Tav Brescia-Padova, così la politica ignora i veri dati

Il programma di analisi costi-benefici promosso con molto vigore dal ministro dei Trasporti Danilo Toninelli non aveva solo l’obiettivo di supportare (non di sostituire) le scelte politiche sul tema delle grandi opere in Italia: aveva anche quello, forse persino più importante, di promuovere la trasparenza e il dibattito democratico su tali scelte. Nel caso del costosissimo ed impattante (dal punto di vista ambientale) progetto della linea ferroviaria ad alta velocità Brescia-Padova (8,5 miliardi di euro, tutti a carico dei contribuenti) di dibattito democratico non si è vista neppure l’ombra. Addirittura, prima che l’analisi fosse resa pubblica, il progetto è stato dichiarato ottimo e fattibile. Nessuno osi metterlo in dubbio.

Politicamente questa sconfessione di un obiettivo fondamentale – la trasparenza nel dibattito pubblico – non è nemmeno stata sufficiente: il ministero ha deciso di smentire se stesso, dichiarando, contro l’evidenza dei numeri, che “comunque costa troppo fermarla”. Eppure i dati raccolti indicano che i benefici sociali del progetto sono talmente inferiori ai suoi costi, che anche considerando lo scenario più pessimistico per i costi di rescissione dei contratti (1,2 miliardi di euro), convenga alla collettività cancellarlo. Infatti 2,384 miliardi di euro è la perdita di benessere che genera il progetto. I costi di recessione da pagare sono al massimo, come detto, 1,2 miliardi, quindi non facendo il progetto la collettività risparmierebbe 1,184 miliardi di euro.

L’unica ipotesi possibile per questa decisione è che il ministero abbia assunto contemporaneamente uno scenario pessimistico per i costi di rescissione e lo scenario iper-ottimistico di traffico, che gli autori dell’analisi costi-benefici hanno dichiarato espressamente non verosimile. Ma questa ipotesi sfida l’onestà intellettuale di chiunque.

In questa storia è anche mancato il coraggio civile di ricordare all’opinione pubblica due verità scomode: la prima è che l’appalto per il Tav Brescia-Padova è stato affidato senza gara al Consorzio Cepav 2 nel 1991, poco prima che scattasse l’obbligo europeo di mettere in gara gli appalti (i motivi sono misteriosi); la seconda è che lo Stato ha incredibilmente deciso di auto-multarsi nel caso non avesse realizzato l’opera o avesse deciso di affidarla a un soggetto diverso. Anche questo per motivi misteriosi. O forse non misteriosi, facendo ipotesi malevoli, e ricordando che si era in piena tangentopoli. Al di là dell’incredibile scelta vale la pena di notare oggi che un contenzioso legale con il costruttore sulle penali da pagare sembra davvero poco verosimile, in quanto Cepav 2 fa capo, se pur indirettamente, alla mano pubblica (Eni e Cassa Depositi e Prestiti), che dovrebbe fare causa a se stessa. Le penali, peraltro, tecnicamente sono un trasferimento, non un costo sociale vero e proprio. Ma certo dire oggi un “sì” entusiasta ad un’opera, contemporaneamente ricordandone all’opinione pubblica le origini così poco edificanti, faceva probabilmente perdere qualche consenso ulteriore.

Perché dunque è mancato il coraggio di dire chiaramente che la politica decideva per l’ennesima volta contro la logica economica, e si è dovuto assistere a una così poco onorevole travisamento dei numeri? Proviamo dunque a formulare qualche a fare ipotesi, per capire i motivi. Sempre, si intende, con estrema malevolenza.

La prima spiegazione della rinuncia ad argomentare con considerazioni politiche questa scelta, può essere ovviamente dovuta alla difficoltà tecnica di tale argomentazione, giudicata evidentemente insuperabile. L’analisi infatti è molto prudente e articolata, al punto di escludere tra i costi sociali dell’opera, quelli ambientali “di cantiere”, spesso non trascurabili. Di certo questi non sono ritenuti trascurabili dall’opinione pubblica locale di orientamento pentastellato, contraria all’opera. Né sono stati usati i soliti “mantra” di visioni strategiche buone a giustificare ogni sorta di spreco dei soldi dei contribuenti. Anche perché in questo esercizio di abilità il ministro precedente, Graziano Delrio e i suoi tecnici sono risultati insuperabili. Gara persa in partenza.

Una seconda spiegazione può essere ricercata nella sopravvenuta debolezza politica del M5S rispetto alla Lega, o anche una debolezza personale del ministro all’interno del suo stesso Movimento, ma questa dimensione è davvero insondabile dall’esterno.

