“Non è una sconfitta: Alexis ha retto all’urto”

Luciana Castellina, qual è il significato della sconfitta di Alexis Tsipras?

Io non la chiamerei sconfitta. Certo, è stato un epilogo amaro: Tsipras perde il governo dopo aver guidato il suo Paese negli anni più terribili. E lo ha fatto con coraggio, rinunciando alle decisioni demagogiche. Si è rifiutato di ascoltare chi gli diceva di uscire da tutto: la Grecia sarebbe affondata nel Mediterraneo in tre giorni, non avrebbe potuto nemmeno più pagare il carburante. Ha combattuto e tentato di distribuire nel modo più equo le misure durissime, da mascalzoni, imposte dalla Troika. Che peraltro servono a ripagare un debito fatto dal partito di Mitsotakis e dai governi precedenti. Cioè i nuovi vincitori.

Sta descrivendo una sconfitta, appunto.

Questo partito (Syriza, ndr) 10 anni fa aveva il 4,6%. Poi è andato al governo, ha vinto due campagne elettorali consecutive ed è sopravvissuto a una sfida così tremenda, in fondo, senza perdere nemmeno troppo consenso: sono passati dal 36% al 31,6%. Malgrado una campagna mediatica forsennata contro, sono ancora il partito di sinistra più forte d’Europa.

Ad Atene nel 2015 in migliaia in piazza ballavano, cantavano Bella Ciao, c’era l’idea di andare a sfidare il potere costituito: la vittoria di Tsipras fu la speranza di cambiare l’Europa. Un’idea tradita, non crede?

Ma cosa poteva fare? Ricorderà che nella notte decisiva della trattativa con l’Europa Tsipras si tolse la giacca, affranto, come a dire: “Prendetevi pure questa”. Mitsotakis non sarà trattato così: è uno dei loro. Tsipras ha avuto il coraggio dell’impopolarità. Ha tirato fuori la Grecia da una situazione di schiavitù, di mancanza di sovranità. È riuscito a restituire al suo Paese una po’ di margine d’azione, a liberarsi dalla Troika.

Il suo ex ministro dell’Economia, Varoufakis, lo invitava ad andare fino in fondo.

Bel consiglio. Come lui, anche i comunisti del Kke gli dicevano di “rompere tutto”. Tsipras è stato responsabile. Quando non hai abbastanza forza, non puoi sbattere la testa contro il muro.

Lo sta descrivendo come un bravo politico riformista. Chi lo votava forse si aspettava altro.

Il fatto più grave e triste è che ora la gente non crede più che si possano cambiare le cose. La democrazia e le elezioni sono svuotate di importanza, le persone sono convinte che le decisioni si prendono altrove, i Parlamenti non contano più nulla.

La sconfitta di Tsipras non ne è la prova?

Tsipras è stato lasciato solo. Nessuno dei governi mediterranei che potevano avere interesse a dargli una mano (tra cui l’Italia di Renzi) l’ha fatto. Ripeto: che alternative aveva?

Era stato lui a promettere lo scontro frontale.

Non ha mai detto che sarebbe uscito dall’euro, ma che sarebbe andato fino in fondo nello scontro con l’Unione Europea. L’ha fatto, ci ha provato. Non aveva margine. Le pare che la Grecia avrebbe potuto uscire da sola? Le sembra che avrebbe potuto ambire all’autosufficienza?

È stato Tsipras a prometterlo, o no?

Ci ha provato. Uscire sarebbe stata una follia. Non c’è niente da fare: l’Europa è brutta quanto ci pare, ma è l’unico terreno di lotta possibile. Da sola nemmeno la Germania avrebbe alcun peso. È come se dicessi che siccome il regno dei Savoia non mi piace, sarebbe meglio tornare ai Borboni. I movimenti progressisti hanno deciso di combattere su quel terreno, non fuori. Che ci piaccia o no.

Mitsotakis giura da premier, ma l’Europa già lo aspetta

Ieri a Bruxelles, dove si riuniva l’Eurogruppo, l’Italia non è stata l’assoluta protagonista, perché negli scambi di pareri teneva banco il cambio di leadership in Grecia: le elezioni di domenica riportano al potere una vecchia conoscenza dei consessi europei, Nea Demokratia, un partito che, nel Parlamento europeo, sta nel gruppo del Partito popolare europeo – quello, tanto per intenderci, della Merkel e di Berlusconi –. Ha buone credenziali europee, pessime per le sue ultime esperienze governative.

