Previti, fallisce l’ultima porcata

Se a Cesare Previti fosse riuscito il colpaccio, schiere di ex parlamentari avrebbero dovuto portarlo in trono come santo patrono: del vitalizio. E invece no. Per la Cassazione è inutile che chi sia stato titolare di questa onorevole prebenda cerchi un giudice in giro per l’Italia per riottenerla: gli unici a poter decidere sono gli organi di giurisdizione interna di Camera e Senato. A cui si sono rivolti gli altri ex parlamentari, condannati per reati di una certa rilevanza, a cui l’amministrazione ha deciso di cancellare l’assegno.

La stessa dolorosa sorte è toccata all’ex ministro e celeberrimo avvocato dell’ex Cav. dei tempi d’oro, che per lo scandalo Imi-Sir è stato riconosciuto colpevole di corruzione. Un reato che, oltre al vitalizio, gli è costato pure la radiazione dall’albo. Ma lui non si è scoraggiato. E si è rivolto alla Cassazione per farsi dire che gli organi di autodichia di Camera e Senato non possono sostituirsi alla giustizia ordinaria. Quella stessa giustizia in cui evidentemente Previti, nonostante le disavventure, crede ancora. Almeno se si tratta del suo assegno maturato durante le quattro legislature trascorse in Parlamento e che gli è stato corrisposto dal 1º agosto 2007 al 4 ottobre 2016 fin quando la Camera non gli ha chiuso i rubinetti.

La sua speranza di riavere il maltolto per le vie ordinarie era legata a una sentenza nel 2017 della Corte costituzionale firmata da Nicolò Zanon. Una sua vecchia conoscenza, dal momento che in passato era stato suo difensore di fronte alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo a cui Previti, senza successo, si era rivolto lamentando di non aver ricevuto un equo processo proprio per la faccenda Imi Sir. Ma cosa aveva scritto Zanon nel frattempo divenuto giudice della Consulta? Che se è consentito agli organi costituzionali, quali sono Camera e Senato, disciplinare il rapporto di lavoro con i propri dipendenti, non spetta invece loro la decisione di eventuali controversie con soggetti terzi. E Previti ha ben pensato, confortato dai consigli di un altro ex inquilino della Corte costituzionale che oggi gli fa da legale ossia, Romano Vaccarella, che questo fosse proprio il suo caso. E che del suo vitalizio potesse decidere il giudice ordinario, ossia il Tribunale di Roma. E invece manco per niente. Perché gli ermellini di Palazzaccio, l’altro giorno hanno stabilito che gli ex parlamentari non sono affatto terzi come chi si aggiudica per esempio appalti e servizi dall’amministrazione parlamentare. E che quindi non è agli ex inquilini di Montecitorio e Palazzo Madama che si applica l’eccezione della giurisdizione esclusiva degli organi di autodichia.

Ora, se proprio lo vorrà, Previti dovrà bussare alla porta del Transatlantico. Accodandosi ai ricorsi per riottenere il vitalizio già presentati da eccellentissimi della Prima Repubblica. Privati loro malgrado dell’assegno con una delibera del 2015, come nel caso di “Sua Sanità”, Francesco De Lorenzo. Perché la speranza del vitalizio è per sempre. Come i diamanti e le condanne.

Gualtieri e Tajani eletti presidenti di Commissione

L’Italia ha ottenuto due presidenti di commissione al Parlamento europeo di Strasburgo: Antonio Tajani (FI) agli Affari costituzionali e Roberto Gualtieri (Pd) alla commissione problemi economici e monetari (Econ). E poi cinque vice presidenze: Cater4ina Chinnici (Pd) alla commissione bilancio, Patrizia Toia (Pd) all’industria, Giuseppe Ferrandino (Pd) alla pesca, Raffaele Stancanelli (Fdi) alla commissione giuridica, Pietro Bartolo (Pd) alle libertà civili. Il mandato dell’ufficio di presidenza (presidente e fino a quattro vicepresidenti) dura due anni e mezzo. Le commissioni trattano proposte legislative, nominano i negoziatori per condurre colloqui con i ministri dell’Ue su iniziative legislative, adottano relazioni, organizzano audizioni e controllano altri organi e istituzioni dell’Ue.