Si affaccia poi una spiegazione forse ancora meno esplicitabile all’opinione pubblica: una spartizione geografico-elettorale di quei soldi. Non a caso il Movimento 5 Stelle ha recentemente plaudito, senza smentite, alla spesa di 12 miliardi di euro per le ferrovie siciliane, destinate con ogni probabilità a rimanere comunque deserte per banali ragioni di traffico e demografiche. Nessuna analisi è in vista per tale fiume di soldi, a cui vanno aggiunti altri miliardi per la linea Napoli-Bari, altra grande opera per la quale non sono previste analisi, nonostante esistano solidi dubbi sulla sua sensatezza socio-economica.

In sintesi: al Nord il ministero dice di sì anche contro le indicazioni delle analisi socioeconomiche, al Sud le analisi, per paura di sorprese, nemmeno verranno fatte. Dati i bacini elettorali in gioco, non suona questo uno scenario molto verosimile? Soldi di tutti noi per catturare voti: una non nobile tradizione italiana, e non solo italiana, che continua.

Altro che Lagarde, Roma non sprechi la finestra favorevole

La nomina di Christine Lagarde alla Bce e di Ursula von der Leyen alla Commissione Ue ha aperto il dibattito sulle implicazioni di queste scelte per l’Italia. Lagarde viene salutata come l’erede ideale della politica espansiva di Draghi e, dopo aver ammesso alcuni errori dell’Imf sulla Grecia, quasi come un’avversaria dell’austerità. Di Von der Leyen ci si chiede quale sarà l’approccio sulle politiche fiscali dei Paesi. L’atteggiamento delle istituzioni europee verso l’Italia dipenderà dai loro mandati e non dai loro presidenti: la Bce continuerà a cercare di realizzare l’obiettivo di inflazione e Bruxelles sorveglierà sul rispetto dei criteri su debito e deficit. L’Italia dovrà fare la sua parte. Il clima internazionale favorevole aiuta a rifinanziare il debito a costi più contenuti e inizia a migliorare anche la percezione delle politiche locali.

Per comprendere meglio la situazione è utile analizzare il differenziale di rendimento tra i titoli italiani e tedeschi a 10 anni. Lo spread indica due tipi di rischiosità: il rischio di default (mancato rimborso) e quello di ridenominazione, il pericolo di vedersi ripagato il debito in un’altra valuta in caso di uscita dall’euro. Un recente lavoro di un ricercatore della London School of Economics (Kremens, L. Currency Redenomination Risk, 2018) ha messo in evidenza che il rischio di ridenominazione può essere misurato sfruttando una modifica avvenuta a settembre 2014 nei contratti di assicurazione contro il rischio di default degli Stati (i Sovereing credit default swaps). In quelli emessi prima del settembre 2014 la ridenominazione non è considerata un evento che innesca il pagamento dell’assicurazione, mentre in quelli emessi dopo la ridenominazione equivale a default. Questi ultimi avranno quindi un prezzo più alto. Il rischio di ridenominazione può essere quantificato considerando il differenziale di costo tra contratti Cds emessi per la stessa cadenza post e pre 2014. Nella figura riportiamo lo spread a 10 anni tra titoli italiani e titoli tedeschi, e tra titoli greci e tedeschi assieme al rischio di ridenominazione del debito italiano considerando nel periodo tra il 1° gennaio 2018 e il 5 luglio 2019. Dall’inizio del 2019 in poi, la politica monetaria espansiva e l’aumento della tolleranza al rischio nei mercati ha innescato un calo dello costo del debito dei Paesi percepiti come più rischiosi nell’eurozona, a cui l’Italia non è stata inizialmente associata a causa della persistenza di un alto rischio di ridenominazione. Questo rischio, dopo essere balzato da 30 a 100 punti base a maggio 2018, ha fluttuato su quel livello per tutto l’anno e si è mantenuto sugli 80 punti fino a metà giugno 2019. Dopo, a seguito del discorso del presidente Draghi a Sintra e del rientro della procedura per debito verso l’Italia, c’è stato un riallineamento tra il trend decrescente dello spread italiano e di quello greco. I dati ci dicono che, se il Paese dà segnali chiari di essere disposto a fare la propria parte nei confronti dell’Europa il clima è molto favorevole, ma ci dicono anche che basta poco per sprecare un’importante finestra di opportunità internazionale.

Quei troppi trasferimenti sospetti: quando scatta il ricatto sul lavoro

“Ho vinto contro Fastweb una causa per un’illegittima cessione di ramo d’azienda. Secondo i giudici ora ho diritto a tornare presso la sede di Milano, ma l’azienda mi ha detto che il reintegro avverrà a Bari. Sono partito 18 anni fa dalla mia Sicilia, lasciando la famiglia, trovando lavoro e fortunatamente l’amore, comprando casa con sacrifici, adesso mi rispondono che se voglio il lavoro devo andare a 900 chilometri di distanza”. Domenico è uno dei 72 addetti ai call center di Fastweb i quali, poche settimane fa, subito dopo l’arrivo di una sentenza favorevole, hanno ricevuto l’ordine di trasferirsi molto lontano dalla propria abitazione.