Ma ministri ed eurocrati non potevano fare a meno d’interrogarsi se, per la Grecia e per l’Ue, il cambio della guardia ad Atene sia un buon affare o meno. Alexis Tsipras e il suo Syriza sono stati per l’Ue interlocutori tosti, ma affidabili, specie dopo esserci liberati del magnetico e mediatico, ma anti-euro ed anti-Ue, ministro delle Finanze dei loro esordi, Nikos Varoufakis. Tsipras e il suo partito hanno condotto la Grecia fuori dalla crisi, hanno accettato misure dolorose, hanno rispettato gli impegni presi. Questi che arrivano adesso, anzi che tornano, sono invece quelli che portarono la Grecia nel baratro, falsificando i conti e illudendo i loro partner e – quel che è peggio – i loro cittadini. L’occasione per porsi la domanda è stato l’esame della terza relazione sulla sorveglianza rafforzata, cui la Grecia è soggetta, dopo essere uscita, un anno fa, dalla tutela europea (e dopo avere incassato scuse europee e di Christine Lagarde, a nome dell’Fmi, perché la cura è stata eccessiva). Nessuna decisione, “La valutazione sarà fatta quando conosceremo le decisioni del nuovo governo”, ha spiegato il direttore del Meccanismo europeo di Stabilità (Esm), Klaus Regling. Ora, Kyriakos Mitsotakis, il vincitore delle elezioni, figlio dell’ex premier Konstantinos, assicura che la Grecia “rialzerà di nuovo la testa con orgoglio”: il neo-premier, 51 anni, è forte d’un mandato popolare netto – ha avuto quasi il 40 per cento dei suffragi contro poco più del 31 per cento a Syriza – e dice di volerlo spendere “per il cambiamento”, che però assomiglia a un ritorno al passato. Il neo-premier ha ricevuto l’incarico dal presidente Prokopis Pavlopoulos, ha giurato e s’è insediato. Gli sono giunti messaggi dei leader delle Istituzioni Ue – il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker parla di “futuro luminoso” – e di molti Paesi Ue. Un’apertura di credito gli viene da Lorenzo Bini Smaghi, ex membro del Consiglio direttivo Bce: “Nea Demokratia è cambiata, è pronta alle riforme”. Cauti, invece, borse e mercati.

La lista dei ministri, già comunicata, vede all’Economia – dicastero chiave – Christos Staikouras. Non è ancora chiaro se Staikouras, 45 anni, parteciperà, oggi, all’Ecofin, di cui conosce i meccanismi: fu, infatti, ministro delle Finanze dal 2012 al 2015 e partecipò a molte tese e drammatiche riunioni europee sulla Grecia. Da allora, è stato il ministro ombra di Nea Demokratia, all’opposizione. Dopo l’Eurogruppo, il commissario europeo agli Affari economici Pierre Moscovici s’è detto “impaziente” di lavorare con Staikouras. “La Commissione – ha aggiunto – resta al fianco dei greci, nei loro sforzi per stabilizzare l’economia e creare occupazione, soprattutto per i giovani”. A vagliare le credenziali europee della nuova compagine è Giorgio Papakonstantinou, socialista, ministro dell’Economia dal 2009 al 2011, in un “governo Papandreu” travolto dalla crisi: per lui, Mitsotakis è un riformatore, che “in campagna elettorale ha promesso di abbassare le tasse e rinegoziare l’obiettivo del 3,5 per cento di surplus annuale con i creditori”. L’ex ministro ritiene, però, che il successo di Mitsotakis dipenda dall’atteggiamento dell’Ue nei suoi confronti. Quanto all’operato di Tsipras, il giudizio di Papakonstantinou è negativo. “La cosa migliore è che ha voluto restare nell’euro… Il suo inizio è stato disastroso e ha perso metà del Pil in poco tempo” – come se la crisi l’avesse creata Syriza –: la Grecia “poteva uscire prima dal programma di aiuti, ma Tsipras ha pensato solo a fare cassa”.

“Trump è un inetto”: Altro che ambasciatore Londra cerca la talpa

Livello di crisi a Whitehall? off the charts. Fuori controllo, perché nemmeno gli altissimi mandarini del civil service britannico possono contenere le ripercussioni di uno dei più imbarazzanti incidenti diplomatici fra Usa e Regno Unito della storia recente.

La bomba esplode domenica, quando l’inserto del tabloid popolare e populista Daily Mail pubblica una serie di memo riservati dell’Ambasciatore britannico a Washington Kim Darroch. Che fa il suo lavoro, e nel corso del suo mandato riporta le proprie affilate valutazioni sull’amministrazione Trump. “Il vero segreto dei diplomatici e che siamo addestrati a dire qualcosa quando non c’è niente da dire, e a non dire niente quando c’è qualcosa da dire” ha scritto il diplomatico statunitense John Huntsman.

E invece Darroch, nei suoi memo, contando sulla riservatezza, parla chiarissimo. Fra le perle: “Non riteniamo che questa amministrazione possa diventare sostanzialmente normale, meno disfunzionale, meno imprevedibile, meno faziosa, meno maldestra e inetta diplomaticamente”. Sul presidente Usa: “Incompetente; inetto; vanesio; irradia insicurezza”.

Non esattamente quello che ci voleva, in questa fase pre-Brexit in cui il Regno Unito ha bisogno più che mai che l’alleato americano offra sostegno economico e politico. Ora inizia la fase dei popcorn, ma l’impressione è che l’input generale per uscire dall’imbarazzo sia gettare acqua sul fuoco, tanto la gente dimentica.

