Il leghista Fontana sarà il nuovo ministro degli Affari europei

Il prossimo ministro per le Politiche europee sarà il leghista Lorenzo Fontana, attualmente titolare del dicastero della Famiglia. Il braccio destro di Matteo Salvini occuperà quindi la poltrona lasciata vacante da Paolo Savona, nominato al vertice della Consob a marzo scorso (ma si era dimesso già prima). Fonti di Palazzo Chigi hanno confermato ieri anche il via libera del premier Giuseppe Conte. Tramontata la candidatura dell’euroscettico Alberto Bagnai, presidente della commissione Finanze del Senato, l’indicazione di Salvini è così caduta sull’ex eurodeputato che in questi mesi è stato l’uomo di collegamento della Lega con i gruppi di estrema destra europei in vista delle alleanze per il nuovo parlamento uscito dalle elezioni di maggio. Fontana è anche il leghista più vicino ai movimenti cattolici oltranzisti, e dal governo ha dato il benestare al World congress of families tenutosi a Verona (la sua città, di cui è stato vicesindaco), la convention organizzata dai movimenti pro-life che aveva scatenato le proteste di molte associazioni a tutela dei diritti delle donne e delle persone Lgbt, tanto che Palazzo Chigi aveva dovuto revocare il patrocinio.

Rendicontare tutto: scure sui viaggi onorevoli

Alla Camera si cambia registro: è pronto il nuovo codice di condotta sulla rendicontazione delle spese dei deputati. In particolare quelle spese per trasferte che da sempre sono gioia e delizia degli onorevoli, specie quelli che non vedono l’ora di fare una comparsata a un convegno o a una fiera. Se in una bella location, tipo Capri d’estate o Cortina d’inverno è meglio. Ma basta che la platea degli interlocutori sia di un certo livello e soprattutto che a pagare le spese siano gli organizzatori. Ossia terzi particolarmente inclini a mettere mano al portafogli per avere questi onorevoli ospiti.

Finora tutti i tentativi per assicurare la trasparenza di rimborsi o pagamenti diretti in favore dei deputati che accettavano questo tipo di inviti, erano finiti nel nulla. Anzi qualcuno aveva fatto addirittura le barricate. Perché la trasparenza va bene, ma poi fino in fondo a nessuno fa piacere di doverne dare conto. E i deputati che temono che attraverso queste rendicontazioni si realizzi surrettiziamente il controllo della loro attività “politica”, non fanno eccezione. Ma il presidente della Camera Roberto Fico ha deciso che così non si poteva andare avanti.

Secondo la bozza a cui sta lavorando il Comitato consultivo sulla condotta dei deputati, presieduto da Luca Pastorino, i deputati saranno tenuti d’ora in poi a comunicare all’amministrazione di Montecitorio la propria partecipazione “a invito o nell’esercizio delle loro funzioni” a eventi organizzati da terzi. A meno che non si tratti di missioni esplicitamente autorizzate dalla presidenza della Camera oppure quando le spese siano di importo inferiore ai 250 euro. Nel caso in cui si tratti di cifre maggiori invece saranno tenuti a compilare un modulo in cui dovranno chiarire chi sono questi terzi che si offrono di coprire tutte le spese, la natura e il luogo della manifestazione a cui sono stati invitati e le date e la durata della loro partecipazione. Oltre che il tipo di spese di cui beneficiano, ossia viaggio, vitto e pernotto e se sono pagate direttamente dagli organizzatori di questi eventi o rimborsate ai deputati. Queste dichiarazioni, sempre per esigenze di trasparenza, verranno poi rese pubbliche e soggette a controllo: e nel caso in cui dovessero risultare incomplete, inattendibili o manifestamente erronee scatteranno gli accertamenti del caso.

