TeleTerzaEtà

Il “sovranismo” si porta su tutto, come il trench, il jeans, il cardigan e il beige. Quando qualcuno, nei talk show, è a corto di argomenti, fa una bella tirata contro i “sovranisti” e fa la sua porca figura. Ora per esempio va di moda dire che la Rai è “sovranista”. Lo scrivono i due quotidiani nazareni, Repubblica (“C’è voglia di sovranismo nei programmi della nuova Rai”) e il Giornale (“Fiorello illumina mamma Rai (incinta di mille sovranisti)”). Incuriositi, siamo andati a spulciare nei nuovi palinsesti presentati l’altroieri, a caccia di qualche figlio di Putin, qualche nipote di Orbán (dopo quelle di Mubarak), qualche cugino di Trump. Che sarebbero quasi augurabili, visto che si tratterebbe comunque di volti nuovi, energie fresche e – vedi mai – idee innovative. A parte i re degli ascolti, che la Rai fa bene a tenersi stretti (Arbore, Carrà, Fiorello, Fazio, Angela padre e figlio, Littizzetto, Sciarelli, Venier, Carlucci, Daniele, Incontrada, Ventura, Insinna, Conti, Magalli), abbiamo rinvenuto alcuni reperti archeologici di un certo pregio: Vespa, Augias, Costanzo e Minoli. Che si siano convertiti al sovranismo in tarda età? Improbabile.

Sarà allora madama Isoardi? Difficile. La ex first fidanza, dunque ideologa del sovranismo gastronomico (alla Prova del cuoco solo gulash orbaniano e caviale del Volga), ha appena svelato di essere stata lei a mollare il Cazzaro Verde, dunque niente: solo agnolotti del plin, vitel tonné e brasato al Barolo. Idem per Carlo Cracco, che approda a Rai2, vergine (almeno che si sappia) da sospetti sovranisti. Rai3 è tutta Dandini-Report-Berlinguer, che parrebbero proprio immuni dal contagio (a parte il recente, inverecondo servizietto di Report ai Sì Tav, a maggior gloria di Lega-Pd-FI e di tutto il partito degli affari). Così come Costantino della Gherardesca, già habitué della Leopolda, che Repubblica assicura esser “tornato a furor di popolo” (nei bar e sugli autobus non si parla d’altro). Poi ci sono Diaco, Balivo, Fialdini, Guaccero, Matano, Sottile e Timperi, che non parrebbero proprio spie russe o camicie brune. Enrico Ruggeri e Gigi D’Alessio (ora su Rai1) sono sempre stati un po’ conservatori, ma dubito che basti, anche perché perlopiù cantano: il sovranismo mica si accontenta. Franco Di Mare, chiamato dagli umoristi di Rai1 a sostituire Fazio, parrebbe più versato per i pannolini Pampers che per l’ideologia nazionalista. Infatti gli unici “sovranisti” rinvenuti in oltre 600 ore settimanali di palinsesto delle reti Rai sono tre. Roberto Poletti, ruspante volto delle tv private lombarde e biografo di Salvini.

Lorella Cuccarini, che debuttò in Rai con Baudo nel 1985 (governo Craxi), ma ultimamente ha rilasciato dichiarazioni patriottarde. E – pensate un po’ – Monica Setta, prezzemolina delle ospitate a gettone, che in tv e in radio bivacca da vent’anni (Rai, anche Yoyò e Gulp, Mediaset, La7, Agon Channel, Telenorba, Radio24, RadioAdige, Radionorba), ma è in odor di amicizia con la Isoardi. Anche dai grandi esclusi (si fa per dire), e cioè la Clerici, la Volpe e la Parodi, è difficile arguire una discriminazione ideologica: bisognerebbe prima capire come la pensano, e soprattutto se. Ricapitolando: la formidabile morsa sovranista che attanaglia l’Italia e dunque la Rai, dopo aver espugnato il notiziario più marginale, cioè il Tg2, con Genny Sangiuliano, è riuscita a piazzare a Uno mattina il turboleghista Poletti e, nelle prime ore del sabato e della domenica, la Setta; e a presidiare il primo pomeriggio di Rai1 con la Cuccarini a La vita in diretta. Un’occupazione militare in piena regola. È proprio il caso di parlare di “voglia di sovranismo”, come dice Repubblica (che vanta una decina di firme a libro paga di Viale Mazzini). E di “mille sovranisti”, come assicura il Giornale (sono tre o quattro, ma fa niente). Intanto, a furia di inseguire questo e altri ridicoli fantasmi, quasi nessuno nota il preoccupante, desolante vuoto di idee e di innovazione di quella che doveva essere la “Rai del cambiamento” e invece pare Villa Arzilla, un ospizio per vecchie glorie. O TeleTerzaEtà, la tv via cavo per arteriosclerotici di Amici miei atto III, sponsorizzata da “Mingo, il pannolone per vecchi pisciatori”.

