Biglietti nominali, il muro dei promoter

Surreale vedere quasi tutti i protagonisti di Assomusica riuniti ieri in conferenza stampa allo stesso tavolo. È stata la prima volta nella quale si sono ritrovati uniti almeno su un punto: cancellare la norma del biglietto nominale entrata in vigore il 1 luglio, a firma del deputato Sergio Battelli dei Cinquestelle (definita da quasi tutti “una idiozia da chi non conosce il settore”). Ma già sulle azioni concrete per combattere il secondary ticketing (i “bagarini”) le divergenze dilagano. L’oggetto del contendere è un possibile aumento dei biglietti di 8-10 euro e un raddoppio dei tempi di attesa per i controlli ai cancelli. Le ragioni dei Promoter potrebbero coincidere con quelle del pubblico: non si potranno regalare biglietti ad amici o familiari, si dovrà arrivare almeno due ore prima ai concerti nonostante un biglietto numerato che ha creato l’abitudine di arrivare anche a dieci minuti dall’inizio dello show.

Inoltre la procedura per cambiare biglietto diventa molto più complicata, coinvolgendo anche l’Agenzia delle entrate, aumentando notevolmente burocrazia, tempi di attesa e costi, ovviamente spalmati su chi realmente paga, il cliente. Siamo il sesto paese nel mondo (a pari merito con il Canada) per biglietti venduti, con un significativo trend di crescita che dura da anni. Insomma un settore che va a gonfie vele nonostante il fenomeno dei secondary ticketing: la spaccatura è tra chi minimizza la percentuale di poche centinaia di biglietti sul totale (Andrea Pieroni di Vertigo) e chi ne enfatizza i danni (De Luca, Salzano, Zard). C’è anche chi ha una posizione fatalista come nel caso di Salvadori (“quando qualcuno vuole qualcosa trova sempre il modo di arrivarci e quindi non è oscurando un sito che si risolve il problema, se ne aprirebbe subito un altro”). In un contesto diverso dal solito far west da concorrenti, non è emersa alcuna autocritica sul loro operato: nessun promoter dichiara il numero esatto dei biglietti venduti per concerto in modo da essere trasparenti e generare una sana concorrenza tra artisti. Da anni negli Stati Uniti viene pubblicata la classifica Boxscore su Billboard, con i cinquanta concerti più redditizi. Sarebbe un passo cruciale contro i rumors e le malelingue sempre edotti su quanti biglietti omaggio ha avuto tizio e quanto è stato flop Caio. Ma premierebbe chi ha lavorato bene e raccolto biglietti realmente pagati. Attendiamo fiduciosi qualche risposta.

“Mi rifugio nella scrittura perché la realtà è un incubo”

“Patti mi disse: ‘Tienimi per mano, sono un po’ distratta’. Aveva paura di cadere dalla scala. Così feci. L’indomani, sul Web, qualcuno mi scrisse: come hai osato toccare quel mito?”. Sanremo 2012. Miss Smith ospite dei Marlene Kuntz di Cristiano Godano. Che ricorda: “Fu standing ovation per lei dopo Because the night. Avevamo proposto insieme pure Impressioni di settembre. Lì mi attaccarono i puristi del progressive: hai dissacrato la Pfm! E dire che il mattino dopo Di Cioccio e Mussida mi mandarono sms in cui manifestavano apprezzamento per la nostra cover”. Quando un gruppo chiave del rock alternativo mette la faccia in una manifestazione superpop, rischia i pomodori.

“Eravamo andati al Festival per far ascoltare più volte la nostra Canzone per un figlio. Della gara non ci fregava nulla. Percepivamo il clima di guerra anche dalle strette di mano dei colleghi. Noi restavamo a cazzeggiare in camerino, in quei corridoi decadenti dell’Ariston. Un clima guascone anche cinque minuti prima di salire sul palco. Ci vide un addetto al trucco e disse: ‘In venti anni che lavoro qui non ho mai visto nessuno ridere, tutti si cagano sotto’. Ma sì, vaffanculo, eravamo riusciti a restare rock’n’roll”. E a quel punto ne avevano già fatta di strada i Marlene Kuntz: erano sopravvissuti alla stagione gloriosamente effimera dell’alternative anni Novanta. “Beh”, riflette Godano, “al tempo del nostro primo disco Catartica avevo già 27 anni, ero un osservatore scafato. Le band della scena originaria, Litfiba, Diaframma, Afterhours, CCCP, Verdena si esibivano davanti a 500 persone, la moria dei gruppi era una costante, pochi riuscivano a mantenersi con il rock, figurarsi uno come me che si ispirava ai Sonic Youth e veniva da Cuneo”.

