Inps, Tridico: ‘Sistema solido. Bene reddito, Quota 100 sotto stime’

“Il sistema pensionistico è solido e l’Inps è pronta a farsi carico degli ultimi grazie a strumenti come il Reddito di cittadinanza che, dopo tre soli mesi di operatività, già arriva a 2 milioni di persone”. Il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, alla sua prima relazione annuale rassicura così sui conti dell’Istituto, che ha sulle spalle quasi 15,5 milioni di pensionati e plaude alla misura bandiera del M5S di cui è stato il teorico. Su Quota 100, misura cara alla Lega, parla di un tiraggio sotto le stime: alla fine quest’anno usciranno con il nuovo meccanismo poco più di 200 mila lavoratori, contro i quasi 300 mila previsti. Sul fronte dei pensionati, circa uno su tre riceve meno di 1.000 euro al mese. Si tratta di 5,4 milioni di persone. In tutto ciò la spesa pensionistica è rimasta pressoché stabile in rapporto al Pil. Si parla di risultati “positivi” anche se resta un disavanzo che di anno in anno non fa che ampliarsi (-7,8 miliardi di euro). Infine Tridico ha proposto l’adozione di una forma di previdenza complementare pubblica gestita dall’Inps per provare a colmare il gap di adesioni, che in Italia non arrivano al 30% dei lavoratori. L’obiettivo è sostenere “una maggiore canalizzazione degli investimenti in Italia”.

Fico-Casellati, l’altra partita sulle Regioni

I contraenti che non sono alleati vanno avanti con tavoli infiniti, si rinfacciano numeri e cattive intenzioni, difendono le rispettive trincee elettorali. Ma nella partita sulle autonomie, specchio del fossato tra Lega e M5S, un ruolo fondamentale lo avranno i due presidenti delle Camere che ufficialmente non giocano.

Eppure da loro dipende tanto del risultato finale, perché saranno Roberto Fico e Maria Elisabetta Casellati a decidere se e quanto potrà essere cambiato in Parlamento il futuro compromesso sulla materia tra i gialloverdi e le Regioni interessate. Solo i due presidenti, e nessun altro, stabiliranno se le Camere potranno cambiare le bozze d’intesa con ampio margine, cioè con emendamenti nelle commissioni e poi nelle Aule. Oppure se dovranno limitarsi ad atti di indirizzo politico, a semplici mozioni e risoluzioni che la maggioranza gialloverde potrebbe serenamente ignorare. Una differenza enorme.

Ampia più o meno come quella tra Fico, veterano del M5S con il cuore molto a sinistra, e Casellati, avvocato, forzista, vicina a Silvio Berlusconi. Così non può stupire il fatto che il presidente della Camera spinga per lasciare ai parlamentari la massima possibilità di intervento, mentre Casellati voglia limitarla, circoscriverla.

Opinioni diverse: emerse già nelle prime interlocuzioni tra Fico e Casellati sull’argomento e nelle loro dichiarazioni. Anche se ufficialmente da Montecitorio e Palazzo Madama non filtrano dettagli. Però la discussione si è aperta da tempo, tra i due Palazzi. E su questa pesa ovviamente il parere del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che a inizio marzo ha ricevuto Fico e Casellati al Quirinale, su richiesta del presidente della Camera: desideroso di avere un parere sull’applicazione dell’articolo 116 comma 3 della Costituzione, in base a cui il Parlamento decide “a maggioranza assoluta dei componenti” sulla concessione di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” alle Regioni. E l’ex giudice costituzionale Mattarella sostenne che, norme alla mano, il Parlamento può modificare i testi sulle autonomie senza restrizioni. “Ma ovviamente deciderete voi” precisò. Diverse settimane dopo, fanno testo le ripetute affermazioni pubbliche di Fico, come quella del 28 giugno: “Le Camere devono essere centrali sulle autonomie, perché quando trasferiamo funzioni legislative alle Regioni non lo si può fare solo tramite intesa tra governo e gli enti. Tutto va fatto tramite passaggi corposi e forti all’interno del Parlamento”. L’esatto contrario di quanto sperava la Lega, che nelle Camere voleva transitare solo per cortesia istituzionale. E lo aveva detto dritto il governatore del Veneto Luca Zaia: “Credo sia opportuno inviare in Parlamento le pre-intese, sulle quali potrà esprimersi con mozioni e risoluzioni e proposte alternative, dopodiché con il governo ci siederemo attorno a un tavolo per capire quali sono accoglibili. Il contratto è tra due, non esiste che una terza parte lo scriva al loro posto”. Ma non è quello che pensano e auspicano Fico e il Colle.