Il dg Salini è un bravo e onesto manager e il direttore di Rai2 Freccero è un direttore folle e vulcanico, ma visti i risultati non basta. Il caso di Daniele Luttazzi, annunciato in pompa magna e poi gettato via con la solita pietosa bugia dei soldi e della satira sulla religione (che sarebbe, non si sa bene perché, proibita), la dice lunga sul guinzaglio cortissimo ormai imposto a chi lavora nel cosiddetto servizio pubblico, da sempre servizietto privato dei partiti. Ma sempre più mediocre, cioè direttamente proporzionale al livello dei leader politici. La Lega è lì dalla notte dei tempi (entrò trionfalmente in Rai nel lontano 1994, a bordo di B., per non uscirne mai più) e ora, oltre ai suoi veterani, ha imbarcato tutto il peggio dei berluscones, dei finiani e anche di qualche sinistro in cerca di un nuovo padrino e padrone (lo scempio di RaiSport parla da sé, con la Domenica Sportiva tornata agli anni 90 con i sarcofagi di Jacopo Volpi e Paola Ferrari in De Benedetti). Salvini non deve nemmeno sforzarsi a reclutarli: li raccatta. Ciò che lascia senza parole sono i 5Stelle, che in Viale Mazzini non hanno nessuno da salvare né da piazzare (e, purtroppo per loro, si vede). Dunque non avrebbero nulla da perdere e tutto da guadagnare nel battersi per una riforma che sottragga finalmente la Rai alle grinfie dei governi e dei partiti e la consegni a chi ci lavora e a chi la guarda. La riforma che tutti annunciano da sempre e nessuno realizza mai. Fosse anche l’ultima cosa che fanno, la gente perbene gliene sarebbe grata a vita.

Jesus è tornato e ha riunito la truppa (manca solo Drugo)

No, Il grande Lebowski non torna più, tocca accontentarsi di Jesus, Jesus Quintana. I fratelli Joel e Ethan Coen l’hanno giurato, non daranno mai un sequel al loro cult del 1998, ma l’autorizzazione allo spin-off, ovvero all’utilizzo dello squinternato giocatore di bowling Jesus Quintana, l’hanno concessa all’amico John Turturro. The Jesus Rolls, questo il titolo definitivo, arriverà in sala nei primi mesi del 2020, scritto, diretto e interpretato dal cineasta italoamericano al fianco di Bobby Cannavale, Audrey Tautou, Jon Hamm, Susan Sarandon e Pete Davidson.

L’attesa c’è, ed essendoci di mezzo Il Grande Lebowski non stupisce: il Dude, da noi Drugo, reso leggendario da Jeff Bridges vanta già due festival dedicati, nel Kentucky e a Londra; una religione, il Dudeismo ovvero The Church of the Latter-Day Dude, che annovera oltre 200 mila sacerdoti in tutto il mondo; due specie di ragni americani ribattezzati in suo nome. Oltre a essersi ricavato siffatta nicchia nell’immaginario collettivo – nel recente Avengers: Endgame un appesantito e trasandato Thor (Chris Hemsworth) viene apostrofato “Lebowski” da Tony Stark (Robert Downey Jr.) – il Drugo è stato utilizzato per spiegare il marxiano feticismo delle merci, per illuminare il feticismo sessuale in chiave femminista e per rintuzzare il capitalismo post-reaganiano incarnato dai vari Jerry Maguire e Forrest Gump. Sopra tutto, e contro ogni probabilità, non ha smesso di farci credere nel suo ritorno: quando lo scorso 24 gennaio Bridges pubblicò su Twitter una clip nei panni del Drugo con la sibillina didascalia “Can’t be living in the past, man. Stay tuned”, fu psicosi collettiva – invece era il teaser di una pubblicità della birra poi trasmessa durante il Super Bowl, mannaggia.