Come si è prosciugata quell’onda ribollente di energia? “L’Italia non ha una cultura rock, non esiste un tessuto sociale che spinga per una visione diversa della musica e della vita. L’alternative era una derivazione del grunge Usa, che da noi era arrivato in ritardo. Era una moda: fu presto messa a regime dalle grandi etichette e amen, passò il momento d’oro delle chitarre”. Ma i Marlene sono ancora qui: per l’autunno (dopo il rinvio estivo) hanno in canna una tournée suggestiva, concerti doppi ogni sera, uno acustico e l’altro elettrico, la formula è “MK 30:20:10 MK al quadrato”. Si festeggiano il trentennale dall’esordio e i due decenni dall’uscita del terzo album Ho ucciso paranoia. Il dieci sta per le città in cui faranno tappa. Ma il 58enne frontman Godano rifiuta l’idea che si tratti di autocelebrazione passatista. Semmai, è un faro di luce più ampio per illuminare le zone rimaste in ombra dei Marlene.

Per rafforzare l’operazione, ha pubblicato un libro, Nuotando nell’aria (La Nave di Teseo) dove disseziona, canzone per canzone, la trilogia fondante dei Marlene (il secondo disco era Il vile): “Occhio: non è un tentativo di spiegare i nostri brani, ma un resoconto in prosa ricco di aneddotica, di slanci poetici, di riflessioni sulla musica e anche sull’attualità”.

Impresa quasi eroica, in tempi come questi. “L’attualità è un incubo. Scrivendo, evito quel magma ribollente di odio che è diventato Internet. Un titolo come Nuotando nell’aria è stato spesso percepito come l’autoconfessione di un tossico, ma i maliziosi si sbagliano. Mi hanno dipinto in ogni modo, da zecca a fascistello, e oggi non c’è modo di confrontarsi civilmente in Rete. Un libro serve a recuperare l’idea dell’approfondimento, per scandagliare pensieri e condividerli. Internet è il campo velenoso dove il potere sta esercitando la sua manipolazione maligna, e non è un fenomeno solo italiano. L’Occidente liberale è a serio rischio: i valori di accoglienza, bontà ed empatia non sono più scontati. E se penso a quando, già anni fa, scrissi una canzone come Catastrofe mettendomi nei panni dei nuovi clochard italiani – i neo poveri che vediamo chiedere l’elemosina – mi chiedo come potrebbe essere deformata oggi. Da quelli che gridano ‘Prima gli italiani’ e che ti ringhierebbero addosso usando un tuo stesso verso”.

Legge sui libri. Il paradosso: partiti uniti, editoria divisa

Il centro d’attrazione di questa nuova proposta di legge per la promozione della lettura (che muoverà 3,5 milioni di euro a sostegno del sistema culturale e della diffusione dei libri in Italia) è certamente il suo articolo 9, che fissa un nuovo tetto per gli sconti al 5 per cento del prezzo di copertina del libro. Inoltre, si legge proseguendo nel testo che giusto ieri è approdato alla Camera per la discussione, soltanto per un mese l’anno le singole case editrici e i distributori potranno effettuare sconti pari al 20 per cento su tutti i propri titoli, tranne per quelli pubblicati nei sei mesi precedenti al mese stesso della promozione. Un’altra deroga prevista concerne i libri di testo adottati dalle istituzioni scolastiche, scontabili fino al 15 per cento, e i testi venduti alle biblioteche, su cui non vi sono limiti. Il cambiamento proposto dalla nuova soglia è stringente e netto rispetto alla precedente legislazione, la Legge Levi del 2011, che invece prevede “solo” un massimo del 15 sia per le vendite in libreria sia su Internet.

La reazione, c’è da dirlo, ha della farsa: se da un lato la classe politica è concorde, se dunque da destra a sinistra – dalla Lega al Pd, passando per Forza Italia, i 5Stelle e Fratelli d’Italia – si registra unanimità d’intenti, sul fronte degli addetti ai lavori è bagarre.