Così al Carroccio non resta che sperare in Casellati, una presidente di centrodestra che con i leghisti dialoga, eccome. Del tema autonomie non parla volentieri. Però un mese e mezzo fa qualcosa ha detto: “Il governo ha dato l’incarico al presidente Fico e a me di tracciare il percorso delle autonomie in Parlamento. C’è un confronto che stiamo ancora facendo per capire quale sia il migliore”. Tradotto, sui confini bisogna discutere. E in gioco c’è tanto. Forse addirittura il futuro di un governo.

Anche l’Authority dei conti stronca l’autonomia leghista

L’appuntamento è per questa mattina, e non sarà risolutivo. A Palazzo Chigi il premier Giuseppe Conte, i vice e i ministri interessati si riuniranno di nuovo sull’autonomia. “Serviranno 3-4 riunioni, ma alla fine chiudiamo”, avvisa Matteo Salvini. Tempi che si scontrano con una realtà assai ostica. La più importante riforma istituzionale della storia repubblicana, che il leader del Carroccio ha promesso all’anima nordista del partito, è al palo. Le distanze tra Lega e M5S restano intatte: così come sono, le bozze d’intesa firmate il 15 maggio dal ministro per le Autonomie Erika Stefano (Lega) con Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna sono indigeribili per i pentastellati, ma pure assai pericolose per la tenuta dell’unità nazionale. I giuristi di Palazzo Chigi, per dire, le hanno già fatte a pezzi. E non sono gli unici.

Ieri è toccato all’Ufficio parlamentare di bilancio, l’authority dei conti pubblici. In audizione alle Camere, il consigliere Alberto Zanardi, massimo esperto di federalismo fiscale, ha spiegato che “il sistema di finanziamento delle competenze aggiuntive previsto dalle bozze presenta elementi contraddittori che suscitano preoccupazioni per i possibili rischi sia sulla tenuta del vincolo di bilancio nazionale sia sulla garanzia della solidarietà interregionale”.

L’analisi dell’Upb riguarda le bozze uscite a febbraio, ma i meccanismi finanziari sono confermati in quelle di maggio. In sostanza prevedono che insieme alle sterminate competenze richieste dalle Regioni (23 dalla Lombardia, 20 dal Veneto e 16 dall’Emilia Romagna) vengano trasferite dallo Stato anche le risorse per farvi fronte. Inizialmente avverrà in base alla spesa storica, poi andranno fissati i fabbisogni standard da una commissione paritetica Stato-Regioni. Il tutto deve avvenire senza nuovi oneri per lo Stato. Il guaio è che non è previsto un sistema perequativo per redistribuire il maggiore gettito che dovesse registrarsi nelle regioni autonome. Con l’invarianza finanziaria significa che le altre Regioni, specie al Sud, prenderanno meno, senza più “tutela degli obiettivi di uniformità delle prestazioni su base nazionale”. Secondo l’Upb, in sostanza, è impossibile tenere insieme l’autonomia differenziata, così come chiesta dalle tre Regioni, la tenuta dei conti pubblici e la solidarietà nazionale. Il Parlamento, poi, dovrebbe ottenere “tutte le informazioni necessarie sulle implicazioni finanziarie delle intese”, per questo è “inadeguato” delegare tutto alla commissione Stato-Regioni. Senza dimenticare che nelle intese non vengono fissati i criteri per l’accesso all’autonomia e questo “potrebbe comportare rischi di peggioramento delle prestazioni, deficit nei bilanci regionali, squilibri territoriali, conflitti di competenze, e rendere necessario un rafforzamento delle procedure ex post di riconoscimento dell’eventuale ‘fallimento’ delle Regioni nella gestione delle materie aggiuntive e di conseguente riconduzione di tali materie sotto la responsabilità statale”.

