Csm: tra i candidati Tiziana Siciliano, Vanorio e De Falco

Quando il gioco si fa duro… ovvero le elezioni suppletive del Csm, quelle che il 6 e 7 ottobre dovranno riempire i due posti riservati ai pm, rimasti scoperti dopo la bufera che ha coinvolto l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Luca Palamara, travolto il Consiglio superiore della magistratura e costretto alle dimissioni alcuni dei suoi membri. Per quei due posti stanno scendendo in campo magistrati che chiedono una reazione d’orgoglio ai colleghi e si candidano in opposizione alle spartizioni correntizie del Csm e alle commistioni di potere con la politica.

Ha già annunciato la sua candidatura Nino Di Matteo, il pm che a Palermo ha condotto l’inchiesta e poi il processo sulla trattativa Stato-mafia. Ma si candida anche Tiziana Siciliano, procuratore aggiunto a Milano di grande esperienza. Oggi sostiene l’accusa nel processo Ruby 3 in cui sono accusati di corruzione in atti giudiziari Silvio Berlusconi e una ventina di testimoni che sono stati ospiti alle sue feste di Arcore. Tiziana Siciliano ha indagato per anni sulla corruzione negli ospedali milanesi e sulle frodi contro il sistema sanitario nazionale. Sta cercando di risolvere il mistero della morte di Imane Fadil, la testimone al processo Ruby 3 per cui sono ancora in corso gli accertamenti per capire se è stata stroncata da una malattia autoimmune oppure da avvelenamento o contaminazione radioattiva. Da Napoli si candidano Fabrizio Vanorio (appartenente ad Area, la corrente di sinistra della magistratura), che ha indagato sul clan dei Casalesi e su Nicola Cosentino, il sottosegretario del governo Berlusconi arrestato per i suoi rapporti con la camorra; e Francesco De Falco (Unicost), il magistrato che ha sviluppato l’inchiesta sulla “paranza dei bambini” e sulla camorra nel centro storico di Napoli, quella che ha attentato tra l’altro alla pizzeria di Gino Sorbillo. Candidato anche Alessandro Milita (indipendente), oggi procuratore aggiunto a Santa Maria Capua Vetere, in passato rappresentante dell’accusa nel processo che ha condannato Cosentino.

Di Matteo rimosso, audizioni top secret per lui e Cafiero

Top secret, la questione scotta. Il Consiglio di Presidenza del Csm ha deciso che deve essere messa la sordina al caso di Nino Di Matteo. Che il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Federico Cafiero De Raho ha rimosso dal pool di investigatori impegnati a fare luce sulle stragi e sulle entità esterne coinvolte nei delitti eccellenti di mafia. È successo dopo un’intervista tv in cui il magistrato, naturalmente, non ha rivelato segreti. I due, Di Matteo e De Raho, verranno sentiti a Palazzo dei Marescialli martedì prossimo di fronte alla Settima commissione che è preposta all’organizzazione degli uffici giudiziari. Ma sul caso il vertice del Csm ha imposto, prima che la pratica approdasse in commissione, il vincolo della secretazione: le audizioni si svolgeranno dunque a porte chiuse. E anche le determinazioni che verranno assunte rispetto alla decisione di De Raho, saranno coperte dalla massima riservatezza.

La Settima commissione, sia nel caso in cui avesse qualcosa da ridire sull’estromissione dal pool, sia nel caso si limitasse a prendere atto della decisione, è intenzionata a esprimersi sulla rimozione di Di Matteo già entro il 24 luglio. A quel punto il plenum sarebbe in grado di discutere la pratica prima della pausa estiva. Sempre in modalità ‘acqua in bocca’, perché a quanto pare, di questa faccenda, meno se ne parla, meglio è.

A fianco di Di Matteo, che ritiene ingiusta e immotivata la revoca disposta da De Raho, si sono mobilitati in molti per una raccolta firme di solidarietà con numeri da record. E 118 magistrati hanno ritenuto addirittura di esporsi in prima persona a favore di Di Matteo, pm di punta del processo per la Trattativa Stato-mafia, con un appello indirizzato al presidente del Consiglio superiore della magistratura, il capo dello Stato Sergio Mattarella, al vicepresidente David Ermini e a tutti i consiglieri del Csm perché venga trovata una soluzione che consenta di ricomporre lo strappo in seno alla Procura antimafia con il reinserimento nel pool stragi di Di Matteo. Che farà sentire le sue ragioni la prossima settimana a Palazzo dei Marescialli. Dove rimarrà per i prossimi tre anni se dovesse essere eletto alle suppletive che si dovranno celebrare in autunno per sostituire i togati costretti alle dimissioni per gli incontri tenuti fuori dalle sedi istituzionali con Luca Palamara ed esponenti politici del calibro di Luca Lotti e Cosimo Ferri del Pd in vista della nomina per il successore alla Procura di Roma di Giuseppe Pignatone.

