La guerra degli ultimi: nessun aiuto ai migranti ma neanche agli italiani

La domanda sorge spontanea, come si dice: ma ora che si combatte una guerra senza quartiere a dei poveracci che rischiano la pelle nell’attraversamento del Mediterraneo, ora che le statistiche farlocche di Salvini dicono “meno sbarchi”, ora che il Paese pare essersi piegato alle scemenze del tipo “non possiamo accoglierli tutti”, ora, dico – qui e ora – per i famosi italiani che vengono “prima”, è cambiato qualcosa? Voglio dire: più reddito? Migliori condizioni di lavoro e di vita? Sono forse più felici? Garruli? Spensierati? Guardano al futuro con rinnovata fiducia?

Della propaganda salviniana, culminata l’altro giorno con il patetico “mi sento solo” (cfr, il Gassman de I soliti ignoti: “M’hanno rimasto solo, quei quattro cornuti!”) e rinfocolata ogni giorno da minacce e proclami, si vede solo una sponda: quella dei non italiani che vengono “dopo”, mentre degli italiani, che verrebbero “prima”, si dice poco e niente.

Non irrita solo la propaganda del capo, che deve trovare ogni giorno un nuovo nemico per applicare la sua tattica di incattivimento guidato delle masse, ma anche quella dei subalterni, sottoposti, dipendenti e famigli, inclusi gli strilloni da talk show. Caso di scuola, infinite volte ripetuto: ecco!, aiutano gli africani e non i poveri terremotati italiani! Che è forse il trucchetto più semplice per fregare la gente: fare leva su una (presunta) ingiustizia e promettere di sanarla, una cosetta che funziona sempre. Naturalmente è una fesseria, anzi peggio, è il solito trucchetto di indicare ai penultimi gli ultimi, e aizzarglieli contro. Peccato però che se cerchi “Lega-terremotati”, oppure “Lega-terremoto”, per trovare tracce di questo solennissimo e umanissimo appello di levare soldi agli stranieri cattivi in mezzo al mare per darli ai poveri terremotati di collina, trovi come primo risultato la storia del sindaco di Visso Pazzaglini (Lega). Accuse di peculato e abuso d’ufficio per un bel po’ di soldi destinati ai “poveri italiani terremotati” finiti su conti correnti privati. Ahi, ahi, ahi. La giustizia farà il suo corso, per carità, ma intanto la favola bella del “fermiamo gli stranieri per fare un favore a voi italiani” si sporca un bel po’: gli stranieri li fermano (o dicono di), ma il favore per gli italiani non arriva, nemmeno per quelli di Visso. E i “poveri terremotati italiani” restano lì, alcuni con le macerie, le zone rosse, le recinzioni, le casette già marce, la ricostruzione ferma. Nessuno di loro, nemmeno per un istante, pensa di non riavere una casa, o il suo centro storico, o le scuole, per colpa di una quarantina di naufraghi stipati su una barca a vela.

Il fatto che il ministro dell’Interno si sia auto-incoronato con l’auto-interim alla Difesa, all’Economia, alla Giustizia e agli Esteri (più altre cariche che si appiccica sul bavero della felpa quando conviene), complica le cose. Ci sono due guerre in corso, al momento: una di Salvini verso le Ong, partita in cui finora ha perso quattro a zero pur continuando a fare leggi su misura per batterle (e bis, e tris, per le leggi su misura, pur avendo frequentato per anni l’ambiente berlusconiano, non ha imparato molto); l’altra, quella di Salvini contro tutti i ministri che non si chiamano Salvini. Bello spettacolo, ma in ogni caso, per gli italiani che dovrebbero venire “prima”, niente, zero, solo il biglietto gratis per lo spettacolino. Forse vengono prima nell’essere presi per il culo da Salvini che, comunque, è già un “prima”.

Poi, forse, un giorno si farà il conto – economico, soldi, euro, dané – di quanto costa il rimpiattino di Salvini con due o tre navi umanitarie, tra motovedette, Marina, udienze, sequestri, trasferimenti, burocrazia, avvocati e altro. E si scoprirà che le guerre di Salvini sono un po’ care, dispendiose e che le pagano (prima) gli italiani.

