Il veliero Alex verso la confisca. Migranti ricollocati in 5 Paesi Ue

Non bastava la multa di 33 mila euro ai sensi del decreto Sicurezza bis, la Guardia di Finanza ha notificato ieri altri 33 mila euro di multa e il sequestro a scopo di confisca della barca Alex, il veliero utilizzato per l’ultimo salvataggio da Mediterranea, il cartello che riunisce centinaia di associazioni della sinistra politica e sociale comprese l’Arci e Sinistra italiana col sostegno di Banca Etica e di numerosi enti locali. La seconda multa e la confisca sarebbero giustificate da un piccolo “sconfinamento” in acque italiane nella giornata di venerdì 5 luglio, “un errore” dovuto al malfunzionamento del gps: l’ingresso di sabato 6 nel porto di Lampedusa, dopo il mancato accordo sul trasferimento dei migranti a Malta e la dichiarazione dell’evidente “stato di necessità”, sarebbe stato dunque una “reiterata” violazione del divieto di entrare nelle acque territoriali ordinato dal ministero dell’Interno. Prosegue anche l’indagine della Procura che ipotizza il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare e la resistenza a nave da guerra anche per Erasmo Palazzotto, deputato di Leu e capomissione. È indagato anche il comandante di Alex, al quale è stata anche sospesa la patente nautica con cui abitualmente lavora. Germania, Francia, Lussemburgo, Malta e Portogallo si sono resi disponibili ad accogliere i 106 migranti salvati nel Mediterraneo dalle imbarcazioni Alan Kurdi e Alex.

Tornano i barchini, le Ong sono marginali. E la propaganda ignora i corridoi umanitari

“Ne arrivano più coi barchini che coi barconi”, dice al Fatto don Gino Rigoldi, che si professa cristiano e milanese almeno quanto Matteo Salvini, cui il Papa in persona ha chiesto di cambiare rotta ottenendo per tutta risposta che “l’integrazione è possibile solo se i numeri sono sotto controllo”. I numeri, appunto. Quelli del Viminale di Salvini sono un problema. Dicono che da inizio anno sono sbarcati in Italia 3.073 migranti ma “solo” 587 sono arrivati in seguito a operazioni di soccorso in mare (Sar), mentre 117 “barchini” ne hanno portati sulle coste 2.586 e altri 1.202 sono stati rintracciati a terra. Con poco senso del pudore li chiamano “minisbarchi” e non fanno notizia, a differenza delle navi delle ong contro cui il ministro mostra i muscoli e dietro cui gli alfieri dei diritti umani trovano la ribalta e nuovi eroi. I “piccoli numeri” danno però plastica rappresentazione di quel che i Cinque Stelle (e non solo) chiamanoil “Truman show dell’ipocrisia”.

Che siano il vero problema lo dimostrano i “cruscotti quotidiani” del Viminale. Per due settimane, fino all’arresto della “fuorilegge” Carola Rackete, l’Italia ha dovuto seguire l’epopea della Sea Watch con a bordo 42 migranti. Nel frattempo, in 344 arrivavano indisturbati sulle coste e nei porti su piccole barche che sfuggono ai radar e alle telecamere, imbarcando non meno rischi. In un solo giorno, il 7 giugno, sono arrivati in 147, più dei disperati a bordo della Alex e della Sea Watch messi insieme. Senza nessuna eco.

La rispostadi Salvini è arrivata ieri e vale l’ammissione: il Comitato nazionale ordine e sicurezza da lui presieduto ha approntato ulteriori “misure contro l’immigrazione irregolare e per difendere i porti italiani”, come “il rafforzamento della presenza delle navi della Marina e della Guardia di Finanza ai porti, contatti con la Tunisia per rimpatri e riduzione delle partenze, dieci motovedette per la Guardia Costiera Libica entro l’estate, emendamenti al decreto Sicurezza bis con aumento delle pene per scafisti e trafficanti”. Un emendamento M5S alla Camera tenta di superarlo: confisca delle navi alla prima violazione, senza bisogno di reiterazioni. La strombazzata riduzione degli sbarchi da 17mila del 2018 ai 3 mila di quest’anno, ora è chiaro, non basta.

