avrebbe utilizzato da capogruppo all’Assemblea regionale.

Tanti anche gli amministratori locali. Uno di loro, l’ex sindaco di San Giovanni La Punta Santo Trovato, qualche anno addietro si ritrovò con il Comune sciolto per infiltrazioni mafiose ma venne assolto in Cassazione. Non c’è l’ufficialità del suo passaggio con Meloni ma dal palco viene ringraziato anche Pippo Limoli. Ex deputato regionale di Forza Italia, ora sindaco di Ramacca, celebre per avere difeso in aula Totò Cuffaro dopo la condanna a cinque anni, “Puoi camminare a testa alta – gli diceva – contro i moralizzatori della vita pubblica”.

Csm, il sorteggio non può garantire il pluralismo

In quest’ultimo periodo si è giustamente parlato di una “questione morale” della magistratura. Al di là delle responsabilità penali e disciplinari – da accertare nelle sedi a ciò deputate – i fatti emersi dall’indagine di Perugia devono essere presi sul serio in tutta la loro portata per poter essere un’occasione di riflessione sullo stato di salute del Csm. La degenerazione correntizia, che certamente ha portato all’affermazione di gruppi clientelari e territoriali di potere che gestiscono interessi, esiste e deve essere denunciata. Si tratta di gruppi trasversali alle correnti e che vedono il coinvolgimento di parte della politica: ma ciò avviene non nei luoghi istituzionali, ma in circoli opachi e non trasparenti. Tutto questo non può essere tollerato.

Dalla risposta che la magistratura saprà dare e dalle soluzioni che sarà in grado di elaborare dipenderà la tipologia di magistrato che si affermerà negli anni a venire. In questo contesto il sorteggio dei membri del Csm, lungi dall’essere la soluzione, rischia di acuire il problema. Uno dei modi per arginare le derive clientelari e corporative è infatti quello di palesare e prendere sul serio l’esistenza di un pluralismo culturale all’interno della magistratura: non si può pensare – e non ci si deve nemmeno augurare – che i magistrati non siano in grado di confrontarsi sulle diverse opzioni ideali e valoriali da cui sono animati. Prendere atto dell’esistenza di queste differenze e rivendicarne pubblicamente l’importanza per la ricchezza della magistratura è ciò che ne evita l’appiattimento e la burocratizzazione. Infatti, il governo autonomo della magistratura non chiama il Consiglio superiore a scelte puramente tecniche o a interpretazioni insensibili a opzioni culturali di fondo: penso alla potestà del Csm di dettare regole sul funzionamento degli uffici giudiziari. Dunque, solo una reale possibilità di scelta dei membri del Csm consente di preservare la sua capacità di rappresentatività. Rappresentatività che ha permesso il compimento di alcune tappe fondamentali per l’evoluzione del diritto, che sono state possibili proprio grazie al confronto che ha reso il giudice consapevole dell’importanza, per esempio, di interpretare la legge conformemente alla Costituzione. Il sorteggio, al contrario, negando questo dato di fatto o facendo finta che sia irrilevante per l’esercizio della giurisdizione, finisce per veicolare l’immagine di un’istituzione composta da persone che non rispondono a nessuno (se non alla sorte) e – temo – condurrà a una visione burocratizzata del lavoro del magistrato. Se la crisi attuale deriva allora, più che da una forza, da una debolezza delle correnti, l’antidoto non può che essere quello di recuperare la loro funzione originaria di luogo di discussione trasparente e di pubblico confronto, il cui buono stato di salute è importante non solo per l’attività giurisdizionale, ma anche per la vita civile del Paese. Ne è stato un esempio l’apporto che Magistratura Democratica ha dato in occasione della battaglia per il No al referendum costituzionale nel 2016. Consapevole del fatto che imparzialità significa non parteggiare per uno degli attori processuali, ma non indifferenza rispetto alle questioni di fondo che animano il dibattito culturale e politico, MD ha offerto il proprio contributo al dibattito, impegnandosi non solo per la difesa ma anche per la realizzazione dei diritti, delle libertà e delle garanzie della Costituzione. Questo contributo sarebbe stato impossibile senza l’elaborazione ideale e culturale che negli anni MD ha portato avanti, nella consapevolezza che l’indifferenza verso dinamiche partitiche e politiche in senso stretto deve essere accompagnata, come diceva Marco Ramat, all’attenzione e all’impegno nella “grande politica della Costituzione”.