Comincia Trump domenica sera, con una damnatio memoriae preventiva dell’ambasciatore: “Non ha servito bene il suo paese… non siamo grandi fan di quell’uomo… Potrei rivelare delle cose di lui, ma preferisco ignorarlo”. Poi Theresa May, che tramite un portavoce ha dichiarato di avere “piena fiducia” in Darroch, che “il lavoro di un ambasciatore è quello di fornire opinioni oneste e non edulcorate”, ma che “lei non è d’accordo con quelle valutazioni”. Tiene il punto, perché non è che possa sconfessare uno dei rappresentanti diplomatici più potenti del paese, e comunque fra 15 giorni si dimette, la Storia la giudicherà su ben altro.

E insomma, l’imbarazzo con l’alleato si stempererà, ma la crisi è incalcolabile per altre due ragioni. La prima: chi ha fatto avere quei documenti al Daily Mail? A Whitehall è caccia alla talpa: ad avere accesso alle carte sarebbero stati un centinaio di funzionari, ma il sospetto è che a tradire sia stato qualcuno in alto, che ha raccolto quasi tre anni di comunicazioni.

E finché l’inchiesta ufficiale lanciata immediatamente non lo trova si rischia la paralisi, come spiega al Financial Times un veterano del Foreign Office: “Se è possibile una fuga di notizie così, il nostro ruolo non ha senso: non possiamo più dire la verità”.

La seconda, suggerita a Ellen Barry del New York Times da fonti diplomatiche britanniche negli Stati Uniti, guarda più lontano. “La teoria è che la fuga di notizie abbia a che fare, più che con Darroch, con il suo successore, (che dovrebbe prenderne il posto a gennaio, ndr)”. Fino a ieri il candidato forte era Mark Sedwill, gran commis dello Stato e, come Darroch, critico di Trump e di Brexit. A partire da qui i sospetti si concentrano, più che su un funzionario pubblico, su un gruppo più ristretto di sottosegretari ambiziosi e fedeli alla causa di una Brexit dura: “Il leak avrebbe lo scopo di impedire la nomina di Sedwill – in vantaggio – di un candidato più favorevole a Trump e a Brexit”.

Uno come Nigel Farage, leader del Brexit Party e amicissimo di Trump, unico esponente politico britannico ricevuto in forma privata dal presidente durante la sua visita di stato a Londra ai primi di giugno, che scambierebbe volentieri l’ufficio da europarlamentare con i salotti dell’ambasciata a Washington? Fonti vicine a Boris Johnson, che secondo ogni previsione fra 15 giorni succederà a Theresa May, assicurano che non ha in programma incarichi per Farage.

Ma a ricevere e pubblicare quei memo riservati è stata Isabel Oakeshott, Brexiteer d’acciaio, opinionista vicinissima a Farage e al suo amico e finanziatore Arron Banks – sarebbe lei la ghost-writer del libro The Bad Boys of Brexit che è la glorificazione dei protagonisti della campagna per il Leave –. E la reazione del fonte Brexiteers alla pubblicazione sembra concertata: alle 5 del pomeriggio di domenica il Telegraph pubblicava un editoriale in cui Farage commentava le rivelazioni, ricostruiva i suoi rapporti tempestosi con Darroch, i loro scontri politici e la presunta parzialità anti-Trump dell’ambasciatore. Titolo: Sir Kim Darroch è totalmente inadeguato a restare il nostro rappresentante negli Stati Uniti dopo i vergognosi insulti a Trump.

Mail Box

 

Altro che “Prima gli italiani”, siamo in via di estinzione

“Prima gli italiani” è un motto molto suggestivo non fosse che per un fatto: che continuando nell’attuale trend, come denunciato dall’Istat, gli italiani saranno una specie protetta dal Wwf perché in via di estinzione. I numeri sono chiari e spietati: gli emigranti sono superiori agli immigrati, i decessi superiori alle nascite e l’invecchiamento della popolazione non ha fine.

Ecco perché credo che lo ius soli, da applicare nel modo più razionale possibile, dovrebbe essere in testa all’agenda non solo della sinistra ma di chiunque abbia a cuore la sopravvivenza di questo strano e, malgrado tutto, bellissimo Paese, chiunque lo dica adesso pensando di lavarsi la coscienza.

Vincenzo Bruno

 

Perché nessuno “sale a bordo” delle casette di Amatrice?

Sentire le dichiarazioni degli abitanti di Amatrice che si sentono abbandonati dallo Stato e vivono ancora in condizioni precarie mette un gran rabbia. La politica è concentrata sul flusso migratorio in arrivo via mare e gli esponenti dell’ex Partito comunista fanno a gara a presenziare sulle navi delle Ong come segno di solidarietà. Gesto umanitario, che però si oppone palesemente agli intenti del ministro degli Interni. Il che rende queste manovre, all’apparenza, in parte artefatte. Se la solidarietà è un vanto morale lo deve essere per tutti. Perché lo stesso impegno non fu profuso, con continuità nel tempo, per gli abitanti delle zone del Centro-Italia colpite dal sisma? Su questo aspetto non faccio distinzioni perché tutti si sono disinteressati di queste persone e del loro disagio.