I dati di lettura nazionali sono sconfortanti: secondo l’Istat, sono passati dal 45,3 per cento del 2011 con 26 milioni di italiani lettori al 41 del 2017 con 23,5 milioni, e per Ali (Associazione Librai Italiani) la direzione della legge è quella “giusta” perché si tratta di un progetto “che cerca di rimettere al centro nelle scelte politiche il libro e la lettura”. Il tentativo è anche quello di difendere le librerie indipendenti, fortemente sacrificate dallo strapotere delle vendite online. Tra i tredici articoli del ddl Lettura, spicca inoltre l’art. 7 che vieterà il cross-advertising di Amazon (un buono spesa in regalo, con l’acquisto di due libri). Infatti, anche per l’Adei (Associazione degli editori indipendenti) è “un primo prezioso traguardo” perché “difende le librerie dal rischio di estinzione” e “introduce regole ineludibili che permettono concorrenza più equa”. Scontenti, ça va sans dire, i grandi gruppi editoriali, la cui quota di mercato sia nella produzione che nella vendita – sempre secondo dati Istat – è passata dal 77,5 % del 2010 all’80% del 2017. Insieme a loro, il presidente dell’Aie (Associazione Italiana Editori) Ricardo Franco Levi, secondo cui si tratta di “una legge contro la lettura”, manchevole di “un significativo sostegno alla domanda” e “contrario agli interessi degli italiani e delle famiglie”.

Alessandra Carbonaro (deputata 5Stelle e relatrice della legge) commenta così: “Mi dispiace si riduca tutto al tema dello sconto. Si tratta di una legge organica, che affronta la questione della diffusione della lettura nella sua totalità”. E in effetti, regola anche le cessioni gratuite, aumenta il tax-credit per le librerie, prevede un piano d’azione nazionale e assunzioni per il Cepell (Centro per il libro e la lettura).

 

 

Pro
Gessner: “Nel giro di qualche anno scenderà pure il prezzo di copertina”

Andrea Gessner, da editore di un marchio indipendente come nottetempo edizioni, cosa pensa di questa proposta di legge?
Sono favorevolissimo. Perché porterà, nel giro di quattro o cinque anni, a un abbassamento del prezzo di copertina dei libri. È dimostrato dalle esperienze all’estero che nei Paesi in cui non si applica sconto ai libri – per esempio in Nord Europa – gli editori fissano un prezzo più basso perché non viene calcolato in base allo sconto applicabile.
Lei parla anche come proprietario di una libreria indipendente.
Se le librerie indipendenti scomparissero, assisteremmo a una concentrazione economica marxiana, rimarrebbero solo pochissimi player nella commercializzazione del libro: le grandi catene e l’ecommerce.
Quindi il nemico è Amazon…
Non è assolutamente un nemico. Ma oggi sono molti i lettori che si recano in libreria per vedere, toccare, scegliere un libro. Poi lo fotografano o segnano il titolo e lo acquistano on-line. Le librerie indipendenti si sono ridotte a essere le vetrine dei colossi dell’ecommerce, senza però guadagnarci niente.
Ma a perderci, forse, non saranno i lettori che dovranno spendere di più?
Il prezzo, come dicevo, diminuirà in pochi anni. Ma è solo una parte del problema. Sostenere la lettura passa anche attraverso altri fattori, per esempio la proposta della card di 100 euro per i lettori in difficoltà e soprattutto la defiscalizzazione.
Come per i farmaci.
La necessità è la stessa. Appoggiare la diffusione del libro non è una preoccupazione da radical-chic, ma di tutti, proprio come curarsi. Significa sanare la coscienza civile, la crescita culturale dell’uomo, quindi farlo stare meglio.
AMF

 

Contro
Mauri: “Altro che incentivi: così si deprimono soltanto i lettori”

Stefano Mauri, cosa ne pensa lei che è presidente e ad del gruppo Gems?
Secondo noi e secondo l’Aie, di cui facciamo parte, questa proposta di legge che riduce ulteriormente gli sconti (rispetto alla legge Levi) non può affatto considerarsi un incentivo alla lettura. Oltretutto, delle altre iniziative a corollario sono rimaste poche briciole: il rischio è che si deprimano sia la lettura sia i lettori.
Quali sono le altre iniziative bocciate?
Ad esempio, una forma di defiscalizzazione dei libri, un po’ come le detrazioni per i farmaci, con un tetto più basso. Altro provvedimento fondamentale sarebbe regolarizzare il Bonus Cultura, la cosiddetta 18 App: quest’anno le risorse sono state trovate. Ma in futuro? Il problema dei fondi non può ripresentarsi ogni anno.
Limitare il cross-advertising è però importante…
Purtroppo spunteranno sempre nuove promozioni in grado di aggirare i paletti della legge. Servono controlli seri: non si può pensare che sia la polizia municipale a contrastare il fenomeno.
Le librerie indipendenti per ora esultano.
Non hanno capito che molti hanno chiuso per colpa di un colosso chiamato “ecommerce”, non per gli sconti, che, ripeto, erano già stati regolamentati e abbassati dalla legge Levi. È grazie a essa che abbiamo scongiurato gli sconti selvaggi fino al 50 per cento, allineandoci con altri Paesi europei.
Eccezionalmente i partiti politici sono tutti d’accordo.
Beh, in Parlamento c’è anche chi sostiene l’inutilità dei vaccini… Di questo passo non saremo più sicuri nemmeno che la terra è rotonda…
Avete protestato?
Più volte, ma l’Aie, l’associazione che rappresenta il 95 per cento degli editori, non è stata ascoltata.
Cam. Ta.