In questi giorni stanno lottando contro una decisione che ritengono “ritorsiva”, una punizione perché nel 2012, ai tempi dell’esternalizzazione, si sono rivolti ai tribunali anziché accettare di essere ceduti. La maggior parte di loro, 32 persone, vive nel capoluogo lombardo, altri 23 a Napoli e pochi altri sono sparsi tra Torino, Roma e Catania. La battaglia è durata 7 anni, è stata estenuante ma il lieto fine si è rivelato una beffa. Fastweb dice non sia una vendetta, ma una scelta dovuta al fatto che Bari sarebbe l’unico sito in cui sono attivi i call center. I sindacati invece sono convinti che i dipendenti possano essere ricollocati nelle precedenti sedi. “A Milano ci sono spazi per mansioni analoghe – sostiene Attilio Naddei della Slc Cgil –. Dovrebbero assorbire 32 lavoratori in una struttura che ne conta 1.200, non mi sembra impossibile”.

Il trasferimento come metodo per liberarsi dei lavoratori è una pratica che, secondo i sindacati, è sempre più usata dalle aziende. A volte per sfoltire l’organico, altre volte per dare avvertimenti. Le imprese non vogliono affrontare le conseguenze di un licenziamento, e preferiscono imporre traslochi per indurre il dipendente alle dimissioni volontarie. Mettere alla porta i dipendenti con la tradizionale lettera, infatti, comporta costi economici e danni di immagine, perché si risulta antipatici all’opinione pubblica. Con svariati episodi sia nelle telecomunicazioni che nella grande distribuzione, settori coinvolti da molte crisi.

Altro fronte caldo è l’Ikea di Roma. Nel 2018 gli svedesi hanno avviato una riorganizzazione, prevedendo un accorpamento di figure apicali che da 48 sono diventate 29. “Sapevamo che questo avrebbe creato esuberi – racconta Alessandro Contucci della UilTucs – ma ci avevano assicurato che non avrebbero licenziato. Poi hanno iniziato colloqui individuali proponendo ad alcuni il trasferimento oltre 50 km, ad altri il demansionamento o incentivi per l’uscita. Invogliavano i lavoratori a farsi dire la cosa preferita e proponevano quella più sgradita”. Una mamma single con un bimbo piccolo è stata trasferita a Pisa e ha fatto ricorso, vincendolo. Ikea si è difesa dicendo che “rigetta con forza l’accusa di licenziamenti mascherati. La scelta è stata quella della gestione individuale e responsabile delle singole posizioni con una valutazione congiunta sulle migliori opportunità per ogni lavoratore”.

Costretto al percorso inverso sarà un gruppo di lavoratori della Bricoself, impresa del fai-da-te: l’azienda ha chiuso magazzini e uffici a Rivalta (Torino) e mandato i 66 addetti a Roma. Chi rifiuterà potrebbe essere allontanato per giusta causa. Ecco perché secondo la Fisascat Cisl e la UilTucs “è un licenziamento collettivo mascherato, senza possibilità di usufruire di ammortizzatori sociali e di tutte le tutele”.

La casistica di eventi degli ultimi anni è ricca. Nel 2016 Sky ha chiuso la sede romana e ha licenziato chi non è voluto andare a Milano; poi quei lavoratori hanno vinto il ricorso. Nel 2017 Almaviva ha chiesto ai dipendenti di Milano di accettare un accordo che prevedeva il controllo a distanza delle prestazioni; dopo il rifiuto, ha disposto il trasferimento a Rende, in Calabria, poi bloccato per l’intervento del governo. Sempre nel 2017 la società di call center ha mandato a Catania 155 lavoratori licenziati da Roma e reintegrati dal giudice. Nuova lite davanti ai magistrati, che però due mesi fa hanno annullato la reintegrazione togliendo questo grattacapo all’azienda. Molta indignazione, inoltre, è stata causata da due fatti avvenuti all’Eurospin. Una donna che aveva rifiutato il turno di domenica 31 dicembre è stata trasferita per una settimana a circa 100 chilometri di distanza, mentre un addetto musulmano che aveva reclamato un migliore inquadramento è stato assegnato a una sede che non gli permetteva di praticare il Ramadan. Sabatino Basile della Fisascat Cisl ricorda anche una vicenda che riguarda la catena francese Auchan: prima un tentativo nel 2014 di spostare i lavoratori da Rivoli (Torino) a Cuneo, saltato grazie a una mediazione. “Alla fine del 2017 – racconta il sindacalista – l’azienda ha poi iniziato a chiamare i lavoratori individualmente chiedendo la disponibilità a fare più domeniche al mese e se non avessero accettato non sarebbero più stati utili. In pratica, in caso di rifiuto si prospettava il trasferimento che era stato scongiurato tre anni prima”.