Una piccola rivoluzione, ma per niente scontata: oltre all’obbligo di rendicontare le ospitate pagate da terzi, “i deputati si astengono dall’accettare”, sempre in relazione agli stessi eventi eventuali altri doni o liberalità che venissero loro offerti, sempre non siano di modestissimo importo. Ma il rendiconto va fatto sempre o no? Qui viene il bello perché nei mesi scorsi si è cercato in tutti i modi di allargare le maglie delle esenzioni: alla fine i deputati potranno evitare di comunicare le spese pagate o rimborsate da terzi solo quando a mettere mani al portafoglio siano specifiche categorie di soggetti: organi costituzionali o di rilievo costituzionale, amministrazioni pubbliche, autorità di regolazione e garanzia, organizzazioni internazionali o sovranazionali inserite nella lista del ministero degli Esteri, ma pure partiti e comitati e fondazioni a essi assimilati. Invece se a organizzare (e a pagare) saranno i sindacati, i deputati dovranno comunicare le spese alla Camera e pure in tutti gli altri casi in cui gli organizzatori abbiano natura privatistica: dovranno essere documentate tutti i rimborsi per le ospitate a fiere e dintorni. Che si tratti di rassegne di vini, prosciutti o armi.

Corriere: espulso dall’Ordine Fubini salda (dopo 14 anni)

“Sarà l’autorità giudiziaria a dover stabilire se c’è stata o meno una violazione dell’obbligo di iscrizione all’Ordine e, quindi, l’esercizio abusivo della professione”. Il presidente dell’Ordine dei giornalisti, Carlo Verna, non ha esitazioni. Eppure il caso è spinoso: l’inviato speciale e vicedirettore ad personam del Corriere della Sera, Federico Fubini, ha lavorato con un contratto giornalistico per quasi 14 anni senza risultare iscritto all’Ordine: era stato cancellato a novembre del 2005, per morosità.

L’autorevole firma – il quotidiano milanese lo ha riportato a casa, strappandolo a Repubblica, pochi anni fa – ha all’attivo pubblicazioni di altissimo livello, e la nomina all’interno del panel di 39 esperti internazionali che Bruxelles aveva radunato a gennaio 2018 per combattere le fake news diffuse online, in vista delle elezioni europee.

Interpellato in merito dal Fatto Quotidiano, Fubini ha spiegato di essere stato “distratto”, e di essere venuto a conoscenza della cosa solo ieri. A suo dire, non sarebbe stato raggiunto dalle notifiche che pure – fanno sapere dall’Ordine regionale – sono state eseguite correttamente in quadruplice copia (destinatario, Inpgi, Casagit e Procura della Repubblica).

Il vicedirettore del primo quotidiano nazionale aggiunge di aver sanato la posizione giusto ieri, giorno in cui afferma di aver saputo per la prima volta dell’esistenza del problema. Esibisce copia dell’ordine di bonifico di 2.500 euro (tra arretrati e morosità) che riporta, come data di esecuzione quella del 10 luglio (oggi per chi legge, ndr), e una email inviata alla segretaria dell’Ordine regionale qualche ora prima di essere raggiunto dalla nostra telefonata. “La sua storia quindi non esiste”, conclude minacciando querele.

Da un punto di vista amministrativo, effettivamente tutto è “perdonato”, come conviene lo stesso Verna, pur confermando che resta il nodo dei 14 anni di esercizio della professione (dal 2005 al 2019), senza essere iscritto all’Ordine professionale. Complicando ulteriormente una vicenda che aveva già dell’incredibile, e che è venuta a galla nei giorni scorsi, quando un avvocato aveva scritto all’Ordine nazionale chiedendo conto proprio dell’iscrizione all’albo dei professionisti di Fubini (nel 2002).

Era quindi emerso così che, tre anni dopo l’iscrizione, Fubini nel 2005 veniva cancellato dall’albo per il mancato versamento dei contributi, continuando a esercitare la professione con un contratto giornalistico, con tanto di contributi versati all’ente pensionistico della categoria, l’Inpgi, e al fondo sanitario Casagit. “Credo che si potrebbe configurare, ma ovviamente lo andrebbe verificato, una sorta di esercizio abusivo della professione. Siamo nell’ambito di un rapporto di lavoro strutturato di carattere giornalistico che è andato avanti per tanti anni”, ha commentato Verna, interpellato in merito dal Fatto Quotidiano. “Spero che anche per lui ci sia stata la non conoscenza del provvedimento, spero che non abbia saputo di essere stato cancellato per morosità. Certamente lui per 14 anni non si è mai posto il problema di andare a pagare le quote dell’Ordine”, aveva aggiunto Verna prima di ricevere la notizia dell’avvenuto “ravvedimento”, precisando ancora che “non è assolutamente possibile che un non iscritto all’albo abbia un rapporto di lavoro in base al contratto giornalistico”. Nei confronti di un non iscritto, peraltro, l’Ordine non può nemmeno eseguire un’azione disciplinare.

