Ostriche e champagne di Stato per De Rugy

Sontuose cene a base di aragoste e champagne d’annata nei saloni dorati della République per alcune decine di amici intimi. Il tutto a spese del contribuente. Il giornale online Mediapart ha pizzicato François de Rugy, ministro dell’Ecologia di Emmanuel Macron, nel lussuoso esercizio delle sue funzioni tra il 2017 e il 2018 da presidente dell’Assemblée Nationale. In un’inchiesta pubblicata ieri, testimonianze e foto alla mano, il giornale sostiene che il “verde” De Rugy avrebbe organizzato una decina di serate di gala a titolo privato tra ottobre 2017 e giugno 2018 nei saloni dell’Hôtel de Lassay, residenza ufficiale del presidente dell’Assemblea, lussuoso palazzo settecentesco adiacente al Palais Bourbon, sede del Parlamento. A organizzare le serate sarebbe stata Séverine de Rugy, la moglie del ministro, giornalista del magazine di scandali Gala. La maggior parte degli ospiti di queste serate, tra dieci e trenta persone, del resto, precisa il giornale, erano “amici” di lei, giornalisti, attori, uomini d’affari, intellettuali. In una foto si vede la donna che posa con un Mouton Rothschild del 2014, una bottiglia di una cuvée speciale che vale almeno 500 euro. Mediapart elenca i châteaux Margaux o Cheval Blanc portati su dalle cantine del palazzo serviti agli amici di madame. Nessuno di questi vini, scrive il giornale, “può uscire dalle cantine senza un’autorizzazione particolare”.

Un’altra foto del dicembre 2017, mostra un piatto di aragoste giganti servite a una cena a cui avrebbero partecipato anche dei parenti della coppia. A Mediapart, il ministro ha detto di non avere nulla da rimproverarsi: si è trattato di “cene informali legate all’esercizio delle sue funzioni con personalità della società civile”. Ha anche ricordato che con lui il budget dei ricevimenti dell’Hôtel de Lassay era sceso del 13 per cento. Per Madame de Rugy non c’era nulla di male in quelle serate: “Un uomo politico non si può tagliare fuori dalla società”. Mediapart però si è anche procurato un’altra foto: De Rugy seduto a un tavolo apparecchiato per due, lume di candela, posate d’argento, piatti di porcellana, bicchieri di cristallo e petali di rosa, la sera della festa di San Valentino dello scorso anno. Anche per una cena privata a due il ministro avrebbe “mobilitato personale e mezzi” del palazzo, precisa il giornale. Una “delicata attenzione del personale”, ha invece spiegato il ministro. De Rugy ama difendere in pubblico “la trasparenza nella gestione dei fondi pubblici”. E, come ricorda Mediapart, ama anche spesso e volentieri citare il generale de Gaulle. Il quale, però, “era conosciuto per pagare di tasca sua pure la merenda dei nipoti”. L’ex presidente dell’Assemblea si era già fatto pizzicare nel 2018 per aver oganizzato all’Hôtel de Lassay il ricevimento del suo matrimonio.

Parigi, l’uomo di Macron batte il genio matematico

La battaglia per l’Hôtel de ville di Parigi è già iniziata. Le prossime elezioni municipali si terranno nel marzo 2020 e la poltrona di primo cittadino della capitale resta uno dei posti più ambiti. Emmanuel Macron vuole scalzare la sindaca socialista Anne Hidalgo, eletta nel 2014, per vederci al suo posto uno dei suoi fedeli, Benjamin Griveaux, designato ieri candidato a sindaco di Parigi dall’ufficio esecutivo del partito presidenziale, La République en marche. Che dalla lunga riunione di ieri, nella sede del partito rue Sainte Anne, a Parigi, venisse fuori il nome di Griveaux era prevedibile. L’ex socialista, 41 anni, ex portavoce del governo, un marcheurs della prima ora, era il candidato di Macron.

Con l’appoggio del presidente, partiva di gran lunga favorito rispetto agli altri due candidati, il matematico dal look eccentrico, Cédric Villani, e Hugues Renson, deputato centrista, ex consigliere di Jacques Chirac, ma semi sconosciuto dal grande pubblico. L’uscita di scena di Villani è stata lui stesso ad annunciarla in una dichiarazione amareggiata postata su Twitter: “Ciò che era annunciato da tempo è ormai acquisito: non otterrò l’investitura di LaRem”.