Intanto dal Csm si attende a breve una decisione proprio sul caso Palamara per il quale il procuratore generale della Cassazione e il ministro della Giustizia hanno chiesto la sospensione immediata dalle funzioni e dallo stipendio. Ieri Palamara si è difeso di fronte al collegio disciplinare con “determinazione” ribadendo di “non aver mai svenduto la sua funzione”. Per i suoi legali inoltre non esisterebbero i presupposti per la misura cautelare, non fosse altro perché il loro assistito, indagato per corruzione a Perugia, si trova già in congedo straordinario almeno fino al 24 luglio. Poi chiederà un ulteriore congedo, questa volta ordinario, che si sommerà a quello che gli è stato già concesso dal Procuratore generale della Corte di appello di Roma.

L’aria che tira per il pm di Roma finito nel tourbillon delle intercettazioni che hanno squarciato il velo su incontri e dopocena dove si parlava di nomine e in particolare di quella del nuovo procuratore di Roma, non è affatto buona. O almeno questa è l’impressione, dopo che ieri è stata respinta la sua richiesta volta a ricusare Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita dal collegio chiamato a decidere sulla misura cautelare. Del resto, anche laddove le due istanze non fossero state respinte, non sarebbe cambiato molto: il collegio in quel caso – hanno fatto sapere per iscritto dal Csm ai legali di Palamara – sarebbe stato integrato con altri membri laici. Così da non mettere a rischio l’operatività della sezione disciplinare. Insomma, il Consiglio superiore della magistratura, messo a dura prova dall’affaire intercettazioni, sembra voler mostrare i muscoli per provare a chiudere il caso. In tempi molto rapidi.

I 250 mila euro di danni chiesti a Conte. L’accusa è minaccia a corpo politico

Calunnia e minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. Giuseppe Bellomo rischia una pena fino a 7 anni per aver minacciato e calunniato Giuseppe Conte, quando non era ancora premier ma sedeva al Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa(Cpga), e Concetta Plantamura, componente dello stesso organismo e consigliera del Tar Lombardia.

Sono due dei capi d’accusa contestati dal procuratore aggiunto di Bari, Roberto Rossi, confluiti nell’ordinanza che ieri ha disposto gli arresti domiciliari per l’ex giudice amministrativo barese.

L’accusa nasce dall’atto di citazione in sede civile, con annessa richiesta di danni per 250mila euro, che Bellomo ha intentato contro Conte e Plantamura quando entrambi si stavano occupando della suo fascicolo disciplinare.

L’atto di citazione risale al 18 settembre 2017: Bellomo chiede al Tribunale di Bari di condannare Conte e Plantamura – scrive il gip Antonella Cafagna – al “risarcimento dei danni cagionatigli dalle numerose violazioni di legge” che avrebbero commesso “nell’ambito del procedimento disciplinare, nelle rispettive qualità di presidente e di componente della commissione”.

In sostanza, secondo Bellomo, Conte e Plantamura avrebbero “esercitanto in modo strumentale (e illegale) il potere disciplinare” e “deliberatamente e sistematicamente svolto un’attività di oppressione della persona dell’attore (…) mossa da un palese intento persecutorio”. Il tutto, sempre secondo Bellomo, era preordinato dalla “volontà” di impedirgli “lo svolgimento dell’attività di insegnamento”. Il gip non ha alcun dubbio: l’ex giudice ora ai domiciliari “li incolpava falsamente” ed era “consapevole della loro innocenza”. Fin qui, la calunnia.

C’è poi la minaccia. Che si concretizza sempre a partire dal 18 settembre 2017, quando Bellomo, mentre il suo procedimento disciplinare era pendente dinanzi al Cpga per la discussione finale, notifica l’atto di citazione e la richiesta risarcitoria. Tre giorni dopo deposita una memoria all’intero Cpga, producendo l’atto di citazione, e così “mette tutti i componenti a conoscenza della richiesta di risarcimento danni avanzata”. Non solo: chiede “la definizione anticipata del procedimento disciplinare, l’annullamento in autotutela degli atti del giudizio disciplinare per vizio di procedura, il proscioglimento immediato”. Il motivo: “Evitare ogni ulteriore aggravamento dei danni ingiusti già subiti e descritti nella citazione”.

Il 27 ottobre 2017 ricusa Conte e Plantamura. Secondo il gip, Bellomo, proprio con la ricusazione “usava minaccia nei confronti di Conte Giuseppe e Concetta Plantamura” per “turbarne l’attività nel procedimento disciplinare a suo carico e impedire la loro partecipazione alla discussione finale, influenzandone la libertà di scelta e determinando la loro astensione”. Un’azione che ha riguardato “l’intero organo collegiale, al fine di turbarne l’attività e di influenzarne le scelte e comunque di ostacolare la definizione del procedimento disciplinare e l’adozione di provvedimenti a suo carico”.

