Il prezzo delle Ffp2: Manzoni non parla più

La confusione dilettantesca che ha avvolto la gestione pandemica del governo sta oscurando alcuni aspetti paradossali che non vanno consegnati all’oblio. A maggio 2020 il commissario all’emergenza Domenico Arcuri fu attaccato duramente per la scelta di imporre un prezzo massimo per legge di 50 centesimi più Iva per le mascherine chirurgiche. Forza Italia, Italia Viva, Federfarma, Confindustria e via discorrendo lo accusarono di voler strozzare il mercato con un gesto sovietico. Il deputato renziano Gianfranco Librandi ne chiese a gran voce le dimissioni, insieme a Più Europa: “Una scelta improvvida e insensata!”. I giornali si riempirono di interviste in cui novelli produttori di mascherine accusavano il governo di farli fallire cambiando le carte in tavola. “Il costo della demagogia”, titolò Il Foglio

. In tv il giornalista Nicola Porro evocò addirittura la “rivolta del pane” della Milano dei Promessi Sposi

che, spingendo il governo a ridurre i prezzi, avrebbe causato l’esaurimento delle scorte di farina e una carestia ancora peggiore.

La passione per la teoria marginalista, cara a certi economisti, che i prezzi di mercato siano in grado di determinare un’allocazione ottimale delle risorse non si ferma neppure di fronte al fatto che in una situazione di scarsità di beni fondamentali per la salute, lasciare libero il funzionamento dei prezzi porta solo al fatto che chi ha i soldi se la cava, e gli altri no.

Com’è andata lo sappiamo. Arcuri non ha ucciso il mercato ma frenato la speculazione, tanto più che prima del Covid le mascherine chirurgiche costavano 20-30 centesimi e il margine di profitto non veniva intaccato dalla misura.

Ora il governo ha deciso di imporre l’uso delle mascherine Ffp2, più efficaci, per diverse attività e nei trasporti (e con l’ultimo decreto anche per i vaccinati con terza dose dopo un contatto a rischio). Lo ha fatto senza calmierarne i prezzi, che sono saliti rapidamente. Giovedì è corso ai ripari dando mandato al generale Figliuolo di fare come il predecessore. Nessuno ha fiatato. Italia Viva ha perfino rivendicato di averlo chiesto per prima. Con buona pace di Manzoni e di una delle (tante) idiozie sentite in questi due anni.

Le troppe banane della Repubblica trasformano i partiti in datteri

Concordo con le banane di Tomaso Montanari, coerenti al paesaggio istituzionale almeno da quando Sergio Mattarella ha trasformato i partiti in datteri. Avvenne, come ho raccontato nel mio “Le banane della Repubblica” (che cito per fratellanza botanica) il 2 febbraio dello scorso anno, quando il presidente annunciò alla nazione che la mattina dopo avrebbe ricevuto “il dottor Draghi”, per affidargli l’incarico esplorativo di un governo che non voleva nascere, ma doveva, escludendo l’intralcio e la confusione delle urne, che poi bisogna sempre pulire.

Al netto del colpo di teatro di quel giorno e di quel che andò in scena nei 335 successivi, fino a oggi, si prendeva atto che nessuno dei 915 parlamentari era in grado di sedersi in cima a Palazzo Chigi per governare le banane sottostanti. E neppure lo erano i 16 partiti presenti nelle due Camere. Né tantomeno i 13 datteri cresciuti al di fuori dei velluti dei Palazzi, nel regno della Società civile. Con quell’annuncio e quell’incarico, il presidente certificava che solo lontano dai partiti c’era il pezzo di ricambio adatto a rimettere in sesto la macchina del governo per incassare e distribuire i 209 miliardi di pasti caldi in arrivo da Bruxelles.

Un paio di mattine fa a “Omnibus”, Deborah Serracchiani, capogruppo del Pd alla Camera, si lamentava di non avere avuto abbastanza tempo per leggere la legge di Bilancio che di lì a qualche minuto avrebbe dovuto votare. Le suggerii di dirlo al suo partito, alla sua maggioranza, al suo governo e persino al suo presidente del Consiglio, non alla tv. E intanto di leggere “addirittura sui giornali” le indiscrezioni trapelate, così si sarebbe portata avanti col lavoro. Si è offesa. “Lei rispetti il mio lavoro” ha detto. Sfuggendole che forse era il dottor Draghi, re dei datteri e imperatore delle banane, a non rispettare il suo.

“I Migliori sono in confusione e adesso la gente lo ha capito”

In Parlamento lo conoscono tutti: lo frequenta da quasi trent’anni, spesso dissente dal suo partito e l’altro giorno si è rifiutato di votare la fiducia al governo Draghi sulla manovra, approvata dalla Camera a due giorni dal Capodanno senza lo straccio di una discussione. Ma ormai l’onorevole Elio Vito, animo Radicale con asilo politico in Forza Italia dal 1994, vive una certa popolarità anche nella bolla social di Twitter, dove è un mago dei 280 caratteri. In poche battute stronca alleati, avversari e, da qualche tempo, pure i presunti Migliori.

Elio Vito, la quarta ondata sembra aver travolto il governo, oltreché il Paese.