Va detto che gli iscritti che sono stati cancellati per morosità “si possono re-iscrivere in qualunque momento, e meraviglia che non lui l’abbia ancora fatto”. Ora l’ha fatto. Su Twitter, nella tarda serata di ieri, Fubini scrive: “Il Fatto torna ad attaccarmi, con metodi e obiettivi degni di altri tempi e altri Paesi. Non faranno di me quello che vogliono, un personaggio politico da schierare e attaccare. Non lo sono. Per certa gente provo vergogna e basta”.

Spadafora: “Lega sessista”. Il Carroccio attacca: “Si dimetta”

“L’Italiavive una “pericolosa deriva sessista”. A dirlo in un’intervista a Repubblica è il sottosegretario M5S Vincenzo Spadafora, titolare delle deleghe alle Pari opportunità che punta il dito contro Matteo Salvini: “Come facciamo a contrastare la violenza sulle donne, se gli insulti alle donne arrivano proprio dalla politica, anzi dai suoi esponenti più importanti?”. Alcuni esempi, secondo Spadafora, sono “gli attacchi verbali del vicepremier alla capitana Carola”, definita “criminale, pirata, sbruffoncella”. Parole che hanno aperto l’ennesima spaccatura nei gialloverdi, con Salvini che ha sollecitato il sottosegretario a dimettersi: “Cosa sta a fare Spadafora al governo con un pericoloso maschilista? Se pensa che sono così brutto e cattivo, fossi in lui mi dimetterei e farei altro, ci sono delle Ong che lo aspettano”. Invito non colto dal sottosegretario, difeso peraltro dal Movimento 5 Stelle nonostante l’intervista fosse un’iniziativa personale di Spadafora, che ieri ha poi annullato “per motivi personali” gli impegni della cabina di regia per l’attuazione del Piano sulla violenza contro le donne.

Mineo, lo show del ministro e le promesse al “Fatto”

Il tour del ministro dell’Interno Matteo Salvini dentro il Cara di Mineo è cominciato ieri poco dopo le 13, a 40 gradi di temperatura, ed è terminato con la conferenza stampa che ha sancito la chiusura di quello che è stato il centro per richiedenti asilo più grande d’Europa. Prima tappa obbligata l’alloggio 1036C, lo stesso in cui Salvini aveva dormito nella sua visita nel maggio 2017. Accanto a lui c’è sempre il sindaco di Mineo e decine di cani randagi, tenuti buoni da secchi d’acqua sparsi ovunque. “Se non si trova una soluzione il mio Comune andrà in dissesto”, denuncia il primo cittadino. “Per i cani? Dai non esageriamo”, replica il ministro.

Qualche stretta di mano, il faccia a faccia con una delegata Cgil per discutere dei lavoratori, la questione che rimane aperta è quella del possibile futuro del centro. Riguardo alla notizia pubblicata due giorni fa dal Fatto sul contenzioso aperto dall’azienda proprietaria, la Pizzarotti, nei confronti della Presidenza del Consiglio per “l’azione risarcitoria dei danni all’interno del Cara di Mineo”, Salvini risponde: “Sono sicuro che arriveremo a una soluzione ragionevole”.

Ultimi momenti del tour istituzionale in Sicilia in un giorno definito “bellissimo” e in cui “anche gli amici del Fatto saranno contenti, visto che mi accusavano di non avere ancora chiuso Mineo”.

Per la serie, mission accomplished.

Il silenzio del Pd sul caso Oliverio

Per il presidente della Regione Calabria, Mario Oliverio, la Procura della Repubblica di Catanzaro ha chiesto il rinvio a giudizio. Ma questo non provoca nessuna reazione nel Pd.