“La vera finalità dell’esercizio dell’azione civile – scrive l’accusa – era quella di esercitare pressioni, in vista della decisione finale, nei confronti di Conte e della Plantamura e di tutti componenti del Cpga”. E non c’è alcun dubbio, sostiene la procura di Bari, sulla “legittimità dell’operato di Conte e Plantamura”.

Ma come si arriva all’ipotesi di una minaccia? “La prospettazione dell’esercizio di un’azione civile, di per sé lecita – si legge negli atti – può integrare una condotta riconducibile al concetto normativo di ‘minaccia’, quando sia formulata non con l’intenzione di esercitare un diritto ma con lo scopo di coartare l’altrui volontà e conseguire risultati non conformi a giustizia”.

La condotta di Bellomo – in sostanza – si risolve in un “avvertimento” e “in un’implicita minaccia”.

Ex giudice Bellomo arrestato “Maltrattava allieve e amanti”

C’era chi doveva mettersi in ginocchio e chiedergli scusa perché aveva lasciato il telefono spento. C’era chi – come il giudice (sospeso dal Csm) Davide Nalin – avviava una fantomatica istruttoria contro chi disobbediva. E il tutto discendeva dall’inverosimile contratto che Francesco Bellomo, ex giudice destituito del Consiglio di Stato, stringeva con le borsiste della sua scuola, “Diritto e Scienza”. Il “contratto”, oltre a prevedere uno stringente codice d’abbigliamento, disciplinava anche le modalità di rapporto che le studentesse, future magistrate, avrebbero dovuto tenere nei suoi riguardi. Una di loro ha parlato di un contratto di “schiavitù sessuale” che Bellomo le avrebbe chiesto di sottoscrivere. Ieri Bellomo è finito agli arresti domiciliari, con l’accusa di maltrattamenti in famiglia e, in un caso, di estorsione.

L’arresto – scrive il gip Antonella Cafagna nell’ordinanza – è motivato dalla “predicabile esistenza di un concreto pericolo che l’indagato incorra nella reiterazione di episodi delittuosi della stessa specie, sol avendo occasione di instaurare nuove relazioni di tipo amoroso”. Non conta che Bellomo abbia chiuso con il “servizio borse di studio” anche “perché – aggiunge il gip – il servizio in questione potrebbe essere riattivato con la ripresa della scuola nel prossimo mese di ottobre”. Il Fatto non pubblicherà i nomi delle vittime del reato ma ecco alcune delle situazioni descritte negli atti. In sostanza, secondo l’accusa, una sfilza di maltrattamenti. Ci casca anche una donna, attualmente è giudice in una procura, conosciuta attraverso un sito d’incontri. La relazione inizia nel 2005, la ragazza s’innamora, partono in vacanza, ma “sin dall’esordio – si legge negli atti – l’indagato disvelò un’indole aggressiva e violenta, pretendendo totale asservimento e obbedienza, impedendole di fare qualsiasi cosa senza il suo assenso e punendola in caso di trasgressione”. “La sua pretesa – racconta la donna – fu di totale asservimento, mai avrei dovuto disobbedirlo né fare alcunché senza il suo permesso”. “Una sera a Bari – continua la donna – mi allontanai da lui di una decina di metri per vedere meglio il mare, al che egli cominciò a inveire contro di me, mi fece salire in macchina e mi portò in albergo dicendomi che andavo punita”. “A un certo punto – dice la donna agli inquirenti – era usuale che mi scrivesse o mi dicesse che ero una puttana d’indole e che aveva schifo ad avere rapporti con me perché ero impura per la mia vita sessuale precedente”. Poi, sempre nel racconto della donna, ci furono esplosioni di rabbia, una segregazione in casa per tre giorni e la minaccia di una denuncia.

“La minaccia di un procedimento penale – racconta la vittima – era particolarmente spaventosa, essendo in procinto di entrare in magistratura. Bellomo mi diceva che prima condizione per evitare che egli sporgesse denuncia contro di me era far uscire di casa il mio fidanzato, che era tornato da poco a vivere con me. Mi rivolsi spaventata al suo amico Gianrico Carofiglio, allora in servizio alla Procura di Bari, chiedendogli di intercedere e riportare Francesco alla ragione; mi consigliò di rivolgermi a un penalista; poco dopo ricevetti una telefonata furente di Bellomo, che mi disse di essere stato contattato da Carofiglio, che gli diceva che io stavo prospettando fatti di violenza privata, e che la situazione per lui si stava facendo davvero brutta; mi urlava, e mi diceva di lasciar fuori Gianrico e chiunque altro”. A scatenare la sua rabbia anche il momento in cui un’altra ragazza, si “reca dall’estetista”. È il 3 novembre 2011 quando le scrive i seguenti sms: “Ma le ragazze non vanno dall’estetista in vista di qualche evento?”, “la ceretta si fa quando si mostrano le gambe. Cosa che sarebbe accaduta tra 9 giorni. Non aveva alcun senso oggi. È l’ultima volta che te lo chiedo”. Giorni dopo le invia questo messaggio: “Non voglio rovinare anni di lavoro senza darti una chance. Venerdì sera, quando entro in stanza, ti metti in ginocchio e mi dici ‘ti chiedo perdono, non lo farò mai più’. Non ha il significato della sottomissione, ma della solennità con le forme rituali”.