Cristian Carbognani

 

DIRITTO DI REPLICA

In relazione all’articolo pubblicato domenica sul Fatto, dal titolo: “Adr, troppi gli extra-profitti Rinegoziare la concessione”, Aeroporti di Roma ribadisce la piena correttezza e validità del proprio regime concessorio e normativo. In particolare, la previsione di cui all’articolo 5 secondo comma n. 6 della legge n. 755 del 1973 (che obbligava a destinare allo Stato una determinata quota degli utili di esercizio), varata quando la società di gestione era pubblica, è stata poi espressamente superata dalla legge n. 351 del 3 agosto 1995. L’articolo 1 bis di questa legge ha infatti stabilito che con effetto dall’entrata in vigore della medesima legge “…cessa ogni obbligo di destinazione degli utili delle società di gestione aeroportuale previsto dalle disposizioni vigenti”. Per inquadrare storicamente questa successione di leggi, va ricordato che nel luglio 1997 Aeroporti di Roma veniva quotata in borsa e nel 2000 si completò la privatizzazione, mentre Atlantia ha acquisito Adr solo nel dicembre 2013. La vigente convenzione di concessione stipulata tra Enac e Adr prevede il versamento annuale da parte del gestore del canone di concessione, regolarmente corrisposto ad ogni esercizio. Aeroporti di Roma ricorda che, dopo l’acquisizione di Atlantia, solo nel periodo 2013-2016 ha investito nello sviluppo degli aeroporti romani complessivamente oltre un miliardo di euro (con un incremento del 250% rispetto agli investimenti medi annui effettuati nel periodo precedente).

Anche grazie a questi investimenti, lo scalo di Fiumicino è risultato nel 2018 e nel 2019 il migliore aeroporto in Europa, in base alle rilevazioni dell’Aci (Airport Council International), l’organizzazione indipendente che misura la qualità dei servizi ai passeggeri in oltre 300 hub nel mondo. La nuova area internazionale E, l’accoglienza, i parcheggi, la digitalizzazione, la pulizia e il comfort sono le voci più votate dai passeggeri che hanno permesso al Leonardo da Vinci, in solo tre anni, di passare dall’ultimo al primo posto in Europa.

Nel periodo 2017-2021, Fiumicino proseguirà a espandersi all’interno dell’attuale sedime aeroportuale, senza consumare suolo pubblico, con la realizzazione della nuova area di imbarco A per le destinazioni Schengen.

Ufficio Stampa, Aeroporti di Roma

 

Negli ultimi 4 anni i Benetton si sono elargiti a Fiumicino dividendi stellari (835 milioni di euro) grazie al comma di una legge di cui perfino al ministero dei Trasporti avevano perso traccia. Quella norma cancella l’obbligo di destinare alle infrastrutture aeroportuali pubbliche una parte anche minima degli utili aeroportuali e consente di fatto ai Benetton di godere della pacchia per tutta la durata residua della concessione, cioè un quarto di secolo. È una delle tante anomalie della concessione a favore di Aeroporti di Roma (AdR) che l’economista Ugo Arrigo, consigliere del ministero dei Trasporti, auspica vengano superate.

Daniele Martini

 

I NOSTRI ERRORI

A corredo di un soppalco sulle indagini a carico del Procuratore Capo di Castrovillari, Eugenio Facciolla, accusato del reato di corruzione in atti di ufficio, abbiamo erroneamente pubblicato nel numero in edicola domenica la foto dell’avvocato Vittorino Facciolla, consigliere di minoranza della Regione Molise nonché Segretario Regionale del Partito Democratico. Ce ne scusiamo con l’interessato e con i lettori.

Da Fiat a Fca. È vero, tra connivenze e adulazioni, noi raccontiamo la realtà

Nel bell’articolo di Ettore Boffano sui 120 anni dalla fondazione di Fiat-FCA manca una cosa che secondo me il Fatto non dovrebbe dimenticare. Questo giornale è stato l’unico in Europa a scrivere: “Non è la Fiat che compra la Chrysler, è la Chrysler che compra la Fiat”. Nell’articolo che mi era stato affidato spiegavo che si trattava di un viaggio senza ritorno che privava l’Italia per sempre della Fiat. Tutto ciò prima dello spostamento delle sedi fiscali e legali. Non è necessario attribuire a me questa visione anticipata e corretta della vicenda Fiat. Ma sarebbe giusto riconoscerla al solo giornale che l’ha pubblicata tra le feste e le celebrazioni dei migliori esperti e politici italiani (Pd incluso ) per il dio Marchionne.