Alitalia, ultimo tentativo di chiudere con Atlantia

Nonostante la minaccia di revocare la concessione ad Autostrade, al ministero dello Sviluppo e a Palazzo Chigi si lavora ancora per chiudere il salvataggio di Alitalia con l’ingresso dell’Atlantia dei Benetton. Ieri, nell’incontro con i sindacati il Mise ha fatto filtrare che si chiuderà entro la scadenza di lunedì e che le Ferrovie – a cui il governo ha affidato il dossier – e il Tesoro avranno la maggioranza della nuova compagnia. L’operazione vale circa 800-850 milioni. In cifre, significa che le Fs avranno il 35% (300 milioni), il Tesoro il 15% (150) così come l’americana Delta (150). Ballano altri 200 milioni. Finora si sono fatti avanti l’imprenditore Carlo Toto (che possiede la Strada dei Parchi), il patron della Lazio Claudio Lotito e il colombiano German Efromovich, azionista di maggioranza di Avianca. Ieri è filtrato che Delta preferirebbe Toto, anche perché Lotito non ha ancora dato le garanzie richieste e su Efromovich pesa il fatto che Avianca fa parte dell’alleanza Star Alliance, concorrente di Sky Team a cui partecipa il vettore italiano.

Dietro questi rumors, però, sembra muoversi qualcos’altro. Da ambienti vicini al dossier filtra al Fatto che l’accelerazione nasce dalla volontà di chiudere con Atlantia, l’unico vero pretendente di peso rimasto (controlla già Aeroporti di Roma). Nei giorni scorsi peraltro qualche segnale di apertura è arrivato. Luigi Di Maio ha confermato la volontà di revocare la concessione ad Autostrade (controllata da Atlantia) dopo la relazione dei giuristi del Mit che confermavano il grave inadempimento del concessionario nel disastro del Morandi di Genova. Ma in una serie di interviste ha anche aperto alla possibilità di rinegoziare la concessione se i Benetton si dimostreranno disponibili a tagliare i pedaggi sulla rete autostradale. La partita potrebbe chiudersi all’ultimo minuto di lunedì.

Addio sicurezza sui treni. I soliti burocrati bloccano la nuova super-agenzia

Gli estasiati cantori della creatività italiana, anziché perdere tempo con il made in Italy, dovrebbero celebrare l’inventiva dispiegata dai burocrati del ministero delle Infrastrutture di fronte a qualsiasi cosa assomigli al cambiamento. Soprattutto se sono minacciate rendite di posizione capaci di trasformare i 200 dirigenti da servitori dello Stato a titolari di un potere privato. I performer del momento sono i dirigenti dell’Ansf (Agenzia nazionale per la sicurezza ferroviaria) e il loro capo, Marco D’Onofrio, stimolati da due minacce esiziali.

La prima è la decisione del ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli di fondere l’Ansf nella nuova Ansfisa, istituita il 28 settembre scorso con il decreto Genova, che somma la competenza sulle ferrovie con quella su strade e autostrade. Toninelli ha avuto l’idea dell’agenzia “a largo spettro” dal suo capo della Struttura tecnica di missione Alberto Chiovelli, già capo dell’Ansf dal 2008 al 2014. E per questo sta ancora cercando di capire come mai, dopo che ha nominato a capo dell’Ansfisa Alfredo Mortellaro – esperto dirigente a cui deve la relazione tecnica sulle responsabilità del gruppo Atlantia nel crollo del ponte Morandi, e soprattutto estraneo alla lobby dei dirigenti ‘ferroviari’ provenienti dal vecchio ministero – proprio Chiovelli gli si è messo di traverso.

Il secondo colpo al sovranismo dell’Ansf è arrivato dall’Unione europea con una direttiva che dal 16 giugno ha trasferito buona parte del potere autorizzativo dall’agenzia nazionale a quella europea, l’Era (European Agency for Railways). Sul punto la creatività di D’Onofrio ha toccato vette finora inesplorate, rivendicate pochi giorni fa in un’orgogliosa lettera “a tutto il personale di Ansf” che vale la pena di citare: “La preparazione al passaggio al nuovo contesto normativo ha comportato inoltre uno sforzo considerevole in relazione alla definizione entro il 14 giugno u.s. dei procedimenti autorizzativi già iniziati con il previgente quadro normativo, evitando in tal modo, laddove possibile, la riattivazione ex novo dei procedimenti non conclusi. (…) È di tutta evidenza che questo sforzo, che ci ha consentito di chiudere nelle scorse due settimane ben 66 procedimenti autorizzativi, non poteva essere raggiunto senza la partecipazione attiva e la straordinaria disponibilità di tutti Voi che, in settori diversi, dimostrando comprensione per la delicatezza dell’attuale momento e conseguentemente mettendo in atto un impegno eccezionale e indispensabile per il raggiungimento dell’obiettivo, avete consentito di superare ogni criticità che veniva a manifestarsi”.