A un’altra studentessa, nel dicembre 2014, contesta aver fatto “una passeggiata spegnendo e lasciando il telefono a casa”. E incarica Nalin di avviare un’istruttoria per valutare le sanzioni. Nalin scrive alla ragazza consigliandole “come preludio dell’istruttoria delegatami dal Consigliere” di rileggere il numero della rivista di cui citava il seguente passo: “Puoi uscire da sola, ma devi essere rintracciabile e, quando ti chiamo, molli chiunque sia con te non appena il telefono suona…”.

L’arteria stradale che rischia di sballare i conti

Quando il Cipe deliberò l’opera, nel marzo del 2006, la Pedemontana Veneta aveva una lunghezza complessiva di 94,9 km che si snodavano tra le province di Vicenza e Treviso, le interconnessioni erano tre (con la A4, con la A31 e con la A27), mentre gli svincoli 14 (Montecchio Maggiore, Montecchio, Arzignano, Castelgomberto, Malo, Breganze, Mason-Pianezze, Marostica-Nove, Bassano Ovest, Bassano Est, Cassola-Loria, Riese Pio X, Altivole, Montebelluna, Spresiano), due le aree di servizio previste. Pensata inizialmente come autostrada, la SVP ha poi assunto alcune caratteristiche da superstrada a due corsie per senso di marcia. A distanza di 12 anni da allora, lo scorso luglio, lo stato maggiore leghista ha inaugurato i primi sette km dell’opera, tra l’autostrada A31 Valdastico e Breganze (oggi ne sono aperti 3) . La fine lavori è prevista per il 2020. Inizialmente si pensava di spendere 2,3 miliardi di euro, adesso quella cifra sembra destinata a lievitare a circa 12.

Sì ai fondi pubblici all’ospedale del Qatar Aspettando i giudici

Sul Mater Olbia la maggioranza sarda non ha più dubbi: le commissioni Sanità e Bilancio del Consiglio regionale hanno approvato senza intoppi la variazione dei conti destinata a coprire l’avvio delle attività dell’ospedale privato in convenzione col Sistema sanitario regionale della Sardegna. Via libera dunque ai finanziamenti pubblici regionali (circa 150 milioni spalmati nel triennio 2019-21) destinati alla ex creatura di Don Verzé nell’isola, passata nel 2015 in mano agli emiri del Qatar. Ora per chiudere l’iter del finanziamento manca solo un passaggio formale in aula. Sembrano superate dunque le perplessità della Lega che una settimana fa aveva imposto lo stop ai fondi per approfondire gli sviluppi di un’inchiesta incrociata su presunti diritti di usucapione e firme false, che riguarda 60 ettari attorno al Mater Olbia Hospital. Sulla vicenda è aperto da tempo un procedimento nel tribunale di Tempio. Ma ora anche la Procura di Roma starebbe indagando, con un nuovo fascicolo affidato al pm Alessandro di Taranto.

“Anche i lavoratori hanno paura, la volta sta cedendo”

L’inchiesta sulla galleria della Pedemontana Veneta, tra Castelgomberto e Malo, ha scoperchiato uno scenario sconcertante, confermato dalle intercettazioni che coinvolgono anche i quattro indagati, Luigi Cordaro, Fabrizio Saretta, Giovanni d’Agostino e Adriano Turso.

Tubi non certificati. I primi aspetti riguardano l’escavazione e il consolidamento, “ovvero infiltraggi nella calotta con tubi di acciaio iniettati con miscela di cemento, in numero e di lunghezza inferiore rispetto a quanto indicato nel progetto”. La direzione non aveva effettuato controlli per accettazione sui materiali. Un tecnico dice: “Le barre che abbiamo sempre utilizzato… quelle Arco, non sono certificate. La documentazione che abbiano a corredo non funziona neanche bene perchè per la testina ci mancherebbe quel famoso certificato che abbiamo scoperto non andare bene… in quanto è fasullo fondamentalmente”.

ACCIAIO SCADENTE. Materiale di serie B. Un tecnico spiega a Saretta: “…l’acciaio doveva essere diverso da questo che è stato utilizzato, acciaio 355. Io invece ho indicato quello che doveva essere il materiale, un S450”. Saretta: “In questo certificato che c’è scritto?”. Stoppa: “S355, c’è scritto…”. Saretta: “Minchia!”. Ordinavano un tipo di acciaio, ne arrivava uno diverso e non controllavano. Scrive il gip: “Ciò nonostante la produzione continua con l’acciaio di minore resistenza”. E cita una intercettazione in cui la ditta fornitrice spiega che loro “l’acciaio S450 non lo hanno mai comprato”. Per ridurre i danni, qualcuno propone di lasciare due tipi di acciaio, uno più resistente per le barre, uno meno resistente per le testine. Ma così quest’ultimo si romperà prima, scrivono i consulenti del pm.