Da notare che nulla hanno avuto i due partiti che nel nostro paese sono al governo: né la Lega, né i Cinque Stelle. Per quel che riguarda la Lega, la cosa salta ancora più agli occhi, visto l’imponente risultato elettorale.

Fubini insulta il Fatto, ma è ancora abusivo

“Non possiamo considerare la questione chiusa e dobbiamo doverosamente girare la segnalazione alla Procura di Milano. Lo faremo sicuramente domani (oggi per chi legge, ndr)”.

Così il presidente dell’Ordine dei giornalisti, Carlo Verna, sul caso di Federico Fubini, il vicedirettore del Corriere della Sera che ha lavorato con un contratto giornalistico per quasi 14 anni senza averne formalmente titolo dopo che, a novembre del 2005, era stato cancellato dall’albo per morosità insieme ad altri 180 iscritti per decisione del Consiglio lombardo. I giornalisti cancellati dall’Albo “non hanno pagato la quota per diversi anni, pur avendo ricevuto l’avviso e la cartella esattoriale Esatri nonché una raccomandata dell’Ordine. Diversi non hanno provveduto a ritirare la raccomandata”, aveva sottolineato all’epoca l’ordine regionale. Aggiungendo che il pagamento degli arretrati consenta al Consiglio di revocare la delibera di cancellazione.

Cosa che Fubini ha fatto ieri, dopo aver appreso soltanto martedì, sostiene, del pasticcio giuridico che lo riguarda e ha predisposto un bonifico da 2500 euro indirizzato all’Ordine per coprire le quote 2005-2019.

“Resta il fatto che 14 anni sono davvero tanti: il punto non è che cosa accade da domani, è cosa è successo in questi anni. E l’unica cosa che possiamo fare è segnalare la cosa in Procura. Poi verificano loro se questo configuri o meno l’esercizio abusivo della professione”, continua Verna. Senza contare che “la legge prevede che l’iscrizione sia sempre fissata al giorno successivo al superamento dell’esame. Così la decorrenza dell’iscrizione, quando ristabilita, verrà fissata a quella data, ma nel mezzo c’è stato un ampio lasso di tempo in cui lui non è stato iscritto e durante il quale tra l’altro sono cambiate anche delle cose”.

Procura o meno, la situazione resta in stallo anche da un punto di vista amministrativo: la riammissione, benché scontata una volta saldato il conto, passa per una delibera del Consiglio. Il quale però non si riunirà fino a settembre. E così la questione contrattuale resta in sospeso. “Che il vicedirettore del Corriere della Sera non sia iscritto all’ordine da 14 anni è sicuramente una notizia, magari non da prima pagina, ma è una notizia. È vero che ci sono stati altri casi, ma questo è da primato”, chiosa Verna. Che pure, nonostante i risvolti giuslavoristici decisamente peculiari, non trova d’accordo un personaggio pubblico come l’ex vicesindaco di Milano della giunta Pisapia, l’avvocato Ada Lucia De Cesaris che ieri su Twitter ha scritto “Ma per fortuna, siamo persone… li mandi a ranare sono piccoli e meschini! Forza prof!”. Il prof a cui si rivolge è Fubini. Quest’ultimo poche ore prima aveva annunciato ai suoi oltre 32mila follower che “E così il Fatto adesso mi attacca (titolo e foto grandi in prima) perché avevo delle rate arretrate con l’ordine dei giornalisti. Nel frattempo saldate, va 2000. Certo, cambiato casa e Paese tante volte e fatto un po’ di casino, lo ammetto 1/2”. E ancora: “Ma mi permetto una domanda ai coraggiosi ‘colleghi’ (virgolette d’obbligo) del Fatto: avete fatto controllare ai vostri amici se io sono in regola con le bollette della luce? Fatemi sapere! Good luck”. Poche parole che hanno scatenato un coro di reazioni indignate. Inclusa quella dell’ex ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, che ha esperesso “Disgusto. Federico Fubini è uno dei migliori giornalisti italiani. Preciso, documentato e capace di “leggere” quello che accade nel mondo. Solidarietà.”