Un’altra università è possibile

Signor Presidente della Repubblica, Signor Presidente del Consiglio, Signor Ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca, le continue e costanti notizie della rete di scandali legati alla irregolarità dei concorsi universitari pongono una riflessione che è ad un tempo profonda e di sistema. Non ci troviamo, purtroppo, di fronte a fatti episodici, quanto piuttosto davanti a un malcostume diffuso, una rete di comportamenti illeciti estesa a molti Atenei, che richiede una presa di coscienza collettiva e un intervento riformatore radicale. […]

Occorre assicurare all’istruzione, formazione e ricerca i più alti standard qualitativi e non livellarle verso il basso attraverso sistemi di reclutamento fondato non sulla competenza, sulla valutazione comparativa dei titoli e delle pubblicazioni, bensì sullo scambio di favori, dove ogni concorso pubblico appare già scritto e predeterminato nel suo esito. In una parola: una farsa. […] E la gravità dei fatti denunciati e al vaglio della magistratura in Università come Catania, Firenze, Roma, Chieti, Bologna, Messina e tante altre, pone il problema di una vera e propria emergenza istituzionale e costituzionale. […]

In questi anni, in parte, la magistratura si è attivata su singoli casi ed ha cercato di fare chiarezza, ma pressoché sempre l’Università si è opposta compatta a qualsiasi ingerenza non della politica ma della legge. […] Il mondo accademico, nella sua grande maggioranza, ha deciso di comportarsi come un fortino asserragliato, come una torre d’avorio fatta da intoccabili, come una conventicola nella quale è impossibile dialogare e mettersi in discussione. Questa lettera è un Appello per una Università diversa. […]

Le nostre proposte le abbiamo fatto pubblicamente, insieme ai colleghi di “Osservatorio indipendente sui concorsi universitari”: riduzione dell’autonomia alle università; abolizione dei concorsi locali e attivazione di commissioni nazionali sorteggiate (tra tutti i docenti dei settori, quindi sorteggi veri) allargate ad almeno 5-7 membri; punteggi per titoli e pubblicazioni stabiliti a livello centrale dal Miur e uguali per tutte le classi di concorso (dal dottorato ai concorsi per ordinario) ed obbligo da parte delle commissioni di motivare i punteggi; penalizzazioni in percentuale sui fondi ordinari per gli atenei che si rendono colpevoli di non vigilare con i loro uffici sulle irregolarità (ad esempio il 3-5% in meno per chi propone bandi profilati, per chi non sanziona conflitti di interessi e illogicità di valutazione e non adegua le commissioni alle norme previste dall’Anac); sospensioni e multe pesanti per i commissari che si sono macchiati di irregolarità a livello di giustizia amministrativa o di reati penali ai concorsi. La legge 240/2010, meglio conosciuta come “Legge Gelmini”, a quasi dieci anni dalla sua promulgazione, se pure ha permesso ai candidati penalizzati ingiustamente di ricorrere alla giustizia amministrativa con più agilità, ha dimostrato più in generale il suo fallimento. Il sistema dell’abilitazione scientifica nazionale, così come quello delle procedure comparative, per come è applicato oggi, ha dimostrato tutta la sua inefficacia: il 96% dei vincitori di concorsi universitari è un interno, pochissimi concorsi con più di 2-3 concorrenti nonostante le migliaia di abilitati scoraggiati dal sistema baronale che li regola, età media troppo elevata della classe docente universitaria. Un Paese che fonda il suo futuro su una classe docente universitaria selezionata in questo modo da chi viola le leggi è un Paese che non ha futuro!

Per questi motivi oggi siamo qui, in qualità di rappresentanti non dell’Università che emerge dalle intercettazioni della magistratura, che appare profondamente malata – di una malattia che sembra quasi insanabile – ma in rappresentanza di quella parte del corpo docente e ricercatore, che speriamo diventi presto maggioranza. […] È necessario uno scatto di orgoglio da parte di quella componente seria, buona e onesta del mondo universitario, affinché l’istituzione esca dall’ignobile pantano delle inchieste giudiziarie e da un sistema di potere clientelare e autogestito, e si affidi invece all’efficienza e al buon andamento imposto dall’art. 97 della nostra Costituzione.