Siccome Lebowski, quindi Quintana, in un’operazione un tot speculativa. The Jesus Rolls è stato girato nel 2016 quale Going Places, ossia il titolo internazionale di Les valseuses (“I coglioni”), da noi I Santissimi, il film-scandalo scritto e diretto dal francese Bertrand Blier nel 1974, con protagonisti Gérard Depardieu, Patrick Dewaere e Miou-Miou. Nel farne il remake in lingua inglese, Turturro ha ravvisato qualche rassomiglianza tra quei tre balordi volgari, sessuali e criminali e il suo Jesus, cui già dovevamo battute del calibro di “Seamus e il sottoscritto ve abriremo le chiappe!” e “Prova a tirare fuori el ferro… io te lo estrapo de mano, te lo metto en el culo e poi premo el grilletto hasta che siento el clic!”, e ne ha fatto, complici i Coen, uno specchietto per le allodole, ossia “lo spin off del Grande Lebowski”.

La confezione, per di più, sarà politicamente avvertita, se non corretta: “Sembra essere un buon momento – ha dichiarato Turturro – per distribuire un film trasgressivo sulla stupidità degli uomini che provano, falliscono e provano meglio a comprendere e sondare il mistero delle donne”. Dopo lunga gestazione e tribolato montaggio, The Jesus Rolls arriverà sullo schermo potendo pescare nel fandom di Lebowski e annusare l’aria che tira, #MeToo compreso (“Le donne sono i personaggi più forti e affiatati”). Come per Blier, il terzetto – Turturro, Cannavale e Tautou – dovrà fuggire da un parrucchiere armato, dalla polizia e dalla società, al contempo “rinserrando i legami di questa famiglia di disadattati”.

Appena uscito di prigione dove ha scontato una condanna per pedofilia, il latino-americano Jesus Quintana si troverà a fronteggiare anche un altro nemico: la nostra nostalgia canaglia, che vent’anni più tardi ancora indossa l’accappatoio di flanella del grande Lebowski.

“Il rischio è il puritanesimo Usa”

“Per fortuna qui agli Uffizi abbiamo donatori che hanno fatto i loro soldi in maniera innocua: avvocati, eredi, il mondo della moda, anche se qualcuno storce il naso”. Eike Schmidt tra qualche mese potrebbe emigrare a Vienna (dipende dalle future mosse del Mibac), ma la sua direzione della più famosa Galleria fiorentina ha fatto registrare ingressi record dei visitatori.

Direttore, gli artisti inglesi protestano contro le sponsorizzazioni di British Petroleum. Sono soldi che “puzzano”?

Va operato un distinguo. Da un lato c’è il rischio del puritanesimo all’americana: vogliamo prendere soldi solo da gente senza peccato. Ma chi è senza peccato? Già dal Medioevo c’erano persone che donavano per controbilanciare le proprie azioni. Nel 1440 Sigismondo Pandolfo Malatesta fece ricostruire il Tempio riminese dopo aver violentato una principessa tedesca in pellegrinaggio… Una sorta di espiazione: se il proprietario di un’azienda che costruiva mine antiuomo vende tutto e dona a un museo, perché no?

E se non lo fa?

Non accetto una lira. Bisogna iniziare con considerazioni di legalità. In Germania non si prendono fondi da aziende che non hanno chiarito il loro rapporto con il Nazismo. E la stessa cosa va fatta qui, se mai si presentassero offerte da chi ha rapporti con organizzazioni criminali.

Perché prendere soldi per forza?

Se alzassimo il prezzo dei biglietti – e il consenso dei turisti stranieri c’è – saremmo meno dipendenti dalle donazioni. Non si può dire ai cittadini “vi tassiamo di più per finanziare un servizio di cui usufruite poco”. Ma i biglietti “stagionali” verrebbero incontro a tutti.

Niente soldi dei petrolieri ai musei, siamo british

“Pecunia non olet” risponde (secondo Svetonio nel De vita Caesarum) Vespasiano al figlio Tito, che lo rimprovera di avere istituito una tassa sull’urina, la centesima venalium (sulle minzioni raccolte nelle latrine gestite dai privati, popolarmente denominati da allora “vespasiani”).

Quella puzza, nei secoli, sarà andata via, ma di certo di qualcosa si sarà sentito il tanfo martedì 2 luglio, quando 78 artisti inglesi, tra cui Anish Kapoor, Sarah Lucas, Gary Hume, Anthony Gormley, Rachel Whiteread e Mark Wallinger hanno indirizzato una lettera al direttore della National Portrait Gallery di Londra Nicholas Cullinan, intimandogli di troncare i rapporti di partnership con la BP (British Petroleum). Ciò anche in risposta alla recente nuova classificazione della Borsa di Londra che la inserisce nel settore “non-renewable energy”.