* Giudice del Tribunale di Torino – Esecutivo Nazionale di Magistratura Democratica

La base dem c’è e dice persino cose di sinistra

Che cos’è oggi il Partito democratico? In una sera ventilata di luglio, in una sala congressi di Borgo San Paolo, il vecchio “borgo rosso” della Torino operaia del Novecento, si scopre che è un partito fatto da generali e da ufficiali, senza una base, o almeno con una base sconosciuta. Ad affermarlo non è uno degli intellettuali “gufi” messi alla berlina da monna Maria Elena Boschi e dal Giglio Magico dei Renzi e dei Lotti, bensì Paolo Furia, il giovane segretario dei dem piemontesi; uno, per intenderci, che osa persino richiamare, come sostiene, i “termini marxiani”.

In realtà la base c’è, e non è nemmeno fantasmatica. La base appare e parla, per giunta. Lo fa forse perché si stanno rievocando nella sala del Borgo San Paolo gli anni d’oro dell’edizione torinese de L’Unità, quella di Italo Calvino e di Cesare Pavese, di Raf Vallone e di Raimondo Luraghi, di Paolo Gobetti e di Paolo Spriano, grazie anche a un bel filmato realizzato dal giornalista Michele Ruggiero. In ogni caso la base del Pd, che non ha diritto di esistenza sui giornali e in tv, e si presume nemmeno nel partito, interviene nel corso della serata e dice molte cose di sinistra. Il Pd che vorrebbe, tra l’altro, assomiglia a un certo Pci berlingueriano, non ha niente a che fare con i “Lampadina” Lotti e gli affini, declina generalità metalmeccaniche (gli operai ci sono ancora, dopotutto) e anagrafi giovanili, rivendica una diversità etica e una autonomia politica, non ama le ammucchiate al centro o per li rami. Anzi: vorrebbe un partito con una visione propria, “parziale” e non cerchiobottista, del mondo. Dunque una base dem esiste, è pure di sinistra, ha memoria storica e vorrebbe contare qualcosa. Invece conta come il proverbiale due a briscola, cioè nulla. Tanto da essere, agli occhi dei generali del Pd, come il cavaliere di Italo Calvino: inesistente.

La serata di Borgo San Paolo piace anche al segretario Furia, che su Facebook scrive: “Nel riprendere questa storia non si intende rimpiangere un passato che non è più, ma tornare criticamente su una esperienza di giornalismo, di partito e di città affinché sia di ispirazione per l’agire odierno”. Ecco, questo è il problema: “l’agire odierno”, quel “futuro”, che per Carlo Levi aveva “un cuore antico”. Perché la base c’è, dice cose di sinistra, eppure i generali non la vedono o non la vogliono proprio vedere. La colpa è della base o dei generali? Non ci vorrebbero, magari, una “notte dei generali” e un’alba di soldati?

Pedemontane, è ora che lo stato si muova

È sempre nella bufera la costruzione dei due maggiori assi stradali pedemontani in costruzione: quello lombardo di 67 km e quello veneto di 95 km. Due progetti e due concessioni (completamente snaturate da convenzioni e atti aggiuntivi) partite attorno al 1990 e ancora, entrambe, in mezzo al guado dopo aver fatto man bassa di risorse pubbliche che dovevano alimentare due project financing e che invece si sono rivelati dei meri finanziamenti pubblici a operatori privati e istituti di credito. In questi giorni è ancora sotto i riflettori la Pedemontana veneta per la galleria di “burro” fatta da materiali (acciaio e cemento) non certificati e meno resistenti di quelli previsti nel capitolato nella tratta tra Castelgomberto e Malo. I piani originari delle due pedemontane prevedevano alti tassi di traffico e bassi costi per giustificare i progetti e l’utilità delle opere. Entrambe le previsioni si sono rivelate gonfiate.