Ma voi avete capito qualcosa di quello che hanno deciso? Nessuno ha idea di cosa debba fare. Dopo tante critiche a Conte, perché era costretto a varare dpcm in piena notte per la mattina successiva, il governo dei migliori fa lo stesso, se non peggio.

Solo un problema di comunicazione?

No, i problemi sono tanti. Nonostante il governo si sia affidato a un prode Generale come commissario, non mi sembra abbia saputo gestire questa fase: le code alle farmacie sono sotto gli occhi di tutti, si fa fatica a fare i tamponi molecolari, le Ffp2 sono introvabili o al centro di forti rincari per cui servirà calmierare i prezzi: vedremo cosa diranno stavolta i campioni del liberismo da tastiera.

Non si fida più di Draghi?

Ho sostenuto questo governo senza pregiudizi, ma ho notato gravi mancanze di rispetto nei confronti del Parlamento, a partire dal fatto che Draghi non sia mai venuto al Copasir, nonostante sia stato più volte sollecitato. Ma questo è anche il governo che ha il record di fiducie: abbiamo superato le tre al mese, quasi una a settimana. Per un esecutivo che ha il 90 per cento del sostegno parlamentare non è accettabile.

E poi la manovra: lei ha denunciato lo scarso coinvolgimento del Parlamento.

Già il fatto che Draghi abbia fatto la conferenza di fine anno prima dell’approvazione della manovra mi è sembrato inusuale. Il Parlamento ha aspettato due mesi gli emendamenti del governo, la Commissione bilancio è stata sconvocata per tredici volte. Non votare la fiducia mi è sembrato un gesto di dignità.

Crede che negli ultimi giorni sia cambiata la percezione che gli italiani hanno del governo?

Sì, un po’ di fiducia è venuta meno con le regole anti-Covid e con la assurda conferenza autocelebrativa di fine anno, condita dalla standing ovation della stampa. C’è uno scollamento tra la rappresentazione della realtà data dai giornali e la percezione delle persone.

Draghi andrà al Colle?

Mi pare che le sue quotazioni siano al ribasso, ma mi sembra altrettanto chiaro che questa sia stata la sua ultima manovra. Comunque vada il voto per il Colle, ci saranno le dimissioni di Draghi e non sarà un passaggio solo formale. Le elezioni anticipate sono probabili.

Crede nel sogno di Silvio?

Ci siamo sentiti per gli auguri. Se è vero che la destra ha il diritto-dovere di indicare un candidato, questo nome non può non essere Berlusconi. Non ha senso andare su figure minori, lasciamo perdere Casini e Pera.

In dissenso, ma sempre fedele al capo.

Certo, ma non è solo questione d’affetto, credo ancora in FI anche se purtroppo abbiamo commesso errori per rincorrere i sovranisti: l’abbandono dei diritti civili, poca chiarezza sull’antifascismo, difesa di un ceto medio ricco invece che del nostro storico elettorato popolare.

E se le dico che il futuro di FI è con Matteo Renzi?

Per fortuna mi sembra un’ipotesi scomparsa, ma che Renzi sia più un populista di destra che un riformista di sinistra è ormai evidente. Uno che preferisce andare in Arabia Saudita che votare per il ddl Zan non potrà mai essere mio alleato.

Come è riuscito a rendersi così impopolare?

C’è il narcisismo, certo. Ma poi c’è la continua ricerca della contrapposizione personale, che sia contro il Pd o contro Conte, quasi a far vedere che ha un ruolo predominante sia come costruttore che come distruttore. Ovviamente in tutto ciò si sopravvaluta non poco.

Glielo scriverà su Twitter?

A me Twitter rilassa tantissimo, mi piace portare un po’ di ironia nella comunicazione politica. Mi ha molto preoccupato invece vedere le campagne di Renzi contro il Fatto: sono abituato ai giornali che criticano i politici, non ai politici che fanno campagne contro i giornali.

Sei donne in corsa per il Colle (e non c’entrano le quote rosa)

Èvero che la candidatura di una donna al Quirinale rischia sempre di essere un modo per fare melina e distrarre l’attenzione pubblica. Ma questo non vuol dire che le donne candidabili o candidate in pectore non ci siano e che potrebbero avere un consenso inaspettato.

Ha fatto discutere, negativamente, l’uscita pubblica di Giuseppe Conte che la scorsa settimana ha sottolineato l’importanza di avere una candidata donna e le sue dichiarazioni sono state per lo più dileggiate. Solo Il Foglio, però, ha dato la notizia che una candidata possibile per il M5S sarebbe la giudice costituzionale Silvana Sciarra, 73 anni, prima donna a essere eletta nel 2014 in quella carica dal Parlamento, dopo essere stata professore di Diritto del lavoro e Diritto sociale europeo. Una giurista che ha il torto di non essere conosciuta ai più. Ma è un nome autorevole, gradito ai 5Stelle e della quale il Pd dovrebbe spiegare i demeriti.

Sul fronte del centrosinistra c’è certamente Rosy Bindi, 70 anni. L’ex ministra della Salute, tra le fondatrici del Pd e dell’Ulivo non è ma stata così in vista negli ultimi anni con interviste, interventi nei talk show. Lei stessa non ha mai negato di poter far parte di una rosa di nomi, anche se non si è mai sbilanciata. Nel Pd probabilmente ha più nemici che amici, il M5S potrebbe anche gradirla, Renzi probabilmente la impallinerebbe al primo voto. Il nome esiste, ma non ha molte chance nemmeno per una candidatura di bandiera.