È la seconda stroncatura al progetto leghista dopo quella del Dipartimento Affari giuridici di Palazzo Chigi del 19 giugno. Un documento di 12 pagine che smonta i contenuti delle intese: si va dai rilievi sulla costituzionalità al rischio, vista la mole di competenze richieste, di creare nuove regioni a Statuto speciale fuori dall’alveo della Carta, fino ai rilievi economici. La tesi è la stessa dell’Upb: le intese finirebbero per aumentare la spesa pubblica e/o per penalizzare le regioni del Sud. Per questo è “ineluttabile” che passino al vaglio del Parlamento.

La Lega ha ceduto sul coinvolgimento delle Camere, ma è l’unico vero punto di intesa con i 5 Stelle, che considerano imprescindibile un fondo perequativo e la fissazione dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) per evitare che aumentino i divari territoriali. “È un principio sacrosanto che ci permetterà di fare un’autonomia ‘light’”, ha attaccato ieri Di Maio. Sulle competenze lo scontro più grosso è sull’istruzione, che Veneto e Lombardia vogliono tout court. Per il M5S non se ne parla. I tempi si allungano, e ai 5 Stelle non dispiacerebbe se il tutto slittasse a settembre.

Di Maio incontra i sottosegretari su riorganizzazione

Ha tenuto l’ultima riunione interna sulla riorganizzazione, perché lunedì farà diffondere il nuovo schema organizzativo del Movimento. È questo, assicurano i 5Stelle, il senso dell’incontro di ieri sera a Palazzo Chigi tra il capo politico Luigi Di Maio e tutti i sottosegretari del Movimento. “Una riunione anche per fare il punto sul lavoro fatto” assicurano. Ma il grosso è stato sulla riorganizzazione, con Di Maio che ha raccolto i pareri dei membri di governo. Diversi dei quali dati in bilico, dopo essere stati sottoposti alla graticola, ossia al confronto con i parlamentari, che hanno poi compilato delle schede di valutazione. “Ma per ora non salta nessuno” dicono dai vertici. Di Maio vuole attendere il 20 luglio, cioè la data in cui si chiuderà ufficialmente la finestra elettorale di settembre. Una volta schivata la crisi di governo, il vicepremier valuterà cosa fare. Ma per adesso la sua urgenza è provare a tracciare un nuovo assetto per il Movimento, con referenti nelle Regioni e una segreteria di una decina di persone. Insomma, una struttura da cui ripartire dopo il tonfo elettorale del 26 maggio.

Quel filo “russo” che unisce i leghisti di Intesa a Mosca

C’è un personaggio che assume nuovo spessore nella trattativa della Lega a Mosca per far arrivare al partito 5,5 milioni di euro tramite un accordo tra Rosneft ed Eni. “Un uomo che si chiama Mascetti”, dicono gli italiani che si trovano nell’hotel Metropol di Mosca, finiti nella registrazione pubblicata da BuzzFeed(“è un nostro uomo”). Andrea Mascetti è un uomo del Carroccio nel consiglio di Banca Intesa a Mosca. I sei parlano di lui come di un possibile intermediario della transazione Mosca-Eni. L’interessato, così come Eni, ha già negato di essere a conoscenza di qualsivoglia accordo. Resta un fatto: c’è un filo rosso che tiene insieme la Lega, la Russia e Banca Intesa.