L’archetipo culturale è nell’operazione Alta Velocità. Per aggirare l’obbligo di assegnare gli appalti attraverso gara europea, che sarebbe scattato il 1° gennaio 1992, l’allora capo delle Fs Lorenzo Necci e il suo braccio destro Ercole Incalza si affrettarono ad assegnare nell’agosto del 1991, a trattativa privata, la costruzione delle ferrovie veloci Torino-Milano-Venezia e Milano-Napoli-Salerno ai sei consorzi guidati da Fiat, Iri e Eni. Fu l’ultima grande porcheria della Prima Repubblica e precedette di soli sei mesi l’inchiesta Mani Pulite. A distanza di 28 anni Saipem (ex gruppo Eni) deve ancora mettere giù la prima pietra della Brescia-Padova ma disporrà a suo piacimento della grande opera da miliardi di euro, pagata a pie’ di lista dal contribuente grazie alla non-gara del 1991.

Nel 2019 D’Onofrio fa di più e, se possibile, di peggio, visto che qui non si parla di soldi ma di sicurezza dei treni. Dopo aver ammesso nella sua ultima relazione annuale che nel 2018 gli incidenti ferroviari sono aumentati, e i morti sono arrivati a 75 dai 55 del 2017, si affretta a smazzare 66 autorizzazioni e certificazioni di sicurezza in due settimane. Una delle 66 è quella della rete Fs da migliaia di chilometri, firmata il 14 giugno in zona Cesarini: in pratica autorizza i binari a rompersi un giorno sì e uno no (statistica 2018) ma legittimamente e fino al 20 dicembre 2021, in quanto “attesta l’accettazione del sistema di gestione della sicurezza e l’accettazione delle misure adottate dal gestore dell’infrastruttura”. Il grande economista Piero Sraffa, se si fosse occupato di treni, l’avrebbe definita “produzione di carta a mezzo di carta”. L’Ansf infatti non dispone di ispettori, e vigila sulla sicurezza ferroviaria senza mandare mai un ingegnere a guardare i binari ma limitandosi a leggere con scienza e coscienza le autodichiarazioni delle imprese ferroviarie.

E qui scatta la resistenza passiva contro Mortellaro, nominato direttore dell’Ansfisa il 31 gennaio scorso dal presidente della Repubblica e da allora tenuto sulla porta. Il regolamento e lo statuto della nuova agenzia, proposti da Mortellaro, dovevano essere emanati entro il 31 marzo ma sono ancora appesi al “concerto” tra Toninelli e i colleghi Giovanni Tria (Economia) e Giulia Bongiorno (Funzione pubblica). In realtà il capo della rivolta è proprio Chiovelli che, avendo diretto per sei anni l’Ansf, ne rivendica la perfezione e per questo ha scritto un messaggio riservato al ministro in cui esorcizza il regolamento di Mortellaro come “distruzione di tutto quanto sin qui costruito”. Intanto il comitato direttivo e il collegio sindacale dell’Ansfisa non sono stati ancora nominati. Ci avviciniamo all’anniversario del Morandi con segnali incoraggianti: l’urgenza con cui Toninelli ha messo mano alla sicurezza di ferrovie e autostrade era forse eccessiva. La burocrazia ministeriale (che c’era prima di lui e ci sarà dopo) sta cercando di convincerlo che, grazie a essa, viviamo nel più sicuro dei mondi possibili.

Più che i librai la politica tuteli i lettori

La priorità della politica deve essere tutelare i lettori o i librai? E servono soldi pubblici per questi obiettivi? L’associazione degli editori indipendenti Adei chiede una riforma della legge Levi del 2011: sconti massimi sul prezzo di copertina del 5 per cento invece che del 15, ma un mese di saldi al 20, divieto per Amazon di offrire sconti su altri prodotti a chi compra libri. La motivazione? Piccoli e librai vogliono colpire Amazon e le catene che offrono sconti e servizi accessori, facendo pagare di più i libri al cliente finale. Ma il tutto viene ammantato da principi più nobili: i prezzi scenderanno (!) perché quelli di oggi incorporano lo sconto successivo, bisogna evitare che interi pezzi di Italia restino senza librerie. Ma i 13 milioni di italiani che vivono in territori sprovvisti di librerie possono contare su un’offerta gigantesca e personalizzata su Amazon, le 400 librerie indipendenti che hanno chiuso negli ultimi cinque anni non offrivano evidentemente alcun servizio che rendesse l’esperienza di acquisto diversa da infilare un libro nel carrello al supermercato o fare un clic su un sito. E i piccoli editori hanno davvero bisogno di piccole librerie con piccole clientele per prosperare? Come sempre, in Italia, si cerca di proteggere un modello di business senza prospettive a spese del consumatore o del contribuente anziché immaginare futuri sostenibili e perfino redditizi. È lo stesso percorso seguito per tutelare i negozi nei centri storici, le edicole, i bar. Semplicemente non funziona. Piccole librerie ed editori indipendenti devono prima mettere a fuoco qual è la loro specificità da tutelare, capire qual è nel loro settore il salto evolutivo analogo a quello che è stato Eataly per l’alimentare. Combattere la battaglia per la sopravvivenza sul terreno del nemico, cioè quello del prezzo, significa avviarsi alla sconfitta finale, per quanto una notevole pressione di lobby possa rinviarla di qualche anno.