In questa fase il governo insiste per revocare la concessione di Autostrade per l’Italia che non avrebbe rispettato il contratto con lo Stato, forte di un parere della commissione di giuristi nominata dal ministero delle Infrastrutture per “valutare” la praticabilità di questa strada. Il dossier non esclude l’ipotesi di dover pagare un maxi-indennizzo da 25 miliardi per la società dei Benetton in caso di disdetta anticipata della concessione, la cui scadenza è prevista per il 2040. Una clausola capestro della concessione del 2007. Nello stesso momento, però, i Benetton sono chiamati a entrare nell’azionariato della nuova Alitalia attraverso la holding Atlantia.

Al di là di come andrà il contenzioso, un segnale forte ad Autostrade per far capire che le cose sono cambiate e ricordare che il governo esiste, potrebbe essere quello di ritirare le concessioni a chi davvero non ha rispettato il contratto, come si può facilmente dimostrare senza perizie sullo stato del cemento, dei piloni o dei viadotti. È il caso di Pedemontana Lombarda, che vanta una moltitudine di inadempienze rispetto al contratto firmato con lo Stato:

1) Una concessione, che risale al 1989, assegnata senza gara e che obbliga a realizzare un collegamento completo dal valico del Gaggiolo – sopra Varese – fino a Bergamo. Peccato però che a 30 anni di distanza l’autostrada non tocchi nessuno dei due terminali, e siano stati costruiti solo tre spezzoni pari a 22 chilometri complessivi sui 67 totali;

2) Un contratto firmato nel 2007 con l’allora ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro, che obbligava la società a versare entro il 2010 oltre 500 milioni di euro di capitale sociale, ma a quasi dieci anni di distanza ne sono stati versati poco più della metà, o meglio un quarto, visto che nel frattempo il capitale da versare è salito a oltre 800 milioni;

3) Un impegno a finire l’opera prima dell’inaugurazione di Expo 2015, poi entro la fine del 2018, mai rispettati;

4) Un contributo pubblico che a oggi ha pagato l’80% di quel poco che è stato realizzato (per un importo di 1,2 miliardi), imponendo che in cambio fosse garantita la realizzazione totale. Anche qui, però, da oltre cinque anni l’opera è ferma e i cittadini la pagano due volte, con pedaggi carissimi per quelli che la usano e con le tasse per tutti gli altri:

5) Una quantità imbarazzante di altri contributi versati: a quelli usati per pagare i lavoratori si aggiungono infatti i 300 milioni di garanzia della Regione Lombardia sulla capacità futura di ripagare il debito con le banche, e un’altra da 600 milioni, sempre della Regione (è di pochi giorni fa) a copertura del rischio che dal traffico non entrino i soldi previsti. Si è mai visto un imprenditore finanziato e garantito così tanto? E nonostante tutto questo, l’opera è disperatamente ferma da oltre 5 anni. L’unica attività di Pedemontana sembra essere ormai quella di pagare lo stipendio a oltre 100 dipendenti, cinque volte quelli di una normale autostrada di pari dimensione. Tutto a spese dello Stato. Per dare un segnale di cambiamento si può davvero partire da qui: i cittadini pagano una tariffa assurda per un’opera parziale, che hanno già sovvenzionato con le loro tasse e che rischiano di pagare ancora di più in futuro, a unico vantaggio delle banche che di Pedemontana sono vantaggiosamente socie (oltre il 78% delle quote è detenuto dalla Regione Lombardia, gli altri azionisti della società sono Intesa Sanpaolo con il 13,37% e Ubi con il 3,34%. Se si è capaci di riconoscere dove lo Stato ha fallito nell’adempiere ai suoi compiti, si ha poi la forza di attaccare dove ha fallito un’azienda privata, e questo il Movimento 5 Stelle dovrebbe capirlo e affermarlo con più forza di chiunque altro.

Le bordate contro Autostrade possono sembrare forse strumentali, ma i Benetton e gli altri 20 concessionari italiani vanno in ogni caso ridimensionati (come pure i loro extra-profitti) con il tempo che ci vuole per una riforma organica della materia, che preveda delle gare alla scadenza del periodo di concessione invece degli affidamenti diretti nascosti da assegnazioni in house, come successo al Brennero con l’avallo del ministro Danilo Toninelli. Il titolare delle Infrastrutture faccia intanto un favore alla collettività: revochi la concessione di Pedemontana, e visto che è stata strapagata con soldi pubblici, faccia sì che torni un’opera pubblica, riducendo la tariffa in modo che tutti la possano usare.