“Mamma li turchi”, se dimentichi l’assicurazione

Ce ne rendiamo conto a 200 metri dal check point: “Abbiamo dimenticato a casa l’assicurazione”. “Ce l’hanno rilasciata loro, ne avranno una copia”. Mai dare per scontata la burocrazia. Famagusta, città turca di Cipro, estate 2018. Per la prima volta da quando siamo arrivati, decidiamo di passare una giornata nel mare “greco”, nell’assurdità di un’isola divisa in due dopo l’invasione del 1974 (mai riconosciuta dalla comunità internazionale, che si è limitata a mandare i caschi blu). Per passare da uno “stato” all’altro, occorre attraversare i check point e, se quello greco per noi europei è un sorriso, di fronte ai poliziotti turchi meglio essere seri. Se si noleggia un’auto all’aeroporto internazionale, al confine turco bisogna pagare un’altra assicurazione.

In macchina siamo io, i miei due figli e il mio compagno, che guida. Ci fermano. Consegnamo i passaporti. Ci chiedono il foglio dell’assicurazione. “Ci scusi, lo abbiamo lasciato a casa”. Il poliziotto ci domanda se, all’arrivo, abbiamo attraversato il suo check point. “Sì”. L’agente scompare. Quando torna, chiede al mio compagno di seguirlo in caserma. Ha i nostri passaporti in mano e nessun sorriso di circostanza. Intima a noi di rimanere in auto. Rassicuro i bambini: “Tra poco andiamo, tranquilli”. Passano 10 minuti, 20, 30. Il sole picchia sul tettuccio, ma non mi azzardo neanche a mettermi al posto di guida. Quaranta minuti, 50, panico. Devo chiamare l’ambasciata, forse Travaglio (“Direttore, la vuoi la storia di una tua cronista in una galera turca?”). Dopo un’ora, mentre asciugo le lacrime, il mio compagno torna ridendo: “Mi hanno fatto visionare tutti i filmati della notte in cui siamo arrivati. Ho dovuto convincerli che non ero quello con la panza”. “Fiuuuu, meno male. Ora possiamo andare al mare?”. “No, dobbiamo tornare a casa a prendere l’assicurazione”.

“Partire in due e tornare in tre”? Falso: in estate è più difficile avere figli

Le zie possono stare tranquille: “Partire in due e tornare in tre” è un luogo comune infondato, almeno in estate. Sì perché caldo, relax e intimità influenzano poco o per nulla la fertilità: anzi, il picco dei concepimenti è nel periodo invernale, a dicembre soprattutto. Merito di Babbo Natale.

Luglio, col bene che ti voglio, è inadatto agli aspiranti genitori. La stagione calda, infatti, a dispetto dei bollori, non è la migliore per avere un figlio; al contrario: “In tutta Europa, da almeno vent’anni, si registra un aumento delle nascite proprio a luglio, agosto e, in particolare, settembre. Dal 2015 al 2019 c’è stato un boom in tal senso, ciò significa che il concepimento maggiore è intorno a Natale”, ha spiegato Claudio Giorlandino, ginecologo e direttore generale dell’Italian College of Fetal Maternal Medicine.

È vero, però, che la fertilità è correlata al benessere psicofisico, per cui “nei periodi di maggiore serenità e felicità – come una vacanza – c’è più possibilità di concepire, legata anche al maggior numero di rapporti”. Tuttavia non esiste alcuna influenza ambientale o correlazione neuroendocrina tra relax e fertilità; per agire sul sistema endocrino il riposo deve essere prolungato, non bastano certo due o tre settimane di ferie: “All’uomo occorrono almeno sei mesi per ‘migliorare’ gli spermatozoi, mentre alla donna può servire anche un anno intero per regolare l’attività ovulatoria”.