Von der Leyen: “Salario minimo in tutta Europa”

La battaglia dei Cinque Stelle per il salario minimo in Italia trova una nuova sponda insospettabile in Europa: dopo la sponsorizzazione di Angela Merkel ed Emmanuel Macron, arrivata lo scorso mese, ora a promuovere la proposta dei 9 euro lordi è la presidente designata della Commissione Ue Ursula von der Leyen. “Le persone hanno paure, sogni e aspirazioni. L’Europa – dice l’ex ministra della Difesa tedesca – può dare posti di lavoro, prospettive, stabilità e sicurezza. E sono sicura che noi possiamo farlo. Per questo combatterò per un salario minimo in ogni Paese”. Una legge che andrebbe a colmare il ritardo italiano sull’istituzione di una misura di protezione sociale diffusa omogeneamente in tutta l’Ue. Solo Italia, Austria, Danimarca, Finlandia, Svezia e Cipro non hanno, infatti, ancora una qualche forma di salario minimo stabilito per legge. Insomma un passaggio che appare come un’apertura ai socialisti spaccati in vista del voto del Parlamento europeo della settimana prossima e che la von der Leyen prova ora a conquistare puntando dritta sulle politiche sociali.

Una sponda che arriva lo stesso giorno in cui il vicepremier e ministro del Lavoro Luigi Di Maio annuncia che M5S e Lega hanno raggiunto un accordo sul salario minimo, il cui ddl è fermo in Senato in attesa di una relazione tecnica da parte del Mef su cui basare il parere della commissione Bilancio. “È una legge di civiltà. Non è più accettabile che in Italia ci siano cittadini pagati due o tre euro l’ora”, spiega Di Maio durante la presentazione del rapporto annuale Inps alla Camera. “Il Parlamento è al lavoro, perché il tema dei working poor – aggiunge – appare quanto mai attuale ed è necessario affrontarlo, visto che l’Inps certifica che il 29% dei contratti di lavoro attualmente attivi si colloca al di sotto dei 9 euro lordi”. Secondo l’Istat, con una paga oraria di 9 euro lordi, sono 2,9 milioni i lavoratori che si vedrebbero aumentare lo stipendio mensile. Si tratta in media di 1.073 euro annui pro-capite per un costo (a carico delle imprese) di 3,2 miliardi di euro. Numeri non da poco che riguardano giovani, donne, apprendisti che non sono esenti da rischi, almeno secondo la schiera dei contrari alla misura come Confindustria, consulenti del lavoro e sindacati. Ma, anche se i dettagli dell’accordo di maggioranza non si conoscono ancora, uno dei punti condivisi riguarda l’inclusione della tredicesima nel conteggio dei 9 euro lordi.

Una richiesta ottenuta dalla Lega in modo da evitare un aggravio sui costi del lavoro per i datori, soprattutto piccoli artigiani e commercianti. Per il Carroccio, infatti, nei 9 euro dovrebbero essere comprese anche tutte le voci dei minimi salariali, dalle ferie alla quattordicesima, così come chiedono imprese e sindacati. Condicio sine qua non che il sottosegretario al Lavoro in quota Lega, Claudio Durigon, ribadisce anche ieri dopo l’annuncio di Di Maio sull’accordo. “Tecnicamente la norma è a buon punto e stiamo aspettando di limare i dettagli”, sottolinea confermando comunque l’intesa raggiunta con M5S la scorsa settimana durante una riunione di governo. “Ben venga l’innalzamento degli stipendi, ma ogni aumento di salario va compensato con una riduzione del cuneo”, resta la linea della Lega dopo aver aperto al salario minimo lo scorso mese ritirando gli emendamenti al ddl. “Io mi sono stancato di aspettare”, replica poco dopo Di Maio in una diretta Facebook.

Trenta: “Blocco navale? Il Viminale non me ne ha parlato”