Noi abbiamo combattuto finora le nostre battaglie in nome di questi principi, ma sappiamo bene che senza un grande movimento di opinione, senza l’aiuto della stampa e dei media, senza l’impegno istituzionale delle alte cariche dello Stato, senza il coinvolgimento di quella parte delle forze politiche che intende, non a parole ma con i fatti, rinnovare e riorganizzare l’università italiana, tutto ciò rimarrà come un grido nel deserto: in tal caso sarebbe l’ennesima occasione sprecata per il futuro dei nostri giovani.

Catania, 9 luglio

Truppe in Siria. Un rifiuto sotto traccia che non cambia l’assetto Italia-Usa

 

Ho letto ieri l’articolo “l’Italia dice no agli Usa: niente truppe in Siria” e mi sembra evidente che il nostro Paese abbia sposato la linea di Berlino. Se l’Italia come la Germania si rifiuta di mandare soldati e aerei in Siria, acconsentendo solo al “supporto umanitario”, è lecito pensare che stia cambiando qualcosa nell’assetto internazionale dell’Europa rispetto ai diktat di Washington. Insomma, l’Italia e la Germania voltano le spalle a Trump oppure si tratta di un diniego di poco conto?

Aldo Morra

 

Caro Aldo, la Siria è sempre stata, fin dalle prime battute della guerra civile che la insanguina dal 2011, un contesto bellico di alleanze e presenze a geometria variabile. Molti erano pronti a partecipare alla coalizione anti-Isis, pochi ad avere uomini sul terreno. Gli Stati Uniti di Barack Obama sono stati protagonisti riluttanti e quelli di Donald Trump non vogliono essere protagonisti per nulla, al punto che il magnate presidente ha più volte annunciato il richiamo di tutte le unità di terra – talora, trascurando d’informarne i militari. Dal canto suo, l’Italia non ha mai considerato la Siria un’area di proprio interesse strategico – specie se confrontata con la Libia, ad esempio: il suo impegno nella Regione è già importante nell’Unifil, cioè nella forza d’interposizione dell’Onu schierata in Libano, lungo il confine a nord d’Israele, di cui al momento assicura il comando. Il che ha ieri consentito al ministro degli Esteri Enzo Moavero di dire: “Esiste già un nostro impegno nell’area, importante, significativo e riconosciuto nella sua rilevanza. Questo rende un eventuale ulteriore impegno tutto da verificare e tutto da discutere”. Per potersene venire via, gli Usa sondano gli alleati per rimpiazzarli: lo hanno fatto, informalmente, anche con l’Italia e con la Germania, ricevendo rifiuti che non mi pare, però, spostino gli equilibri dei rapporti tra Paesi europei e Stati Uniti. Dal punto di vista della capacità di sottrarsi, come dice lei, ai diktat di Washington, la partita sull’Iran mi pare molto più significativa di quella che si gioca attualmente in Siria, dove siamo ai colpi di coda del conflitto e dove l’Isis può considerarsi sconfitto e il regime di al-Assad vittorioso con il suo alleato russo. Ciò detto, siccome nessuno vuole mai dire apertamente no agli Stati Uniti, così come gli Stati Uniti non gradiscono rifiuti pubblici alle loro richieste, tutto avviene sotto traccia, almeno da noi: nessuna richiesta ufficiale è pervenuta, o è stata fatta, possono dire, senza mentire, le diplomazie italiana e statunitense. Più espliciti i tedeschi: “Il governo tedesco – ha detto il portavoce Steffen Seibert – continua a fare parte della coalizione anti-Isis, ma senza truppe di terra”.

Giampiero Gramaglia

Mail box

 

Siamo così sicuri che la Cina sia ancora un gigante?

Ormai i media si sono adeguati a una narrazione mainstream che descrive la Cina come un gigante invincibile lanciato alla conquista del mondo. In realtà è vero esattamente l’opposto, perché la Cina deve affrontare problemi interni ed esterni molto più grandi delle proprie forze. Ciò che è accaduto a Hong Kong ne è la prova lampante, con una reazione inaspettata dei cittadini contro le pretese del regime di Pechino. Ancora più serio e profondo è il contenzioso con Taiwan, che dal punto di vista politico è la negazione del principio di un’unica Cina. La verità che i politici cinesi non hanno il coraggio di affrontare è che nel corso della storia si sono formate tre entità politiche indipendenti, ossia la Repubblica Popolare Cinese, Taiwan e Hong Kong. Riportare tutto sotto il controllo di un unico potere centrale, autoritario e liberticida, è un’impresa rischiosa, e con risvolti imprevedibili. Ciò che manca attualmente ai politici cinesi è una prospettiva alternativa al loro modello dirigista, centralizzato e monopartitico, insomma gli manca la democrazia.