Eppure Cédric Villani, 45 anni, il genio della matematica col panciotto da dandy, medaglia Fields, era stata la sorpresa di questa campagna per Parigi e nelle ultime settimane si era anche pensato che avrebbe potuto cambiare le carte in tavola. Villani, più a sinistra di Griveaux, era in un certo senso il candidato dei parigini bourgeois bohèmes che votano a sinistra. Un recente sondaggio Ifop lo dava vincente in un eventuale confronto alle urne nel 2020 con l’attuale sindaca, Hidalgo. Lo stesso sondaggio indicava che, se il candidato LaRem fosse stato Griveaux, a uscire vittoriosa sarebbe stata la Hidalgo. La decisione di ieri era dunque essenziale. Nel paesaggio politico francese ridisegnato dopo la crisi della gauche e della droite classiche, alle Europee, i parigini hanno votato al 32,9 per cento per la lista della candidata En Marche, Natalie Loiseau, anche in certi quartieri che tradizionalmente votano a sinistra, tra cui quelli più popolari del nord-est della capitale.

LaReM può quindi di fatto sperare di strappare la capitale ad Anne Hidalgo, che potrebbe ricandidarsi per un secondo mandato (anche se non lo ha annunciato ufficialmente), ma che non ha saputo guadagnare la simpatia dei parigini. Neanche la destra dei Républicains ha ancora un suo candidato ufficiale, ma si è fatta avanti Rachida Dati, l’attuale sindaco Les Républicains del settimo arrondissement della capitale, uno dei quartieri più chic, ed ex ministra di Nicolas Sarkozy, che ora le ha dato la sua benedizione. Non è detto che Benjamin Griveaux, diplomato alla prestigiosa università di Sciences Po, giovane ma affettato, dall’aria arrogante – cosa che è stata spesso rimprovata anche a Emmanuel Macron – piaccia ai parigini. I tre candidati martedì avevano esposto i loro programmi davanti alla direzione del partito. Un’ora e mezza a disposizione per ognuno per convincere la direzione del partito. Poi, alle 20.30 ieri è arrivato l’annuncio ufficiale senza grande suspense: “Il ventaglio delle proposte fatte da Benjamin Griveaux corrisponde alle attese di Parigi – ha spiegato a fine riunione la commissione –.

È la profondità della sua analisi della situazione di Parigi che ci ha portato a scegliere la sua candidatura”. Ma non è detto che per Cédrid Villani (che nel 2014 aveva sostenuto la candidatura di Anne Hidalgo) la corsa per l’Hôtel de ville si sia davvero fermata con la sconfitta di ieri. Il matematico potrebbe infatti decidere di candidarsi in un’altra lista. Al termine del suo messaggio sibillino di ieri ha infatti aggiunto: “Prossimamente avrò l’occasione di esprimermi sulle prospettive che ora sarà il caso di aprire”.

Darroch lascia, “silurato da Johnson”

“La situazione che si è creata mi rende impossibile svolgere il mio ruolo come vorrei… Credo che nelle circostanze attuali la scelta più responsabile sia nominare un nuovo ambasciatore”. Kim Darroch lascia così la carica di ambasciatore britannico a Washington e una carriera diplomatica impeccabile. Dimissioni esplosive per le imprevedibili ripercussioni interne. Domenica, il Daily Mail aveva pubblicato dei memo riservati in cui Darroch definiva il presidente Trump “inetto e vanesio”. Trump ha rilanciato con pesanti insulti pubblici a Sir Kim. Theresa May ha detto di non condividere le valutazioni di Darroch ma, difendendone l’operato, ha difeso la credibilità dell’intero civil service.

A spingere l’ambasciatore alle dimissioni sarebbe stato il mancato supporto di Boris Johnson, ormai dato per certo come prossimo primo ministro, che più volte, nel dibattito tv martedì sera, ha rifiutato di sostenere Sir Kim. “Boris lo ha tradito per convenienza personale” commenta un alto funzionario del ministero degli Esteri. E lo ha tradito per compiacere Donald Trump, leader di una potenza straniera ma suo sostenitore. Una inaccettabile umiliazione nazionale. Forse un assaggio di tempi nuovi, in cui la “relazione speciale” fra i due Paesi, dopo e a causa della Brexit, potrebbe diventare di vassallaggio di Londra verso l’alleato. E se davvero dietro la fuga di notizie c’è il disegno di sostituirlo con un brexiteer trumpiano?