Maggior controllo grazie alle navi militari e soddisfazione per il calo degli sbarchi. Il vertice sui migranti di ieri a Palazzo Chigi – presenti tra gli altri il premier Conte, il vicepremier Salvini e la ministra Trenta – si conclude con un parziale riallineamento dopo le liti dei giorni scorsi. E con Salvini rivede l’idea di utilizzare direttamente i militari in porto: “Abbiamo messo sul tavolo altre iniziative come i controlli preventivi della Marina sulle navi di presunto soccorso”. Nessuna paura, però, per i cosiddetti sbarchi fantasma: “Non esistono. I numeri a oggi dicono che siamo a 3126 tutto compreso, da est, da ovest, tutti vengono beccati e controllati. Ma siccome la metà di queste partenze si verificano da Tunisia e Algeria, il presidente del Consiglio si è fatto carico di sollecitare gli amici tunisini, dove non c’è guerra, a verificare e bloccare queste partenze”. Il tutto in un vertice, definito “proficuo” dal premier Conte, in cui la titolare della Difesa Elisabetta Trenta ha ribadito il fastidio per i continui “sconfinamenti” del Viminale: “Chiudere i porti? Salvini non me l’ha chiesto. Il Paese dovrebbe andare tutto nella stessa direzione. Le navi prendono ordini dal ministro di riferimento”.

I finanzieri sui social: “Sparate a Carola e al Pd”

“I colleghi avrebbero dovuto sparare”, “in galera a vita questa p… con i suoi amici del Pd”. “Meriterebbe non l’ergastolo, ma l’impiccagione in piazza dove la vedano tutti e trasmetterlo in tutti i canali televisivi”. La pagina Facebook che ospita questi insulti contro la capitana della Sea Watch, Carola Rackete, non è una qualunque delle tante presenti sui social. Ma è quella denominata “Il Finanziere”: un gruppo chiuso con oltre 16 mila iscritti. Un pagina ora finita nel mirino dei pm: la Procura di Roma ha aperto un fascicolo dopo la segnalazione dalla Guardia di Finanza che ieri – dopo che il sito The Vision ha pubblicato i messaggi scritti nel gruppo – ha preso le distanze, spiegando che non è riconducibile “né al sito ufficiale della Gdf né al suo periodico, Il Finanziere”. A questo punto bisognerà identificare gli autori (sono circa 80) dei violenti messaggi, capire se sono stati commessi reati e, se i commenti eccessivi appartengono a finanzieri ancora in servizio, partiranno anche i procedimenti disciplinari. Sul caso è intervenuto pure il ministro dell’Economia Giovanni Tria, il quale ha fatto sapere di “condividere la linea di severità e fermezza del vertice della Finanza”.

La pagina nasce dunque nove anni fa: “L’ingresso nel gruppo – è scritto – è riservato esclusivamente agli appartenenti al servizio e in congedo e ai diretti familiari”. Chi lo ha creato, A.C., sul proprio profilo Facebook annovera un servizio presso la polizia giudiziaria della Finanza della Procura di Venezia. Si tratta – come accertato dal Mef – di un brigadiere in congedo dal 1996. Su “Il Finanziere” l’attualità era l’occasione per straparlare, insultare. Secondo quanto riportato da The Vision, tanti sono stati i commenti violenti contro Carola Rackete. “ (…)La prossima volta che succede invito i colleghi a sparare senza guardar in faccia a nessuno”, scrive – secondo The Vision – “un appuntato scelto di Siracusa”. Poi via con gli insulti sessisti: “Sta tr… di m… spero che ‘quelli di mare’ gli abbiano dato molti consigli per gli acquisti”, commenta un altro. E ancora: “Ma quale galera, impiccagione per lei e tutti i rappresentati del Pd che erano con lei e l’hanno sostenuta…”.

I parlamentari di +Europa e Pd che nei giorni scorsi sono saliti sulla nave della ong tedesca sono l’altro bersaglio degli utenti: “Li doveva buttare in mare… con un blocchetto al collo”, scrive uno. Nel gruppo chiuso si commentano anche altre notizie. A settembre 2018, la Marina militare del Marocco che spara contro un barcone uccidendo una persona, viene presa come un buon esempio (“Questi sì che hanno le pa…”). La notizia dei due carabinieri accusati di aver violentato due americane a Firenze invece non poteva che essere l’occasione per altri insulti sessisti contro le donne. “Le tr… americane quando vengo qua so’ assicurate contro questo, anche violenze… ne hanno approfittato per rovinare due poveri ragazzi…”.

E un altro: “Credete alla favola dello stupro… Sapeste quando so ubriache queste ke combinano… Apposta hanno una polizza speciale con la quale vanno in giro per il mondo antistupro… Quelli hanno sbagliato ma loro non sono sante in paradiso..:”. Sul caso è stata presentata un’interrogazione parlamentare da parte di Giuditta Pini (Pd).