Cristiano Martorella

 

Con l’autonomia alle Province non rischiamo la secessione

Non v’è alcun dubbio che l’autonomia in teoria non può che essere bella, ma quando si decide di realizzarla, i pericoli, specie in Italia, sono a dir poco terrificanti. Diceva Montanelli e lo ripete il suo discepolo Travaglio, che gli italiani hanno la memoria corta. Questa è la fortuna dei furbastri che ci governano. L’esempio più classico ci è dato da quei leghisti che volevano la secessione e ora propongono l’autonomia delle Regioni. È l’ultima picconata all’Italia che traballa sotto i colpi dei barbari.

Trent’anni fa iniziai la mia sterile battaglia per l’abolizione delle Regioni e oggi cerco di riprenderla facendo una proposta: aboliamo le Regioni e concediamo alle vecchie Province, ingiustamente abolite, la stessa autonomia di Trento e di Bolzano.

L’operazione dovrebbe avvenire, nella peggiore delle ipotesi, a costo zero, ma secondo i miei calcoli dovrebbe farci risparmiare qualche miliardo e riavvicinare seriamente la gente alle stanze del potere. Difficile pensare all’autonomia di una piccola Provincia che si trasforma in secessione: facile pensare a un lombardo-veneto che se ne va sbattendo la porta.

Angelo Casamassima Annovi

 

Se Salvini è quello che è lo si deve anche a Di Maio

Di Maio non solo non ha contrastato Salvini, ma assecondandolo con l’intento di fare il reddito di cittadinanza gli ha permesso di diventare di fatto il capo del governo. Indubbie le sue qualità mediatiche, ma non avesse avuto la visibilità e il ruolo di governo avrebbe dovuto convincere gli italiani!

Adriana Re

 

Un conto è Carola Rackete, un altro è Fratoianni

La vicenda della Sea Watch mi ha visto schierarmi umanamente con la sua capitana Carola Rackete. Ho sostenuto la sua disobbedienza civile non per qualche mal posto senso di giustizia né per veicolare qualche messaggio politico a scapito delle leggi dello Stato, ma perché c’erano decine di persone usate strumentalmente (da Salvini? dalla capitana? poco conta) le quali non dovevano più essere usate. Immediatamente. E questo, per me, vale la violazione delle leggi. Ora, con la vicenda della Mediterranea è diverso. Qui, la differenza etica è importante, non si tratta più di disobbedienti civili mossi da nobili cause umanitarie, ma di uomini che, per quanto mossi da nobili cause, usano strumentalmente i migranti per trarne vantaggio. Carola Rackete non è candidata in Italia, non ha interessi politici ma umani, Nicola Fratoianni invece di interessi ne ha parecchi, e politici, non umani.

G.C.

 

Conte e Tria sono gli unici punti fermi del governo

Non è certo uno spettacolo politico edificante vedere il governo che è ritornato a litigare al suo interno, dopo il successo europeo con l’accettazione dell’assestamento del nostro bilancio; né le opposizioni sempre più monotone. I due punti fermi di questo governo, se non si vuole la crisi, sono il premier Conte, capace di mediare dentro il governo e in Europa, e il ministro dell’Economia Giovanni Tria, il quale si è saputo districare tra scelte governative di crescita e richieste europee di rispetto di parametri rigidi e recessivi per il nostro Paese.

Luigi Ferlazzo Natoli

 

I nostri errori

In relazione all’articolo dal titolo “Tra lobbisti e ricorsi, la guerra del Superenalotto” pubblicato il 29 marzo 2019, a seguito dei chiarimenti intercorsi siamo lieti di dare atto che il prof. Gaetano Caputi non ha, e non ha mai avuto, rapporti di collaborazione o consulenza con la società Lottomatica né ha mai “gravitato intorno alla galassia” della suddetta società. Anche per queste ragioni e perché ne era completamente estraneo non è mai stato in grado di influire sulla gara per l’assegnazione del Superenalotto, del cui stato ha appreso la notizia solo attraverso l’articolo de Il Fatto.