Sulle statistiche Salvini ha poi qualche problema a casa sua. Il ministero dell’Interno pubblica la reportistica con l’enfatica dicitura “tutti gli sbarchi”. Il dettaglio giornaliero però “sparisce” per settimane: a maggio, ad esempio, riporta i giorni dal 21 al 30, non i precedenti mentre aprile va solo dal 20 al 29. “Per esigenze puramente redazionali”, assicurano dal Viminale, a richiesta i dati saranno trasmessi nella loro interezza. Intanto, la promessa (“tutti gli sbarchi”) è disattesa.

Corridoi umanitari, altro dato di realtà a scomparire. Salvini ne parla poco o nulla ma anche grazie al Viminale l’Italia è alla testa dell’Europa in questa politica, canale aperto nell’ottobre 2016 (Governo Gentiloni) con la Cei, Sant’Egidio e la Comunità valdese che ha portato ad accogliere finora oltre 2 mila migranti con lo status di rifugiato in “stato di estremo bisogno”. Il 1° luglio alla Camera è stato rilanciato il progetto di un corridoio europeo per 50 mila per svuotare i campi libici. “L’idea ha avuto l’incoraggiamento di Conte, del viceministro Del Re (M5S) e del presidente Fico”, racconta Paolo Naso, coordinatore per la Chiesa Evangelica Valdese. E la Lega? “No, c’erano esponenti di varie forze. Ma la politica a volte si fa lasciando che le cose accadano”.

Altri numeri, altri fantasmi. Nei centri di accoglienza (Cas e Sprar) due anni fa c’erano 198 mila persone, oggi poco più di 100 mila. Insieme al calo degli ingressi, pesa la chiusura delle strutture e il venir meno di condizioni di permanenza per chi aveva la protezione sussidiaria (abolita) e attendeva la decisione sull’asilo. “Per il decreto Salvini – ricorda Naso – non possono stare nei centri. Siccome i rimpatri vanno al ritmo di 18 al giorno, la chiusura ha portato alla loro ‘clandestinizzazione’. Prima sapevamo dove stavano e cosa facevano, ora non più. Sono in una condizione ‘grigia’ che non fa bene a loro né alla società italiana”.

“Tagliate 49 scorte”. Ma i numeri di Salvini tornano solo a metà

La macchina della propaganda salviniana ha reso noto ieri il taglio di 49 scorte in un anno. Un dato molto significativo: secondo gli uomini del ministro dell’Interno le misure di protezione personale sono state ridotte del 7,8 per cento in appena 12 mesi, da 618 a 569. E ancora più drastica (9 per cento) è stata la riduzione del numero di uomini e donne delle forze dell’ordine addetti a questo tipo di lavoro: da 2218 a 2015. Secondo l’ufficio stampa di Matteo Salvini le scorte erano 618 al 1° giugno 2018, il giorno in cui si insediò il governo gialloverde e sono scese a 569 al 1° giugno di quest’anno.

Ne hanno fatto le spese soprattutto i politici: gli scortati passano da 82 a 58, sono il 29 per cento in meno; i nomi di coloro a cui è stata tolta la scorta circolano, ma non ci sembra opportuno metterli sul giornale se non lo chiedono gli interessati. Taglio molto consistente anche per gli imprenditori: da 45 dispositivi a 32, anche qui è quasi il 29 per cento in meno. Scendono anche gli esponenti del governo, distinti dai politici: da 26 a 21. I magistrati, la categoria più numerosa, erano 274 e rimangono 274. I giornalisti addirittura aumentano: da 18 a 22; per la prima volta ce n’è anche uno, Paolo Berizzi di Repubblica, minacciato non dalla criminalità organizzata ma dai neofascisti. Sono ancora scortati Sandro Ruotolo e Roberto Saviano, destinatari mesi fa di una revoca poi rientrata e di una larvata minaccia di revoca. Sono più o meno costanti, da 23 a 22, i testimoni di giustizia e i familiari di collaboratori e testimoni di giustizia sotto scorta (la protezione dei collaboratori, intesi come pentiti, dipende da altri uffici). Erano e rimangono 11 i religiosi.