Stop al saccheggio di gamberetti e merluzzi nello Stretto di Sicilia

Oggi l’Italia chiude le tre zone di salvaguardia marina più cruciali del Mediterraneo, che ha finora lasciato saccheggiare impunemente dai pescherecci. Un decreto del ministero delle Politiche agricole, che ha la delega sulla pesca, pone fine – almeno sulla carta – alla decimazione di gamberi e merluzzi nelle aree di riproduzione dello Stretto di Sicilia. Ma, al tempo stesso, danneggia le comunità di pescatori del litorale meridionale dell’isola che da quei fondali pescosi traggono guadagni. Le reti a strascico vengono messe fuori legge in uno spazio di 1.700 Km quadrati (quasi una volta e mezza Roma) che comprende i due banchi fangosi davanti Mazara del Vallo e Sciacca. Nonché quello più lontano e meno battuto, al largo di Capo Passero (punta sud-est dell’isola). Le tre riserve erano state istituite nel 2016 dalla Commissione globale per la pesca nel Mediterraneo (Gfcm), un’agenzia della Fao preposta alla gestione sostenibile dei nostri mari. Vi aderiscono tutti i Paesi rivieraschi della sponda sud e nord, tra cui Italia, Tunisia e Malta che da anni si contendono porzioni di mare popolate da quantità record di prelibatezze ittiche. Tutte minacciate da eccessive catture di esemplari appena nati che non hanno il tempo di riprodursi.

Finora i tre Paesi hanno violato la decisione della Gfcm consentendo alle proprie flotte di depredare le tre zone. Non a caso, nei piani di gestione negoziati con la Commissione europea nel 2018, l’Italia ha lasciato in sospeso la chiusura delle aree di Mazara e Sciacca, parzialmente ricomprese nelle sue acque territoriali. “Ogni anno le due zone ci offrono, mediamente, quasi 40 tonnellate di merluzzo (il 4% dell’intero pescato italiano nello Stretto) e 100 tonnellate di gambero rosa (il 2%)”, dichiara Domenico Asaro, armatore e rappresentante Federpesca a Mazara. “Ieri la capitaneria di porto ci ha annunciato che non possiamo più andarci, con perdite annuali di 40-50 mila euro a peschereccio”.

L’anno scorso, 75 imbarcazioni, tutte italiane, avrebbero totalizzato 22 mila ore di pesca nell’area sotto Mazara, la marineria più grande (con l’80% del tempo di pesca complessivamente registrato nelle tre aree). Segue con 42 imbarcazioni e 4 mila ore (il 14% del totale) l’area sotto Sciacca che è la comunità più colpita dal divieto, visto il facile accesso finora goduto alla zona antistante (distante neanche 2 Km). Quest’area è condivisa con le marinerie di Licata, Porto Empedocle e Pozzallo che operano, insieme ai maltesi, anche nella zona protetta sotto Capo Passero (6% del totale). I dati, ottenuti in esclusiva dal Fatto, riguardano i pescherecci che hanno all’attivo più di 20 ore di pesca. A elaborarli è stata l’Ong Oceana che li sottoporrà al comitato di vigilanza della Gfcm il 15 luglio. “Abbiamo analizzato i segnali di geolocalizzazione trasmessi dai sistemi anti-collisione (Ais) delle imbarcazioni”, spiega Nicola Fournier, responsabile pesca di Oceana. Che aggiunge: “In base alla posizione, la velocità e le rotte, abbiamo calcolato la durata delle presunte attività di strascico”. Secondo Greenpeace, i pescherecci tricolore sospetti sarebbero quasi 150, compresi quelli con meno di 20 ore di attività. La presenza dei tunisini è per ora trascurabile. Tuttavia, puntualizza Fournier, “le loro imbarcazioni più piccole (meno di 25 metri) sfuggono ai monitoraggi non avendo l’obbligo di installare i sistemi di rilevamento”.

Le incursioni illegali nelle zone vietate sono state confermate dall’Agenzia europea per il controllo della pesca che, solo nel 2018, ha colto in flagrante almeno 26 imbarcazioni. I rapporti delle ispezioni annuali condotte in mare dall’Agenzia, a cui partecipano anche agenti della guardia costiera, sono a disposizione del governo. Per ora niente arresti o multe, stando alle informazioni trasmesse dal ministero secondo cui solo a fine giugno l’Ue, anch’essa parte contraente della Gfcm, avrebbe reso obbligatoria per tutti i Paesi la chiusura delle tre aree. “Una chiusura anticipata da parte dell’Italia avrebbe penalizzato solo gli operatori nazionali, non essendovi garanzie che gli Stati limitrofi avrebbero imposto le stesse limitazioni ai propri pescherecci”, spiega il ministero. Una giustificazione politica contraddetta dal fondatore della Gfcm: la creazione delle tre zone protette (al pari delle altre decisioni) è in vigore per tutti i Paesi mediterranei, Ue e non Ue, già dal quarto mese dopo la sua adozione. Da allora si è accumulato un ritardo di due anni e mezzo. E, a Bruxelles, la Commissione europea non esclude azioni contro l’Italia in caso di prolungata inadempienza.