L’Invincibile Armada. Gli Usa hanno un piano per la “libertà” nel Golfo

Forte del record di popolarità personale, Donald Trump progetta una coalizione navale nel Golfo che ha tutta l’aria di una Invincibile Armada anti Iran – obiettivo dichiarato, garantire libertà di navigazione là dove transitano i due quinti del petrolio mondiale –. A spingerlo su nei sondaggi è l’economia, non certo la propensione a scatenare di continuo guerre, con dazi, sanzioni, denunce d’intese, spedizioni punitive abortite, per non parlare dei conflitti personali – tengono banco sui media quelli con il presidente della Fed Jerome Powell e con la capitana della nazionale di calcio campione del Mondo Megan Rapinoe, che accetta l’invito del Congresso e ripete “mai da Trump” –.

Incurante del flop dell’“accordo del secolo” per la pace in Medio Oriente – la conferenza economica di Manama ha registrato più assenze che presenze –, il magnate presidente fa la conta degli alleati per pattugliare le acque antistanti l’Iran e lo Yemen, dopo i recenti attacchi contro petroliere e altre navi commerciali – in tutto, mezza dozzina d’episodi in sette settimane –. E mentre Israele ipotizza un “patto di difesa” con gli Usa, Trump twitta che le sanzioni contro l’Iran “saranno presto aumentate in modo sostanziale”, perché Teheran ha violato l’accordo sul nucleare del 2015 – intesa da lui denunciata e violata oltre un anno fa, ripristinando le sanzioni –.

Della Invincibile Armada, ma non in questi termini, parla alla Bbc il generale Joseph Dunford, capo di Stato Maggiore delle Forze Armate degli Usa: una coalizione navale tipo quella aerea che, in Siria, ha combattuto contro l’Isis, senza mai impolverarsi gli anfibi sul terreno. Il piano è che gli Usa forniscano le navi per il “comando e controllo” delle attività concordate, mentre gli altri Paesi metterebbero le unità destinate al pattugliamento e alla scorta di petroliere e cargo. I responsabili militari dei Paesi coinvolti censiranno quello che ciascun Paese può e intende mettere a disposizione. I punti caldi sono lo Stretto di Hormuz, che collega il Golfo Persico e il Golfo di Aden e che è largo a tratti appena tre chilometri, e lo Stretto di Bab el-Mandeb, che congiunge il Mar Rosso al Golfo di Aden e quindi all’Oceano Indiano e che è percorso dalle petroliere con destinazione l’Europa. Il piano, se attuato, è destinato ad alzare ancor più la tensione in un’area dove, da anni, nello Yemen si combatte una sorta di guerra per procura tra Teheran, che appoggia gli insorti Huthi, sciiti, e Ryad, che ha messo insieme una coalizione araba a sostegno del regime sunnita. Gli Emirati Arabi Uniti, alleati ma nel contempo rivali dei sauditi, hanno deciso, pochi giorni or sono, di richiamare le loro truppe dallo Yemen; e gli Huthi hanno chiesto il ritiro di tutta la coalizione –. Gli stati Uniti hanno già una presenza navale sostanziosa nella Regione e partecipano a diverse task force multinazionali che conducono operazioni di sicurezza della navigazione, anti-terrorismo, anti-pirateria. Il quartier generale della 5ª Flotta Usa è nel Bahrain, ma gli americani hanno basi anche in Gibuti, nel Kuwait e nell’Oman.

Non è chiaro se la Invincibile Armada contribuirà alla popolarità del presidente, che ha appena visto salire, sotto la spinta del boom economico, il suo indice d’approvazione al livello più alto da quando è alla Casa Bianca: dal 39 per cento di aprile al 44 per cento di luglio (e al 51 per cento se si guarda solo all’economia). Litiga, mente, manda in bancarotta la sicurezza della capitale per la parata militare del 4 luglio, ma la sua gente lo applaude.

Molti altri presidenti hanno fatto molto meglio, ma per Trump, il “divisore in capo” dell’America, va bene così. Il 53 per cento, una maggioranza, disapprova il suo operato e 6 su 10 pensano che non agisca in modo presidenziale; una maggioranza degli uomini bianchi è con lui; le donne gli sono contro. Se si votasse oggi, batterebbe qualsiasi candidato democratico, tranne Joe Biden, che sta però perdendo terreno.