Laureato in Giurisprudenza, un passato nel Movimento Sociale Italiano, Mascetti nel 2004 fonda il suo studio legale in quel di Varese e fa da consulente per svariati enti sul territorio. Parallelamente porta avanti la sua carriera politica legandosi all’amico fraterno Attilio Fontana, attuale presidente di Regione Lombardia. Avversario giurato di Roberto Maroni, è stato presidente di Terra Insubre, associazione osteggiata anche dagli uomini più vicini a Umberto Bossi e addirittura scomunicata durante la Pontida del 2010.

Sono i primi simposi identitari e sovranisti della Lega, tanto che lo stesso Mascetti verrà apostrofato come “fascista” dal senatùr durante il congresso di Varese dell’anno successivo. Le carte poi si mischiano, Matteo Salvini si fa strada e l’avvocato si ritrova perfino a passare dal Consiglio federale leghista. Da lì è una rapida ascesa: nel 2013, con Salvini segretario federale, spicca il volo nella Fondazione Cariplo, guidata da Giuseppe Guzzetti, all’interno della Commissione centrale di beneficenza su segnalazione della provincia di Varese (incarico rinnovato lo scorso maggio su indicazione di Regione Lombardia), due anni dopo verso il board di Banca Intesa in Russia.

Storicamente, a Mosca, l’uomo di Banca Intesa è Antonio Fallico. Classe ’45, in Russia dall’inizio degli anni 70, nel 2007 fonda e dirige Conoscere Eurasia, associazione che promuove le relazioni commerciali tra Russia e Italia. Con quest’ultima, stando a un report del gennaio scorso dell’Osservatorio di Politica Internazionale di Senato, Camera e ministero degli Affari esteri, “ha siglato con l’agenzia federale russa per lo sviluppo tecnologico un accordo per la fornitura di tecnologie alla Russia da parte di imprese italiane ed europee”. Del resto il console onorario di Russia a Verona ha sempre condotto grossi affari da Mosca e l’odore dei soldi porta spesso dalle sue parti. Non a caso condivide il direttivo dell’associazione di Conoscere Eurasia con due pezzi da novanta dell’economia russa: il magnate dell’acciaio Alexander Abramov e Sergey Sudarikov, uomo di Mosca, ma influente in Italia con la sua LTI (Long-Term Investments) che controlla il 6,2% dell’azionariato di Pirelli.

Chiunque volesse allacciare rapporti a Mosca è sempre passato da Fallico. Ex consulente Fininvest (è lui il deus ex machina degli affari di Silvio Berlusconi con Vladimir Putin) fu mandato nell’Ex Unione Sovietica dalla Banca cattolica del Veneto, primo avamposto del credito italiano oltre cortina, in seguito assorbito dal Banco Ambrosiano e a sua volta da Intesa. Nominato console onorario di Russia a Verona dopo la fondazione della filiale italiana di Gazprom, è stato uno dei riferimenti di Flavio Tosi nel momento in cui sembrava poter essere il naturale successore di Roberto Maroni alla guida della Lega Nord. L’iniziò con Salvini non fu dei migliori: nel suo primo viaggio in Russia per incrociare la strada con Putin, il Capitano disse che non avrebbe rifiutato prestiti da banche russe se avessero offerto “condizioni migliori di Banca Intesa”.

Un modo per allontanarsi da Tosi nel pieno della contesa politica sulla Lega. Oggi pare che il tempo sia stato galantuomo.