Il focus della protesta è l’incuranza della BP per il proprio impatto ambientale. “Nonostante il cambiamento climatico sia un problema,” si legge nella lettera, “l’azienda sta scegliendo di investire il 97 per cento del suo capitale disponibile nello sfruttamento di combustibili fossili e il 3 in energie rinnovabili.” La BP, dunque, non si occupa di preservare il futuro, quello stesso futuro che l’arte ha “il cruciale ruolo”, prosegue il manipolo di artisti, di raccontare.

Da trent’anni la BP, infatti, finanzia la National Portrait Gallery (che difende il supporto ricevuto poiché “incoraggia direttamente il lavoro di artisti di talento in tutto il mondo”), ed è anche partner di Royal Opera House, British Museum e Royal Shakespeare Company. Nessuna di queste quattro società, interrogate, ha voluto dichiarare quanto effettivamente ricevono, ma la BP in un comunicato stampa del 2016 ha informato che le istituzioni avrebbero ricevuto circa 9,4 milioni di sterline nei cinque anni a venire.

L’azione della scorsa settimana made in UK a salvaguardia dell’incorruttibilità dell’arte non è isolata. Solo rimanendo nel 2019, alla fine di giugno, Mark Rylance (attore, drammaturgo britannico, e vincitore di un Oscar nel 2015) ha rifiutato un ruolo proprio alla Royal Shakespeare Company, “Non desidero essere associato a BP più di quanto farei con un trafficante d’armi” ha dichiarato, e anche la Royal Opera House ha dovuto affrontare le proteste degli attivisti di Extinction Rebellion (un movimento ecologista). L’ultima il 2 luglio, quando distesi a terra all’ingresso del teatro con la scritta “Climate Crisis” ostruivano il passaggio alla soirée per la Carmen (spettacolo finanziato dalla BP). Tuttavia, delle volte, tali richiami, funzionano: nel 2016 la Tate Gallery ha interrotto i rapporti con la BP a seguito delle proteste del movimento Liberate Tate.

Ripulirsi l’immagine non è ovviamente solo un’abitudine della BP, ma sembra comune a molte compagnie petrolifere. Lo stesso non può dirsi per l’impeto e la resilienza di protesta, che sembra essere caratteristica solo anglosassone. In Francia e in Italia ci sono molti più discendenti dell’imperatore Vespasiano, con l’olfatto tanto forte da non sentire alcuna puzza emanare dalla pecunia. Oltralpe, per esempio, il gruppo Total ha consacrato – attraverso la sua fondazione culturale, Fondation Total – 5 milioni di euro per la cultura francese: volendo citarne solo una, ha sponsorizzato con 200 mila euro l’esposizione Routes d’Arabie al Louvre. E al seppur poco scalpore sollevato, il capo dipartimento dell’arte antica orientale del Louvre Béatrice André Salvini ha risposto che “i musei hanno sempre più bisogno di mecenati privati”… Touché!

Anche in Italia, però, servono molte spruzzate di cultura qui e lì per dimenticare inquinamento, impatto ambientale e crisi climatica. L’Eni è da sempre impegnatissima in questa operazione, senza suscitare eclatanti reazioni (almeno fino ad ora). Per citare solo alcuni degli aiuti elargiti – che campeggiano sul loro sito –, ha sostenuto nel cinquecentenario di Leonardo da Vinci la creazione de Le Nuove Gallerie di Leonardo al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia di Milano; ha bonificato e riqualificato (come Eni Syndial) gli stabilimenti delle saline di Santa Gilla in Sardegna per farne un bene Fai (il tutto per una somma di circa 320 milioni di euro); e ancora si impegna nella lotta agli haters e nell’educazione al comportamento in rete come supporting sponsor della Social Media Week di New York nel 2018; dal 2008 al 2013 ha promosso una mostra gratuita a Milano nel periodo natalizio (nel 2013, si è potuto ammirare La Madonna di Foligno di Raffaello in prestito dai Musei Vaticani).

Adesso, se BP, Total, Eni siano mossi da senso di colpa, autentica filantropia, illuminato mecenatismo o bisogno di sgravio fiscale non sta a noi dirlo, conforta solo che l’abitudine al cambio d’abito per ogni diversa occasione questa volta, c’è da dirlo, non sia solo un (mal) costume italiano.