Mail Box

 

Deluso da Di Maio: sta tradendo il messaggio di Casaleggio

Cosa sta facendo Di Maio? Sono giorni che vedo il capo dei 5S scrollarsi di dosso la sinistra del Movimento. Cercando di convincere i militanti a essere democristiani, dimenticare radici e battaglie e sposare un pragmatismo che sa molto del divo. Scrivo da elettore che ha scelto di dare fiducia a Giggino, candidato nel mio collegio elettorale contro Sgarbi. Come si può tradire così palesemente il 33% degli elettori che nel 2018, come me, gli ha dato la fiducia? Se avesse letto bene il risultato delle Europee, saprebbe che nel 2023 sarà ancora peggio. Il Movimento, al netto delle leggi approvate e giuste, si è politicamente frantumato sotto il peso del potere. Lo stesso potere contro cui qualche anno fa combattevano e ora rincorrono. Se Casaleggio, buonanima, voleva questo movimento com’è ora, allora non abbiamo capito un cavolo sul suo reale messaggio politico. A questo punto meglio astenerci fino a quando non si farà chiarezza.

Domenico Donniacono

 

I migranti sono la ciambella di salvataggio per la sinistra

Un tempo c’era una sinistra che difendeva i diritti dei lavoratori. Oggi abbiamo una pseudo sinistra di nome ma non di fatto, che difende solo i diritti dei migranti (dopo aver difeso quelli delle banche, dei palazzinari, delle multinazionali e dei corrotti) come se i diritti dei lavoratori o dei cittadini fossero spariti. I migranti sono diventati la ciambella di salvataggio di una sinistra che non ha più programma, che si è venduta ai suoi nemici, che ha rinnegato se stessa e finge ipocritamente di essere a favore dei diritti dell’uomo, dopo aver negato i diritti del cittadino. Ma in questa difesa maniacale e demenziale, che va contro ogni legge e ogni senso di legittimità, si sta suicidando, regalando voti a Salvini che ne approfitta a man bassa. Si ha l’impressione che i migranti debbano servire a molti scopi: da una parte a dare un programma a una sinistra che non lo ha più, dall’altra servire agli speculatori di Borsa e agli eurocrati per destabilizzare uno Stato che si vuol fare a pezzettini come è stato fatto con la Grecia.

Viviana Vivarelli

 

Salviamo la laguna: il mondo ha bisogno di Venezia

Il problema delle grandi navi è solo lo specchietto per le allodole. È chiaro che chi è interessato economicamente non vuole perdere le proprie rendite e propone soluzioni a proprio uso e consumo. Amo la mia città e voglio tutelarla. Il ministro Toninelli faccia propria l’analisi e gli studi effettuati in questi decenni sulla laguna veneta dagli esperti di idraulica, per i quali non si può più neanche chiamare laguna ma braccio di mare. Sono parole gravi.

Persone responsabili prenderebbero immediate precauzioni. Sono felice per il governatore Zaia e le sue colline di prosecco, per il sindaco Brugnaro e il proliferare dei mega hotel alla faccia del non consumo del territorio, per il presidente del porto Musolino, per la promessa di Fincantieri di costruire navi sempre più grandi a Marghera e progettare più guadagni con gli hotel galleggianti. Costoro non hanno capito – o se l’hanno capito è molto grave – che il mondo ha bisogno di Venezia e della sua storia.

Emilio Baldrocco

 

Sicurezza all’uscita di scuola: il Parlamento approvi le leggi

Molti incidenti stradali sono avvenuti in questi mesi all’entrata e all’uscita delle scuole. Si tratta di un fatto inaccettabile in un paese civile: recarsi a scuola non può rappresentare un pericolo. Occorre creare zone a traffico limitato, con eventuali deroghe per gli accompagnatori e mettere in sicurezza le fermate degli autobus vicine alle scuole. Esistono proposte di legge sulla pedonalizzazione delle strade a meno di 50 metri dalle scuole, con il limite per le auto di 30 km/h e il divieto ai mezzi pesanti entro i 200 metri. Approvarle sarebbe un atto di civiltà.

Giovanni Negri

 

Matteo ha alzato il tiro: quanto reggerà il governo?

I giorni attuali del governo gialloverde rievocano la celebre frase di Flaiano: “La situazione è grave, ma non seria”. Da tempo, alcuni fra i politologi più attenti hanno invocato un chiarimento definitivo fra i triumviri Conte, Di Maio e Salvini, per porre fine a questo governo instabile, o per dargli un assetto più equilibrato, come si è fatto con l’assestamento del bilancio dello Stato.

Fatto sta che negli ultimi tempi Salvini ha alzato i toni e il tiro muovendosi come fosse lui l’unico e solo premier. Per molto meno il vaso sarebbe stato considerato stracolmo per procedere a dichiarare la crisi di governo.