Ora Salvini chiude i porti con le navi del dem Colaninno

Festeggia il governo, festeggia Forza Italia e in un certo senso festeggia pure il Partito democratico. O almeno un suo parlamentare: l’onorevole Matteo Colaninno, deputato alla terza legislatura con i dem.

Motivo dei sorrisi bipartisan è la consegna, avvenuta tre giorni fa a La Spezia, di una nave nuova di zecca alla Marina militare. Un mezzo ad alta tecnologia (per precisione: Unità Navale Polifunzionale ad Alta Velocità) realizzato da Intermarine, società che dal 2004 fa parte del gruppo Immsi. E qui si arriva a Colaninno: la holding, un colosso da oltre un miliardo di euro di fatturato, fa capo proprio alla famiglia del deputato e a suo padre Roberto, che la acquistò nel 2002 dalla galassia Telecom.

Strano destino, dunque, quello di Colaninno: mentre dal Viminale Matteo Salvini annuncia un’ulteriore stretta sull’immigrazione e promette di impiegare le navi militari per difendere i porti dalle forzature delle Ong, un membro dell’opposizione rifornisce, seppur indirettamente, la flotta della Marina. Col paradosso che le navi realizzate dalla holding di famiglia potrebbero essere utilizzate proprio per realizzare la politica dei porti chiusi tanto cara a Salvini, che durante l’ultima riunione del “Comitato nazionale ordine e sicurezza” da lui presieduto ha rilanciato la presenza dei militari per evitare nuovi casi Sea Watch. Con tanti saluti a Matteo Orfini, Graziano Del Rio e a tutti gli esponenti democratici solidali a Carola Rackete e scandalizzati per il nuovo corso del Viminale in materia di Ong.

Eppure Matteo Colaninno non vede contraddizioni tra l’attività della società e il suo indirizzo politico: “Intermarine non è un’azienda di famiglia, io non sono nel consiglio d’amministrazione né ho altri incarichi”. Tutto giusto, perché in effetti nel board il suo nome non compare. Il deputato è però amministratore di Immsi, la holding che la controlla al 72,51 per cento di cui il padre Roberto è presidente e il fratello Michele è direttore generale. Elementi sufficienti per sentirsi in qualche modo coinvolto, ma non secondo Colannino, che al Fatto ripete di non aver voglia di commentare la notizia e di non aver seguito affatto la trattativa tra la società e il governo.

Sta di fatto che l’accordo è compiuto: nella flotta della Marina entra la Nave Cabrini, mezzo di 44 metri che può ospitare un equipaggio di 27 persone e che “fornirà un elevato valore alle peculiari capacità della Marina, in particolare assicurando il supporto alle attività delle sue forze speciali sia in fase addestrativa che nel corso delle operazioni reali”.

Alla notizia ha brindato anche il governatore ligure di Forza Italia, Giovanni Toti, con tanto di selfie sui social: “Capacità industriale, logistica, crociere e turismo. Tutto quello che rende grande il Paese in uno scatto. Questa è la Liguria che stiamo costruendo e l’Italia che vogliamo far tornare a crescere”. Stessi toni entusiasti utilizzati da Pierluigi Peracchini, sindaco di centrodestra di La Spezia: “Da eccellenza a eccellenza, un grande esempio navale di tecnologia e innovazione dell’industria della provincia spezzina per una grande forza armata. Buon vento!”.

Ma la consegna della Nave Cabrini non resterà un evento isolato. Il mezzo è infatti il primo di una commessa accordata con l’allora governo Renzi nel 2016 e che è composta da due unità “rispondenti ai più alti standard qualitativi”: la Immsi della famiglia Colaninno metterà così a disposizione della Marina un’altra nave che “concorrerà altresì al controllo dei traffici marittimi, al contrasto dei traffici illeciti, alla sicurezza in ambienti con presenza di minaccia asimmetrica e all’evacuazione di personale da aree di crisi”. Compiti molto simili a quelli che Salvini richiede ora ai militari per difendere i porti dalle Ong. Tra le proteste dei deputati del Pd, ma non certo di Colaninno.