Nel Pd, infatti, come riportato dal Fatto, una ipotesi possibile di bandiera è Anna Finocchiaro, 66 anni. La più volte ministra, oggi presidente della fondazione Italiadecide (presidente onorario Luciano Violante) gode di un’ampia rete di rapporti desumibile anche dalla struttura della fondazione stessa. Nel 2015 il suo nome circolò per la possibile successione a Napolitano ma fu stoppata da Renzi anche in virtù di quelle foto che la ritraevano a fare la spesa all’Ikea aiutata dagli uomini della scorta. Dovesse affermarsi come candidata di bandiera avrebbe per lo meno un risarcimento.

Altro nome fatto sottovoce per non danneggiarla è quello della presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, 75 anni eletta sullo scranno più alto di palazzo Madama dalla congiunturale alleanza del M5S con il centrodestra (che in cambio votò Roberto Fico alla Camera) propedeutica poi al governo giallo-verde. Casellati fa di tutto per giungere a quella posizione e anche il 1 gennaio si è lanciata nel suo messaggio di auguri, subito dopo quello di Mattarella. La sua speranza è che tramontando la candidatura di Silvio Berlusconi il Pd possa accettare la sua. Solo che a decidere sarà proprio l’ex Cavaliere.

Messa da parte l’ipotesi di una candidatura della senatrice a vita Liiana Segre, avanzata dal fondatore del Fatto, Antonio Padellaro, oggetto di una ampia petizione popolare, ma respinta cortesemente dall’interessata in ragione dell’età, sul fronte istituzionale resta attiva la candidatura della Guardasigilli Marta Cartabia, 58 anni, prima donna presidente della Corte Costituzionale, è probabilmente quella più in sintonia con il metodo e il patto che ha portato Mario Draghi a palazzo Chigi. Se non fosse per un limite strutturale: la sua riforma della Giustizia non piace al M5S contro cui sembra essersi mossa fin dall’insediamento a via Arenula. I numeri per una sua eventuale elezione ci sarebbero lo stesso se il resto dei partiti decidesse di convergere su di lei, ma è pensabile che il Parlamento voti il capo dello Stato contro il parere della forza politica più consistente?

Tra le papabili quirinalizie c’è infine un nome che circola sottovoce, forse più delle altre: la ex ministra della Giustizia del governo Monti Paola Severino. Di lei non si contano particolari dichiarazioni se non la smentita, nel settembre 2020, di “aver mai fatto parte di alcuna loggia” in relazione alle accuse di Piero Amara sull’ipotetica “loggia Ungheria”. Avvocata di livello, ha un portafoglio clienti di grande prestigio: Romano Prodi, la Fininvest, Francesco Gaetano Caltagirone fino all’Unione delle comunità ebraiche per il caso Priebke. La rete di relazioni l’ha portata ad assumere la funzione di Rettrice dell’Università Luiss di Roma di cui è vicepresidente. Il governo Draghi l’ha poi nominata presidente della Scuola nazionale di amministrazione, incarico che svolge a titolo gratuito. Ha quindi rapporti consolidati con tutto l’arco politico e nel M5S potrebbe rappresentare un vantaggio che il suo nome sia legato alla legge che impedisce di ricoprire incarichi elettivi o di governo a chi è condannato per fatti di corruzione. Grazie alla sua legge, per capirci, Silvio Berlusconi è decaduto da senatore. E questo ne fa una candidata che può essere invisa proprio al fondatore di Forza Italia che conferma, anche qui, una sua rinnovata centralità.

Draghi è il “migliore”, ma intanto fa crollare chi sostiene il goveno

Il migliore dei migliori è Mario Draghi, of course. Nell’infornata di sondaggi di fine 2021 il premier risulta il personaggio politico più popolare del Paese. Difficile immaginare il contrario, anche a prescindere dai giudizi di merito sul lavoro svolto: l’attuale presidente del Consiglio ha goduto di un’esposizione benevola, per usare un eufemismo, sulla quasi totalità dei mezzi d’informazione.

Gli spunti più interessanti di queste classifiche di popolarità arrivano da ciò che risulta alle spalle di Draghi, perché i numeri danno un’impressione netta: il “migliore” sta fagocitando i leader che lo sostengono. Matteo Renzi e Matteo Salvini, contraenti del patto di governo, sono tra le figure più impopolari d’Italia. Lo conferma l’ultimo articolo di Ilvo Diamanti su Repubblica: i segretari di Lega e Italia Viva sono quelli che hanno collezionato il maggior numero di giudizi negativi. Un risultato significativo anche per il metodo particolare di questo sondaggio: agli intervistati è stata posta una domanda “aperta”, senza una lista di nomi da cui scegliere. Le risposte sono quindi del tutto spontanee. Il 24% del campione ha indicato Salvini come peggiore politico d’Italia, il 16% Renzi, tutti gli altri sono ampiamente distaccati.