* Investigative reporting project Italy (Irpi)

Francia, Ungheria e gli altri: i partiti a caccia di rubli

Un partito identitario europeo deve contare su qualche amicizia a Mosca. È un elemento ricorrente, come ha recentemente scritto l’ong belga Corporate Europe Observatory. Il Rassemblement National di Marine Le Pen, ad esempio, ha potuto contare sulle relazioni di Jean-Luc Schaffhauser. Quando nel 2014 il partito si è trovato a corto di fondi, l’uomo si è rivolto all’amico di lunga data e uomo d’affari russo Alexander Babakov. In nome della difesa della cristianità dell’Europa, l’allora Front National pensava di costituire una fondazione per finanziare attività culturali con soldi russi. Così Babkov ha costruito un sistema per far arrivare – tramite una banca ceca – un prestito da oltre 9 milioni di euro al partito. Ne ha scritto Mediapart rintracciando una “parcella” da 140 mila euro incassata dall’europarlamentare, che si era dimenticato però di inserirla nella sua dichiarazione dei redditi dopo le elezioni. La Procura francese indaga. In Ungheria nel 2017 il governo ha assunto come lobbista Klaus Mangold, conosciuto nella sua Germania come “Mr. Russia”. Grazie a lui – rivela il sito indipendente ungherese direkt36 – la russa Rosatom si è aggiudicata senza gara l’appalto per l’allargamento dell’impianto nucleare di Paks. In Austria, così come in Italia, i legami ci sono, ma non è evidente un flusso di denaro da Mosca a Vienna. Il leader del Fpo Heinz-Christian Strache è stato protagonista a maggio dello “scandalo Ibiza”: in un video del 2017 lo si vede trattare con dei russi a cui promette contratti di governo in cambio di una copertura mediatica favorevole. È caduto così il governo di Kurz. Lo stesso anno il centro di ricerche European Council on Foreign Relations raccontava che l’FPO aveva un accordo di cooperazione con Russia Unita simile al gemellaggio che il partito di Putin ha con la Lega. Anno di firma: 2017. Da allora il partito austriaco porta spesso imprenditori in Crimea e spinge per abolire le sanzioni. Due elementi che suonano familiari anche in casa Lega.

Condannato dal passato: il messaggio a Matteo

Matteo Salvini ha svolto tra giugno e luglio – il viaggio a Washington e la visita di Vladimir Putin – gli esami di abilitazione diplomatica. E non li ha superati. Con l’audio della trattativa moscovita di Savoini per finanziare la Lega, il portale americano d’informazione Buzzfeed ha affisso le pagelle. Il messaggio, pardon il voto, è inequivocabile: il ministro dell’Interno, ramingo in politica estera, è inaffidabile per gli Stati Uniti e pure per la Russia.

Con una piroetta diplomatica priva di grazia, una decina di mesi fa, Salvini ha interrotto le effusioni con Mosca e s’è donato a Washington: Cina, Iran, Venezuela, non un’obiezione, sempre allineato, quasi accecato di passione a stelle e strisce. Non ha funzionato. Perché il passato è ostile, non si rimuove col trucco, resta lì appiccicato alla carriera.

Così lo zar Putin, appena una settimana fa, prima di stringergli la mano a Roma, con un’intervista gli ha ricordato la solida amicizia, che dura da anni, i legami assai stretti tra il Carroccio e il partito Russia Unita. Il 18 ottobre 2018, mentre Savoini discute di commesse di petrolio, Salvini torna in Italia. Era partito per Mosca con il solito contegno verbale: “In Russia mi sento a casa. Le sanzioni sono una follia”. Il 24 ottobre, il ministro viene convocato dall’ambasciatore americano, Lewis Eisenberg. Poi il vuoto, anche di memoria. Un altro Salvini s’affaccia nel mondo, come se l’avessero sostituito. Gli americani gli ordinano di scaricare i suoi uomini filo-russi e di conquistarsi la fiducia con i fatti. Il ministro non è efficace. E da Mosca osservano dispiaciuti il politico adottato che si emancipa con smaccata disinvoltura. Forse Salvini ha una domanda per sé che trova una risposta negli articoli di Buzzfeed: com’è il futuro di un politico italiano non gradito a Usa e Russia?