Mail box

 

Bonaccini e i soldi dallo Stato: ma non era per l’autonomia?

Dal radio giornale delle 7 dell’11 luglio: Bonaccini, presidente della Regione Emilia Romagna che ha chiesto l’autonomia regionale insieme con Veneto e Lombardia, a seguito del nubifragio con danni a strutture costiere ha dichiarato lo stato di emergenza della regione e chiederà soldi allo Stato. Certo ci vuole una faccia di bronzo e non solo per fare una richiesta del genere.

Michele Lenti

 

Minori, vanno ridiscusse le regole per l’affido

Abbiamo assistito per anni alla sconcertante vicenda di quel Logli, la cui condanna per l’uccisione della moglie è ora divenuta definitiva, che nonostante la grave accusa ha potuto tenere i figli minori con sé, coadiuvato addirittura dall’amante che è stata la causa del tutto. Dall’inchiesta di Reggio Emilia, ma da altri tanti casi, si è visto invece portar via i figli sulla base di relazioni dei servizi sociali chiaramente pretestuose e comunque per motivazioni prive di effettiva rilevanza, che però sono state accolte dalla competente autorità giudiziaria, creando profondo dolore ai genitori e ai minori, definitivamente allontanati dalla loro famiglia. Si tratta di fatti oramai troppo frequenti che esigono un intervento sulle procedure che regolano l’affido dei minori, anche se per evitare questi gravi errori giudiziari basterebbe una maggior assunzione di responsabilità da parte dei magistrati.

Loris Parpinel

 

Giochi: facciamo firmare a Sala una fideiussione

Leggo della condanna del Sindaco di Milano e, invece delle sue scuse, sento i soliti discorsi su una giustizia errata o di parte! Poi leggo di Sala che fa parte del gruppo che organizzerà le Olimpiadi invernali a Cortina e Milano, dove si spenderanno milioni di euro, e non si sa cosa si porterà a casa. Propongo di fare firmare a Sala, Malagò, Montezemolo e Giorgetti, che hanno esultato per il risultato ottenuto, altrettante fideiussioni bancarie a garanzia sulla loro onestà. Questo è ciò che capita all’artigiano, che si reca in banca e chiede un prestito per rinnovare le attrezzature.

Ermanno Migliorini

 

DIRITTO DI REPLICA

Ho letto l’articolo di Stefano Feltri intitolato “Più che i librai la politica tuteli i lettori” che sin dal titolo ho trovato sbagliato perché ciò che il legislatore deve fare, e credo, che con il Dl lettura in discussione alla Camera in queste ore, stia facendo, è di tutelare la lettura: è della lettura che il Paese ha urgente necessità e noi librai siamo certi che questo disegno di legge può essere un primo importante inizio. Sino a oggi è prevalsa l’idea che il mercato si possa far carico del bene comune della lettura e i dati sono lì impietosi a ricordarci quanto il mercato abbia fatto in tutti questi anni per la lettura. Dal 2011 al 2017 siamo passati infatti dai 26 milioni a 23,5 milioni di cittadini oltre i 6 anni che dichiarano di aver letto almeno un libro nell’ultimo anno con una perdita di più del 12% di lettura e questo malgrado internet – che lei osanna come soluzione – o le ampie possibilità che ancora oggi ci sono di poter acquistare i libri a prezzi scontati per i lettori. Nello stesso periodo hanno chiuso più di 2.000 tra librerie e cartolibrerie con una perdita di 4.000 posti di lavoro. Certo, le chiusure possono essere determinate da impreparazione degli imprenditori a far fronte alle novità del mercato, ma su questo Le ricordo che da 13 anni noi organizziamo corsi per chi vuole aprire una libreria e da più di 30 anni esiste la scuola Umberto ed Elisabetta Mauri per chi libraio è già.