Furio Colombo

 

Caro Furio, è proprio vero che nel nostro mestiere non si finisce mai d’imparare e, soprattutto, da colleghi come te. Hai ragione, infatti, avrei dovuto ricordarmi e citarti; anche perché quel tuo articolo lo avevo letto e condiviso, avendo proprio la sensazione (la stessa che ho provato ieri, scorrendo la tua rievocazione della “notte della Luna”) di una vox clamantis in deserto: il deserto dell’adulazione e della connivenza che, per decenni e decenni, ha circondato gli Agnelli e la Fiat (e non solo in Italia). A mia parziale discolpa, voglio indicare solo alcuni passaggi del mio articolo e delle riflessioni che, in esso, propone Giorgio Airaudo e che, in qualche modo, replicano la tua stessa analisi. Mi riferisco alla ormai consolidata nazionalità statunitense di FCA (dopo Obama, sono già stati costruiti buoni rapporti con Trump), all’estraneità e al quasi abbandono delle origini italiane, al servo encomio della politica al mito di Sergio Marchionne (a cominciare dall’ex segretario del Pd ed ex premier Matteo Renzi), alla grave questione della sede fiscale a Londra.

Converrai con me, infine, che in questi 120 anni di storia di Fiat-FCA, uno dei problemi più scandalosi è stato quello che riguarda l’informazione e il modo con il quale essa ha scelto di raccontare vicende, fatti e personaggi legati a quel mondo (i cui interessi diretti nella realtà dei media, peraltro, non sono mai stati di poco conto). Un costume su cui, credo, sia tu che io potremmo rievocare più di un episodio, più di una responsabilità. Contenti, alla fine, di poter scrivere queste cose per questo giornale.

Ettore Boffano

Fratoianni, il capo ultrà dei Buoni: quelli che lo votano

In quest’estate politicamente noiosissima, all’interno della quale sembra obbligatorio parlare solo e soltanto di migranti quasi che fosse questo il problema reale del paese, pare se non altro esserci una persona oltremodo a suo agio: il suo nome è Fratoianni, Nicola Fratoianni. Per carità: uno dei migliori, o se preferite uno dei meno peggio. È bene chiarirlo, perché in una politica al livello minimo di decenza uno come lui pare avere ancora decenza e coscienza. Epperò colpisce, in Fratoianni, questa sua atarassica ritrosia al dubbio. Non appena si parla di migranti, tema che – fatta salva la sacra vicinanza umana a chi soffre – richiederebbe mille digressioni e distinguo, lui ha sempre le idee chiare: il giusto è sempre lui. Ne consegue che chiunque non sia al cento per cento concorde, benché al tempo stesso lontanissimo dalla freddezza ostentata di Salvini, appartenga ontologicamente alla parte sbagliata. In questa politica ridotta oscenamente a tifo, Fratoianni è capo curva né più né meno di Salvini: solo che lui è il capo ultrà dei Buoni e l’altro dei Cattivi. Nel magico mondo del compagno Nikola, il mondo si divide in Illuminati e Fascisti. E i fascisti sono tutti quelli che non votano Fratoianni (quindi tutti o giù di lì). Fratoianni è un forzato della tivù: in tanti si riposano d’estate, anche solo per dimostrare ai telespettatori di avere una vita oltre il piccolo schermo, ma lui no. Vive in tivù, oppure sopra le Ong. Non fa altro.

A giudicare dalla baldanza con cui scomunica chiunque non la pensi come lui, si potrebbe credere che dietro di lui ci sia come minimo l’esercito del proletariato. Mica tanto. Numericamente parlando sta alla politica come Cerasa al giornalismo: entrambi tromboneggiano in servizio permanente, ma ormai non si leggono – e votano – neanche da soli. Dopo aver tirato la volata a Vendola svolazzando tra una Rifondazione Comunista e una Sel, tutte forze celebri per aver spezzato le reni a loro stesse, Fratoianni ha partecipato in prima persona alla tumulazione della Lista Tsipras (2014), di Leu (2018) e – a maggio – della mitologica “La Sinistra”. Dopo un simile rovescio sarebbe stato forse opportuno rallentare e riflettere: domandarsi se non ci fosse in lui qualcosa di sbagliato, fare autocritica. Macché: Fratoianni, da buon “lider minimo” di quel che resta della sinistra nostrana, se va a sbattere contro un muro si rialza per andare a cercarne un altro su cui schiantarsi. Ed eccolo, allora, interpretare a ogni ora del giorno la parte del Salvatore. Dire a Salvini (che ha 20 volte i suoi voti) di “rosicare”. Renderci edotti di come suo figlio abbia fatto un disegno tanto bellino sui migranti, per regalarlo poi – dopo la solita arringa moscia in Parlamento – al ministro dell’Interno. Saltare sopra le Ong più à la page, ora con Faraone accanto e ora senza, per poi sgomitare educatamente quando arriva un microfono. Oppure sproloquiare, con quel tono da Bordiga ipotetico, cose tipo “Siamo di fronte ad un governo fuorilegge, cinico ed arrogante. Un governo cattivo”. No, Nicola: siamo semplicemente di fronte a un governo nato male e morto il 26 maggio, ora accettabile e ora orrendo, che continua a restare in sella grazie a un’opposizione (sempre ammesso che esista) troppo spesso ridicola e retorica. Tronfia e pallosa. Miope e autocelebrativa. Insomma: un disastro. Dentro il quale, senz’altro con onestà e buona fede, pari sguazzare con fastidioso compiacimento. Tra un crucifige e un miserere, se ti avanza tempo, prova a chiederti perché da anni non ti voti neanche il gatto. Hasta siempre.