Il “cosacco” di via Bellerio, filo diretto tra Putin e Milano

Era talmente importante per Gianluca Savoini informare il mondo della sua presenza alla cena con Vladimir Putin, organizzata da Giuseppe Conte a Villa Madama, da postare il video della serata su Twitter.

D’altra parte, la biografia di questo 54enne, ex giornalista della Padania, nella Lega da sempre, vicino prima a Roberto Maroni, per un periodo anche portavoce personale di Matteo Salvini, parla chiaro. Tanto per cominciare è presidente dell’Associazione Lombardia-Russia, organismo che si preoccupa di creare il ponte tra le imprese italiane e russe, e di favorire “contatti culturali”. Proprio per questo suo ruolo era a Villa Madama. Sua moglie (dalla quale ha avuto un figlio) si chiama Irina ed è nata a San Pietroburgo.

I rapporti tra Salvini e il “Cosacco della Lega” (soprannome di Savoini), sono molto stretti. E alla luce delle rivelazioni di ieri di Buzzfeed (che ricalcano quelle dell’Espresso di qualche mese fa) su un incontro all’Hotel Metropol tra lui, altri due italiani e tre russi, per fornire aiuto finanziario da parte della Russia alla Lega, in concomitanza della visita a Mosca di Salvini il 18 ottobre, non stupisce che lo staff del segretario ci tenesse a dire che Savoini non era nella delegazione.

I suoi viaggi a Mosca negli anni non si contano. Così come i rapporti importanti. Primo tra tutti, quello con Aleksandr Dugin, l’ideologo reazionario di Putin, ispiratore del fronte delle autoproclamate Repubbliche caucasiche, dall’Ossezia del Sud fino al Donbass, passando per la Crimea. E poi, il presidente onorario di Lombardia Aleksei Komov, rappresentante per la Russia del Congresso mondiale delle famiglie, la rete di lobbisti internazionali, che nel nome della famiglia tradizionale, va dall’America all’Europa dell’Est. Komov era pure presente il 15 dicembre del 2013, a Torino, durante l’incoronazione di Salvini a segretario del partito. In Russia Komov ha creato, per esempio, il fondo San Bonifacio, nel cui consiglio d’amministrazione sono presenti alcuni esponenti di Russia Unita, il partito di Putin. E poi è legato a Konstantin Malofeev, uno dei più importanti oligarchi russi.

Tornando a Savoini, è stato promotore dell’accordo di collaborazione politica tra la Lega e Russia Unita del 2017 tra Salvini e Sergei Zheleznyak, vicesegretario generale del Consiglio per le relazioni internazionali di Russia Unita. L’incontro al Metropol l’ha definito “una chiacchierata tra imprenditori su vari temi”, negando che “sia mai stato dato un centesimo o un rublo alla Lega da chiunque”.

Con Savoini a Villa Madama c’erano pure una serie di imprenditori, capeggiati da Ernesto Ferlenghi, presidente di Confindustria russa. E poi, Claudio D’Amico, ora consulente per la politica estera di Salvini con contratto presso la Presidenza del Consiglio, anche lui dedicato ai rapporti con la Russia, Andrea Paganella, capo della segreteria di Salvini e Michele Geraci, sottosegretario allo Sviluppo economico.

“Un’altra trappola come in Austria: vogliono fregarci”

Si sono seduti ai loro scranni, nel penultimo spicchio a destra dell’emiciclo, e si sono messi le cuffiette. “Ma la voce del Savo c’è?”. Poi hanno cominciato a leggere il testo originale e a tradurlo dall’inglese con Google. E ancora, a scorrere il profilo Twitter di Alberto Nardelli, il giornalista italiano che lavora per BuzzFeed, il sito americano che ha appena sganciato la bomba su di loro. Perché dell’intercettazione sui fondi al Carroccio che Gianluca Savoini, il “Savo”, avrebbe contrattato a Mosca in vista delle Europee di maggio, a Roma si sono fatti subito una sola idea: è un complotto. Così cercano nel timbro di voce, nelle versioni a confronto, nelle biografie social la prova maestra che la trappola è stata tesa. E loro chissà se ci sono caduti.