Ma quando il libraio si trova ad operare in un mercato nel quale il prezzo di vendita è stabilito per legge dall’editore che è anche suo fornitore, ma anche suo concorrente in quanto proprietario di catene di librerie o di siti o delle strutture che servono la grande distribuzione organizzata, come possiamo osannare il libero mercato e criticare i librai? Come possiamo pensare che tutto questo non abbia influito sulle 2.038 (non 400) chiusure registrate dall’Istat dal 2011 al 2016? E come non notare che nello stesso periodo la quota di produzione dei grandi gruppi editoriali è passata dall’88,10 del 2011 a copia al 90% a copia del 2017 e che la quota di mercato delle librerie di catena editoriale è passata dal 41,3 al 43,5 del mercato? Se Feltri pensa che il Dl sia un regalo alle librerie, non si stracci le vesti quando nelle prossime settimane Amazon diventerà fornitore per le librerie, una sorta di nemesi di mercato.

Paolo Ambrosini presidente Ali Confcommercio

 

I librai, come tutte le categorie, hanno diritto a fare lobbying per difendere i propri interessi. Io continuo a pensare che combattere Amazon sul suo terreno, cioè quello del prezzo, sia una scelta miope e destinata al fallimento. E che scaricare sul consumatore finale il prezzo del sostegno alla categoria, con prezzi più elevati, significhi semplicemente ridurre la domanda e penalizzare quella parte della filiera (il lettore) che la politica più dovrebbe tutelare. Perché, in fondo, l’interesse della collettività è che le persone leggano di più. Che quei libri li comprino su Amazon o in una piccola libreria è un problema di Amazon e dei piccoli librai. Se il libraio non riesce a reinventare il proprio ruolo (come pure alcuni hanno fatto), non vedo perché debba essere tutelato a spese dei consumatori o dei contribuenti per il solo fatto di vendere libri invece che pentole.

Ste. Fe.

I rubli dati a Cossutta servivano anche in caso di golpe fascista

Ho passato gran parte della mia vita a essere accusato di far parte di un partito che prendeva i soldi da Mosca, che allora aveva una stella sola nella bandiera e l’ho lasciato quando i dirigenti alla Veltroni, D’Alema e successivi hanno cominciato a vedere la democrazia – e forse anche qualche finanziamento – negli Usa, che nella loro bandiera ne hanno 50. Ora la storia si è ripetuta. Il nostro ministro dell’Interno, stando alle cronache, in pochi mesi sarebbe riuscito a farsi promettere “finanziamenti” dalla Russia per poi passare dalla parte opposta. Ora le cose sono da dimostrare ma, se si sono svolte come scritto dai giornali, cercherò di ritirarmi in un eremo in quanto la velocità dei voltafaccia non mi appartiene, se mai lo è stata.

Franco Novembrini

Gentile Novembrini,la storia si è ripetuta, ma molto sui generis, davvero molto. I rubli sono rubli in ogni epoca, che sia quella comunista oppure quella autoritaria odierna di Putin. Ma i finanziamenti dell’Urss al Pci avevano un senso diverso se non opposto a quello di cui si parla a proposito della Lega di Salvini. L’oro di Mosca ai comunisti italiani, per citare il titolo di un noto libro, avveniva nel contesto della Prima Repubblica e della Guerra Fredda, un contesto fatto anche di copiosi flussi di denaro americani, per non parlare delle tangenti domestiche, ai partiti di governo, Dc in testa. Precisato questo, ben dieci anni fa intervistai Armando Cossutta per un altro quotidiano e mi spiegò il suo ruolo di “sovraintendente alle finanze” di Botteghe Oscure, la gloriosa sede nazionale del Pci a Roma: “Un ruolo che era stato già di Pietro Secchia e dello stesso Longo. Io trattavo ogni anno con Mosca l’entità del contributo ma i soldi erano prelevati materialmente dall’amministratore Barontini, un amico fraterno. Erano dollari che poi venivano cambiati in lire nella Città del Vaticano. Era lo stesso cambiavalute che usava la Dc coi finanziamenti americani. Ricordo che in quegli anni coi soldi sovietici aiutavamo i comunisti dell’America Latina, della Spagna e soprattutto della Grecia”. Già, la Grecia fascista dei colonnelli. Continuò Cossutta: “Longo mi disse di accumulare riserve per sopravvivere due anni. La strategia della tensione alimentò fortemente il timore di una situazione non controllabile”. Ecco il punto, Novembrini: quei soldi sovietici servivano, secondo Cossutta, anche a difendere la democrazia italiana, che piaccia o no. Per i presunti rubli di Putin a Salvini non mi sentirei di dire lo stesso.