Carola, le Ong e le domande filosofiche

Dicono che le anime dialoghino nell’aldilà. Ho seri dubbi. Anche per le parole definitive di Kant: è dimostrabile l’immortalità dell’anima? “È un paralogisma… e consiste nell’applicare la categoria di sostanza all’io penso trasformandolo in un’entità permanente chiamata anima”. E tuttavia il dialogo tra i grandi di un tempo l’immagino, nella finzione, come un confronto tra passato e presente. Socrate, per es., cosa direbbe oggi? Vediamo. Parlavano da tempo Socrate e Polemarco della giustizia, quando intervenne Trasimaco “come una fiera…”. “Ogni governo pone le leggi per il proprio tornaconto e dispone, con la forza, che diventino per i sudditi il giusto. ‘La giustizia è l’utile del più forte’”.

“Sbagli, Trasimaco, ‘il vero governante cerca l’utile del più debole’; pensa ai migranti in Italia: lasciarli morire in mare è degno dell’agire politico?”. “‘I fatti mostrano che l’ingiusto ha più successo del giusto’, anche in termini elettorali: arrivano voti creando paure. ‘I sottomessi fanno l’interesse del più forte e sono, o Socrate, strumenti della sua felicità’”. “‘Il vero politico cerca il vantaggio degli altri e non il proprio’, Trasimaco; ma è bene fare autocritica, ‘non dovevamo trattare dei caratteri del giusto prima di averne colto l’essenza’”. “È così. Ma, per restare all’Italia, pensi che Carola abbia agito bene? ‘Talvolta servono azioni di disobbedienza civile – ha detto – per affermare diritti umani’”. “Salvare uomini è giusto: nella sua essenza giustizia è umanità. E tuttavia…”. “Fai tua la mia tesi?”. “Suvvia, Trasimaco, sai che non accadrà mai… è che sono passati più di due millenni da quando parlavamo di giustizia e ne sono accadute di cose… l’altro ieri discutevo con Hobbes, per dire, e metteva l’accento sulla ‘sicurezza’”. “Non mi sembra una posizione errata”. “C’è del vero, ma resta il problema umanitario e delle Ong. Molte svolgono un ruolo encomiabile, ma altre si trasformano (senza volerlo? Consentimi il dubbio) in strumento dei trafficanti. Insomma, è conforme alla mia idea di giustizia salvare vite, ma vedo il cattivo uso del principio giusto d’aiutare i naufraghi. Il tema è: possono ancora essere definiti naufraghi se con metodo, sempre, vengono trasportati in un luogo determinato dove c’è una nave che li attende? Questo, Trasimaco, mi spinge a esercitare l’arte del mio dubbio, rispetto alle certezze di cui arriva l’eco anche quassù. E comunque, l’esigenza morale d’aiutare i migranti confligge con l’esigenza dello Stato di regolarne il flusso… è questo il vero tema”.

Aveva appena pronunciato queste parole, Socrate, quando, nella piazza s’avvicinò un filosofo tedesco interrompendolo: “Quando si parla degli interessi dello Stato è un falso problema discutere dell’opposizione tra morale e politica: il benessere dello Stato niente ha a che fare con quello del singolo”. “Eccoci alla statolatria; tu sempre su questo tasto batti, Hegel. Il punto è che qui nemmeno si difende lo Stato. Si finge di combattere l’immigrazione – così leggo – ma si vuole che tutto resti com’è perché porta consenso”. “Dici bene, Socrate, ma ti sfugge un dato: la politica prevede, nelle sue dinamiche, la creazione di un nemico proprio perché porta consensi; e l’immigrato è il nemico perfetto”. Era Carl Schmitt, inseritosi alla fine nella discussione: “E comunque – aggiunse – nello Stato liberale il ‘politico’ e l’‘etico’ sono subordinati all’‘economico’. Quali interessi alimentano il traffico di migranti?”. Erano al cuore del problema e Socrate amareggiato ne prese atto. “Ora devo andare” – disse – e guardò Trasimaco: “Ho superato le mie perplessità sulla scrittura e sto leggendo il libro di Davigo, tratta altri temi e spiega con lucidità che in Italia è diventato utile non rispettare la giustizia. Ma a differenza di te, Trasimaco, se ne duole”. Ma caddero nel vuoto le sue parole… Trasimaco si dileguò, mentre Socrate si preparava a nuovi incontri… su altri temi di cui diremo nelle prossime puntate.