L’ozio, insomma, non è di per sé amico della fertilità, anche se la vacanza, conclude il medico, “favorisce la predisposizione ad avere più rapporti sessuali e quindi la disponibilità ad avere figli”.

Al lago con Fedez in sella alla moto (non ditelo a Balo)

Camminare sull’acqua è privilegio di pochi: ci vuole fede. Guidare sull’acqua è tentazione di molti, ma ugualmente privilegio di pochi: ci vuole la moto giusta, oltre che un amico saggio, almeno più di Mario Balotelli che ha incitato il compare Catello a tuffarsi col motorino nel mare che bagna Napoli. Ovviamente affondato, mentre nelle stesse ore – in quel ramo del lago di Como – Luca Colombo, pilota milanese esperto di fuoristrada, batteva il record del mondo di velocità (104 chilometri all’ora) in acqua dolce in sella a una Honda.

È la dura legge della fisica, che ha premiato la tecnica – e la due ruote truccata di oltre 250 chili – di Colombo e punito la bravata di Balotelli e compagni belli: oltre ai duemila euro sganciati a Catello Buonocore, che ha vinto la scommessa col calciatore buttandosi moto-munito dal molo di Mergellina, Mario è stato denunciato ieri per istigazione a delinquere ed esercizio del gioco d’azzardo. La segnalazione è stata presentata dalla polizia municipale di Napoli all’autorità giudiziaria, dopo le indagini scattate in seguito alla pubblicazione sui social network del video della scommessa. Insieme con il giocatore, al momento “disoccupato”, sono state denunciate tre persone: il coraggioso tuffatore Catello, il proprietario dello scooter e il titolare della concessione d’uso del molo di Mergellina. Dulcis in fundo, all’allegra comitiva vengono contestati anche i reati di abbandono di rifiuti pericolosi e getto pericoloso di cose. Con le ruote soprattutto.

È andata decisamente meglio a Colombo, neodetentore del primato internazionale di motocicletta lanciata a pelo d’acqua (dolce), dopo aver battuto sabato il record dell’australiano Robbie Maddison, fermo a 93,3 chilometri all’ora. “Dopo una breve rincorsa sulla spiaggia”, riportano le cronache, l’indomito centauro ha attraversato il lago, da Gravedona a Dongo, in soli 2’ 43” minuti, senza mai scendere al di sotto dei 55,6 chilometri orari, la velocità necessaria per poter correre sull’acqua senza affondare. “La verità è che non sai mai cosa può succedere ogni volta che metto la moto in acqua”, disse Colombo. E pensò Catello, ma era ormai troppo tardi.

Per evitare capitomboli in acqua – e multe e figuracce – più furbi di tutti si son fatti i Ferragnez, ribattezzati i “Kardashian di Cremona”, ovvero tutta la grande famiglia di Chiara Ferragni e Federico Lucia (per brevità chiamato Fedez), con figlio, genitori, sorelle, fidanzati e cagnolini al seguito, spiaggiati sempre sul lago di Como: George (Clooney) rules. Gite in barca, sci d’acqua, wakeboard, ma la moto proprio no: è da cafoni. Il prefetto di Como Ignazio Coccia potrebbe però rovinare il felice soggiorno da 10 mila euro a notte: nel fine settimana, infatti, Coccia ha inviato una lunga e scocciata lettera al presidente della Provincia, ai comuni rivieraschi, alle forze dell’ordine e all’autorità di bacino, stigmatizzando gli “atteggiamenti di sfida” da parte dei molti turisti che “praticano sport nautici quali windsurf e kitesurf, le cui manovre imprudenti e azzardate ostacolano il transito dei mezzi pubblici di linea, impedendo addirittura l’approdo e la ripartenza dei battelli dai pontili, in condizioni di sicurezza”. Molto meglio le moto.