“FAI SPARIRE I TUBI”. Uguali problematiche si verificano per i pozzetti in cemento, “anch’essi non certificati, giacché provenienti da società per le quali vi è addirittura il concreto dubbio che non abbiano le certificazioni richieste, ovvero da fornitori considerati poco affidabili”. Idem per la fornitura e la posa in opera dei tubi in pvc. Continua il gip: “Si riscontra l’assenza della marcatura Ce e la non conformità ai requisiti contrattuali che richiedevano una maggiore resistenza dei tubi da utilizzare per la costruzione della galleria rispetto a quelli ordinariamente impiegati nell’edilizia”. Il grave è che “parte della fornitura era già stata posata”. Un tecnico, intercettato: “Noi abbiamo chiesto i tubi marcati Ce, ma nel magazzino sono arrivati gli altri e nessuno ha controllato, capito?”. E uno degli indagati arriva a suggerire “di farli sparire dal magazzino”.

“MANCA IL CEMENTO”. Il capitolo più agghiacciante è quello della copertura della volta. “Per il cemento utilizzato per le operazioni di spritz, la gettata di consolidamento della volta, si evidenzia la consapevolezza degli indagati della mancanza di conformità”. Il gip scrive di problemi drammatici, “sia per difetti di tenuta dello spritz, sia in occasione delle ‘volate’, cioè le esplosioni controllate per fare avanzare il cantiere, sia per fenomeni di ‘splaccaggio’ dello spritz, distacchi di vaste porzioni di gettata”. Le intercettazioni dimostrano “la sempre maggiore preoccupazione per la propria incolumità che pervade gli operatori destinati a lavorare all’interno della galleria”. Dice l’indagato Saretta: “C’è la questione dello spritz, che deve essere diverso da quello che usiamo… però lì possiamo sempre fare la storia che partiamo con lo spritz non qualificato e poi lo qualifichiamo dopo”.

“CROLLA LA VOLTA”. Lo stesso direttore dei lavori Turso spiega che se non hanno avuto spritz a sufficienza da mettere sulle centine “ti devi bloccare… non la puoi fare la volata (l’esplosione, ndr)…se tu vedi, mi hanno mandato le fotografie, ci stanno tutte le centine… perfino le catene si vedono e questo è un problema…”. Insomma, i vertici tecnici sanno che c’è rischio di crolli. Cordaro: “Ma sono proprio così eclatanti questi vuoti?”. Turso risponde: “Ci stanno sicuramente delle centine, soprattutto nella parte superiore. Guarda caso in calotta, tra le centine non ce ne sta spritz. Si vendono le catene”. Uno dei tecnici dice: “C’è un problema alla Nord-Vicenza. Qui si stacca il fronte, non tiene lo spritz… praticamente continua a staccarsi e quindi si sono fermati… la volta sta cedendo”. E Saretta ordina: “Fermiamo tutto prima che…”.

“ABBIAMO PAURA”. All’inizio di aprile un operaio è preoccupato. “Ieri sera ero là verso le 8 e si è spacchettato pure il fronte, ma a placche belle corpose…”. E così viene invitato “a fare un salto per rassicurare chi lavora in galleria…”. L’indagato Cordaro: “Facciamolo perché la gente sotto ha paura… quella sera ne sono successe due e, ti giuro, meno male che non c’era nessuno sotto che erano due splaccaggi proprio abbastanza forti, uno di un paio di metri quadrati e uno di circa un metro quadrato, che è venuto giù in maniera proprio repentina”. Un altro operaio, rivolto a Cordaro: “Lo conosci a mio fratello… è uno che in galleria ci sta 24 ore al giorno, il materiale lo conosce ed è molto preoccupato. Tu devi anche capire le nostre paure, perché sai che siamo coraggiosi e non ci tiriamo indietro”.