Giustizia, la riforma mantiene le correnti

Sabato scorso, il ministro di Giustizia ha preannunciato che entro dieci giorni porterà in Consiglio dei Ministri “tutta la riforma del processo civile, di quello penale e anche la riforma del Csm e di tutta la magistratura”. Oggi Il Fatto Quotidiano è in grado, in relazione a quest’ultima riforma, di indicare le essenziali linee programmatiche che accolgono in buona parte le proposte che questo giornale ha, da tempo, avanzato e, precisamente: 1) “divieto di ritorno in ruolo per i magistrati eletti in Parlamento o nei consigli regionali (anche non eletti), per i quali è previsto il collocamento nei ruoli della dirigenza amministrativa della Giustizia”. Correttamente, quindi, si impedisce ai magistrati in questione di tornare a esercitare funzioni giurisdizionali; 2) “divieto di elezione per i membri laici che nei cinque anni precedenti abbiano ricoperto incarichi di governo o siano stati membri del Parlamento o dei consigli regionali”. Si tratta di una apprezzabile iniziativa che tende ad impedire o, quanto meno, limitare la degenerazione politica dei membri laici che ha visto, negli ultimi anni, la nomina a vice presidente del Csm di sottosegretari, addirittura, in carica; 3) sorteggio integrato per la nomina dei componenti togati. Il sistema è così articolato: a) elezione sulla base di 16 collegi territoriali uninominali (senza distinzioni tra giudici, pm e membri di legittimità); b) candidature individuali sulla base di presentazione da parte di 10 colleghi e voto unico o con 2 preferenze, una per genere, con l’obbligo di presentare la candidatura nel collegio in cui si presta servizio o si è prestato servizio negli ultimi 10 anni; c) elezione dei primi cinque classificati per collegio, per un numero totale di massimo 80 eletti e sorteggio di uno tra i primi 5 eletti di ogni collegio.

La proposta desta, comunque, perplessità. Essa si differenzia da quella avanzata da questo giornale (ove si adotti la legge ordinaria) che individuava una prima fase, quella del sorteggio, da parte dell’ufficio elettorale centrale, di 80 magistrati e, in tempi brevissimi – prima che le correnti abbiano il tempo di organizzarsi – la “elezione” dei 16 membri (così rispettando il dettato costituzionale della “elezione”).

La proposta del ministro inverte le fasi della procedura prevedendo, dapprima, la votazione che porta alla selezione e individuazione di 80 candidati (5 per ogni collegio) – ma in tal modo non impedisce che possano essere, pur sempre, le correnti, in quanto gruppi organizzati, a sostenere nei singoli collegi quei (cinque) candidati che intendono far eleggere (e da esse informalmente designati) – e poi il sorteggio di uno tra i primi 5 eletti di ogni collegio, sicché diventa membro del Csm il “sorteggiato” tra gli eletti (nei 16 collegi) e non chi abbia preso più voti.

Ma la proposta ministeriale – che, con la previsione di 16 collegi (sostanzialmente uno per Regione, con abbinamento di quelle più piccole) e con le candidature individuali (locali) presentate da 10 magistrati, vorrebbe, in qualche modo, frenare l’invadenza delle correnti sugli esiti elettorali – non convince proprio perché non tiene conto che la Associazione Nazionale Magistrati e le relative correnti che la compongono hanno una organizzazione capillare estesa su tutto il territorio nazionale: giunte distrettuali, sezioni e sottosezioni – (circa 100 di cui 13 rispettivamente in Sicilia e Lombardia, 11 in Campania, 10 in Toscana, ecc.) – anch’esse organizzate per correnti. E tali strutture rappresenteranno il punto di riferimento e di forza dei candidati locali che, peraltro, non sempre sono i più capaci e apprezzati, ma semmai i più attivi a procurare adesioni e voti alle rispettive correnti e, proprio per questo, potenziali candidati. In tale contesto, nessuna elezione di candidati è possibile senza l’appoggio determinante di un gruppo organizzato (non vi riuscì neanche Giovanni Falcone!).

E la Anm – che deve essere esclusa dalle future audizioni parlamentari – non ha alcuna intenzione di sciogliere le correnti.

Da Pompei alle Alpi: 100.000 le bombe inesplose in Italia

Nelle guerre è sempre difficile tenere i conti. Ma, come abbiamo raccontato domenica con “Sherlock”, guardando ai dati ufficiali delle forze armate Alleate, sul nostro Paese sono state sganciate 378.891 tonnellate di ordigni (pari al 13,7% del totale sganciato sull’Europa), corrispondenti secondo alcune stime a circa 1 milione di bombe. Più difficile da individuare con precisione è il numero di quelle inesplose. Sempre secondo un documento del Dipartimento della Difesa americana – ripreso anche dalle università italiane che si stanno occupando della mappatura degli ordigni a Pompei – la percentuale di malfunzionamento dei detonatori di queste bombe “storiche” è tra l’8% e il 10%: nel caso italiano, si tradurrebbe in 37.900 tonnellate di bombe d’aereo inesplose, corrispondenti grosso modo a 80-100.000 ordigni di vario tonnellaggio e di vario tipo. Bombe che sono sì vetuste, ma non per questo innocue: gli esplosivi degradano infatti molto lentamente, e il deterioramento può renderli persino più “sensibili”.