Luigi Ferlazzo Natoli

 

La bravata di Balotelli lede l’onore della mia Napoli

Tra verbali e capi d’imputazione per la bravata di Balotelli, leggo l’istigazione a delinquere, il gioco d’azzardo, ma niente sulla lesione alla pubblica decenza della città. Perché nessuno pagherà per l’oltraggio alla città, per la profonda lesione inflitta alla dignità di Napoli? Ogni città ha una personalità unica, da proteggere e custodire. Decoro e decenza sono modi d’essere del prestigio di un luogo.

Giovanni Negri

Calcio. La black list di Gravina servirà anche a coprire i buchi dei bilanci?

 

Apprendo la notizia che il presidente della Figc Gravina ha appena annunciato di aver istituito una black list per mettere al bando i dirigenti che danneggiano il calcio italiano. Ma pochi giorni fa, Gravina non aveva presentato in Senato lo studio sullo stato di salute del calcio italiano, dipingendolo come positivo?

Carlo Gioitta

 

Caro Carlo, sembra di tornare ai tempi di Calciopoli quando l’allora presidente Figc Franco Carraro, dopo aver ricevuto dalla Procura di Torino il faldone con le intercettazioni disposte dal procuratore Guariniello, decise di trasformarsi nelle tre scimmiette e tenne tutto chiuso in un cassetto; salvo poi, all’esplosione dello scandalo, essere costretto a dare le dimissioni all’unisono con i dirigenti della Juventus Moggi e Giraudo, col suo vice alla Figc Mazzini, col presidente dell’Aia Lanese e via dicendo. Unica novità: a differenza del vecchio presidente, Gabriele Gravina non vede, non sente ma parla. Anche se lo fa solo per confondere le acque. Ieri, a margine della 9^ edizione di “Report Calcio”, Gravina ha dichiarato: “Abbiamo istituito una black list per i vecchi dirigenti, personaggi che dobbiamo escludere dal nostro mondo”. Peccato che i “faccendieri” cui Gravina allude altri non siano che i dirigenti dei club di Serie A, quelli che lo stesso Gravina ha cercato di coprire, due giorni fa al Senato, alla presentazione dello studio “Report Calcio 2019” sui bilanci del calcio professionistico commissionato ad Arel e PwC e riferito alla stagione chiusa il 30 giugno 2018: da cui si evince un peggioramento a dir poco drammatico. Il “Sole 24 Ore” parla di “bomba a orologeria che rischia di esplodere”; e la bolla avvelenata è, lo sanno tutti, quella delle plusvalenze messe a bilancio (che essendo “infragruppo”, cioè realizzate solo tra club italiani, sono puramente fittizie), addirittura raddoppiate nelle due ultime stagioni (erano 376 milioni nel 2016, sono 713 nel 2018), scappatoia tutta italiana che consente di coprire le perdite di gestione vendendosi vicendevolmente giocatori a prezzi gonfiati. Così, la perdita netta dell’ultima stagione viene dichiarata in -215 milioni, mentre quella effettiva (a plusvalenze eliminate) è di -992 milioni. Il tutto senza alcun giovamento per il movimento: in Europa non vinciamo nulla, la Nazionale non è nemmeno andata ai Mondiali di Russia. La Figc ha commentato i risultati dello studio positivamente. “Io invece – ha eccepito il sottosegretario Giorgetti – vedo che avete un debito rispetto ai ricavi del 120%”. Ma niente paura: ora c’è la black list.

Paolo Ziliani

Fiction, basta con la fatwa dei puristi

Non esistono solo gli sbarchi e le ire di Salvini. Per fortuna il mondo continua e anche il tempo libero. Avete presente il romanzo di Michel Houellebecq Sottomissione? L’autore, alla vigilia di una nuova contesa elettorale in Francia, paventa l’arrivo dei nuovi barbari, i musulmani che, così scrive, spazzeranno via le nostre tradizioni a vantaggio delle loro. Il protagonista si spaventa a tal punto da scappare in campagna, temendo l’avanzata da Parigi.