Le scorte sono per lo più necessarie, indispensabili per tutelare la vita di chi è esposto a minacce provenienti da criminalità organizzata o, in misura minore, terrorismo. Le valutazioni le fanno le prefetture, i comitati provinciali per l’ordine pubblico e l’Ucis, l’Ufficio centrale interforze per la sicurezza istituito al Viminale dopo che, nel 2002, il giuslavorista Marco Biagi fu ucciso dalle nuove Brigate Rosse in seguito alla revoca del dispositivo di protezione. Ma è pure vero che alcune scorte sono status symbol del tutto ingiustificati, difesi tuttavia con le unghie e coi denti dagli interessati come Il Fatto raccontò un anno fa (10 luglio 2018) a proposito di chi aveva resistito alla revoca quando al Viminale c’era Marco Minniti. La valutazione del rischio non la fa il ministro, ma naturalmente il ministro conta.

C’è però qualcosa che non torna nei numeri diffusi ieri da Viminale. Il dato di 618 scorte al 1° giugno 2018 non coincide con quello che il Fatto ottenne nel luglio scorso da qualificate fonti del Viminale che era di appena 560 (senza però testimoni di giustizia e i familiari dei collaboratori di giustizia, con i quali sarebbero stati poco più di 580). Magari ci siamo sbagliati allora. E come noi si sono sbagliati l’agenzia Ansa e i giornali che nella seconda metà del 2018 attribuirono il dato di 585 a fonti del Viminale, con dati molto precisi categoria per categoria. E si è sbagliato perfino Salvini che il 10 novembre 2018 parlò di “quasi 600 scorte”. Evidentemente aveva già iniziato a ridurle dalle iniziali 618 di giugno, di cui, però, abbiamo saputo solo ieri.

Per il futuro Salvini ha emanato una circolare che rimane riservata, il suo staff fa sapere solo che contiene indicazioni per evitare automatismi tra il ruolo ricoperto e la scorta. Sono necessari concreti elementi di rischio e periodiche verifiche della loro attualità. È quello che dice la legge istitutiva dell’Ucis.

A Mineo solo in tre, più i cani. Lo Stato rischia la maxipenale

Davanti al cancello d’ingresso del Cara di Mineo l’attesa di oggi è tutta per il ministro Matteo Salvini. Il vicepremier, a un anno dall’annuncio di chiusura del centro per migranti, torna in Sicilia per passare, come direbbe lui, dalle parole ai fatti. E per l’occasione ha chiesto ai suoi militanti, attraverso una nota inviata ai circoli, di non partecipare, considerato il carattere “istituzionale” della visita.

Sono rimasti in tre. Uno di loro tiene addosso il giubbotto nonostante i 40 gradi della Sicilia. Curioso, se non si trattasse di pazienti psichiatrici gravi. Vengono da Guinea, Nigeria e Senegal e sono gli ultimi invisibili – i loro nomi non compaiono in nessun registro ufficiale – a lasciare per sempre il Centro per richiedenti asilo di Mineo. In mezzo alle 400 villette a schiera color salmone, costruite per ospitare i soldati americani della base di Sigonella e poi convertite in alloggi per migranti, è tutto un ammasso di rifiuti, vestiti e valigie vuote, biciclette e un centinaio di cani randagi.

Il Cara di Mineo si porta dietro non solo il fallimentare modello d’accoglienza dei grandi numeri, ma anche scandali, inchieste giudiziarie (l’ultima sulla mafia nigeriana), una bolla occupazionale e dei costi che potrebbe dover affrontare lo Stato. A cominciare dal rischio di una penale da circa 14 milioni di euro per la rescissione anticipata del contratto di affitto tra il Viminale e l’azienda emiliana Pizzarotti, proprietaria del residence, prospettato dall’ex direttore del centro Francesco Magnano. Un rischio scongiurato, almeno secondo il Viminale, dalla comunicazione di chiusura del centro arrivata a febbraio, con sei mesi di anticipo come da contratto.

Restano le spese – anche queste milionarie – per il recupero edilizio. Da sistemare ci sono le 400 villette a schiera che ospitavano i migranti, compresi impianti elettrici e idraulici. Sul punto, interpellato dal Fatto Quotidiano, il Viminale non fornisce cifre precise, ma fa sapere dell’esistenza di un contenzioso avviato dall’azienda davanti alla Corte d’Appello di Catania nei confronti della presidenza del Consiglio: oggetto “il risarcimento danni subiti dalla struttura durante l’emergenza Nord Africa”.