Pasic e il suo campo da calcio per salvare i ragazzi da Sarajevo

L’assedio di Sarajevo durò 1264 giorni, il più lungo della storia europea, e vide la morte di più di 11 mila cittadini. Il primo stato della Jugoslavia a separarsi della Federazione Socialista era stato, nel 1991, la Slovenia; poi era arrivata la dichiarazione d’indipendenza della Croazia, duramente contrastata dalla sua componente serba, ed era iniziato il conflitto serbo-croato. Mentre tutto ciò accadeva, nella città di Sarajevo, capitale della Bosnia-Herzegovina, un microcosmo culturale in cui da sempre avevano convissuto tre diverse etnie, i croati cattolici, i serbi ortodossi e i bosniaci musulmani, i giorni scorrevano tranquilli. Quando però, l’1 marzo 1992, il popolo venne chiamato a esprimersi riguardo l’indipendenza, che venne votata al 90%, la situazione precipitò: la componente serba (il 37% della popolazione), che non voleva separarsi dalla Federazione, aveva boicottato le urne; e quando il 6 aprile Europa e USA riconobbero la Bosnia come stato indipendente, scoppiò la guerra. Da un giorno all’altro Sarajevo, la Gerusalemme dei Balcani, la città sospesa tra Oriente e Occidente si trasformò in teatro di immani, indicibili violenze.

Per Predrag Pasic Sarajevo è sempre stata la città più bella del mondo. Pasic è un bravissimo calciatore, centrocampista. Con la nazionale jugoslava ha preso parte ai mondiali di Spagna dell’82 vinti dall’Italia e dopo aver giocato in Germania nello Stoccarda e nel Monaco 1860 è tornato a Sarajevo a fine ‘88 per concludere la carriera nel FK Sarajevo, il club che lo ha cresciuto. Predrag è sempre stato orgoglioso di vivere in una città dove cristiani, ebrei e musulmani si danno la mano e dove vedi gli ebrei andare in sinagoga mentre i rintocchi delle campane delle chiese cattoliche si confondono e sfumano tra i canti del muezzin. Predrag è ortodosso, ha sposato una donna cattolica e sua figlia ha sposato un musulmano. A Sarajevo è nato, cresciuto, si è affermato ed è tornato oggi, che ha 33 anni: oggi che all’improvviso è scoppiata la guerra.

Predrag non crede ai suoi occhi: c’è qualcosa di malato nel mondo che gli sta impazzendo attorno. “Allo scoppio della guerra – racconterà a Osservatorio Balcani & Caucaso – ho scelto di rimanere qui. Io ero un calciatore, la gente mi conosceva per quel motivo. Così con alcuni amici ho pensato: creiamo una scuola di calcio. Per dare un segno di normalità. Siamo andati a fare l’annuncio alla radio: Predrag Pasic apre a Sarajevo un’accademia per futuri campioni: Bubamara (che significa coccinella, un portafortuna, ndr). Pensavamo non sarebbe venuto nessuno, ci aspettavamo 6-7 persone. Il campo di allenamento era a Skenderija, vicinissimo al fronte. Toccava attraversare un ponte costantemente sotto tiro dai cecchini, ce n’era uno a ogni incrocio. Si presentarono in più di duecento. Bambini musulmani, serbi, croati. Fuori ci si sparava per queste differenze”.

Tra il 75 e l’85, il suo primo decennio da calciatore nel FK Sarajevo, Pasic ha vinto uno scudetto giocando con Petkovic (che diventerà allenatore della Lazio) e Jozic (che giocherà nel Cesena) ma ha soprattutto avuto modo di conoscere e apprezzare Radovan Karadzic, classe 45, psichiatra, preparatore e motivatore della squadra: “Ci insegnava ciò che anch’io oggi tento di trasmettere ai miei ragazzi: che la diversità è una risorsa. Che siamo tutti parte della stessa squadra e che, come squadra, si vince. E sono sincero: non riuscirò mai a capire cosa sia successo nella testa di Karadzic”. Già. Perchè all’improvviso scoppia la guerra e Karadzic, il motivatore del FK Sarajevo, si trova a vestire i panni del leader della Repubblica Serba di Bosnia, nata con la benedizione del presidente serbo Milosevic; e in coppia col suo braccio armato Ratko Mladic inizia a macchiarsi di violenze e crimini spaventosi (a fine conflitto, dopo una lunga latitanza, sarà arrestato nel 2008 e condannato, nel marzo 2019, all’ergastolo per crimini di guerra e crimini contro l’umanità come il massacro di Srebrenica e le tante operazioni di pulizia etnica contro civili non serbi).