Le mie radiografie dal luogo che non c’è

“Chernobyl non esiste”: con queste parole mi accoglie a Kiev un ragazzo ucraino, Vasilij, che di lavoro fa la guida sui luoghi del disastro nucleare del 1986. Dopo il successo della serie Hbo, c’è stato un aumento delle visite a Chernobyl del 40%: io ci sono stato otto mesi prima del clamore, nel dicembre 2018, e quando ho detto agli amici “Vado a Chernobyl” mi hanno risposto “Te non stai bene”. Non c’è gloria per l’avanguardia.

E ora Vasilij mi dice che Chernobyl non esiste. “Senti, sono le sette di mattina e ho camminato nella neve attraverso tutta Kiev. Se Chernobyl non esiste me ne torno a letto”, ho pensato ma non l’ho detto. Sono invece salito sul minivan e dopo circa un’ora di strada siamo arrivati sul posto. Nessuno vive più lì da trentatré anni. “Il numero dei miei anni”, dico sorridendo a Vasilij che mi guarda e non ride. Non tento battute sull’età di Cristo.

Ho al collo un contatore geiger per misurare la quantità di radiazioni: sembra un giocattolo eccetto quando inizia a trillare in modo allarmante. Vasilij mi dice che va tutto bene: “È normale: è come se ti stessero facendo una radiografia”. Normale il cazzo, penso ma non lo dico. Avanzando nella neve, arriviamo al reattore esploso coperto da un sarcofago di cemento che si sgretola giorno dopo giorno per il decadimento nucleare. Intorno, un ambiente inospitale alla vita umana. Penso una battuta sull’emergenza rifiuti a Roma, ma non la faccio. Vasilij mi dice che stanno girando una serie tv su Chernobyl, ma la stanno girando in Lituania perché “la vera Chernobyl” non esiste più. Ma chissenefrega, in effetti: grazie alla serie tv adesso i turisti arrivano a frotte, entusiasti, pronti a scattarsi migliaia di radiografie. Pardon, fotografie.

Le Grandi Navi a Venezia vanno bene, nascondino e campana proprio no

A Venezia la maggioranza di centrodestra, guidata da Luigi Brugnaro, prosegue la battaglia contro il degrado della città. Dopo la delibera anti-prostitute, tocca a un’altra temibile insidia: i giochi dei bambini. “A Venezia – ma il discorso vale anche per Mestre e Marghera, comprese nel comune – chi ha meno di undici anni potrà giocare solo nelle aree indicate dal Comune. Oltre quell’età è del tutto vietato giocare”, racconta Monica Sambo, consigliera comunale Pd. Come dire: se hai dodici anni e ti scappa di nasconderti tra ponti e calli, scordatelo. Di dare due calci al pallone meglio non parlarne nemmeno. Prendi il cellulare e rimbecillisciti con i videogiochi. Non rischi multe (c’è chi parla di sanzioni che potrebbero andare da 25 a 500 euro).

Quando in consiglio comunale il primo luglio è arrivata la delibera 196 qualcuno nell’opposizione (Pd e M5S soprattutto) non ha creduto ai propri occhi: “E se un bambino non rispetta i limiti, gli fanno una multa?”, si chiede incredula Sambo, “Noi vogliamo difendere il diritto dei piccoli di giocare”.

Ma la delibera del centrodestra, pur tra qualche equilibrismo grammaticale, non lascia dubbi: “Si disciplinano i giochi sulle aree pubbliche o nelle aree attigue prevedendo che i giochi con la palla e ogni altro gioco, individuale o di gruppo, che possa arrecare pericolo o molestia alle persone ovvero disturbo alla quiete pubblica è consentito esclusivamente ai ragazzi di età pari o inferiore agli anni 11… limitatamente nelle aree individuate con provvedimento del Comandante della Polizia Locale su conforme indirizzo della Giunta Comunale”. Per i più grandi divieto assoluto. Davanti a piazza San Marco possono sfilare navi di 300 metri, ma non si può toccare un pallone.

Segue lista dei luoghi concessi ai bambini. Riserve indiane, anzi, veneziane.