“In qualche modo lo Stato dovrà pagare per la chiusura anticipata”, ammette Gianluca Rizzo, presidente della commissione Difesa. L’esponente M5s porta avanti l’idea di trasformare il centro in un polo addestrativo e di formazione per le forze armate: “C’è stato anche un sopralluogo – spiega Rizzo – ma sembrerebbe non avere dato esito favorevole”.

In attesa di capire che ne sarà dell’area, il prezzo più salato resta quello occupazionale. “Tra lavoratori del Cara e dell’indotto, sono coinvolte 900 persone. Qui resteranno solo macerie”, spiega Francesco D’Amico, sindacalista Cgil. A partire dalla crisi che riguarderà i panifici del circondario, che perderanno un giro da 9mila panini al giorno sfornati.

A battersi per il territorio in questi mesi è comparso anche Paolo Ragusa. “Siamo di nuovo in campo – ha spiegato durante un’assemblea – per dare speranza a tutti i lavoratori”. Oggi esponente del Movimento cristiano lavoratori, Ragusa è stato tra i primi a fiutare l’“affare migranti”. Tanto da finire imputato nel processo sullo scandalo Cara, nato a Catania da un troncone di “Mafia capitale”, e beneficiario del sistema dell’oggi pentito Luca Odevaine.

Per uno strano incrocio di date, l’arrivo di Salvini a Mineo coinciderà con una nuova udienza del processo in cui, insieme a Ragusa, è imputato anche l’ex sottosegretario all’Agricoltura Giuseppe Castiglione, nominato nel 2011 soggetto attuatore per l’emergenza migranti, da presidente della Provincia. Sotto la lente d’ingrandimento dei pm, l’appalto per i servizi dal 2011 al 2014. Ma il re locale delle coop è anche indagato per le presunte assunzioni pilotate al Cara in cambio di voti per il Nuovo centrodestra dell’ex ministro Angelino Alfano.

Dopo avere raggiunto picchi di 4.500 presenze, il centro negli ultimi mesi è stato svuotato in maniera progressiva. L’ultimo gruppo, 68 persone, è salito sugli autobus il 2 luglio scorso. Per tutti gli altri il trasloco è stato fatto con carrelli della spesa e taxi abusivi. “Circa 30 persone non registrate sono ospiti della diocesi di Caltagirone”, racconta Samuele Cavallone, coordinatore di Medici per gli ultimi. L’ultimo migrante a varcare il cancello d’uscita è stato Adou. Ora, dentro, rimangono solo i cani randagi.

I pm: “Il governatore Oliverio a giudizio”. L’accusa è corruzione

La Procura di Catanzaro ha chiesto il processo per il governatore della Calabria Mario Oliverio, per l’ex vicepresidente della Regione Nicola Adamo e per la moglie di quest’ultimo, la deputata Enza Bruno Bossio. I tre politici del Pd sono accusati di corruzione nell’ambito dell’inchiesta “Lande desolate” che, a dicembre scorso, aveva portato il governatore Oliverio (accusato anche di abuso d’ufficio) all’obbligo di dimora poi revocato dalla Cassazione. Per quanto riguarda la corruzione, secondo la Procura di Catanzaro, guidata da Nicola Gratteri, ci sarebbe stato una sorta di “accordo illecito” affinché l’impresa di Giorgio Ottavio Barbieri rallentasse i lavori di ristrutturazione di piazza Bilotti a Cosenza. L’obiettivo sarebbe stato quello di penalizzare il sindaco Mario Occhiuto e per farlo la Enza Bruno Bossio e il marito Nicola Adamo avrebbero fatto pressioni sul direttore dei lavori. In cambio, la ditta Barbieri avrebbe ottenuto un finanziamento extra per completare, in Sila, i lavori delle piste di sci di Lorica. Dal canto suo, Oliverio avrebbe agito “per un mero tornaconto politico”.

Palamara a monsignor Paglia: “Giochiamo con le stesse armi”

Il 21 maggio scorso Luca Palamara è un uomo in guerra su due fronti. E dagli atti della procura di Perugia emerge un dato costante: il pm romano non intende arretrare di un millimetro su nessuno dei due. Sa di essere indagato per corruzione, dai pm umbri, per le vacanze che, secondo l’accusa, gli avrebbe pagato l’imprenditore Fabrizio Centofanti. E sa anche che le sue manovre per portare, a capo della procura di Roma il magistrato Marcello Viola necessitano di un’attenzione costante. Il suo obiettivo è farsi poi nominare procuratore aggiunto. Che di tutto ciò Palamara parlasse con una parte del mondo politico, con l’ex ministro dello Sport Luca Lotti e l’ex sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, entrambi parlamentari del Pd e non indagati, per gli investigatori è un fatto ormai noto.