Fabrizio d’Esposito

Anche la Campania invia la sua proposta: chieste 7 competenze

Anche la Campania accelera per l’autonomia. Da lungo tempo in polemica con le ingenti richieste di Veneto, Lombardia e Emilia Romagna, ora il governatore Vincenzo De Luca ha inviato al ministro degli Affari Regionali e delle Autonomie Erika Stefani e al presidente del Consiglio Giuseppe Conte il documento della proposta d’intesa sull’autonomia differenziata della propria Regione. “Abbiamo chiesto al ministro – spiega De Luca – di firmare quanto prima possibile questa ipotesi di accordo. È una proposta che esplicita la linea della Campania sull’autonomia differenziata: rigore amministrativo; riforme concrete che semplificano e non complicano i processi di riforma; sburocratizzazione”. La Campania chiede per sé sette competenze: istruzione e formazione professionale, sanità, ambiente, paesaggistica, contribuzione comunale destinata alle imprese agricole, beni culturali e funzioni di provveditorato alle opere pubbliche. Il tutto, specifica la Regione, “compatibilmente con il carattere nazionale” dei servizi fondamentali.

Nove tv: “Enjoy” di Gomez e la rubrica di Travaglio

Sarà una stagione televisiva ancora più ricca quella che inizierà su Nove da settembre: il canale del gruppo Discovery inizia a registrare numeri importanti (la prima metà del 2019 ha segnato come ascolti il miglior semestre di sempre).

Partiamo dai programmi targati Loft Produzioni. Da settembre ci saranno le puntate del nuovo format condotto da Peter Gomez, Enjoy: tre documentari in cui il direttore del fattoquotidiano.it approfondirà – per il ciclo “Nove racconta” – i mondi di lusso, droga e pornografia. Gli approfondimenti punteranno a raccontare la società in cui viviamo, attraverso quei fenomeni che oggi fanno più discutere: la ricerca ossessiva del lusso, vero o presunto, sia sui social sia nella vita reale; il consumo fuori controllo di nuove e vecchie sostanze stupefacenti; il nuovo mondo del porno, che oggi è accessibile a tutti, gratuito e “fatto in casa” da attori per lo più amatoriali. Da venerdì 18 ottobre, in seconda serata, torna anche Accordi e Disaccordi, il programma di approfondimento politico di Andrea Scanzi e Luca Sommi. Quest’anno, però, il format sarà arricchito dalla presenza del direttore del Fatto Marco Travaglio. Travaglio, nel corso di ogni puntata, terrà una rubrica settimanale nella quale racconterà le principali vicende politiche della settimana. La presenza in tv di Marco Travaglio con un appuntamento fisso è una delle grandi novità della stagione televisiva di Nove. Da venerdì 13 dicembre, poi, Peter Gomez torna in onda con le nuove puntate de La Confessione, il programma di interviste – uno degli appuntamenti più seguiti di Nove – nelle quali Gomez indaga sul lato oscuro del successo, “costringendo” i suoi illustri ospiti a confessare cosa si nasconde dietro al mondo patinato del successo.

Una delle novità della stagione, per Nove, sarà il ritorno in video di Daria Bignardi con un nuovo programma dal titolo L’Assedio. Un format di interviste a star, personaggi emergenti e persone comuni fatte con lo stile che hanno garantito in passato alla Bignardi il grande successo di pubblico. Dal 27 settembre tornerà in onda anche Maurizio Crozza con il suo Fratelli di Crozza, il fortunato show sull’attualità politica che ha rinnovato l’impegno con Nove anche per i prossimi tre anni.

Per la serie “Nove racconta”, andranno anche in onda tre puntate in prima serata da ottobre: un’intervista a Pietro Maso, reo confesso di uno dei più atroci omicidi familiari quando era poco più che un ragazzo; un focus sulla misteriosa sparizione di Emanuela Orlandi e uno sulla altrettanto controversa morte di Marco Vannini.

Altre novità sono: l’arrivo di Gabriele Corsi, protagonista dal lunedì al venerdì con il game show Deal With It – Stai al gioco; Valentina Petrini con Fake – la fabbrica delle notizie, programma nel quale la giornalista analizzerà il fenomeno delle fake news; il format Il supplente, in classe con professori del tutto inaspettati.