Che Comuni di “M” Arcore e Trecate furiosi con Scurati

Non saranno “buchi di culo del mondo”, Arcore e Trecate, ma di certo lì i libri arrivano tardi, oppure sono lenti a leggerli: solo ieri, infatti, dopo dieci mesi dall’uscita di M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati, fresco di Premio Strega, si sono accorti che il romanzo definisce i due Comuni con toni poco lusinghieri, “buco di culo”, appunto. A Trecate l’ha notato per primo l’ex sindaco, mentre gli amici di Arcore li abbiamo avvisati noi: la cittadina in quel di Monza e Brianza è apostrofata infatti con le medesime parole, se possibile ancor più sinistre perché l’eco rimanda a Berlusconi, almeno alle orecchie dei maliziosi. Cioè sempre noi: “A volte può bastare un banale incidente a deviare il corso della storia. E tutto finisce in una lamiera contorta ai bordi di un campo di verze ad Arcore, il buco del culo del mondo”.

Svegliato il can che dorme, il sindaco Rosalba Colombo del Pd ha reagito sportivamente: “Non ne sapevo assolutamente nulla. E non ho ricevuto segnalazioni da parte dei miei concittadini”. Nessuno avrà letto il libro!?! “Ma no, è che è sempre bene reagire con ironia, non con la spada, anche di fronte a espressioni un po’ truci. Comunque, sono interessata pari a zero, anzi trovo che sia una polemica inutile: come la satira, gli scrittori hanno piena libertà di espressione. Saranno i lettori a giudicarli”.

Quanto alla presunta allusione a Berlusconi, “se si sentirà offeso, risponderà, con intelligenza penso, e credo che nessuno l’abbia ancora avvisato. Io però non mi metto a discutere. In letteratura si fa spesso ricorso alle iperboli, che nulla hanno a che vedere con il luogo, anche perché Scurati non ha mai visto Arcore. Lo inviterò molto simpaticamente a cena da noi”.

Nel novarese, intanto, la querelle si animava, a partire dal post su Facebook dell’ex sindaco del Pd Enrico Ruggerone, che lanciava un tardivo, e un poco ridicolo, allarme: “Il libro è bellissimo, ma Scurati quella frase poteva evitare di scriverla”. La frase – a pagina 492 su 850 – è questa: “Mentre Mussolini a Roma saliva le scale del Quirinale per essere consultato dal re d’Italia, a Trecate, un buco di culo in provincia di Novara, gli squadristi di De Vecchi demolivano la Camera del lavoro”.

Dopodiché s’è desto anche l’attuale sindaco della città finora sconosciuta ai più: “Il libro l’ho letto mesi fa, a Natale, e con attenzione: mi è anche piaciuto”, si è giustificato Federico Binatti di Fratelli d’Italia, primo cittadino nonché presidente della Provincia di Novara. “Stamattina mi ha chiamato un cronista locale e da lì è partita la polemica. Ma io me n’ero già accorto”. Ah, quindi è tutta panna montata dai giornalisti? “No, la battuta è davvero poco felice e poco rispettosa nei confronti dei trecatesi. Tra l’altro non corrisponde al vero: Trecate è la seconda città della provincia di Novara, ha oltre 20 mila abitanti, è in posizione strategica come ponte verso la Lombardia ed è un riferimento per l’intero territorio, soprattutto l’Ovest Ticino”. Che ora sappiamo che esiste. E poi? “Trecate è stato scelto da uno dei più grossi operatori della moda, Gucci, che ha deciso di investire proprio qua: questa è la prova provata (sic) che non è un buco di c… Comunque, anche fosse il più piccolo d’Italia, ogni Comune ha la sua storia, la sua identità, i suoi valori. È questo il punto di forza del nostro sistema (sic) Paese”.

Ricordiamo, però, che M è un’opera di finzione, e non è salutare scambiare la fantasia con la realtà, dicono gli psichiatri. La battuta, poi, è legata a un fattaccio di cronaca nera: forse il bersaglio sono i fascisti più che Trecate; non crede signor sindaco? “Non lo so, non conosco le intenzioni dell’autore. E non darei troppo valore alla riga di un libro”. No, infatti, glielo abbiamo dato noi.

Occhio a Pinocchio: ha fatto la sfortuna di Benigni, Nuti & C.

Ne ha infilzati più il naso che la spada. Naso a lunghezza variabile, e sotto le proverbiali gambe corte. Tra mille bugie, una verità: chi tocca Pinocchio muore. Artisticamente parlando, si capisce.