Ceccardi, quanto è bella la poltrona

Mi dimetto, ma non troppo. In questi giorni Susanna Ceccardi ha dovuto fare un doloroso passo indietro. La segretaria toscana del partito, nonché consigliera di Matteo Salvini al Viminale, nonché sindaca di Cascina, nonché eurodeputata, si è infatti trovata nell’insolita posizione di dover rinunciare a una poltrona, costretta purtroppo dalla legge. I codici prevedono infatti l’incompatibilità tra la carica di prima cittadina e quella di parlamentare a Bruxelles, appena agguantata col pieno di preferenze. Ma dopo notti insonni di riflessioni, ecco il colpo di genio della nostra: rinunciare alla carica di sindaco, affidarla al suo vice Dario Riollo e rimanere comunque in giunta. Come? Da assessore, mantenendo le stesse deleghe che aveva con la fascia tricolore. Che poi sarebbero i suoi cavalli di battaglia, ovvero la sicurezza e il decoro urbano, a cui si aggiunge l’avvocatura comunale (tante volte non sapesse come passare il tempo). Però, attenzione, non finisce qui: l’anno prossimo si vota per le Regionali toscane e, dopo aver strappato diversi Comuni alla sinistra, la Lega punta al colpaccio. Ora, chi potrà mai essere il candidato in pectore dei salviniani? Ecco. Indovinato.

La leghista che tolse la foto di Mattarella

Uno dei più contenti per la nomina di Alessandra Locatelli a ministro della Famiglia è Eugenio Zoffili, deputato di Erba, che con lei ha condiviso una “lunghissima gavetta in Lega, fin da quando, a metà anni Novanta, andavamo insieme ad ascoltare le lezioni del professor Gianfranco Miglio”. In un post su Facebook si vedono Locatelli e Zoffili, già deputati, con la pettorina della Lega e le scope in mano davanti a un cartello: “Stop invasione! Salvini premier”.

Nonostante la lunga militanza nella Lega, la carriera di Alessandra Locatelli (comasca, classe 1976, un divorzio alle spalle senza figli) nella politica attiva è fulminante: nel marzo 2016 diventa segretario cittadino della Lega a Como; alle Amministrative del 2017 viene eletta consigliere comunale e poi scelta dal sindaco Mario Landriscina come vicesindaco e assessore alle Politiche sociali; nel 2018 è eletta deputata nel collegio Lombardia 2. E ora ministro. Tutto in soli tre anni.

A metà dei Novanta, però, era già nei Giovani Padani, senza però arrivare mai in prima linea. “Era una di quelle militanti che vedevi spesso in piazza, o ai comizi di Bossi, o alle gazebate padane. Si vedeva anche a Pontida. Ma poi aveva altro da fare nella vita…”, racconta chi la conosce. Dopo essersi laureata in sociologia a Milano Bicocca con una tesi che col senno di poi le ha portato fortuna (“percorso di carriera delle donne nella Pubblica amministrazione”), inizia a lavorare nel sociale, occupandosi di disabili e minori. In questo ambito, già negli anni Duemila, fa pure esperienze di volontariato, anche in Africa: in Congo e in Nigeria per aiutare (a casa loro) i bambini africani nelle missioni dell’opera Don Guanella. Nei suoi ultimi lavori si occupa di assistenza a disabili, minori e famiglie disagiate. Insomma, almeno conosce la materia.

Poi la vecchia Lega va in crisi, Bossi & the family affondano, arriva Bobo Maroni con le scope a spazzarla via e Matteo Salvini se la pappa in un sol boccone. E lei si adegua perfettamente alla nuova linea. Ha un ottimo rapporto con il Capitano e anche col sottosegretario all’Interno Nicola Molteni, che è di Cantù. Così, dal 2016, l’accelerazione verso i piani alti. Da assessora e vicesindaca si è fatta notare con provvedimenti in perfetto “Gentilini style”, tanto da guadagnarsi il nomignolo di “sceriffa”. Prima vieta l’accattonaggio in strada. Poi fa togliere le panchine vicine a un punto di ritrovo per migranti. Poi dà battaglia per chiudere il centro comasco per immigrati. In uno dei suoi ultimi post ha attaccato Carola Rackete definendola “una criminale che dice si essere sempre stata ricca e per questo di voler aiutare i migranti”. Ma nel suo mirino è finito pure Sergio Mattarella, quando appoggia la richiesta del collega Paolo Grimoldi che, nel 2018, ha invitato gli amministratori leghisti lombardi a togliere dall’ufficio la foto del capo dello Stato. Lo stesso Mattarella davanti al quale ieri Locatelli ha giurato da ministra.