A Pompei, da 7 a 10 bombe d’aereo non esplose – eredità del bombardamento americano del 1943 (almeno 165 gli ordigni allora sganciati) – si troverebbero nel sottosuolo, nell’area alle spalle dei fronti di scavo: lo ha svelato la nostra inchiesta. Il Parco archeologico ha replicato, specificando che “la Regio V, oggetto degli attuali scavi, è stata bonificata”. Ma questa corrisponde solo a una porzione della grande area ancora da scoprire e scavare, al di fuori della zona già aperta al pubblico, nelle Regiones I-III-IV-V-IX.

Le bombe della guerra esplodono ancora. Anche dopo un secolo. A Cortina d’Ampezzo, proprio pochi giorni fa, due bombe della Prima guerra mondiale sono scoppiate, provocando un incendio. Siamo nella zona di Ospitale, al confine tra Belluno e Bolzano. Dove oggi boschi splendidi e silenziosi ricoprono le trincee, le truppe italiane e quelle austriache si confrontarono in una lotta terribile. Imprigionate per anni nei cunicoli tra bombe, cecchini, gelo e valanghe. I segni di quella tragedia te li ritrovi davanti salendo per i sentieri: per il pascolo di Lerosa, dove l’erba mostra ancora avvallamenti. Sono crateri di bombe, e tombe di soldati. “Qui, una settimana fa, hanno sentito un boato. Poi ecco una colonna di fumo e le fiamme che si sono mangiate mezzo ettaro di bosco”, racconta Michele Da Pozzo, appassionato direttore del Parco delle Regole d’Ampezzo. Che cosa avrebbe provocato le fiamme? “Quasi certamente un ordigno rimasto sepolto per oltre un secolo”.

Spiega Da Pozzo: “Sono bombe di cannone che gli italiani avevano sparato dal monte Cristallo. Alla prima esplosione ne sono seguite altre, forse bombe a mano rimaste nel terreno. Con tutta probabilità è stata la tempesta dell’ottobre scorso, quella che ha sradicato milioni di alberi, ad averle riportate alla luce”. I carabinieri forestali stanno indagando: difficile che gli ordigni siano esplosi da soli, per il caldo. Potrebbe esserci la mano dell’uomo. Forse dei cacciatori abusivi di cimeli – non è inusuale vederne in giro per queste vette – sono incappati in una bomba, innescandola. Poteva scapparci il morto.

Il Trentino-Alto Adige subì attacchi aerei pesantissimi anche durante il secondo conflitto mondiale. Specie negli ultimi sette mesi della guerra, con la ritirata tedesca. Sulla sola provincia di Trento furono gettate almeno 32.019 bombe esplosive, a frammentazione, incendiarie e cluster. Di queste, risultano inesplose circa tra le 800 e le 1.280.

Da Pompei alle Alpi, in Italia la guerra non è ancora finita. “C’è la zona lungo la Linea Gotica, poi le coste dove si verificarono gli sbarchi e le aree delle battaglie”, spiega Fernando Termentini, generale in pensione che mette la sua competenza al servizio della bonifica. “Ogni anno il Genio dell’Esercito e le altre forze militari compiono 2mila interventi (oltre 7 al giorno) per rimuovere le bombe. Sono l’eredità della Prima Guerra e della Seconda quando sull’Italia: quella della Prima Guerra sono soprattutto proiettili di cannone; della Seconda restano invece le bombe aeree. E gli inneschi, anche dopo cento anni, possono essere attivati. Alcuni provocando l’esplosione immediata, per altri possono passare giorni”.

Di cosa stiamo parlando

Sherlock, per la sua prima inchiesta, è andato a Pompei. Nel sottosuolo del sito archeologico tra i più famosi al mondo si nascondono almeno 10 ordigni inesplosi, localizzati nell’area del Parco archeologico ancora da scavare (le “Regiones” I-III-IV-V-IX).
Il 24 agosto 1943 è il giorno in cui le forze Alleate sganciarono su Pompei 165 bombe, in nove incursioni aeree: nella prima puntata dell’inchiesta esclusiva che inaugura la nuova iniziativa editoriale del “Fatto quotidiano” (uscita domenica), abbiamo raccolto e pubblicato testimonianze e documenti inediti. Sono 96 gli ordigni che, nel corso degli anni, sono stati localizzati, in base ai rilievi dei danni provocati su strade, ville, muri del sito. Ma le altre 70 bombe cadute nell’area ancora da scavare dove si trovano?