Autonomie, Lega e 5Stelle se le danno sull’Istruzione

Si sono alzati di scatto dal tavolo, guardandosi male. Lacerati da quella che è diventata la prima rogna dei gialloverdi, la partita sulle autonomie. “Se c’è qualcuno che non vuole farle parli chiaro, così invece di andare avanti si torna indietro” sbotta il vicepremier Matteo Salvini dentro Palazzo Chigi, nel vertice di governo di ieri mattina. La foto della distanza tra Carroccio e Cinque Stelle: impantanati, sul tema chiave dell’istruzione. E poco dopo il presidente del Consiglio Giuseppe Conte certifica le difficoltà: “Non permetterò che le autonomie allarghino le divisioni tra Regioni, dovremo introdurre strumenti di salvaguardia solidaristici per evitare che l’Italia si slabbri: sarebbe inaccettabile”.

Aggettivi come muri, alla Lega che nel vertice di ieri è tornata alla carica sull’istruzione differenziata per Regioni, con Veneto e Lombardia che vogliono scegliersi i docenti e tutto il resto. Ma sul tavolo affiorano anche le gabbie salariali, ossia la possibilità di parametrare gli stipendi al costo della vita sui diversi territori. “Vogliono alzare gli stipendi al Nord e abbassarli al Centro-Sud” soffiano subito i 5Stelle, che parlano di “proposta classista”. Mentre dall’altro fronte accusano il Movimento di essere venuto meno ad accordi precedenti, e di montare casi inesistenti. La certezza è che la riunione è subito tesa. I due vicepremier Di Maio e Salvini neanche si guardano in faccia. La ministra degli Affari regionali, la leghista Erika Stefani, ha il volto tirato; quella del Sud, la grillina Barbara Lezzi, è in assetto di guerra. Il tema della riunione sono gli articoli 11 e 12 delle bozze d’intesa, relativi all’istruzione. Ma sono subito scintille, tra i tecnici.

Con il capo di gabinetto del Mit, guidato dal 5Stelle Danilo Toninelli, che tira fuori una sentenza della Consulta per “bocciare” alcune proposte sulla scuola del Carroccio. E il capo di gabinetto del leghista Marco Bussetti (Istruzione) non la prende bene: “Questa non è la sua materia”. L’altro non molla il colpo: “Noi lavoriamo di squadra”. Il tono e le battute salgono. Conte interviene, raccomanda calma. Poi batte un colpo Giancarlo Giorgetti, il numero due della Lega: “Stiamo parlando di scuola ma non abbiamo ancora il via libera del ministero dell’Economia su molti punti”. E Di Maio va quasi a rimorchio: “Preferisco sicuramente gli argomenti di Giorgetti, che pone temi concreti”. Stefani e il viceministro all’Economia leghista Massimo Garavaglia protestano, insistono.

E Salvini accusa i 5Stelle: “Volete andare avanti sulle autonomie, sì o no? Altrimenti non le facciamo e la Lega si regolerà”. Così Conte media, ancora: “Le autonomie le faremo Matteo, però dobbiamo rispettare l’unità nazionale”. Ma ci si accapiglia anche sugli stipendi degli insegnanti, con il Carroccio che propone integrazioni. E Di Maio insorge: “Se vogliamo discutere di gabbie salariali non è questo il tavolo”. Con la viceministra all’Economia, la grillina Laura Castelli, che va a sostegno: “Così si creerebbero squilibri tra i Comuni, svuoteremmo i piccoli centri”. Però la riunione deve concludersi, bisogna andare a votare in Parlamento. “Magari possiamo riprendere più tardi” butta lì il premier. Ma non c’è margine per rivedersi in serata.

Così Stefani uscendo precisa: “Ma quali gabbie salariali, si tratta di incentivi previsti dalla contrattazione integrativa”. E gronda rabbia: “Se in materia di istruzione si nega la possibilità che una Regione, con risorse proprie, possa fare un’offerta formativa migliore allora mi si nega completamente il principio base dell’autonomia”. E allora Conte prova a tamponare, esagerando con l’ottimismo: “Ormai siamo alle battute conclusive, faremo una riforma equilibrata e armonica”. Ma il M5S vuole dilatare i tempi, facendo slittare tutto a settembre. Almeno.