La creatura di Carlo Collodi ha ruolino di marcia da serial killer, di quelli che uccidono con uno sguardo: il nostro, che ci ostiniamo a gettargli addosso. La coazione a ripetersi, ossia a riadattare, accomuna grandissimi e meno illustri, stranieri e italiani, nella crociana (Benedetto) constatazione che “il legno, in cui è tagliato Pinocchio, è l’umanità”. Ci cascò persino Stanley Kubrick, di cui A.I. Artificial Intelligence “avrebbe potuto essere la più grande opera”: parola di Steven Spielberg, che alla morte del collega subentrò nel progetto. Ne Le avventure di Pinocchio (1883) Kubrick aveva individuato l’androide per antonomasia e, per l’interposto racconto di Brian Aldiss Super-toys Last All Summer Long, tra fine anni Ottanta e Novanta briga per portarlo sul grande schermo: l’avrebbe fatto dopo Eyes Wide Shut, ma la morte decise diversamente. Sintesi fantascientifica e vieppiù mitica di Pinocchio e Frankenstein, la fiaba filosofica troverà riparo davanti alla macchina da presa di Spielberg: nel kubrickiano anno 2001, A.I. Artificial Intelligence incassa 235 milioni di dollari a fronte dei 100 di budget di sola produzione, una miseria, ancor più per gli standard di Steven.

Le critiche non leniscono, bensì amplificano il problema. Spielberg, in fondo, se lo poteva permettere, meno, assai meno, Francesco Nuti, che pure quando s’accosta al burattino è all’apice del successo: può tutto, e gli danno tutto, tredici miliardi di lire. A metterli sul set Mario e Vittorio Cecchi Gori, la cifra è pressoché fantasmagorica, però insufficiente: OcchioPinocchio ha il destino nel nome, pardon, nel titolo, con cui l’attore e regista toscano riscrive il testo pedagogico-iniziatico di Collodi. Location negli Usa, beghe infinite, dissesti finanziari, i miliardi saliranno – sottostima – a venti, di cui due messi dallo stesso Nuti: con un anno di ritardo, esce in sala nel Natale del 1994 e fa male, anzi, peggio. Quattro milioni. Ci rimettono tutti, soldi, certezze e futuro, e c’è chi non si riprenderà.

Il burattino ha mietuto altre vittime, forte del suo attributo più infingardo: aspirazionale. Pinocchio non è promessa di felicità, ma viatico di grandezza, meglio, di ulteriore grandezza: per afferrarlo si alzano tutti sulle punte, e finiscono per perdere l’equilibrio. Se quella vecchia ha avuto Cleopatra e la New Hollywood I cancelli del cielo, il nostro più sontuoso fallimento è proprio OcchioPinocchio, eppure Roberto Benigni non ne fa avvertimento, bensì trampolino.

Come e più di Nuti può avere tutto, e prende lo stesso: l’exploit agli Oscar e al botteghino de La vita è bella per comburente, il burattino per combustibile. Pinocchio, anno di disgrazia 2002. La Fata Turchina è Nicoletta Braschi, Lucignolo Kim Rossi Stuart e il Gatto e la Volpe i Fichi d’India, in una scriteriata replica ai Franco e Ciccio de Le avventure di Pinocchio, l’inarrivabile sceneggiato di Luigi Comencini (1972). Là il cinquantenne Nino Manfredi dava regola aurea a Geppetto, qui il cinquantenne Benigni si vuole burattino fuori tempo massimo. Vincenzo Cerami e Nicola Piovani non bastano, Roberto prende fischi per fiasco, i Razzies (le pernacchie hollywoodiane ai peggiori della stagione) anziché le statuette. Tre anni più tardi si scaverà la fossa, altrimenti detta La tigre e la neve (2005).

Nel 2012 Enzo D’Alò riprova la strada dell’animazione, aperta nel ’72 da Giuliano Cenci con il disastroso Un burattino di nome Pinocchio, e già tocca mettersi in fila: la prima nostrana trasposizione risale al 1911, per la regia di Giulio Antamoro, con protagonista il francese Ferdinand Guillaume, alias Tontolini o Polidor. Mezzo secolo più tardi Nelo Risi volle Carmelo Bene, con Bardot, Cardinale e Lisi potenziali Fatine e Totò Geppetto: la morte del principe De Curtis, 1967, suicida il film.

Oltreoceano rimane indelebile il cartoon Pinocchio (1940), il secondo classico della Disney: la ventilata versione live-action ha fatto però perdere le proprie tracce. La Pinocchieide finisce qui: il Pinocchio di Matteo Garrone, con Benigni Geppetto e uscita a Natale: due precedenti invero poco auguranti, e quello in stop-motion del messicano Guillermo Del Toro per Netflix, avranno altra storia, confidiamo. “Mi muovo! So parlare! Cammino!” e, aggiungiamo, non faccio più lo sgambetto. Finalmente.