Bakadima: “Varoufakis è l’alternativa”

Il nuovo partito MeRa25, fondato dall’ex ministro delle Finanze Yanis Varoufakis, ha ottenuto 9 seggi alle elezioni di domenica scorsa. La più giovane, nonché debuttante, delle quattro donne che siederanno in Parlamento è Fotini Bakadima.

Perché eravate convinti di poter superare la soglia del 3%, pur non essendo riusciti a entrare nel Parlamento europeo dove era candidata?

Perché MeRA25 è rimasta fuori da Bruxelles solo per una manciata di voti e perché il nostro programma può cambiare la vita dei greci. Inoltre siamo un partito molto eterogeneo che include radicali, socialisti e liberali. Persone che hanno deciso di cooperare per combattare l’austerità sterile accettata dal precedente governo, costringendo decine di migliaia di giovani, la maggior parte laureati, a emigrare.

Sommando i voti dei partiti di centrosinistra e di sinistra, emerge un fronte politico uguale in termini di voti a quello conservatore. Perché anche in Grecia la sinistra non riesce a rimanere unita?

MeRA25 era pronto a discutere, sulla base del suo programma, con gli altri partiti di sinistra e centrosinistra, creando un fronte di resistenza alla destra, ma ciò non è stato possibile a causa della riluttanza dei nostri colleghi. Voi sapete di cosa sto parlando. Anche in Italia è accaduta e accade la stessa cosa.

La Grecia è un paese conservatore o la vittoria di Nea Demokratia ha ragioni che non hanno più a che vedere con le categorie storiche della destra e della sinistra?

Questa volta, a nostro parere, la vittoria di Nea Demokratia è una chiara disapprovazione dell’ipocrisia e delle promesse tradite da Tsipras con la firma del memorandum post-referendum del luglio 2015. Syriza ha fatto la stessa politica di Nea Demokratia e molti elettori non hanno voluto saperne di riconsegnargli il Paese.

Adidas, assolto Tapie dalla frode: Lagarde è salva

Non c’è stata alcuna truffa nell’arbitrato sulla vendita di Adidas che nel 2008 aveva fruttato a Bernard Tapie più di 400 milioni di euro: a sorpresa ieri il tribunale di Parigi ha scagionato l’uomo d’affari da tutti i capi di accusa nel processo sul tentacolare caso giudiziario che a un certo punto ha incrociato la strada di Christine Lagarde, la futura direttrice della Banca Centrale Europea.

Niente frode, dunque, hanno deciso i giudici, tutti prosciolti, compreso Stéphane Richard, attuale amministratore delegato del gruppo di telecomunicazioni Orange (di cui lo Stato detiene il 23 per cento) ed ex capo di gabinetto della Lagarde, che all’epoca dei fatti era la ministra dell’Economia di Nicolas Sarkozy.

Tutto era iniziato nel 1992. Tapie, personaggio di colore, ex attore, ex ministro, ex proprietario del club di calcio Olympique Marseille, aveva ceduto Adidas per 320 milioni di euro alla banca Crédit Lyonnais, all’epoca di proprietà dello stato francese, che l’anno dopo ha rivenduto il marchio di sport, ottenendo il doppio. Tapie si era ritenuto truffato e ne era nato il lungo contenzioso. Nel 2007 la Lagarde, consigliata dal suo capo di gabinetto, aveva accettato di ricorrere ad un arbitrato privato pur di chiudere l’insolubile caso. Nel 2008, la decisione arbitrale aveva accordato a Tapie 403 milioni di liquidazione. La sentenza di ieri era del tutto imprevista, dopo che la pubblica accusa aveva chiesto cinque anni di reclusione per Tapie per “manovre fraudolente” e tre per Richard.

La decisione sembra anche scontrarsi con un’altra sentenza civile del 2015, in cui la Corte d’appello di Parigi aveva annullato l’arbitrato e imposto a Tapie di restituire la faraonica somma di denaro, accusandolo di truffa insieme a tutti gli altri protagonisti della vicenda, compreso Richard. L’“affaire Tapie” è l’unica macchia nel cv di tutto rispetto di Christine Lagarde, che si prepara a lasciare il Fondo Monetario Internazionale per prendere il posto di Mario Draghi a Francoforte.