Vengono in mente queste pagine leggendo della guerra divampata in America tra chi produce per il cinema e chi per le piattaforme digitali. Chiamerei puristi i primi e meticci i secondi. Se vincono i puristi molti dovranno riparare in campagna. Nel mondo del visivo si è scatenata una diatriba tra combattenti opposti. Spiace che i nostri cronisti appaiano latitanti, forse non avendo capito l’entità dei fatti. Il Festival di Cannes, dichiaratamente purista, ha sinora rifiutato i film prodotti per il digitale, mentre la meticcia Venezia li ha accolti, facendo addirittura vincere il Leone d’Oro a un film finanziato da Netflix e spianandogli la strada verso l’Oscar. È il caso di Roma, diretto da Alfonso Cuarón. La stessa contesa investe gli autori, tra schierati in favore dei film da vedere prima di tutto in sala e altri disposti a realizzarli per il digitale, per il web e la tv. Martin Scorsese, Woody Allen, David Lynch, per fare solo qualche nome illustre, hanno dichiarato che il loro è cinema, anche quando non va in sala. Tra piccolo e grande schermo non fanno distinzione e neppure in relazione alla durata del prodotto. Accanto a loro in questi giorni si è schierato il nostro Paolo Sorrentino, che ritiene il suo The Young Pope puro cinema, anche se a puntate. Quanto ad altri autori italiani, al momento tutto tace, si sa che la calura tende ad assopire. E il pubblico che ne pensa? Gli adolescenti al cinema non vanno quasi più, se non quando esce un blockbuster made in Usa. Gli anziani resistono al fascino del grande schermo, ma sono ormai una netta minoranza, simile a quei vietcong che ancora combattevano quando la guerra con gli americani era già finita. Insomma il mare cinematografico è in burrasca e al momento nessuno è in grado di prevedere se si calmerà. Sarebbe più saggio fare i conti con la realtà. Il cinema non è più quello di una volta. Ha cambiato pelle, destinazione, modalità di fruizione e consumo. In Italia, forse ancora più che in America, le statistiche parlano chiaro. I giovani disertano le sale e hanno più che mai in disprezzo il cinema italiano, che salvo rare eccezioni ritengono tedioso, elitario e pseudo-autoriale. Da tempo sono passati al web, dove scaricano le serie americane, inorriditi da quanto producono Rai Fiction e Mediaset, a partire dall’infinita serialità di Don Matteo o dalle mediocri produzioni della tv commerciale. Consiglio di consultare Theme, un interessante rapporto sul mercato mondiale predisposto dalla Mppa, l’associazione americana del cinema e dell’entertainment, citato qualche giorno fa con grande tempismo proprio da Nicola Bolzi sul Fatto.

Aggiungo nuovi dati impressionanti: mentre il prodotto puramente cinematografico batte in ritirata, le serie prodotte per il web e per le piattaforme sono più che raddoppiate, salendo a poche misure da quota 500 l’anno. Ecco spiegato perché anche il mondo Internet, da Amazon ad Apple, si avvia a diventarne il primo produttore. Cari amici cinefili, drizzate le antenne, è arrivato il tempo di cambiare pelle anche per voi, a meno che non vogliate diventare i vietcong del cinema puro e continuare a combattere da soli. Ma attenzione a non schiantarvi contro i mulini a vento, come è accaduto a Don Chisciotte. Resta che c’è un gran lavoro da fare per comprendere il nuovo che avanza. Basta scegliere la strada seppur faticosa della ricerca e abbandonare il vicolo delle fatwa e dei pregiudizi.

Sala e la condanna, siamo soli anche ora che è tutto scritto

Ci sono battaglie giornalistiche che si fanno anche quando si sa di essere minoranza. Il giornalista non è un condottiero, che si giudica dalle guerre vinte, e neppure un politico, che si misura sui voti conquistati. Così può scrivere con la coscienza di dire la verità, anche quando sa che la maggioranza attorno a lui proclama il contrario. Ma oggi dobbiamo prendere atto che quella su Giuseppe Sala è una battaglia giornalistica in cui noi del Fatto Quotidiano non facciamo parte di una minoranza, ma siamo proprio soli. Soli contro tutti. Ci capita anche su altre questioni, in verità, ma su questa è visibile, palese, clamoroso. Ci guardiamo bene dal frignare, come tanti che si proclamano controcorrente mentre sono applauditi da destra, da sinistra e dal centro. Ma rileviamo che attorno a Sala, Expo e Milano-La-Gioiosa-Macchina-Da-Guerra si è creata una concrezione ideologica che farebbe la felicità del Marx ancora brillante che scriveva l’Ideologia tedesca. Dunque. C’è stata un’esposizione universale che ha avuto un numero di visitatori pari o inferiore a quella del 2000 ad Hannover, definita “il flop del millennio”: ma è giudicata “un grande successo”. C’è stato un evento costato oltre 2 miliardi di denaro pubblico e che ha avuto ricavi per 700 milioni: ma è considerato un trionfo. C’è stato un manager che non vedeva, non sentiva, non parlava, mentre attorno a lui gli arrestavano tutti i suoi collaboratori: ma è idolatrato come il genio della rinascita di Milano (che comunque fattura di più nella settimana della moda o del design che nei sei mesi di Expo). C’è stato un dirigente che nella sua avventura manageriale ha forzato le regole con spregiudicatezza: ma è stato considerato un buon candidato, anzi l’unico, per diventare sindaco, dopo un Pisapia che, comunque lo si voglia giudicare, delle regole aveva il culto. C’è stato uno che ha affidato, senza gara, incarichi agli amici (tipo Oscar Farinetti) e ha pagato gli alberi di Expo, sempre senza gara, il triplo del loro valore: ma è premiato con una reputazione da uomo di sinistra e santo subito.