D’altra parte, c’è un secondo dato significativo che emerge dalle classifiche del 2021: anche se con un gradimento sensibilmente diminuito da quando ha assunto la guida del Movimento rispetto al periodo da presidente del Consiglio, Giuseppe Conte resta ancora il leader più popolare dopo il premier. Draghi è il migliore per il 27% degli intervistati, Conte è alle sue spalle con il 17%, Giorgia Meloni è terza con l’8%, superando l’alleato Salvini che si ferma al 5.

Il discorso sul leader dei 5Stelle è speculare a quello sull’uomo che ha preso il suo posto a Palazzo Chigi: nonostante le turbolenze interne al Movimento e un racconto mediatico decisamente meno generoso, per tutto il 2021 Conte è rimasto con buon margine il leader politico più apprezzato (con buon distacco dal tecnico Draghi). Nello stesso sondaggio di Diamanti pubblicato alla fine del 2020, quando era ancora premier, Conte era considerato il migliore dal 33% degli interpellati. I suoi numeri sono in flessione – anche fisiologica, visto che non ha più un ruolo istituzionale, ma una responsabilità di parte da quando ha preso la guida dei Cinque Stelle – però nonostante le difficoltà l’avvocato gode ancora di una parte del credito conquistato quando era premier.

Se si allarga lo sguardo agli altri sondaggi, le stesse impressioni sono confermate. Anche i numeri pubblicati da Nando Pagnoncelli sul Corriere della Sera alla vigilia di Natale, dicono che Conte è il più popolare tra i leader di partito (sebbene in calo dal 43 al 39%), mentre tutti gli altri sono scarsamente o per nulla apprezzati al di fuori del proprio elettorato (anche Silvio Berlusconi, che coltiva ambizioni quirinalizie, rincula dal 31 al 28%).

Pure nella classifica di Ixè pubblicata a ridosso di Natale, Conte (44%) si piazza alle spalle dell’imprendibile Draghi (65%), mentre in terza posizione c’è il ministro della Sanità Roberto Speranza (41%). Nonostante tutto, chi ha avuto la responsabilità di gestire la pandemia è ancora premiato.

Gli altri sostenitori del governo dei migliori? Letta è al 33%, Salvini è tra i meno popolari con il 25%, Luigi Di Maio è al 22, Renzi langue ancora in fondo alla graduatoria, con un desolante 10%. Peggio di lui solo Beppe Grillo al 9. Giorgia Meloni, comodamente all’opposizione, è la leader cresciuta di più nel corso del 2021 (per Ixè chiude l’anno al 32%). Si è nettamente lasciata alle spalle l’alleato Salvini nella percezione del ruolo di guida del centrodestra. Politicamente, stare dalla parte del “migliore” fa bene a una persona sola: il migliore medesimo.

Enrico sta sereno: Letta jr. difende Renzi da D’Alema

Riecco Massimo D’Alema. L’ex leader della sinistra post Pci è tornato a modo suo sulla cresta dell’onda mediatica. Ha chiuso la diaspora degli ex comunisti dalla “ditta”, ha annunciato il probabile scioglimento di Articolo Uno (il movimento fondato con Pierluigi Bersani e Roberto Speranza) per tornare alla casa madre del Pd e con una sola dichiarazione ha fatto impazzire il suo vecchio partito come la maionese. La leadership di Matteo Renzi, secondo D’Alema “è stata una deriva disastrosa, una malattia che fortunatamente è guarita da sola, ma c’era”.

Ieri si sono susseguite repliche indignate soprattutto dai parlamentari della corrente renziana rimasta nelle file dem (Base Riformista, che fa capo a Lorenzo Guerini e Luca Lotti). Poi è intervenuto il segretario Enrico Letta, che ha pubblicato sui social network poche parole gelide per liquidare l’uscita di D’Alema: “Il Pd da quando è nato, 14 anni fa, è l’unica grande casa dei democratici e progressisti italiani. Sono orgoglioso di esserne il segretario pro tempore e di portare avanti questa storia nell’interesse dell’Italia. Nessuna malattia e quindi nessuna guarigione. Solo passione e impegno”. Un post che tradisce l’irritazione di Letta per la goffa uscita dalemiana e forse anche per l’annuncio dell’operazione “rientro” di Articolo Uno, che potrebbe alterare gli equilibri interni e spostare il baricentro del partito a sinistra: chi si aspettava un’elaborazione o un ragionamento critico sulla stagione renziana – che il segretario per primo ha subìto sulla propria pelle – sarà rimasto deluso.

Renzi non ha perso l’occasione per regolare i conti sui social network: “D’Alema rientra nel Pd dicendo che chi lo ha portato al 40% è un MALATO. Sono parole che si commentano da sole. Un pensiero a chi è malato davvero, magari nel letto di un ospedale”. Renzi specula sull’uscita infelice con un’interpretazione peculiare delle parole del suo avversario: D’Alema non ha dato del “malato” all’ex segretario ma ha parlato di “malattia”, ovviamente politica, del renzismo.

Poco importa. Nel centrosinistra si litiga, con la partita campale del Quirinale alle porte. All’alba del 2022, i giornali si riempiono ancora con i progetti politici di Silvio Berlusconi (a proposito di Colle) e di Massimo D’Alema. Quando si dice un paese proiettato nel futuro.

La sai l’ultima?