“Ma le sindache Raggi e Appendino, quando per loro c’è stata la richiesta di rinvio a giudizio, sono state sospese dai 5Stelle? Non ci sembra”. Questo l’unico commento da fonti del Nazareno. Un modo per buttare la palla in tribuna e non affrontare la questione, visto che Nicola Zingaretti, in un caso simile, aveva chiesto e ottenuto le faticose dimissioni di Catiuscia Marini, presidente della Regione Umbria, dopo l’inchiesta sulla sanità.

Oliverio è accusato di abuso d’ufficio e corruzione. La richiesta riguarda l’inchiesta “Lande desolate” su alcuni appalti gestiti dalla Regione Calabria. Dall’inchiesta sono emersi presunti illeciti, in particolare, nella gestione da parte della Regione degli appalti riguardanti l’aviosuperficie di Scalea, l’ovovia di Lorica e il rifacimento di piazza Bilotti, l’unica delle tre opere pubbliche che è stata portata a termine.

L’inchiesta, nel dicembre 2018, aveva portato all’emissione a carico di Oliverio di un provvedimento di obbligo di dimora a San Giovanni in Fiore, dove risiede, poi revocato dalla Corte di cassazione. Il rinvio a giudizio è stato chiesto anche per l’ex vicepresidente della Regione Calabria, Nicola Adamo, e per la moglie di quest’ultimo, Enza Bruno Bossio, deputata del Pd, accusati di corruzione.

Invece, con la Marini, Zingaretti aveva utilizzato la moral suasion al posto di un attacco frontale. La questione dei due pesi e due misure era stata sollevata già in quell’occasione. Prima di tutto da Matteo Orfini, al quale la Marini è molto vicina. E poi da Luca Lotti e da Roberto Giachetti. “Io se fossi stato Zingaretti non mi sarei comportato così. Lei è solo indagata, e per abuso d’ufficio”, aveva detto Orfini. Mentre le minoranze lottiane e giachettiane avevano fatto direttamente il paragone. Lo stesso Lotti (prima che venissero fuori i suoi rapporti con Luca Palamara) commentava: “Non capisco questo garantismo a fasi alterne dove possa portarci”.

Nelle fasi passate dell’inchiesta su Oliverio, Zingaretti si era lanciato a dire “no al giustizialismo di partito”. Dichiarazioni che avevano scatenato le reazioni di Roberto Giachetti: “Senza alcuna polemica, ma solo per capire, vorrei sapere come funziona nel ‘nuovo Pd’ sta storia del no al giustizialismo di partito. Umbria sì, Calabria no? Donna sì, uomo no? Marini sì, Oliverio no? Ma davvero solo per capire”.

D’altra parte era stata la stessa Marini a sollevare il problema: “Pensavo che il Pd del 2019 fosse una forza riformista e garantista, non una comunità di giustizialisti”. Si dice discriminata: “Si veda come sono stati difesi dal Pd governatori maschi coinvolti in indagini con reati anche gravi”.

Al netto della posizione assunta finora, Zingaretti ha decisamente un problema, visto che i suoi ci tenevano a negare che la Bruna Bossio fosse “zingarettiana”. Ma soprattutto, a novembre, si vota in Calabria. “Come fa a ricandidare Oliverio?”, si chiedeva anche ieri qualcuno in Parlamento.

Salvini, le Ong e il mistero della chiamata da Tripoli

Matteo Salvini sgancia la bomba contro le Ong: “I magistrati hanno elementi concreti su telefonate fatte dagli scafisti a una Ong dalla Libia”, ha detto ieri in tv. Secondo il ministro dell’Interno, un libico chiamò per sbaglio il Centro di coordinamento delle Capitanerie di Porto di Roma (Mrcc), credendo di parlare con la Sea Watch. Si esprimeva in lingua inglese: “Pronto, Sea Watch? È partito un gommone da Zuara”.