“È urgente avviare i controlli per far rispettare i divieti e consentire la rigenerazione delle risorse ittiche nelle zone di riproduzione, anche per il bene del pescatori”, commenta Giorgia Monti, responsabile mare di Greenpeace. “Stimiamo che la riduzione dei guadagni, di circa il 10%, sarebbe compensato dall’incremento di pesce e quindi delle catture giornaliere già dall’anno successivo alla chiusura ”, aggiunge Fabio Fiorentino, ricercatore dell’Istituto per le risorse biologiche e le biotecnologie marine del Cnr. “La tutela delle tre aree è condivisibile visto che gli stessi pescatori si lamentano della costante riduzione del pescato, purché si difendano redditi e occupazione”, dichiara Giovanni Basciano, vicepresidente dell’Associazione delle cooperative italiane del settore. Gli fa eco il suo superiore, Giampaolo Buonfiglio: “Il governo eroghi indennizzi tramite il Fondo europeo per la pesca”.

Bombe di Pompei: dormienti come la nostra cultura

È importante parlare di Pompei quando non lo fa nessuno. In Italia, il giornalismo sul patrimonio culturale è o emergenziale (crollo a Pompei) o apologetico (“Rivoluzione a Pompei: tutto va bene!”). La città morta vesuviana è forse il luogo dove appare nel modo più clamoroso la nostra estraneità al patrimonio culturale. Dove le bombe inesplose potrebbero continuare a dormire per decenni, prima che i nostri scavi le raggiungano.

Una bomba inesplosa è, a pensarci, una metafora perfetta per una città antica che ancora dorme sottoterra, per un patrimonio le cui potenzialità culturali, civili, politiche nel senso più alto rimangono inattuate. A partire dal secondo paradosso che l’inchiesta di Sherlock finalmente ha messo in luce con terribile evidenza: a Pompei la città dei morti sembra quella dei 25.000 abitanti raccolti intorno al santuario. Non è mai esistita una politica culturale che provasse a legare le due Pompei: e quando, pochi mesi fa, un gruppo di ragazzi pompeiani ha proposto un accesso agevolato dei residenti agli scavi, non è stato neanche ricevuto dal soprintendente. Eccola, una rivoluzione possibile: fare amare Pompei – e tutto il patrimonio culturale italiano – dal “prossimo suo”. E cioè da chi le vive accanto, senza accorgersene. Se smettessimo di misurare il successo dei direttori dei grandi siti culturali italiani dal successo al botteghino (i biglietti venduti), e iniziassimo a valutarli dalle ricadute cognitive, dalla coesione sociale e dalla felicità indotte nei residenti del territorio dove si trova il loro sito, ebbene inizieremmo ad avvicinarci al progetto della Costituzione sul patrimonio culturale. E invece ne siamo lontanissimi, e un muro invisibile ma invalicabile continua a dividere le due Pompei.

Ci sono altre partite cruciali che (anche) a Pompei continuiamo a perdere. Quella forse più importante riguarda le persone che ci lavorano. Tendiamo a non pensare mai che il patrimonio culturale sia un luogo di lavoro, dove si combatte per la dignità e per i diritti dei lavoratori. E invece, forse, è proprio questo il punto più importante. C’è il personale della vigilanza: gestito da Ales, società strumentale del ministero per i Beni culturali che può agire come un privato, e dunque usando e abusando del lavoro precario, a tempo, a diritti ridotti… Laureati e dottorati che per disperazione accettano di fare i custodi, e che si trovano con un compito immane: per il loro numero terribilmente esiguo (quando Renzi venne a inaugurare le “nuove” domus, altrettante delle “vecchie” furono chiuse, per mancanza di personale); per il totale abbandono a se stesso di un pubblico difficile da gestire (frequentissimi gli alterchi con visitatori che pretendono di fumare negli scavi, per dirne una); per gli stipendi risibili. E poi il problema dei problemi: quello della comunità scientifica residente, che oggi si conta sulle dita delle mani e che dunque è invariabilmente oberata dalla gestione dell’esistente.

In qualunque altro Paese occidentale, Pompei sarebbe diventato da decenni il più importante centro di ricerca archeologico, con centinaia di studiosi di varie competenze – archeologi, ma anche filologi, storici e mille altri – assunti a tempo indeterminato. E non solo umanisti: perché se è vero che non esiste un altro laboratorio “naturale” altrettanto vasto e promettente per la conoscenza del mondo antico, è anche vero che salvare una città antica ritornata alla luce e oggi senza né tetti, né fogne è una sfida tecnologica appassionante.