 

Cina

Il governo ha vietato ai calciatori nel giro della nazionale di avere tatuaggi

Vietato tatuarsi. La Cina impone una rivoluzione etica ed estetica ai suoi calciatori: chi ha inchiostro sulla pelle lo deve rimuovere, o almeno coprire. Chi non ce l’ha, si dia una regolata. “Il governo cinese ha vietato ai calciatori della nazionale di farsi tatuaggi o di esporre quelli che già hanno: – scrive il Post – a chi li ha, ha ordinato di rimuoverli o in casi eccezionali di coprirli, per ‘dare il buon esempio alla società’”. Un divieto che vale per tutti: uomini, donne, settore giovanile. La Cina non ha un bel rapporto con i tatuaggi, “nel 2018 era stato vietato esporli anche in televisione, sono popolarissimi tra le generazioni più giovani, ma su di loro c’è da sempre uno stigma sociale, legato tra le altre cose alla storia della criminalità organizzata”. La raffinata equazione tatuaggio-galeotto è ancora viva nella società cinese. E il governo ha l’ultima parola sul corpo dei suoi atleti: ai nazionali del Dragone senza tatuaggi sarà vietato farli. Chi invece li ha già dovrà trovare il modo di farli scomparire.

 

Finlandia

Cambiare le batterie costa troppo, il proprietario preferisce far esplodere la sua Tesla con 30 kg di dinamite

Carina la Tesla, sì, ma quanto costa. Le riparazioni poi, non ne parliamo. Un insoddisfatto proprietario dell’auto elettrica per eccellenza ha deciso di farla saltare in aria piuttosto che cambiarle le batterie, visto il prezzo proibitivo dell’operazione. Lo racconta il Corriere della Sera: “È una protesta per niente silenziosa quella di Tuomas Katainen, finlandese che fino a poco tempo fa era un felice possessore di una Tesla Model S del 2013. Poi, però, la debacle. Appare un codice di errore legato alle batterie e gli chiedono almeno 20 mila euro per sostituirle. Troppi, secondo lui, e così si è accordato con un gruppo di YouTuber per far saltare in aria la vettura. Letteralmente”. Trenta chili di esplosivo e un festeggiamento pirotecnico, e discutibile, per la dipartita dell’auto. Ironia della sorte, “le batterie della discordia si siano salvate dall’esplosione: farle saltare sarebbe stato tossico e troppo pericoloso, così le hanno rimosse prima di accendere la miccia”.

 

Russia

Smantellata la “prigione delle balene”, dove erano stati ingabbiati oltre 100 tra cetacei e trichechi

In Russia esisteva un’arcipelago gulag anche per i cetacei: la “prigione delle balene” nel Mare di Okhotsk, estremo oriente della Federazione. Ci vivevano, ingabbiati, oltre 100 esemplari, tra orche e beluga. Una vicenda che aveva messo in imbarazzo anche Vladimir Putin, pubblicamente molto impegnato per i diritti della fauna marina (meno per quelli dei suoi connazionali bipedi, ma è un altro discorso). Poco prima di capodanno la struttura è stata smantellata. “Al fine di prevenire il futuro uso illegale di questo spazio marittimo e la creazione di una nuova ‘prigione delle balene’, le costruzioni galleggianti rimanenti nella baia sono state smantellate su richiesta dell’ufficio del procuratore per la protezione ambientale della regione di Amur”, si legge in un comunicato governativo. “In seguito alle denunce degli ambientalisti, le autorità russe hanno liberato 87 balene beluga, 11 orche oltre a cinque cuccioli di tricheco”, scrive LaZampa.it.

 

Paesi Bassi

La collana che “protegge” i complottisti dal 5g è radioattiva: l’autorità sanitaria la fa ritirare dal commercio

Ancora una radiosa notizia dal mondo dei complottisti, no-vax, qanonisti, paranoici, paranormali. Come noto, attraverso i microchip inoculati sotto la pelle e grazie al 5g, i potenti del mondo vogliono trasformarci in burattini eterodiretti. Ma per fortuna c’è un rimedio: qualche genio ha messo in commercio collane e medaglioni che proteggono dal 5g. Peccato siano radioattivi. “Una categoria di prodotti – scrive Fanpage – che rappresenta una bufala al quadrato, costituita da pendagli, gioielli e accessori pensati per ‘neutralizzare’ i presunti effetti nocivi delle frequenze elettromagnetiche del 5G”, ma che sono stati ritirati dal commercio nei Paesi Bassi perché invece risultano pericolosi. Pendagli e medaglioni sono stati messi al bando “dopo uno studio condotto dalle autorità sanitarie locali che ha evidenziato come i prodotti emettano radiazioni ionizzanti che potrebbero essere nocive per la salute”. Che incredibile contrappasso. Oppure è un altra bugia del deep state?