Il comando delle Capitanerie registra, come sempre, la comunicazione. La fa ascoltare, poco più di un mese fa, al Comitato nazionale per l’ordine pubblico che si riunisce al Viminale, presieduto dal ministro dell’Interno. E la passa alla magistratura. Di Roma e poi di Agrigento, dove la Procura indaga sugli sbarchi, compreso l’ultimo della Sea Watch-3 a Lampedusa. Gli investigatori sono scettici, non a caso il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio ha affermato di recente in Parlamento, quando già esisteva questa registrazione, che “non ci sono prove di accordi tra Ong e scafisti”. Qui non sarebbe possibile dare un nome al chiamante, anche se gli investigatori hanno il numero di partenza della telefonata. La Procura tace. Gli investigatori sospettano una polpetta avvelenata di cui vogliono comprendere origine e moventi. A livello di intelligence sono convinti che esistano i rapporti tra chi fa partire i barchini e le Ong ma nessuna prova è stata mai esibita.

Intanto continuano le polemiche sul decreto Sicurezza-bis in corso di conversione. La vampata “di sinistra” dei 5 Stelle sui migranti è durata il tempo della campagna elettorale (perdente) per le Europee: Di Maio e i suoi si sono già riallineati alla Lega. Ieri scadevano i termini per gli emendamenti. I grillini, di fatto, hanno assecondato l’ulteriore inasprimento preteso dall’alleato. L’accordo trovato con la Lega ruota attorno a tre interventi: la confisca e il sequestro immediato delle navi delle Ong che infrangono le regole, l’arresto del comandante e le multe più salate.

La prima modifica è all’articolo 2: le navi delle Ong che non rispettano il divieto di transito nelle acque territoriali saranno sempre sequestrate. La norma attuale prevede che il sequestro cautelare e la confisca scattino solo “in caso di reiterazione commessa con l’utilizzo della medesima nave”. Frase cancellata dall’emendamento leghista: le imbarcazioni delle Ong potranno essere requisite già dopo la prima violazione. L’altro emendamento con cui la Lega si intesta (simbolicamente) lo scalpo delle Ong è sulle cosiddette “super multe”: le sanzioni per chi infrange la legge aumentano vertiginosamente, il limite di 50 mila euro sarà portato a 1 milione di euro.

Il terzo emendamento si potrebbe definire “anti-Carola”: il comandante della nave di una Ong che commette “resistenza o violenza contro nave da guerra” sarà sempre arrestato. Come spiegano “fonti 5Stelle” alle agenzie, l’intesa con la Lega è completa: “Sono norme doverose per impedire che si continuino a sfruttare chi scappa dalla povertà per fare show indecorosi e generare caos mediatico”.

Tra gialli e verdi però non sono stati solo baci e abbracci: i 5 Stelle si sono messi di traverso sulla norma dei cosiddetti “superpoteri del Viminale”, secondo cui il ministro dell’Interno, in sostanza, avrebbe deciso in piena autonomia sugli sbarchi. I grillini avevano proposto una modifica di senso opposto, che avrebbe introdotto il parere preventivo del presidente del Consiglio sulla chiusura delle acque territoriali. È finita pari e patta: entrambi gli emendamenti sono stati ritirati. Ne restano in campo 547. Una ventina sono quelli presentati dai grillini che non sono stati concordati col Carroccio. Per lo staff di Salvini però sono solo “schegge impazzite”. E il ministro dell’Interno ironizza: “Il governo va avanti malgrado la Trenta e i 44” (emendamenti dei 5 Stelle).

Rai Jurassic: ecco i palinsesti (ma c’è il ritorno di Fiorello)