Quando però lo intercettano all’interno di un bar, alle 8.40 del mattino, quel 21 maggio scoprono che Palamara confessa cosa stesse accadendo nel Consiglio Superiore della Magistratura (Csm) anche a un alto prelato: monsignor Vincenzo Paglia, già vescovo di Terni e dal 2016 presidente della Pontificia accademia per la Vita.

Il trojan (un software capace di fare intercettazioni ambientali) istallato sul cellulare di Palamara restituisce l’immagine di un uomo combattivo che annuncia i suoi propositi all’arcivescovo. “Bisogna giocare con le stesse armi”, dice il pm romano a Paglia. Il suo rancore verso il procuratore capo uscente di Roma, Giuseppe Pignatone, con il quale c’è stato un “corto circuito”, emerge sin dai primi istanti. Il brogliaccio redatto dagli investigatori della Guardia di Finanza riporta in sintesi la manovra di Palamara per far votare, in seno alla commissione del Csm, il procuratore aggiunto di Firenze Marcello Viola al posto del Francesco Lo Voi, a oggi procuratore a Palermo e considerato – in altre conversazioni – il magistrato che porterebbe la “continuità” con l’era di Giuseppe Pignatone.

“Sono uno dei fautori per aiutare Pignatone”

“Palamara – annotano gli investigatori – dice (a monsignor Paglia, ndr) che Pignatone non ha tenuto specificando che un giorno gli racconterà tutto per bene, ossia le cause del corto circuito”.

Poi passa a raccontare quel che dovrebbe accadere in seno al Csm: “Palamara dice che probabilmente oggi ci sarà il voto del nuovo Procuratore aggiungendo che una parte non vuole Viola”. E continua: “Io sono stato uno dei fautori per aiutare Pignatone di portare Lo Voi a Palermo, però a Roma, alla luce di tante cose che sono successe, io voglio…, cioè io non posso fare (incomprensibile) il numero suo a vi.., quindi Viola è più vicino a noi, questo va fatto fondamentalmente con un altro schieramento, diverso (incomprensibile)”.

Se Pignatone ha “avuto un peso”, aggiunge, è “grazie alla squadra di Roma”. Quindi il pm passa ulteriormente al dettaglio: “Su questi tre, è chiaro che Viola è più vicino a me, più vicino a Ferri, questo fa parte della vita… Loro dicono, tu stai dietro a questa cosa e ti iniziamo a (incomprensibile)…”.

“Hanno mandato a Perugia un fascicolo”

Palamara non si limita a parlare della sua battaglia sul fronte Csm. Racconta anche quel che sta accadendo a Perugia, dove la procura ha aperto un fascicolo che lo vede indagato per corruzione.

Durante la conversazione – scrivono i finanzieri – Palamara accenna anche all’inchiesta di Perugia, che nasce proprio da un’informativa inviata da Roma, dove venivano evidenziati i suoi rapporti con l’imprenditore Fabrizio Centofanti.

“Addirittura – dice Palamara a Paglia – c’è una cosa che hanno mandato a Perugia, un fascicolo, su una persona che frequentavamo insieme a Pignatone, sono cose, ti dico, che veramente… è una cosa …”. A questo punto però “Paglia – si legge ancora nei brogliacci – chiede di Mattarella e Palamara dice che lui è uno ‘spettatore’, lamentandosi proprio di questo”. Il magistrato poi aggiunge che “Napolitano era il contrario di Mattarella”.

Il monsignore a quel punto gli chiede informazioni su Viola: “Non segue certe tendenze che ci sono dentro gli uffici della Procura di Roma – risponde Palamara – in particolar modo di Ielo (procuratore aggiunto di Roma, ndr), di questa gente sulla quale Pignatone si è appoggiato troppo”. Poi il pm, lamentandosi dello “sterile sputtanamento” nei suoi confronti, aggiunge: “Il vero tema che loro hanno avuto paura che noi abbiamo fatto l’operazione Ermini, il vice presidente del Csm (incomprensibile), abbiamo saldato queste due componenti”.