 

Grosseto

Sorpassa la polizia ubriaco e senza patente poi prova a convincere glii agenti: “Non guidavo mica io”

Un campione lo vedi dal coraggio (dall’altruismo) e dalla fantasia. Come non definire un campione, forse anche un filo imbecille, il guidatore ubriaco, senza patente, che ha sorpassato l’auto della polizia con una manovra azzardata, in un punto in cui non si poteva superare e dopo essere stato fermato ha provato a convincere gli agenti che al volante non c’era lui? Succede ad Arcidosso (Grosset), lo scrive Il Tirreno: “Lo scorso fine settimana ad Arcidosso un’auto con a bordo due ragazzi sorpassa una pattuglia della stradale di Grosseto, in un punto dove la segnaletica vieta il sorpasso; scatta l’inseguimento e l’auto viene fermata poco dopo. Il ragazzo alla guida emana un forte odore di alcol. Scende dal lato del guidatore, ma cerca di sostenere che, nonostante l’evidenza, non stava guidando lui. I poliziotti decidono di verificare le sue condizioni con l’etilometro. Lui si rifiuta. Alla fine si decide e soffia: l’accertamento dice che il tasso alcolemico è di 1,33 g/l”. Dai controlli risulta pure che la patente gli era già stata revocata. Fine corsa, saluti.

 

Venezia

Un cittadino esasperato dai parcheggi selvaggi si mette a fare multe finte, ora rischia 4 anni di carcere

In provincia di Venezia un uomo ha provato a farsi giustizia da solo contro il virus dei parcheggi infami. “Stanco delle soste selvagge sotto casa – si legge sul Gazzettino – un cittadino di San Donà di Piave si è inventato multe false per liberare il parcheggio. Al cinquantenne non andavano giù le vetture lasciate contromano sul marciapiede in via Eraclea. Così ha alterato una vecchia multa e l’ha messa sul parabrezza di un Suv in divieto, con un gesto a metà tra il film Amici miei e un eccesso di senso civico”. Non è andata a finire bene. “L’iniziativa gli è costata una denuncia per falso materiale in atto pubblico commesso da un privato. Il proprietario dell’auto è infatti andato dai vigili per pagare la multa, ma gli agenti si sono accorti che la sanzione era artigianale. Il vigile fai da te è stato identificato grazie ai filmati delle telecamere di sorveglianza. La pena prevista va da otto mesi a quattro anni, a meno che il giudice non archivi ritenendo la fotocopia un falso grossolano”.

 

Inghilterra

La banca Santander a Natale regala per sbaglio 130 milioni di sterline ai suoi clienti. Ora li deve recuperare

Un regalino da niente, un errore da 130 milioni di sterline. La banca Santander ha donato un Natale allegrissimo a 75mila correntisti inglesi: per errore ha depositato sui loro conti bonifici da migliaia e migliaia di pounds, per un totale appunto di 130 milioni. Ora la vera impresa sarà tentare di recuperarli. “Quel denaro andrà dunque restituito al mittente – scrive Repubblica –. Il problema è che molti dei bonifici sono stati fatti su conti di banche rivali, per cui il procedimento di restituzione non potrà essere semplice né rapido”. E poi “a complicare il problema c’è il fatto che, nei giorni delle feste, si tende a spendere in cene e acquisti, per lo più online se negozi e grandi magazzini non sono aperti: non è chiaro come reagiranno le varie banche, tra cui Barclays, NatWest e Hsbc, se i loro clienti hanno già utilizzato i fondi in più e, per recuperarli, i loro conti andassero in rosso, ovvero in passivo, facendo scattare interessi e penali”. Non pareva vero, che una banca ti regalasse dei soldi.

È già fallito il finto piano “salva-scuola” di Bianchi

Le mascherine Ffp2 per tutti i docenti – come chiesto dai dirigenti scolastici – non ci saranno. Saranno date solo ai maestri delle scuole dell’infanzia e a quelli che hanno un alunno esentato dal portarla. Il distanziamento in classe che l’ex ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina aveva prescritto quand’era a viale Trastevere e che ora torna a domandare, invece, non è previsto. Così come il personale amministrativo aggiuntivo Covid per garantire la sanificazione e l’organizzazione ottimale, almeno stando all’ultima nota ministeriale, è stato rinnovato solo fino al 31 marzo. Poi, soldi permettendo, si vedrà se si riuscirà a prorogarlo fino a fine anno. La stessa scadenza riguarda anche i docenti Covid: i fondi aggiunti in manovra non sono bastati per tutti e per tutto l’anno. Insomma, la scuola è tutt’altro che salva e il fallimentare piano del governo non si ferma qui, fornendo pane per i denti di chi vorrebbe tornare a chiudere.