“Non smetteremomai di cambiare”. Parola della Rai che a MilanoFieraCity ha presentato la nuova stagione tv. Respinte le accuse di un’infornata sovranista di conduttori vicini alla Lega. Cioè: Roberto Poletti a Unomattina, Monica Setta a Unomattina in Famiglia, fino a Lorella Cuccarini che condurrà La vita in diretta con Alberto Matano del Tg1. L’ad della Rai, Fabrizio Salini, ha specificato: “Ai direttori di rete ho lasciato libertà di scelta”. Rivoluzione Fiorello dal 4 novembre con 18 show su Rai Play, 5 access time su Rai Uno e 6 appuntamenti su Radio Rai. Fabio Fazio – il cui compenso è stato “razionalizzato” – passa come è noto a Rai2. Da domenica 29 settembre, alle 19.40 con Che tempo che farà e poi alle 21 con il classico Che tempo che fa. Mara Venier si fa in tre con Domenica In , l’emotainment La porta dei sogni e il debutto su Rai Radio 2 con un programma in linea diretta con gli ascoltatori. Simona Ventura su Rai2: un nuovo show sportivo la domenica alle 12. E il Festival di Sanremo? “Ne discuteremo la settimana prossima”, rivela Salini. Amadeus aspetterà qualche giorno per l’incoronazione di cui tanto si parla, sempre che non spunti Alessandro Cattelan.

A giudizio Del Sette: “Punì ufficiali scomodi”

L’ex comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette è stato rinviato a giudizio a Roma per abuso d’ufficio, insieme al generale Antonio Bacile, ex comandante regionale della Sardegna, e Gianni Pitzianti, delegato del Cocer-Cobar Sardegna, l’organismo sindacale dell’Arma. Il gup Andrea Fanelli li ha invece prosciolti dall’accusa di omissioni di atti d’ufficio.

Il caso, di cui il Fatto Quotidiano si è occupato nel novembre 2017 e lo scorso aprile, trae origine dall’inchiesta della Procura di Sassari sui trasferimenti, nel 2015, del comandante provinciale di Sassari, colonnello Giovanni Adamo, del capitano Francesco Giola e del luogotenente Antonello Dore, a capo rispettivamente della compagnia e del nucleo operativo di Bonorva (Sassari).

Comincia tutto con l’indagine del pm Giovanni Porcheddu su una colluttazione tra due carabinieri e un 45enne, fermato a Pozzomaggiore. Per i militari l’uomo ha commesso resistenza a pubblico ufficiale, ma un collega presente li smentisce. Il pm li intercetta e scopre che i carabinieri di Bonorva, oltre ad aver programmato una spedizione punitiva a Poggiomaggiore contro i colleghi, auspicavano che i loro superiori fossero trasferiti. I tre comandanti “puniti” avevano mosso contestazioni ai loro militari: dall’abbigliamento non corretto ai comportamenti inadeguati durante in servizio. Ma il sindacato Cobar-Cocer si era schierato a difesa dei sottoposti contro Adamo, Giola e Dore.

Nel marzo 2017 il pm Porcheddu invia gli atti a Roma per Del Sette, Bacile e Pitzianti. Il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il sostituto Francesco Dall’Olio, il 6 ottobre 2017, chiedono l’archiviazione. Per loro mancano gli “elementi costitutivi” dell’abuso d’ufficio, “sia dal punto di vista dell’elemento oggettivo che di quello soggettivo”, perché “non risultano rapporti diretti tra gli indagati, né accordi collusivi tra gli stessi volti a sfavorire il colonnello Adamo o gli altri militari”. Ma il gip Clementina Forleo, il 29 marzo scorso, ordina ai pm l’imputazione coatta per tutti e tre gli indagati.

Secondo il giudice le intercettazioni acquisite, dimostrano il “coinvolgimento” di “esponenti del Cobar Sardegna (Pitzianti) e di taluni vertici dell’Arma che avrebbero dovuto occuparsi di dare ‘una lezione’ a chi aveva correttamente e doverosamente svolto i suoi compiti istituzionali oltre che i suoi doveri civici”. Inoltre Pitzianti, delegato sindacale del Cocer-Cobar, avrebbe fatto pressioni su Bacile “affinché si attivasse per punire” Dore, Giola e Adamo. Il gip sottolinea “la visita del Comandante Del Sette a Bonorva il 21 agosto 2015”, quando “Giola riferiva di essere stato aggredito verbalmente” dal generale, che avrebbe permesso solo a Pitzianti di esporre il suo punto di vista, di fatto ribaltando le gerarchie.