Se avessimo la capacità di fare sistema e avviare una vera ricerca, Pompei potrebbe ancora essere la nostra “corsa alla Luna”. Non il merchandising, il marketing delle pubbliche relazioni, il circuito parassitario e clientelare dei “servizi aggiuntivi”: ma ingegneri, fisici, chimici e tanti altri ricercatori, a inventare soluzioni innovative che avrebbero mille ricadute per la vita quotidiana e l’industria italiane. Invece nulla, la bomba di Pompei rimane sepolta e inesplosa: fino a quando?

Di cosa stiamo parlando

Sherlock, per la sua prima inchiesta, è andato a Pompei. Nell’area da scavare del Parco archeologico (nelle “Regiones” I-III-IV-V-IX), si nascondono almeno dieci ordigni inesplosi.
Ma, nel nostro viaggio in uno dei siti più famosi al mondo (oltre 3,6 milioni di visitatori all’anno), vi abbiamo raccontato non solo la “città dei morti”. Nel “mondo dei vivi”, ci sono almeno altre due città: quella degli abitanti
di Pompei e quella dei turisti religiosi del Santuario. Si sfiorano tutte, ma senza mai incontrarsi

Tornare alla Carta per il buon governo delle cose pubbliche

La campagna per la raccolta delle firme proposta dal Comitato Rodotà (www.generazionifuture.org) volta a introdurre stringenti regole giuridiche per limitare le privatizzazioni e al contempo porre le basi per costruire nuove istituzioni capaci di governare i beni comuni ha imboccato l’ultimo mese. Il 26 luglio è stato dichiarato il “firma day” nazionale e tutti gli italiani saranno invitati a recarsi presso un qualsiasi Comune per apporre la loro firma alla legge di iniziativa popolare che in questi mesi ha riaperto in Italia la discussione sul “benicomunismo” come alternativa a tutto tondo, capace di indicare una via di uscita ecologica e sostenibile ai nostri attuali drammatici problemi.

In effetti, vendere i gioielli di casa non può essere una soluzione di lungo periodo perché prima o poi questi finiscono. Storicamente il sollievo economico generato dalle privatizzazioni è risultato assai effimero, come ampiamente dimostrato dalle svendite dei primi anni 90 (150 miliardi circa) che avrebbero dovuto abbattere il rapporto debito/Pil risultando purtroppo prive di alcun impatto altro rispetto all’arricchimento dei soliti acquirenti amici degli amici nonché della classe manageriale. Bene dunque che se ne sia discusso in un interessante convegno di raccolta firme organizzato ieri al Cnel dal Comitato Rodotà romano, in cui insieme al sottoscritto sono stati invitati Rossana Dettori, responsabile delle riforme istituzionali della Cgil, Nicola Fratoianni della Sinistra Italiana, il viceministro dell’Università grillino Lorenzo Fioramonti, e Dario Corallo, giovane esponente Pd, candidato alle primarie e molto attivo nella raccolta firme a Roma.

Si è trattato di una discussione di ottimo spessore politico che ha provato a mettere al centro alternative concrete di buon governo delle cose pubbliche, per una volta provando a uscire dalla logica emergenziale del qui e adesso per immaginare invece una alternativa politica con la P maiuscola. Al centro della riflessione è stata l’attualità della nostra Costituzione economica, la quale aveva posto e ancora pone buone basi istituzionali per configurare un’economia mista capace di garantire uguaglianza sostanziale e inclusione sociale autentica. In particolare la “comunità di utenti e lavoratori”, che l’articolo 43 considera legittimata a gestire i più delicati processi economici monopolistici nell’interesse generale, deve poter fiorire per essere alternativa ai concessionari predatori resi tristemente celebri dal crollo del Ponte Morandi. A tal fine è necessario che i beni comuni siano riconosciuti politicamente e giuridicamente come solida alternativa al duopolio fra pubblico e privato le cui collusioni ai danni della cittadinanza sono sotto gli occhi di tutti.

Il pieno riconoscimento di questa nozione dai caratteri nettamente ecologici è stata l’ultima battaglia del grande Rodotà, quella che aveva portato lui e gran parte dei benicomunisti a esprimersi favorevolmente rispetto alla candidatura presidenziale del 2013 in quota a un Movimento 5 Stelle allora lontanissimo dall’abbraccio letale della Lega. Chissà che, toccato il fondo, non sia proprio dai beni comuni che possa ripartire una coalizione ampia e variegata che faccia della serietà istituzionale, dell’ambientalismo vero e dell’inclusione sociale fondata sui diritti individuali e i doveri di solidarietà sociale la propria bandiera. In nome di Stefano Rodotà e delle sue battaglie che abbiamo il dovere di proseguire.