Trent’anni di paure: chiunque poteva stare sopra o sotto il Ponte

Ex sindaci, assessori e tecnici – insomma tutti quelli che negli scorsi decenni hanno avuto a che fare con il Ponte Morandi – hanno ripercorso con Franco Manzitti, il giornalista che per Primocanale ha seguito la vicenda, la storia del viadotto Polcevera sul quale, nel corso degli anni, più volte si sono manifestati allarmi mai ascoltati. Ma va detto che nessuno, neppure gli esperti più critici, aveva mai preso in considerazione la possibilità di un cedimento imminente e solo qualche voce isolata aveva parlato della possibilità che quel ponte, inaugurato nel 1967 e misurato su un traffico che in negli ultimi 50 anni è decuplicato, potesse venire giù. Eppure l’aumentato traffico era da anni sotto gli occhi di tutti, ma la politica ha impedito di alleggerirlo con soluzioni alternative o lo ha addirittura e in malafede negato. Manzitti entra negli angoli più nascosti e che toccano ognuno di noi non solo per le 43 vittime, ma perché chiunque di noi poteva essere sopra o sotto il Morandi quel 14 agosto alle 11.36.

 

 

Cronaca di un crollo annunciato

Franco Manzitti

Pagine: 224

Prezzo: 17,50

Editore: Piemme

Anche la ex Merloni è a un passo dal baratro: a rischio 650 dipendenti

L’ennesima industria italiana che sta seriamente rischiando di finire a gambe all’aria è la Jp Industries, che molti conoscono come ex Merloni. Circa 650 dipendenti rimasti negli stabilimenti presenti nelle province di Ancona e Perugia, sedi che producono – a ritmi molto bassi – elettrodomestici di alta gamma. L’unica possibilità di offrire una prospettiva a queste fabbriche sarebbe rinforzare l’attuale proprietà con l’ingresso di nuovi investitori, ma pochi giorni fa Invitalia, agenzia pubblica per lo sviluppo delle imprese, ha comunicato l’esito della ricerca: spaventate dai debiti della società, nessuno dei fondi contattati ha ritenuto interessante il progetto; hanno tutti declinato l’invito a partecipare al rilancio. La corsa per il salvataggio ora ha poco più di cinque mesi di tempo, perché il 31 dicembre 2019 scade la cassa integrazione. L’ammortizzatore sociale è stato rinnovato il 10 gennaio con l’obiettivo di trovare un nuovo socio. In questi mesi, con l’attività a singhiozzo, hanno lavorato in media tra i 150 e i 200 lavoratori. Questi, stando a quanto raccontano i sindacati, non hanno ricevuto gli stipendi. “L’azienda – spiega Pierpaolo Pullini della Fiom Cgil di Ancona – predilige pagare i fornitori per mandare avanti la produzione. Si era detto che con una quota del fatturato avrebbe versato le retribuzioni, ma non è successo”. Secondo la ricostruzione di chi è vicino al dossier, ci sarebbero circa 20 milioni di debiti con l’erario e 4 milioni verso i fornitori.

Il primo luglio la Jp Industries ha presentato una richiesta di concordato al Tribunale: in sostanza, vuole trovare un accordo per pagare i suoi creditori. Una mossa che in teoria potrebbe invogliare nuovi soggetti a mettere le mani sugli stabilimenti, perché non dovrebbero accollarsi i debiti della società. Tutte queste operazioni, però, potrebbero richiedere un tempo più lungo, quindi sarà necessario tornare al ministero e allungare ancora la copertura degli ammortizzatori sociali straordinari (quelli classici non sono più utilizzabili poiché il Jobs Act ne ha ridotto la durata). “Siamo fortemente preoccupati dalle ripercussioni drammatiche. Questa è una storia che sconta il prezzo di una lunga vicenda giudiziaria”, ammette Simone Pampanelli della Fiom di Perugia. Quando nel 2012 l’imprenditore Giovanni Porcarelli ha acquistato l’ex Merloni, infatti, le banche hanno fatto ricorso contestando il prezzo di vendita. Durante il processo sono state bloccate le linee di credito, quindi anche i piani industriali. La situazione finanziaria che si è creata con questo ritardo ha reso poco appetibile questa società; il concordato potrebbe essere l’ultimo tentativo di mantenerla in vita.