Nel 2016 la stessa Lagarde era stata giudicata colpevole di “parziale negligenza” dalla Corte di giustizia della Repubblica, un’istanza controversa, composta da magistrati e parlamentari, che si occupa dei processi dei ministri. Nessuna pena era stata però richiesta contro di lei, né la sentenza era stata iscritta nel casellario dell’ex ministra, che quindi aveva conservato la fedina penale pulita e così la testa del Fmi. In questa vicenda, paradossalmente, è lei la sola a essere stata condannata, anche se quella condanna “simbolica” non ha mai inciso e continuerà di sicuro a non incidere sulla sua carriera. Tapie, 76 anni, gravemente malato, esce a sua volta pulito dal feuilleton giudiziario. Ma il tribunale ieri non ha annullato la sentenza civile, per cui dovrà comunque rimborsare i famosi 400 milioni.

Grecia, i ministri di Mitsotakis: uomini, tecnici e tanti riciclati

La prima photo opportunity del nuovo governo monocolore di centrodestra mostra una siepe fittissima di uomini in nero da cui spuntano sparuti volti femminili. “È la restaurazione, bellezza!”, sembra sul punto di pronunciare con sorriso sornione e sguardo ammiccante, rivolto alle telecamere, il neo primo ministro cinquantenne Kyriakos Mitsotakis, con il suo piglio da yuppie anni Novanta.

Nonostante l’espressione soddisfatta del leader e dei ben 51, tra ministri e viceministri, il titolare del cruciale dicastero delle Finanze, Christos Staikouras, tuttavia ha già dovuto mandare giù, seppur indirettamente, un boccone assai amaro offerto come benvenuto da Bruxelles. I creditori europei hanno rigettato la sua richiesta di ammorbidire gli obiettivi economici imposti al predecessore “comunista” di Syriza. Il presidente dell’Eurogruppo, Mario Centeno, è stato chiaro e tranchant: “Gli accordi sono accordi”.

Kyriakos Mitsotakis, che i mercati hanno immediatamente salutato con entusiasmo dopo la prima proiezione del risultato elettorale, ci riproverà senza dubbio di persona quando il prossimo mese volerà da Angela Merkel per il suo primo viaggio di Stato. Il rampollo della dinastia conservatrice più longeva e potente della Grecia post-dittatura, è infatti ben consapevole di aver vinto le elezioni anticipate di domenica scorsa proprio grazie alle promesse di rendere il paese più favorevole alle imprese, tagliare le tasse e negoziare un allentamento delle condizioni di bilancio draconiane concordate come parte del programma di salvataggio del Paese.

Il nuovo premier, allo scopo di convincere i creditori, ha nominato molti politici di lungo corso del blocco liberista, che hanno prestato servizio nei precedenti governi del proprio partito, Nea Demokratia. Ma, per tentare di riorientare la nave greca, ancora sorvegliata speciale dall’ex Troika, ha formato un equipaggio composto anche da molti tecnocrati considerati esperti nei loro campi. Christos Staikouras, economista e ingegnere ma anche ex viceministro in un precedente governo targato Nea Demokratia, dovrebbe realizzare la convergenza di questa impostazione di governo. Anche se il suo esordio in veste di ministro più importante non lascia presagire che otterrà ciò a cui aspira maggiormente.

Per quanto riguarda la politica estera, sempre più strategica non solo a causa del dossier Cipro – che vede la Grecia in continua frizione con la vicina Turchia – il nuovo condottiero è Nikos Dendias. Anche per lui non si tratta del primo incarico: in passato ha prestato servizio in posizioni di rilievo presso i ministeri dello sviluppo, della difesa e dell’ordine pubblico. A un ex ministro dell’ordine pubblico in un precedente esecutivo socialista, Michalis Chrisohoidis, sono state consegnate di nuovo le redini del ministero. Non era scontato che il “controrivoluzionario” Kyriakos imbarcasse un ex socialista.