Poi arriva – dopo che per anni non sono state fatte indagini, in nome della “sensibilità istituzionale” – una condanna. Piccola, per carità. Sei mesi per falso. Per aver firmato atti con una data anticipata. Una falsificazione oggettiva. Inoppugnabile. Se lo sapeva è un imbroglio, se non si è accorto non è un manager degno di amministrare una grande città. E invece tutti – ma proprio tutti – a dire che l’ha fatto a fin di bene, che è un grande sindaco, che è il taumaturgo che ha fatto rinascere Milano. Chi scrive i fatti – che un falso è un falso, che una condanna è una condanna, che Virginia Raggi (due pesi e due misure) è stata crocifissa per molto meno, che da quel falso, per niente senza conseguenze, Sala ha guadagnato la sua carriera successiva, compresa la poltrona di sindaco – è indicato come un pazzo che non vede la realtà felice e gloriosa del migliore dei mondi possibili. Uno che ha dimenticato il suo passato. Un fascistello che si è venduto a chissà quali poteri. Il coro non è maggioranza: è unanimità. Unisce destra e sinistra, sopra e sotto, di qua e di là, in uno schieramento compatto che comprende anche molti amici, un paio di ex fidanzate, tante persone con cui ho condiviso belle serate, buona musica e grandi battaglie civili. I fatti, evidentemente, sono ritenuti ombre proiettate nella caverna di Platone, che ognuno può raccontare come vuole. La retorica della Milano vincente è la coperta di Linus a cui molti oggi si aggrappano per non ammettere tradimenti e sconfitte e per non pensare alla disfatta imminente. Personaggi ambigui nella politica e incerti nella legalità diventano gli eroi del tempo. Tempo incerto, dunque, anni ambigui, era fragile, eroi caduchi.

M5S, idee semiserie per uscire dal guado

Coi sondaggi che li danno sempre lì, inchiodati e inchiavardati a quel 17 per cento stitico che ne ha decretato a oggi una delle più grandi Waterloo elettorali della storia della Repubblica italiana, i 5 Stelle non hanno ancora fatto capire se alberghi in loro una pur minima strategia.

Certo, così non pare leggendo lo scriteriato attacco del sottosegretario Vincenzo Spadafora, che ha cincischiato parole oltremodo retoriche sul Salvini “sessista” nei confronti della pallosamente mitizzata Subcomandante Carola. Un affondo sghembo e fuori luogo, perché se da un lato il prode Spadafora si iscrive nella lunga lista dei santificatori a casaccio della amena condottiera tedesca à la page, dall’altro mette ancora più in difficoltà Di Maio. Il quale, come noto, conta i giorni da qui al 15 luglio – ultima data utile per votare a settembre – e poi (forse) tirare un sospiro di sollievo poiché certo di durare ancora un po’ con questo governo nato stanco e politicamente morto il 26 maggio, ma ancora in sella perché di meglio all’orizzonte non pare esserci nulla (pensate come siam messi).

Salvini sta usando l’intemerata surreale di Spadafora per alzare ulteriormente l’asticella verde del ricatto: “O fate come dico io, o qui salta tutto e voi morirete male”. Lo scenario, per il Movimento 5 Stelle, è così mesto che ormai in tivù si fanno mettere sotto da chiunque. E nel frattempo Salvini, sempre agevolato da un centrosinistra che fa il suo gioco e da un centrodestra che Meloni a parte non esiste, può persino chiedere (e ottenere) che il ministro Affari europei dell’Ue sia – direttamente dall’Inquisizione – quel sant’uomo di Lorenzo Fontana.