“È come in Austria, ve lo ricordate?”, si infervorano i leghisti. Parlano di quello che è successo al vicecancelliere austriaco Heinz- Christian Strache, il leader dei nazionalisti dell’Fpo, costretto a dimettersi alla vigilia delle Europee, dopo che i media tedeschi avevano diffuso il video in cui lui, due anni prima, mezzo ubriaco in una villa di Ibiza, prometteva appalti alla (finta) nipote di un miliardario russo in cambio di finanziamenti occulti al suo partito.

Il paragone austriaco li galvanizza e li consola. “Chi te lo dice che non siano attori?”. Perfino il tesoriere Giulio Centemero sposa subito la linea del complotto: “Matteo Renzi chiede se si tratta di una fake news o di uno scoop? Rispondo che è buona la prima, è un falso clamoroso: basta vedere i nostri bilanci, che sono online, per capirlo”.

Ma nella Lega che si è fatta nazionale, gli unici a drizzare davvero le antenne sono i lombardi. Quelli che, come Matteo Salvini, il “Savo” lo conoscono da 25 anni. È un ex collaboratore del vicepremier, che adesso guida l’associazione Lombardia-Russia. Ieri ha passato la giornata a dire che lui “non è l’emissario della Lega”, così come a Roma il Carroccio si sperticava a prenderne le distanze: “Gianluca Savoini parla a nome suo, non tratta né ha mai trattato il fund raising della Lega”. “Posso solo dire – aggiunge Matteo Salvini annunciando querela – che non è stato mai dato un centesimo o un rublo alla Lega da chiunque e da nessuno di quelli citati nell’articolo”. In sintesi, la tesi dei leghisti è che semmai è stato Savoini – che non smentisce di aver partecipato a quella conversazione – a cadere in una trappola ordita per delegittimare l’azione politica del Carroccio: “Sui nostri conti ci sono puntati gli occhi di 18 Procure – si infervorano i leghisti – figuriamoci se può sfuggire una cosa del genere”. Per il resto, il sonnacchioso Transatlantico sembra aver già digerito anche questa. E solo verso sera, i parlamentari del Pd decidono di mettere in piedi una protesta in aula, capitanati dal deputato Emanuele Fiano che chiede a Matteo Salvini di venire a riferire alla Camera. E se la prendono anche con i Cinque Stelle, che pure fino a quell’ora erano rimasti piuttosto silenti. “Come fanno a governarci insieme?”, domanda il segretario dem Nicola Zingaretti. “È indagato per finanziamento illecito e parla?”, replicano dal Movimento, prima di affidare a Luigi Di Maio una diretta Facebook in cui si dice “sempre più orgoglioso del M5s” perché “noi abbiamo sempre ricevuto risorse solo dalle donazioni volontarie e ce le siamo fatte bastare”. “Chiederete chiarimenti a Salvini?” domandano a lui e al premier Giuseppe Conte le telecamere de ilfattoquotidiano.it. Ma entrambi sfilano via senza rispondere.

L’affare petrolio di Mosca per finanziare la Lega

Il futuro politico di Matteo Salvini è stato scritto il 18 ottobre 2018, in un salone del leggendario hotel Metropol di Mosca, che fu quartiere generale dei bolscevichi. Quel giorno il salviniano Gianluca Savoini, in compagnia di altri due italiani e tre russi in contatto col governo moscovita, ha officiato una riunione segreta per una commessa di petrolio dal valore di 1,5 miliardi di dollari. Nient’altro che un’operazione mascherata per far sbarcare in Italia, assieme a 3 milioni di tonnellate di gasolio e una quota di cherosene per aviazione, decine di milioni di euro per finanziare la Lega alla vigilia della campagna elettorale europea. In febbraio Stefano Vergine e Giovanni Tizian, in un libro a doppia firma e in un servizio per l’Espresso, hanno svelato la missione a Mosca di Savoini, ieri il portale americano d’informazione Buzzfeed News ha diffuso l’audio dell’incontro. Oltre a minacciare querele, adesso Salvini deve spiegare. Savoini ha collaborato a lungo con il capo del Carroccio, è da sempre l’uomo di riferimento con Mosca, è presidente di un’associazione culturale lombarda che venera la Russia.