A Roma, l’ex comandante dell’Arma è imputato per favoreggiamento (con l’ex ministro Luca Lotti) e rivelazione di segreto d’ufficio nel processo Consip. Del Sette avrebbe rivelato a Luigi Ferrara, all’epoca presidente Consip, l’esistenza di un’indagine sull’imprenditore Alfredo Romeo, invitandolo a essere cauto nelle comunicazioni. I vertici Consip bonificarono gli uffici dalle microspie piazzate dai carabinieri del Noe.

Nuova tegola sull’Ilva: “L’altoforno va spento”

Nel giorno in cui Luigi Di Maio ribadisce che “non esiste alcuna possibilità che l’immunità penale torni”, sull’ex Ilva di Taranto si abbatte una nuova bufera giudiziaria: l’ordine della Procura di avviare lo spegnimento dell’Altoforno 2 perché ritenuto non sufficientemente sicuro per gli operai e la popolazione del capoluogo ionico. Un pomeriggio frenetico quello vissuto ieri tra Taranto e Roma.

Nella capitale, al tavolo con ArcelorMittal e sindacati, il vicepremier ha spiegato che “in questi mesi di interlocuzione ho sempre detto a Mittal che la dirigenza dell’azienda non ha nulla da temere dal punto di vista legale se dimostra buona fede continuando nell’attuazione del piano ambientale: se si chiede di precisare questo concetto con interpretazioni autentiche anche per norma, siamo disponibili”. Parole che confermerebbero la volontà del governo di vincolare lo scudo penale, eliminato dal decreto Crescita, solo alle operazioni e ai tempi stabiliti dal piano ambientale. Non un’immunità totale, quindi, ma una garanzia per l’esecuzione puntuale dei lavori per rendere dal punto di vista ambientale l’ex Ilva a norma. Il vicepremier ha poi bollato come “falsa” la ricostruzione pubblicata dal Sole 24 Ore sulle clausole contrattuali che tutelerebbero Mittal in caso di eliminazione dello scudo penale: “Nel contratto, così come negli atti successivi, si parla esclusivamente della possibilità di recesso in caso di modifiche sostanziali del piano ambientale. Nessuno potrà mai godere di un’immunità per responsabilità di morti sul lavoro o disastri ambientali”. Parole che si inquadrano a pennello con le operazioni che intanto stava conducendo la Procura nelle stesse ore: la notifica dell’ordine di spegnere l’impianto nel quale il 12 giugno 2015 morì ucciso da una colata di ghisa l’operaio 35enne Alessandro Morricella. Un’inchiesta in cui lo scontro tra magistratura e governo ha raggiunto il suo punto più alto. Dopo la morte di Morricella, la Procura chiese e ottenne il sequestro dell’impianto perché ritenuto non sicuro, ma l’ennesimo decreto “Salva Ilva” del governo Renzi concesse la facoltà d’uso: gli operai dovevano continuare a lavorare anche senza le condizioni di sicurezza, nel silenzio inquietante dei sindacati. Tre anni dopo, la Corte costituzionale, ha dichiarato quel provvedimento incostituzionale: il governo non ha “tenuto in adeguata considerazione – scrissero a marzo 2018 i giudici delle leggi – le esigenze di tutela di salute, sicurezza e incolumità dei lavoratori, a fronte di situazioni che espongono questi ultimi a rischio della vita”.

La procura, intanto, aveva chiesto al custode giudiziario dell’Ilva Barbara Valenzano di valutare se le prescrizioni imposte alla fabbrica erano state rispettate e la relazione ha fugato ogni dubbio: gli interventi “pur migliorando le condizioni generali di sicurezza dell’impianto, non scongiurano di fatto possibili eventi incontrollati e danni irreversibili per il personale e la popolazione”. Ora toccherà proprio alla Valenzano predisporre il cronoprogramma per spegnere l’impianto che bloccherà una delle tre linee produttive gestite da ArcelorMittal che nel 2019 produrrebbe così solo 4 milioni di tonnellate. Per l’azienda significherebbe perdere l’obiettivo previsto delle 5 milioni di tonnellate. E in termini occupazionali? Non è stimabile, ma per una riduzione della richiesta di acciaio il colosso ha già messo in cassa integrazione 1400 persone. Probabile che Mittal chiederà di avere più tempo per mettere a norma l’Afo 2.