L’apocalisse è vicina, anche se in perfetto stile italiano sarà un’apocalisse più ridicola che tragica. In questo contesto (anzitutto per loro) post-apocalittico, una strategia compiuta non si scorge certo nei 5 Stelle. Anzi. Son pure ripartiti gli scazzi tra Di Maio e Di Battista. Ora: passi l’eterno scontro tra “governisti” e “fichiani”, e già così vien da ridere, ma i litigi un po’ adolescenziali tra il vicepresidente del Consiglio e Di Battista sono qualcosa di assai prossimo al suicidio. Ogni volta che Di Maio incontra gli attivisti, a porte chiuse ma non troppo in modo tale che tutti lo sentano, non manca di scagliare tuoni e fulmini contro chi lo ha lasciato solo alle Europee per poi scrivere libri e fargli la morale. Cioè Di Battista. Una rabbia lecita, come lecite sono le critiche del pasionario 5 Stelle.

Sì, ma a chi giova tutto questo? Non certo al M5S. È una sorta di lenta eutanasia da asilo nido: di implosione moscia al rallentatore, che fa felici Salvini e il Pd. Davvero Di Maio e Di Battista vogliono andare avanti a lungo con questo teatrino dell’assurdo e del masochismo? Se continuano così, potrebbero addirittura rendere possibile l’impossibile: ovvero dare ragione a Renzi, che non ne indovina una dal ’73 (è nato nel ’75) ma che, quando varò la strategia empia e sciagurata dei popcorn, lo fece unicamente per ammazzare il M5S. Quel che sta accadendo.

Certo, tutto questo è anche paradossale. Se infatti da un lato ci sono gli errori infiniti dei 5 Stelle, dall’altro c’è una sorta di surrealismo puro. Il decreto Dignità qualcosa sta ottenendo, il reddito di cittadinanza pure. La procedura di infrazione, agognata e auspicata anzitutto dal Giornale Unico, non c’è stata. La riforma della giustizia è quella che in tanti aspettavano da decenni. Qualche risultato, il bislacco e non di rado irricevibile Salvimaio, lo sta ottenendo. E quei risultati sono quasi tutti a firma 5 Stelle. Eppure i sondaggi li danno sempre lì: come nella canzone di Antoine, comunque vada ai 5 Stelle tireranno le pietre. Cornuti e mazziati.

Perché questa bolla? Perché i media li odiano, perché Salvini è cento volte più furbo di loro e perché non può piovere per sempre (ma a volte sì). I 5 Stelle, a questo punto, possono solo prender tempo e nel frattempo – un lungo frattempo – aspettare che spiova. Più che una speranza, un’abracadabra. Alternative a breve termine non se ne vedono, a meno che per far risalire i consensi non servano risultati concreti bensì mosse meramente mediatiche. Come per Salvini. Se fosse davvero così, i 5 Stelle potrebbero affidarsi a mosse plateali per uscire dal guado (e dal guano). Per esempio un avvincente calendario di Mario Michele Giarrusso, ovviamente nudo, da allegare al nuovo numero di Fave e segugi. Oppure una serie di 715 Dvd, in vendita con l’Espresso, all’interno dei quali Carlo Sibilia spiegherà dottamente la Divina Commedia come un novello Vittorio Gassman. O ancora: un’autobiografia di Laura Castelli dal titolo definitivo Einstein sono io. Idee forse estreme, ma quando la realtà si fa paradossale vale tutto.

La ministra Grillo avvia l’Osservatorio sulle liste d’attesa

“Siamo qui non solo per attivare un osservatorio operativo che possa concretamente vigilare sull’efficienza delle liste d’attesa, ma per lavorare insieme affinché sia restituito ai cittadini un diritto a lungo negato: quello dei tempi certi per le cure e per le diagnosi nella sanità pubblica. Tutte le risposte che questo gruppo di lavoro riuscirà a trovare, saranno risposte date ai cittadini che negli anni hanno perso fiducia e ai tanti che hanno smesso di curarsi”. Lo ha affermato la ministra della Salute, Giulia Grillo alla prima riunione. All’incontro hanno preso parte i rappresentanti delle Regioni, di Agenas, dell’Istituto superiore di sanità, di Cittadinanzattiva e le direzioni generali della programmazione e dei Sistemi informativi del ministero. Il tavolo è presieduto dal direttore della programmazione, Andrea Urbani. Sarà presto definito, precisa una nota del ministero, il cronoprogramma operativo con l’indicazione dei tavoli di lavoro per monitorare il recepimento del Piano nazionale di gestione delle liste d’attesa (Pngla) a livello regionale. “Ho sempre ribadito che il tema delle liste d’attesa rappresenta una priorità per la mia azione di governo, il banco di prova dell’efficacia del sistema salute”, ha spiegato la ministra.