Il ritorno di Adonis Georgiades, ministro della salute nel governo Samaras del 2012, colui che impose per la prima volta il ticket sui medicinali ma, al contempo, impose una riduzione del loro prezzo, è stato salutato con favore soprattutto dall’ala più di destra di Nea Demokratia visto che l’ex televenditore è stato a lungo esponente di punta e parlamentare del partito ultranazionalista di estrema destra Laos. Mitsotakis insomma tenta di spacciare per un nuovo piatto una pietanza a base di tecnici ma il retrogusto è quello di sempre. La spolverata di ministeri creati ex novo non è detto che la renderà più digeribile. Nel tardo pomeriggio di ieri il ministro dell’energia Costis Hatzidakis ha annunciato che il nuovo esecutivo lavorerà subito a un piano per aiutare l’azienda statale di pubblica utilità (Ppc), che è “sull’orlo del collasso”.

Brexit, Corbyn si schiera: “Referendum per il Remain”

“Chiunque sia, il nuovo primo ministro dovrebbe sottoporre il suo accordo, o il no deal, al verdetto della gente in una pubblica consultazione. In questo caso, il Labour farà campagna pro-Remain, per opporsi a una uscita senza accordo o a un accordo dei conservatori che non protegga l’economia e il lavoro”.

Dopo lunghi mesi di ambiguità e di pesantissime pressioni di una parte della sua segreteria e della maggioranza degli iscritti al partito, ieri Jeremy Corbyn ha richiesto, pubblicamente, un secondo referendum su Brexit, scegliendo il campo del Remain. A determinare la svolta è stato l’ok della 5 principali sigle sindacali, che lunedì hanno concordato la nuova linea. I sindacati sono favorevoli a un referendum confermativo anche nel caso improbabile che Corbyn vada al potere e sia in grado di riaprire il negoziato con Bruxelles. Tutto chiaro? Non proprio. Perché, da quello che è dato capire, per Corbyn la scelta pro-Remain vale solo per scongiurare lo spettro sempre più reale di un no deal o di una uscita svantaggiosa per i lavoratori. E in caso di elezioni? A domanda diretta il segretario ha risposto che su questo non c’è ancora una posizione ufficiale, ma che prenderebbe una decisione “molto rapidamente”. Le circostanze, evidentemente, sono di opportunità elettorale. Anche perché il suo annuncio ha scatenato le rimostranze dei parlamentari laburisti di distretti pro-Leave, che gridano al tradimento e possono determinare l’esito di una eventuale corsa a Downing Street.

Epstein e i “Lolita Express”. I voli a tutto sesso per i vip

È vero che l’Italia “vive una pericolosa deriva sessista” e Salvini dà il pessimo esempio, come denuncia Vincenzo Spadafora, sottosegretario dei Cinquestelle. Ma è un déjà vu. Sperimentato al tempo di Berlusconi e delle cene “eleganti” ad Arcore. Però siamo ancora dei dilettanti rispetto a quel che succede in America. Come dimostra il clamoroso arresto del miliardario Jeffrey Epstein, 66 anni, accusato di pedofilia e di sex traficking, fama di filantropo.

Invece celava un osceno lato dark: sesso a go-go con minorenni, “prestate” ad amici e clienti. L’hanno ammanettato mentre sbarcava a Tereboro, nel New Jersey, da uno dei suoi due jet privati, quello – guarda caso – ribattezzato dagli amici “Lolita Express”, mica per onorare il grande scrittore Nabokov, ma per enfatizzare gli optional dei voli esclusivi, con ragazzine che rendevano le trasferte più piacevoli… Su quel jet avrebbe viaggiato molte volte Bill Clinton. Senza scorta e senza staff, secondo certe rivelazioni giornalistiche. L’ex presidente Usa ha sdegnosamente rigettato i sospetti, il suo ufficio stampa conferma che è stato ospite quattro volte di Epstein, ma a bordo c’erano gli agenti segreti della scorta e i collaboratori: una volta si è recato in Europa, un’altra in Asia e due in Africa. Tutte trasferte per conto della Clinton Foundation.

Nel mirino è finito pure un membro della casa reale britannica, il principe Andrea. Il quale ha tuonato contro chi lo sta tirando in ballo: tutte storie, tutte bugie… poteva mancare il nome di Donald Trump? Affinità, diciamo così, erettive.