La Superstrada della Lega con il traffico “dopato”: piace ai privati e stanga i veneti

Un project financing capovolto. “L’ente pubblico si accolla i rischi e il privato che realizza l’opera si garantisce un canone fisso”, Andrea Zanoni, consigliere regionale del Veneto (Pd) descrive così la Pedemontana, superstrada a pedaggio che collegherà la province di Vicenza e Treviso. L’opera che dovrebbe lasciare il segno della Lega e dell’era di Luca Zaia. Non a caso a giugno, al taglio del nastro di appena 7 chilometri, c’era Matteo Salvini. Ma rischia di diventare una Caporetto: un’opera da 2,3 miliardi potrebbe costarne 12. E oggi le inchieste parlano di rischi alla sicurezza che mettono in forse tutto il progetto. Spiega Zanoni: “Nei mesi scorsi era emerso che il percorso dell’opera incrocia 4 discariche non previste. Ora arriva l’inchiesta e il sequestro della galleria di Malo. Noi chiediamo verifiche su tutte le opere perché realizzate dagli stessi soggetti”. Il percorso di 94,5 km prevede 16 viadotti, 38 gallerie e 65 cavalcavia. Un bel guaio per Zaia. Anche se, va detto, il padre dell’opera non è lui. Se ne parla dagli anni ’90. Tra ricorsi e controricorsi la realizzazione è stata affidata al consorzio Sis (le società della famiglia piemontese Dogliani e il gruppo spagnolo Sacyr). Ma nel 2009 arriva il colpo di scena: il governo Berlusconi decide che tra Treviso e Vicenza c’è un’emergenza traffico e vara un decreto che svincola la Pedemontana dalle procedure della Legge Obiettivo. Commissario è nominato Silvano Vernizzi, braccio destro dell’allora governatore Giancarlo Galan. Il governo Renzi negli anni successivi si trova in mano una bomba: Banca Europea per gli investimenti e Cassa Depositi e Prestiti sostengono che le previsioni di traffico sono tre volte la realtà. La Regione dovrebbe pagare a Sis 14 miliardi più interessi. Così lo Stato decide di metterci una toppa: 600 milioni e spiccioli, più quasi 300 dalla Regione. Ma non è finita: nel 2017 arriva la concessione firmata dalla Regione che, secondo Antonio Bisato (segretario del Pd veneto), “trasforma il project financing in un contratto di somministrazione. Al privato va un canone fisso e il pubblico incassa le entrate incerte dei pedaggi”. La grande incognita è il traffico: “La Regione – sostengono i comitati anti-Pedemontana – prevede un aumento del traffico dai 22.983 veicoli del 2020 ai 65.553 del 2059. Ma una superstrada a due corsie (con limiti da 70 a 110 km all’ora), non può sopportare più di 32 mila veicoli al giorno”. Anche la Corte dei Conti, nel 2015, non è tenera: “Problematico è apparso il ricorso al partenariato pubblico-privato e criticità sono state riscontrate nell’applicazione della normativa europea in materia di concessioni… le difficoltà riscontrate hanno comportato anche riflessi sulla realizzazione di strutture viarie connesse all’esecuzione dell’opera principale, per la quale restano insoluti aspetti legati al finanziamento”.

Zaia è convinto di aver rimediato a un disastro: “Avevamo ereditato un’opera che non aveva futuro e l’abbiamo trasformata in realtà”, ha detto all’inaugurazione. E adesso, dopo il sequestro del tunnel? Marco Corsini, attuale commissario, risponde così: “Per i manufatti in esercizio i collaudi sono stati positivi. Per le opere in costruzione valuteremo dopo i collaudi”. E i rischi economici sul groppone della Regione? “La concessione del 2017 – ma lo dicevano meno chiaramente anche le precedenti – prevede che il rischio costruzione e il rischio disponibilità ricada sul concessionario, mentre il solo rischio domanda ricade sulla Regione”. Appunto, se non ci sarà traffico saranno guai per il pubblico. E i 12 miliardi da pagare entro il 2058? “Comprendono la realizzazione dell’opera, il costo del denaro anticipato dal privato, la manutenzione e la gestione per 39 anni”. Un costo che dovrà essere pagato con i pedaggi, sennò si farà ricorso alla fiscalità. Insomma, alle tasche dei veneti. Zaia è convinto di guardagnarci. Ma il conto arriverà alla fine dei suoi mandati.

Il buco nero Pedemontana: sigilli alla galleria “di burro”

Rischia di non essere più conclusa la Superstrada Pedemontana Veneta, attualmente l’opera stradale cantierata più importante in Italia, con un costo finale che sarà di 2 miliardi e 300 milioni di euro. Ma non tanto per la battaglia dei comitati di cittadini che da una decina di anni stanno combattendo contro tutto e tutti. Bensì per l’ultima inchiesta della magistratura vicentina che ha sequestrato la galleria di Malo, lunga circa sette chilometri e mezzo, per frode in pubbliche forniture. Un reato che sembra di poco conto, ma che in realtà mina dalle fondamenta la solidità della galleria che si sta scavando, a causa dell’uso di materiale (soprattutto acciaio e calcestruzzo) che secondo la Procura di Vicenza è di serie B, al punto da aver causato crolli a catena e in passato anche la morte di un operaio. E così la galleria rimarrà sequestrata chissà per quanto tempo, mentre la Regione Veneto continua a dichiarare che la Pedemontana verrà ultimata nei termini del cronoprogramma, ovvero entro la fine del 2020. Ma se anche quel giorno il nastro d’asfalto dovesse essere completato, mancando la galleria (che era già in ritardo) nascerebbe una Pedemontana zoppa. Che non raccoglierà il traffico proveniente dalla A4 per dirottarlo verso la A27 a Spresiano (e viceversa). Il volume dei passaggi sarà inevitabilmente ridotto e per la Regione Veneto – impegnata nel finanziamento dell’opera – sarà un disastro economico.