La campagna vaccinale per i bambini dai 5 agli 11 anni, ad esempio, va a passo di lumaca: al 31 dicembre resta da immunizzare 3,2 milioni di ragazzini (l’88,41%) e le scuole dal 24 dicembre non sanno più quanti sono gli alunni positivi. Molti docenti alla ripresa delle lezioni saranno ancora a casa contagiati o in quarantena e non si troveranno facilmente i supplenti. Mentre l’ipotesi, messa in campo dalle Regioni, di lasciare a casa gli studenti non vaccinati, in caso di due positivi, sembra naufragare prima ancora di arrivare in Consiglio dei ministri. Se infatti il 31 dicembre il ministro Bianchi, dopo l’incontro con il presidente della Conferenza delle Regioni Massimiliano Fedriga, sembrava aver in mano la soluzione, ieri, la proposta è stata affondata da gran parte delle forze della maggioranza. I primi due a criticarla sono stati proprio i collaboratori più stretti del ministro. “Non si può pensare di discriminare i bambini, prevedendo per alcuni la dad e per altri la frequenza in presenza”, ha detto la sottosegretaria all’Istruzione Barbara Floridia (M5s). Stessa musica dal collega Rossano Sasso della Lega: “Non possiamo permetterci di relegare in dad milioni di studenti. Su questo siamo pronti a far sentire forte la nostra voce”. Il piano, infatti, altro non è che il tentativo di riempire i buchi sul tracciamento. In una ordinanza, ad esempio, la Regione Abruzzo ha scritto nero su bianco che la “struttura organizzativa governativa afferente al commissario straordinario ha programmato una campagna nazionale di screening presso gli istituti scolastici per le giornate del 8-9 gennaio” rispettivamente sabato e domenica. Per fare i tamponi è stata sospesa l’attività didattica anche venerdì 7 e la dirigente dell’Usr Antonella Tozzo spiega che anche l’8 potrebbe esserci qualche scuola primaria e media che terrà aperto per consentire lo screening. Ma domenica saranno tutti a casa. Difficile, invece, sapere come andrà nelle altre regioni. Contattati dal Fatto nella serata di ieri gli assessori regionali all’Istruzione di Lazio, Campania, Puglia hanno risposto di non saperne nulla. Così gli uffici scolastici regionali del Piemonte e della Lombardia. Nessuna risposta neanche dalla struttura commissariale.

In Italia tamponi da salasso, in Ue meno cari e più veloci

In origine serviva ai non vaccinati senza green pass per andare a lavorare. Oggi – in tempi di feste e di Omicron – dopo i premurosi per i cenoni in sicurezza, si sono aggiunti i vaccinati a rischio reinfezione. Sta di fatto che l’Italia viaggia ormai a una media mobile settimanale di oltre 800 mila tamponi al giorno. Purtroppo carissimi: 15 euro per un rapido in farmacia e prezzi impazziti (fino a 200 euro) per i molecolari fatti privatamente. In questo purtroppo (fatta forse eccezione per la Spagna) siamo fanalino di coda tra i grandi d’Europa.

 

Germania

Per bilanciare il basso tasso di vaccinazione, appena il 70% della popolazione, il governo ha istituito una fitta rete di centri per testare la popolazione. Tutti hanno il diritto a un test antigenico gratuito al giorno. I centri sono in maggioranza privati. Con un codice qr ci si registra, viene effettuato il test e subito arriva una mail con il risultato. I molecolari sono gratuiti se prescritti dal medico e a pagamento per recarsi all’estero. Il prezzo parte da 29 euro con la consegna in giornata, ma con 99 euro ci si assicura il risultato in quattro ore. Test antigenici e mascherine Ffp2 sono venduti in tutti i supermercati. I test per l’autodiagnosi costano circa 2 euro l’uno, ma il prezzo si dimezza con una confezione da dieci. Le Ffp2 si comprano a un euro in buona parte dei negozi. In alcuni casi sono gli stessi esercenti, dopo aver controllato l’attestato vaccinale, a dare una Ffp2 ai clienti.

 

Francia

Antigenici e molecolari sono stati gratuiti fino al 15 ottobre 2021 e lo sono tuttora per i vaccinati. La fine della gratuità, annunciata da Macron il 12 luglio scorso, riguarda solo i non vaccinati (senza ricetta medica). Per loro il costo del tampone varia dai 25 euro per un antigenico in farmacia (30 euro la domenica) ai 43,89 euro per un molecolare in laboratorio. I tamponi sono gratuiti per i minorenni. L’autotest si acquista in farmacia a 5,20 euro. Ma con l’aiuto del farmacista costa 12,90. In Francia la mascherina è tornata obbligatoria anche all’aperto in molte città e da oggi lo è anche per i bambini dai 6 anni in alcuni luoghi aperti al pubblico, come i trasporti. La chirurgica resta accettata ovunque, anche se il dibattito sull’uso delle Ffp2, più protettive, è aperto. In media le Ffp2 costano 60-70 centesimi l’una, ma si possono trovare fino a uno o due euro.

 

Regno Unito

Antigenici e molecolari sono da sempre gratuiti e possono essere prenotati online sul sito del servizio sanitario ed eseguiti nei centri di quartiere, oppure, se non si è in condizioni di muoversi, a casa. Salati invece i prezzi dei tamponi per viaggiare. I molecolari pre-partenza vanno in media dalle 40 alle 125 sterline (47 e 148 euro), mentre per il test post rientro, dopo le polemiche, il governo ha imposto una moratoria abbassando il costo dalle 88 (104) alle 68 (80) sterline per un test singolo e dalle 170 (201) alle 136 (161) per due. Anche per le Ffp2 i prezzi al dettaglio variano di molto, con una media di 2 pound (2,37 euro) l’una.

 

Spagna

”Agotado”, esaurito, sta scritto in molte farmacie da quando il 20 luglio il governo ha approvato la vendita dei test antigienici. Ma sono tra i più costosi d’Europa: nelle ultime settimane il prezzo è volato da 5 a 10 euro. I test molecolari costano invece dai 60 a 120 euro. L’Iva è ridotta al 4% sulle mascherine chirurgiche, ma non sulle Ffp2 che mantengono il 21%. Il Consiglio generale degli infermieri denuncia che i prezzi delle Ffp2 vengono gonfiati e “ci sono differenze abissali” da una farmacia all’altra, anche del 200%.