Nel 2002, in un’intervista al New York Magazine, aveva dichiarato: “Conosco Epstein da 15 anni. Un tipo geniale. È un piacere trascorrere del tempo con lui. Si dice che gli piacciano le donne, come a me. Molte sono piuttosto giovani. Nessun dubbio, Jeffrey ama la propria vita sociale!”. Ora gli avvocati della Trump Organization fanno di tutto per non coinvolgere il presidente: “Non ha alcuna relazione con Epstein tantomeno era a conoscenza delle sue azioni”. Il caso Epstein rivela le coperture politiche di cui ha goduto un individuo accusato d’essere corruttore di ragazzine minorenni, un groomer of girls (da noi si direbbe magnaccia) che le faceva reclutare per strada, 200 dollari se accettavano di fare “massaggi speciali” nude. Poi, una volta cadute in trappola, erano minacciate se non facevano sesso. Specchietto per le allodole le lussuose residenze, come quella di Manhattan, sulla Fifth avenue, con tanto di marciapiede riscaldato. Una volta varcate le porte del mondo dorato, finivano invischiate in una sorta di racket, “dove Epstein e la sua amica Ghislaine Maxwell parevano i boss di una famiglia criminale organizzata, in cambio di opportunità nell’ambiente della moda e dell’education”. La Maxwell, figlia dell’editore Rupert, laureata a Oxford, che pilota il proprio elicottero e che ha fondato la TerraMar Project, una non profit che promuove la protezione delle acque oceaniche, frequenta i Clinton e la famiglia reale britannica, e ha respinto con durezza ogni accusa, ogni illazione. Una storia vecchia come il mondo. Epstein era già stato accusato nel 2007 per la tratta di 36 minorenni, sfruttate come “schiave sessuali” e giostrate fra le sue residenze di New York, Palm Beach, Virgin Island e Stanley (nel New Mexico).

Se la cavò con 13 mesi di carcere, dopo essersi dichiarato colpevole di un paio di reati non federali. Una detenzione privilegiata, a Condado (sobborgo di Orlando, Florida), sorvegliato da uomini che lui stipendiava. Andava al lavoro 12 ore al giorno, tranne la domenica. L’accordo fu stabilito con l’allora procuratore Alexander Acosta, oggi ministro del Lavoro di Trump. Nemmeno nei giorni caldi di #MeToo si era parlato di lui, un muro d’omertà machista lo proteggeva. L’altra sostanziale differenza tra noi e gli States è che a portarlo in galera sono state le inchieste di due giornali, il Miami Herald e il Daily Beast. Un giudice federale lo scorso febbraio ha riaperto il caso. E ha dichiarato illegale quel patteggiamento con Acosta. Epstein rischia 45 anni. E rischiano i suoi potenti amici: “Numerosi eminenti politici americani, presidenti stranieri, un premier e altri leader stranieri”.

Corte dei Conti: “Commissione ‘antisprechi’ organismo inutile”

Nel mondo di Sottosopradella Regione Campania si istituisce una commissione d’inchiesta ‘Antisprechi’ delle società partecipate che finisce essa stessa per rappresentare un colossale spreco. La Procura della Corte dei conti ha quantificato il presunto danno erariale in circa 310.000 euro. E ha inviato al governatore Pd Vincenzo De Luca e ad altri 33 consiglieri regionali un invito a dedurre contro l’accusa di aver istituito un organismo inutile, che ha duplicato le funzioni della commissione Trasparenza presieduta dalla grillina Valeria Ciarambino, autrice dell’esposto che ha avviato le indagini. Il tutto per produrre pochi foglietti di dati inutili e desumibili da fonti aperte. E per dare i galloni di presidente, con surplus di indennità, a Luciano Passariello (Fdi), uomo di minoranza ‘consociativa’ rispetto a quella dura e pura del M5S. Infatti, grazie a tre proroghe votate da destra e sinistra, Passariello ha prolungato il mandato fino alle politiche 2018 in cui era candidato. E tra i dipendenti chiamati a lavorare in commissione c’era Agostino Chiatto, in forza alla Sma, la società ambientale. Chiatto è uno degli uomini incontrati dall’ex boss Nunzio Perrella nella videoinchiesta di Fanpage sulla corruzione negli appalti dei rifiuti. Si presentò come ‘segretario’ di Passariello.