“Frode nelle pubbliche forniture”

A gettare scompiglio è il decreto di sequestro preventivo firmato dal gip Matteo Mantovani, che ha accolto le richieste del pm Cristina Carunchio. Nell’inchiesta che riguarda il consorzio Sis e la società di progetto SPV, ci sono quattro indagati: Luigi Cordaro, direttore di cantiere con procura dei lavori sul Lotto 1; Fabrizio Saretta, responsabile del Lotto 1 (tratta C); Giovanni Salvatore D’Agostino, direttore tecnico della concessionaria Società Pedemontana Veneta; il direttore dei lavori Spm, ingegnere Adriano Turso. Il reato ipotizzato è la frode nelle pubbliche forniture, attuata “realizzando i lavori di scavo della galleria di Malo, utilizzando materiali non marchiati Ce e impiegando materiali (in particolare miscele di calcestruzzo) diversi da quelli previsti dagli elaborati progettuali”. Le società fornitrici del materiale sono: Ar.Co di Brescia (strutture metalliche), Macevi di Mogliano Veneto (calcestruzzo), Crestan Fratelli di Trissino (calcestruzzo), Edil Centro di Piovene Rocchette (materiale da costruzione), Picenumplast di Fermo (lastre e tubi in plastica), Dywit di Cusago in provincia di Milano (materiali ferrosi) e Assotubi di Cesena (materiali ferrosi). Il decreto di sequestro fa parte della terza inchiesta vicentina sulla Pedemontana (ma fra Treviso, Vicenza e Venezia, gli esposti sono numerosi). La prima, per omicidio colposo, riguarda la morte nel cantiere dell’operaio Sebastiano La Ganga, di 54 anni, avvenuta nel 2016 a seguito di un crollo. La seconda è stata aperta dopo che nel settembre 2017 è ceduta la galleria, con il crollo della superficie sovrastante. Gli ingegneri Rossitto e Pasqualon hanno effettuato perizie per chiarire se in quella galleria ci siano condizioni di sicurezza e se il cantiere possa proseguire. La risposta è negativa: gravi carenze nei tubi in acciaio, nel pvc e nel calcestruzzo.

“Problemi di staticità Ma andavano avanti”

Le parole del gip sono chiarissime: “I ripetuti crolli, l’incidente mortale, gli smottamenti, gli splaccaggi dello spritz (iniezioni di cemento sulla volta, ndr), la preoccupazione sempre maggiore da parte degli operai per la loro stessa incolumità, sono inequivoci segnali di evidenti problematiche di staticità della costruzione, riconducibili alla scarsa qualità del materiale impiegato”. Inoltre, “il fatto che pur a fronte di questi eventi sempre più frequenti, non vi sia la decisione di arrestare l’opera o di intervenire in modo efficace per sostituire i materiali, dimostra che il perdurare dell’attività di costruzione secondo tali modalità non avrà altro effetto se non quello di aggravare le conseguenze del reato, per rispettare le strette tempistiche contrattuali altra scelta non rimane se non quella di proseguire come sempre si era fatto costruendo con il materiale a disposizione”. È per questo che il sequestro ordinato dalla magistratura mette una seria ipoteca sulla realizzazione di tutta la Pedemontana Veneta.

Ma la Calabria è Italia?

Ieri la nostra Wanda Marra ha trascorso la giornata a domandare a vari esponenti del Pd che ne pensano della richiesta di rinvio a giudizio avanzata dalla Procura di Catanzaro per il loro governatore della Calabria, Mario Oliverio, da tempo indagato e ora imputato per corruzione e abuso d’ufficio. Deve dimettersi? Deve restare? Decide lui? Decide il partito? Essere imputati di reati gravi come la corruzione è una medaglia, un disonore, un campanello d’allarme, un dettaglio trascurabile? Se ne stanno occupando i probiviri del Pd, oppure il segretario Nicola Zingaretti, oppure se ne fregano tutti? E che senso ha un partito che sfiducia il suo sindaco di Roma, Ignazio Marino, allora indagato per alcune cene a sbafo (peculato e falso, non corruzione); induce alle dimissioni la sua governatrice dell’Umbria Catiuscia Marini, indagata per lottizzazioni e concorsi pilotati nella sanità (abuso d’ufficio, rivelazione di segreto, favoreggiamento e falso, ma non corruzione); beatifica il suo sindaco di Milano Beppe Sala condannato per falso; e non dice una parola su (e a) Oliverio imputato per corruzione?