Il testo di Buzzfeed completa gli indizi: gli italiani capitanati da Savoini – proprio mentre il ministro dell’Interno è in visita a Mosca – trattano per la Lega, asfissiata dalla restituzione allo Stato dei 49 milioni di euro di rimborsi pubblici: “Il piano dei nostri ragazzi del politico era che – spiega un amico di Savoini all’interlocutore russo – con il 4 per cento di sconto con 250.000 (tonnellate) più 250.000 al mese per un anno, possono sostenere la campagna. Quindi se mi chiedi adesso qual è la percentuale se facciamo il 6%, la mia prima risposta è che tutto quello che è più del 4% a noi non interessa. Questa sarebbe la risposta. Non ne abbiamo bisogno perché abbiamo fatto un piano secondo cui col 4% siamo soddisfatti. Direi che non ci serve”.

Un ordine di petrolio da 1,5 miliardi di dollari – non sappiamo se mai effettuato – richiede un’architettura complessa: un fornitore moscovita, tipo Rosneft; un acquirente italiano, è citata Eni (che smentisce); un paio di veicoli bancari, si parla di Banca Intesa Russia; una finta società per drenare il necessario e, soprattutto, uno “sconto” da cui ricavare il denaro per la Lega, il 4 per cento, che secondo i calcoli di Buzzfeed equivale a 65 milioni di dollari.

Il Carroccio, però, ha bisogno di una provvigione mensile per ogni carico che approda in Italia, denaro da ottenere subito, magari a “novembre”, si dice nel colloquio, un po’ confuso, con frasi in italiano, inglese e a volte russo.

Con parole solenni, in lode del sovranismo che contrasta l’Europa e si consegna a Mosca, Savoini introduce l’argomento: “È molto importante che in questo periodo storico geopolitico l’Europa stia cambiando. Il prossimo maggio – così vuole ingolosire chi sta al tavolo – ci saranno le elezioni europee. Vogliamo cambiare l’Europa. Una nuova Europa deve essere vicina alla Russia come prima, perché vogliamo avere la nostra sovranità”. Smaltita la barbosa retorica dell’italiano, i tre russi, pratici, si concentrano sulle cose serie: come trasportare il petrolio, quali porti utilizzare, quando avvisare i referenti al Cremlino. “Ora i nostri documenti tecnici sono già pronti per essere consegnati al vicepremier”, annunciano.

Il vicepremier è Dimitry Kozak, politico di fiducia di Vladimir Putin che segue i dossier energetici. Poi un russo menziona il signor Pligin, “lo stiamo aspettando per discutere”. E l’italiano, sorpreso, chiede: “È partito? Ha lasciato la Russia?”. No, soltanto non è nella Capitale. Pligin e Kozak sono fondamentali nel racconto, perché la sera del 17 ottobre, considerato un “buco” nell’agenda ufficiale del viaggio, il ministro Salvini è con Kozak nello studio dell’avvocato Pligin.

A margine del vertice, Savoini è stremato, ma tenta di galvanizzare i compagni italiani: “Dobbiamo essere più che prudenti. Avremo i loro satelliti su di noi. Mi fido delle capacità nei nostri rispettivi campi. Abbiamo creato questo triumvirato io, te e lui, così deve funzionare. Solo noi tre. Un compartimento stagno”. E l’amico: “Voglio dire che è importante farlo entro dicembre”. Perché la Lega ha sete di soldi. E Salvini tace.