Che estate! Le liti da comari come ai bei tempi di Dc e Psi

L’estate dello scontento gialloverde di governo ricalca molte altre estati politiche agitate poiché la calura agendo sui sistemi endocrini stimola i comportamenti ostili, e i giornali devono pur scrivere qualcosa. Ieri, la nuova puntata dell’affaire Lega-Russia ha diffuso un cattivo odore di rubli e di petrolio nella coalizione. Troppo poco (o forse troppo) per creare immediate fratture. Non certo per pretendere chiarimenti da parte dei Cinque Stelle. Vedremo.

Nel frattempo, in una piatta domenica di luglio, ci ha pensato il sottosegretario grillino Manlio Di Stefano a porgere, misericordioso, ai redattori di turno un titolo stravagante ma pur sempre un titolo contro Matteo Salvini: “Ti senti Maradona, ma sei un Higuain fuori forma”. A parte lo sgarbo ai tifosi della Roma che un Higuain anche sovrappeso lo andrebbero a prendere di corsa a Fiumicino, non si comprende dove sia “l’attacco duro, durissimo” sparato nei tg serali quando il paragone somiglia tanto al gesto di chi strizza, complice, all’amico le maniglie dell’amore. Difatti, l’adiposo vicepremier subito replica arguto: “Uomo de panza uomo de sostanza”, mentre sullo sfondo quasi s’intravede il barbecue con la grigliata mista e le signore che apparecchiano.

Per questo diario è un po’ mortificante occuparsi della “tensione che sale nella maggioranza” perché mamma mia il feroce Luigi Di Maio vuole mandare a Salvini, in crisi di solitudine sui migranti, pensate un po’ un “peluche”. Quando invece, in un’altra vita, le ferie d’agosto del cronista politico venivano cancellate dalla guerra atomica Andreatta-Formica sulla separazione della Banca d’Italia dal ministero del Tesoro. Che Giovanni Spadolini retrocesse erroneamente a “lite da comari” ma che qualche mese più tardi gli costò il governo.

Storica baruffa che portò il ministro dc a evocare nientemeno che il “nazionalsocialismo” (con forte “sdegno” del partigiano Sandro Pertini), a proposito del Psi, partito dell’odiato collega a sua volta sobriamente definito dal Popolo “un commercialista di Bari esperto in fallimenti e bancarotta”. Bei tempi, mentre adesso mangiamo tutti tranquilli se il sottosegretario Spadafora dice peste e corna del capitano leghista che infatti replica con un pigro “si dimetta o chieda scusa”, reso vieppiù inoffensivo dall’assicurazione che “il governo va avanti”. Ma se il Salvimaio è tutto un wrestling dove ci si mena per finta, per quale motivo da quando la strana coppia ha agguantato il potere non passa giorno che i vaticini dell’informazione (quasi) tutta non prevedano l’approssimarsi della catastrofe? Sempre declinata come inevitabile: non vanno d’accordo su nulla, non si sopportano più, passano il tempo a insultarsi e così via.

Il fatto è che proprio l’esistenza di forti contrasti tra due forze così distanti e innaturalmente alleate – dai decreti Sicurezza alla legge sulle autonomie, alla diversa sensibilità sui diritti – “non fa altro che descrivere il campo delle opzioni possibili come riserva dei partiti di governo, che così possono presentarsi anche come unica alternativa per il futuro” (Il Foglio). Senza contare che l’insistenza nel descrivere la “lite continua”, come scandalosa dimostrazione di insipienza e irresponsabilità, ogni volta che in un modo o nell’altro la zuffa viene risolta ciò non fa altro che rafforzare l’immagine dei due litiganti. E la loro volontà di non mollare le poltrone. Domanda: lo stesso si può dire della credibilità di giornali e telegiornali, sfibrati da questo continuo gridare al lupo al lupo e alla crisi dietro l’angolo? Facciamo così: se questa estate la lite da comari dovesse sfociare nell’inatteso patatrac, giuro mi dimetto seduta stante da questo diario. Ma si lasci in pace, vi scongiuro, il Pipita.