A Sarajevo i bambini serbi, croati e musulmani giocano a pallone al Klub Bubamara mentre i loro papà, i loro zii, i loro vicini di casa si ammazzano in quanto serbi, croati e musulmani a duecento metri dal loro campetto. Pasic insegna ai bambini che tutto ciò è follia, che tutti i diversi sono uguali; e saranno diecimila, negli anni, i bambini che staranno ad ascoltarlo; e quaranta diventeranno calciatori professionisti e centinaia medici, avvocati e insegnanti e tutti – ciò che più conta – brave persone. E anche se nel 2014 il sindaco Memic del SDA (il partito tradizionale bosniaco) ha sfrattato Bubamara consegnando gli impianti al FK Sarajevo, con cui ha forti connessioni politiche (“È piuttosto ironico, considerando che si sta parlando della mia vecchia squadra della quale sono stato la bandiera. Ma questi sono i tempi”, ammette Pasic), Predrag è contento lo stesso: aspetta di riavere ciò che gli spetta, naturalmente, ma la missione che s’era dato è andata in porto. È anche grazie a lui se Sarajevo, oggi, è bella come sempre è stata.

 

Unicredit fa ancora cassa: ceduto l’ultimo 18% del gioiello Fineco

Unicredit vende il 18,3% di Fineco e con un collocamento accelerato, a due mesi dalla cessione con le stesse modalità di una quota del 17%, esce del tutto alla banca online. Con un ulteriore incasso di 1,1 miliardi di euro il gruppo di Piazza Gae Aulenti fa così un nuovo passo verso il nuovo piano industriale che il ceo Jean Pierre Mustier presenterà a Londra all’inizio di dicembre. La cifra, insieme alla cessione di asset immobiliari e a una ulteriore sforbiciata sui crediti deteriorati, dovrebbe contribuire a centrare l’obiettivo di Unicredit di raggiungere la parte alta dei requisiti patrimoniali chiesti per il 2019 dalla Bce. Unicredit aveva già ridotto la propria partecipazione in Fineco due volte nel 2016. Nonostante lo stallo sull’ipotesi di fusione con Commerzbank (che Berlino non vuole), tutte le mosse del banchiere ex Société Général, arrivato a giugno 2016, si spiegano solo col tentativo di puntare ad acquisizioni o fusioni sul mercato estero. Finora ha badato a pulire la banca dalle sofferenze, costata una ricapitalizzazione da 13 miliardi che ha schiantato i soci storici italiani. Poi ha ceduto i gioielli di casa che garantivano utili: la polacca Pekao, il gestore del risparmio Pioneer e ora Fineco.

Pop Bari, tregua tra De Bustis e Jacobini: ecco i nuovi nomi

Alla Popolare di Bari scoppia la tregua. Le due anime in lotta per la guida della più grande banca del Sud Italia – la famiglia Jacobini, storica padrona dell’istituto da un lato e il consigliere delegato Vincenzo De Bustis – hanno trovato ieri l’accordo per rinnovare il consiglio di amministrazione. La partita più rilevante riguardava il successore del presidente, Marco Jacobini, in sella da tre decenni (i figli Luigi e Gianluca sono manager apicali) che, su input di Bankitalia, dovrà lasciare dopo l’assemblea del 21 luglio. In cda entrano Gianvito Giannelli, docente universitario e nipote di Jacobini e Francesco Ago, avvocato e socio dello studio Chiomenti, uno dei più importanti d’Italia. Quest’ultimo è stato indicato da De Bustis, rientrato a Bari a dicembre scorso e forte del supporto di Via Nazionale. Uno dei due è destinato a diventare il presidente, che verrà indicato dal nuovo cda. L’intesa – che prevede la nomina di De Bustis ad amministratore delegato – ha ottenuto la benedizione della Banca d’Italia. È stata proprio la vigilanza nelle scorse settimane ad alzare la pressione chiedendo con una lettera un ricambio a i vertici dell’istituto, in crisi da tempo (con tanto di nuova ispezione avviata). La lista dei nomi comprende anche i sostituti dei 4 consiglieri in scadenza e del vicepresidente, dopo le dimissioni di Giulio Sapelli (l’economista è stato per giorni tra i papabili per il dopo Jacobini), ma sulle identità c’è riserbo.

Al nuovo cda spetterà un compito complicato. Mercoledì la banca ha rettificato nuove perdite, che portano il “rosso” del 2018 a 420 milioni e riducono i coeficenti patrimoniali poco sopra i minimi regolamentari Srep. L’obiettivo di peso è procedere a una fusione per poter beneficiare dei 500 milioni di crediti fiscali da computare a capitale in caso di fusione con un altro istituto del Sud grazie a una norma del decreto Crescita. La prima indiziata è la Popolare di Puglia e Basilicata.