Il codice etico del Pd è talmente vaporoso ed elastico da prevedere solo la non candidatura dei condannati (in via provvisoria o definitiva) per reati gravissimi e nulla dice degli indagati. E forse è giusto così: ogni indagine fa storia a sé e, almeno fino alla condanna di primo grado, dovrebbero essere il segretario e i probiviri a valutare i fatti contenuti nelle carte giudiziarie: se emergono condotte già provate o altamente probabili che sono incompatibili, per ragioni penali o etiche, con l’adempimento di pubbliche funzioni “con disciplina e onore” (art. 54 della Costituzione), non occorrono condanne, ma nemmeno avvisi di garanzia, per imporre le dimissioni. Se invece i fatti sono controversi, o di nessuna gravità, il partito può anche assumersi la responsabilità di lasciare il suo amministratore in carica anche in caso di condanna di primo grado o di appello. Ma, appunto, occorrono regole chiare, valide per tutti, e alla fine qualcuno deve decidere e metterci la faccia: o il segretario, o i probiviri. Il M5S sappiamo come si regola: dimissioni obbligate in caso di condanna di primo grado (la Raggi, se condannata, avrebbe dovuto sloggiare dal Campidoglio), fermo restando che si può essere cacciati anche prima dai probiviri e/o dal capo politico (Di Maio espulse su due piedi Marcello De Vito dopo l’arresto per corruzione). Una regola troppo rigida, che potrebbe costare le dimissioni a Chiara Appendino, se fosse condannata in primo grado.

Eppure una condanna per omicidio colposo riguarderebbe una responsabilità oggettiva nella morte della donna travolta dalla folla in piazza San Carlo durante la diretta della finale di Champions League e non farebbe di lei una ladra o una delinquente: bisognerebbe almeno distinguere fra reati dolosi e reati colposi. In ogni caso, è tutto chiaro. Invece nel Pd è tutto oscuro, affidato agli umori del momento: via Marino e Marini, viva Sala e tutti zitti su Oliverio. Infatti, alla nostra cronista, nessuno ha voluto rispondere sulla richiesta di rinvio a giudizio del governatore calabrese per corruzione (ma anche per la deputata Pd Enza Bruno Bossio e per l’ex vicepresidente regionale Nicola Adamo). Solo qualche trito pigolio sui soliti 5Stelle (“E allora la Raggi?”, come se fosse mai stata indagata o imputata per corruzione, e soprattutto come se non fosse stata poi assolta da tutto). Eppure l’atto contro Oliverio&C. porta la firma del procuratore Nicola Gratteri, che Renzi voleva addirittura ministro della Giustizia (poi si piegò al niet di Re Giorgio). E il processo riguarda gravi illeciti nella gestione degli appalti sull’aviosuperficie di Scalea e l’ovovia di Lorica, affidati all’impresa di Giorgio Ottavio Barbieri, ritenuto dagli inquirenti vicino alla cosca Muto di Cetraro, oltre a quello per il rifacimento di una piazza a Cosenza (l’unica delle tre opere portata a termine). Secondo la Procura, la Regione pidina aiutò Barbieri a mettere le mani sui fondi europei, pur sapendo che la sua azienda era priva delle capacità tecniche e finanziarie per realizzare le opere. Poi Oliverio convinse Barbieri a rallentare i lavori a Cosenza per danneggiare il sindaco di centrodestra Mario Occhiuto e conseguire un “tornaconto politico” a danno della città, tramite presunte pressioni di Adamo e della moglie Bruno Bossio sul direttore dei lavori. Risultato: la solita lievitazione dei costi (oltre 2 milioni di euro stanziati indebitamente dalla Regione con varie falsificazioni degli stati di avanzamento lavori) e due opere (su tre) mai viste. “Una lotta politica che più deteriore non si può immaginare”, l’ha definita il gip.
È questo il “nuovo Pd” che ha in mente Zingaretti? E, se no, che aspetta a intervenire? Non si pretende il trattamento Marino, cioè i consiglieri regionali segregati da Orfini nello studio di un notaio. Ma almeno la cura Marini, cioè una telefonatina del segretario a Oliverio perché abbia la “sensibilità” di dimettersi, sarebbe d’uopo. Tantopiù che a febbraio in Calabria si vota. Oppure Zinga potrebbe dare un senso ai ben 9 probiviri della “Commissione di Garanzia”, che troneggiano inutilmente sul sito del Pd e che qui citiamo per nome e cognome a imperitura memoria: Filippo Barberis, Daniele Borioli, Loredana Capone, Bernardo De Stasio, Marco Di Maio, Marilena Fabbri, Giovanni Lattanzi, Enrico Panunzi e Silvia Velo. Ragazzi, tutti bene? Come trascorrete le vostre giornate? Ma soprattutto: vista la disparità di trattamento che il Pd riserva alle accuse (ben più lievi) per la umbra Marini e a quelle (ben più gravi) per il calabrese Oliverio, siete informati che la Calabria è in Italia?