 

Portogallo

A dicembre, in vista delle vacanze natalizie, il governo di Lisbona ha garantito 6 test antigenici gratuiti per ogni cittadino (ora ridotti a 4). Più di mille farmacie effettuano test gratuiti, ma i dispositivi rapidi si possono comunque comprare a poco più di due euro nelle farmacie e nei supermercati. Il test molecolare, invece, costa dagli 80 ai 90 euro.

 

Israele

Qui l’’antigienico si compra in farmacia e costa da 80 fino a 100 shekel, più o meno tra i 20 e 30 euro. Per un molecolare si può arrivare fino a 200 euro, ma è possibile farlo anche con un esborso minimo di 22,60 euro, in un Paese dal costo della vita altissimo. A causa delle file interminabili e conseguenti, pericolosi assembramenti davanti a centri sanitari e farmacie che testano gli israeliani, il ministro della Salute Nitzan Horowitz ha deciso ieri di limitare il numero di persone che avranno accesso alle analisi antivirus: verranno privilegiate le persone a rischio e anziani. Per tutti gli altri ci sarà il kit fai da te o altri dei molti dispositivi che Israele distribuisce in farmacia.

Autosorveglianza e quarantene: il sudoku si fa ancora più difficile

Doveva essere il decreto della chiarezza, la regola immediatamente comprensibile per contrastare la diffusione di Omicron senza bloccare il Paese. Invece, quello entrato in vigore il 30 dicembre è ancora un soduku. E di quelli difficili. A complicare ulteriormente le cose, la successiva circolare del ministero della Salute, che avrebbe dovuto chiarire alcuni aspetti oscuri del decreto (come il concetto dell’“autosorveglianza” per i “contatti stretti”, introducendone la durata) ma ha aumentato la confusione. Sì, perché decreto e circolare si sono rivelati in contraddizione su alcuni punti. In particolare sulle norme circa gli obblighi del contatto con positivo asintomatico con tre dosi o con seconda meno di 120 giorni o guarito: ci vuole un tampone per essere “liberi”? E dopo quanti giorni lo si dovrebbe fare? A norma di decreto gli asintomatici con tre dosi (o con seconda da meno di 120 giorni e i guariti) devono sottoporsi a un tampone per uscire dall’autosorveglianza; la circolare, invece, lo prevede solo per chi diventa sintomatico.

Cerchiamo di fare chiarezza, partendo dalla questione contatti stretti: “I contatti stretti asintomatici – dichiara il ministro della Salute Roberto Speranza –, se boosterizzati , con due dosi o guariti da meno di 120 giorni non devono fare la quarantena, ma solo 5 giorni di autosorveglianza e 10 giorni di mascherine Ffp2. Non c’è obbligo di tampone negativo in uscita, se non hanno mai avuto sintomi”.

Se hanno avuto sintomi, invece, devono sottoporsi subito a un tampone molecolare o antigenico e farne un secondo entro 5 giorni “dall’ultimo contatto col positivo”. Da ciò si evince che il tampone al 5° giorno va fatto solo dai contatti con sintomi che al 1° tampone siano risultati negativi, perché se positivi al primo, rientrano nella categoria dei positivi tout court.

Ciò che resta ancora nel limbo è il concetto di “ultimo contatto” col positivo. Per esempio: i membri negativi di una famiglia convivente con un positivo, quando hanno avuto l’ultimo contatto? A norma di legge, l’ultimo contatto si ha quanto questo si negativizza, e da allora dovrebbe partire il conteggio dei 5 giorni di autosorveglianza. In realtà, l’interpretazione data fino a ora è che i contatti stretti iniziano il periodo di autosorveglianza dalla pubblicazione del decreto. Liberi tutti, insomma.

Le consuete Faq del ministero non risolvono granché. Il contatto con due dosi da più di 120 giorni e che ha comunque un green pass rafforzato valido, se asintomatico, deve effettuare la quarantena di 5 giorni con obbligo di un test molecolare o antigenico negativo al quinto giorno. Per i non vaccinati (o chi ha una sola dose), o abbiano avuto la seconda da meno di 14 giorni, la quarantena resta di 10 giorni dall’ultima esposizione, con obbligo di test molecolare o antigenico negativo al decimo giorno.

Nuove norme anche per l’isolamento dei positivi: per gli asintomatici (o asintomatici da almeno 3 giorni), con tre dosi/ciclo vaccinale completato da meno di 120 giorni, il periodo di isolamento dura 7 giorni e deve essere concluso con test molecolare o antigenico.

I sintomatici, invece, devono sottoporsi a un isolamento di 10 giorni, che deve essere sempre concluso con un tampone antigenico o molecolare.

Per ottenere il green pass da guarigione quindi è sempre necessario un tampone antigenico o molecolare negativo. Una necessità che andrà a gravare sulle strutture già in crisi delle regioni. L’iter prevede che la struttura sanitaria che effettua il tampone debba inviarne l’esito alla piattaforma nazionale, mentre il cittadino deve mandarlo al medico di base. A quel punto, il medico di base emetterà un Certificato di guarigione, provvedendo allo sblocco del green pass sulla piattaforma nazionale. Finita la non certo semplice procedura, il nuovo green pass (scaricabile attraverso la App Io) sarà inviato al paziente.