Deutsche Bank, i tagli non bastano: giù il titolo

Da Sidney a Hong Kong, da Singapore all’India e infine da Londra a New York: è stata questa la rotta delle conference call con le quali ieri dalla direzione di Francoforte la Deutsche Bank ha avvisato centinaia di dipendenti del loro licenziamento, concedendo poche ore per lasciare il lavoro. Sono stati i primi tra i 18mila che perderanno il posto entro il 2022, uno su cinque nel gruppo, con l’organico complessivo che calerà dai 91.463 addetti di fine marzo a 74mila. Tv e fotografi hanno registrato l’ormai classico deflusso di impiegati con gli scatoloni in mano dalle varie sedi nel mondo. Domenica il consiglio di sorveglianza dell’istituto tedesco ha varato un piano draconiano per tentare di rimettere in sesto i conti della banca, ma il mercato ha forti dubbi che l’intervento, anche se più duro delle previsioni, possa bastare.

I punti cardine del piano, presentato dall’amministratore delegato Christian Sewing, prevedono innanzitutto il taglio dell’organico, che comporterà oneri di ristrutturazione per 5,1 miliardi entro fine anno e hanno già mandato in “rosso” per 2,8 miliardi di euro la seconda trimestrale, mentre ulteriori oneri sono previsti anche per i prossimi anni sino a un totale di 7,4 miliardi entro la fine del 2022. I costi complessivi saranno tagliati di sei miliardi per scendere a 17 entro il 2022, inferiori del 22% rispetto ai 21,8 previsti nel 2019, riducendo il rapporto costi/ricavi dall’attuale 90 a circa il 70%. La ristrutturazione sarà pagata attraverso una nuova riduzione del patrimonio netto che porterà l’indice di vigilanza Cet 1 al 12,5% dal 13,6% dell’anno scorso (ma era al 14,8% a fine 2017) e con il blocco dei dividendi per quest’anno e per il prossimo, cosa mai accaduta dal lontano 1993. Db ha detto di non prevedere la necessità di un aumento di capitale per sostenere i costi di ristrutturazione. A fine piano, nel 2022, però la banca prevede un rendimento del patrimonio netto tangibile all’8%. Gli investimenti previsti, 13 miliardi, saranno focalizzati su big data e intelligenza artificiale, e 4 miliardi andranno a migliorare i controlli interni. Dal 2022, la banca prevede di pagare 5 miliardi agli azionisti.

In termini operativi, la scure si abbatte sulla divisione americana e londinese di investment banking, sinora strategica ma anche tallone d’Achille della banca (nel 2018 generava la metà dei ricavi ma anche 750 milioni di euro di perdite), che sarà divisa in due e che abbandonerà le attività di compravendita azionaria. Il nuovo fulcro industriale di Deutsche Bank sarà il corporate banking, cioè l’attività finalizzata a servire le grandi aziende, alla quale saranno affiancati il private banking, l’asset management e ciò che resterà dell’investment banking. Sarà poi creata una “bad bank” nella quale saranno trasferiti asset per circa 74 miliardi, pari al 40% degli attivi ponderati per il rischio, che peseranno 288 miliardi in termini di leva.

Con questa ritirata la banca abbandona le ambizioni globali e torna alle proprie radici storiche, finanziando le aziende tedesche ed europee e i clienti al dettaglio. Ma il piano non convince tutti gli analisti: alcuni degli obiettivi sembrano eccessivamente ottimisti e improbabili, specie quello del rendimento sul capitale, secondo una nota degli analisti di Citigroup. Goldman Sachs ha avvertito che Deutsche Bank deve affrontare sfide pesanti per attuare la ristrutturazione e segnala la domanda di fondo che riguarda i ricavi: come riusciranno a crescere? Anche per Royal Bank of Canada il piano è “più radicale del previsto” ma resta la valutazione di alto rischio. Secondo JP Morgan Cazanove, la ristrutturazione è audace e per la prima volta è un vero cambiamento strategico.

C’è poi un’altra spada di Damocle: con derivati in pancia per un valore nozionale di 43.500 miliardi di euro, basterà la “bad bank” da 288 miliardi a tenere confinati i rischi dei titoli tossici? I dubbi hanno pesato sul corso dell’azione: alla Borsa di Francoforte il titolo Db era partito al rialzo ma ha poi chiuso a 6,79 euro, in calo del 5,39% su venerdì.