Spina, l’“astro nascente” del Consiglio Superiore

Durante l’incontro del 21 maggio interviene una terza persona, che nel brogliaccio la Finanza non identifica. Palamara lo definisce “un astro nascente del Csm”. Il Fatto lo ha identificato: si tratta di Luigi Spina, ex consigliere del Csm, dimessosi perché indagato per rivelazione di segreto istruttorio e favoreggiamento nei riguardi del magistrato romano. “Sì”, dice Spina al Fatto, “quella mattina Palamara mi ha presentato un monsignore, ma non rammento altro, mi trattenni solo pochi minuti”.

Contattato dal Fatto anche Paglia conferma l’incontro con Palamara: “Non lo vedevo da tempo. Ci siamo intrattenuti in un bar a piazza Fiume, perché dovevamo parlare di argomenti personali legati alla sua famiglia. Poi gli ho chiesto come stesse e mi ha raccontato di quel che sarebbe accaduto nella procura di Roma. M’informai sul comportamento di Mattarella perché mi raccontò dei diverbi nel Csm: ero curioso di conoscere quale fosse la posizione del Presidente della Repubblica. Tutto qui. E lui, in effetti, ricordo che mi disse che non era come il presidente Napolitano”.

Luigi Di Maio difende la Raggi: “Lei e il M5S sono un corpo unico”

Luigi Di Maio difende Virginia Raggi, e lei nega dissapori con il capo politico. Dopo che diversi giornali ieri hanno fatto notare il prolungato silenzio del capo politico del M5S sulla sindaca di Roma e raccontato di una presunta irritazione della Raggi, Di Maio ha dato il suo sostegno pubblico alla prima cittadina, già appoggiata domenica con un post su Facebook da Alessandro Di Battista (“Siamo tutti con te”). Tutto inizia ieri mattina, con un tweet della sindaca: “Da alcuni media ennesimo e inutile tentativo di dividerci. Il Movimento è compatto, con Luigi Di Maio il rapporto è solido”. Parole che proprio Di Maio ritwitta, con tanto di commento: “Più ci attaccano e più ci rafforzano”. Alcune ore dopo, il vicepremier rilancia con un post: “Il M5S e Virginia Raggi sono un corpo unico e sono un corpo estraneo per quel sistema che in passato si è permesso di lucrare sulla pelle dei romani per anni, prelevando dalle loro tasche per tutelare sempre e solo se stesso. Quel sistema di potere che ha messo in ginocchio Roma vorrebbe ora togliersi di mezzo la sindaca del Movimento, perché non si è mai piegata”.

La fake news sulla sindaca nell’impianto Rida di Aprila

Sono passati invano due giorni per La Stampa che ieri, a pagina 6, titolava un box con foto su Virginia Raggi: “Disastro social della sindaca”. Occhiello: “Video contro Zingaretti, ma sbaglia sito”. Il video in questione è quello diffuso su Facebook nella giornata di sabato in cui la sindaca di Roma, assieme a un dipendente Ama, raccontava di essersi recata alla Rida Ambiente di Aprilia (uno degli impianti che dovrebbero aumentare la quantità di rifiuti della Capitale da lavorare) e di aver trovato i cancelli chiusi. Scrive La Stampa: “Raggi va ad Aprilia a girare un video show Facebook contro Zingaretti. Ma non va nel sito giusto (la Rida Ambiente), che peraltro inizierà a smaltire da oggi, come da ordinanza regionale”.

Questa notizia era apparsa sui siti già nelle prime ore della diffusione del video in rete. Nessuno, però, si era preso la briga di controllare. Il video è infatti girato, con ogni evidenza, alle spalle dell’impianto della Rida di Aprilia. In una foto dall’alto, reperibile su Google, si possono vedere il silos bianco e il carrello trasportatore verde che compaiono alle spalle della sindaca. L’impianto è quindi quello giusto. Il Fatto lo aveva scritto già nel numero in edicola domenica: “Eppure osservando le immagini pare che la Raggi sia proprio all’impianto giusto, ma al cancello sul retro, non all’ingresso principale. E dal Campidoglio insistono: ‘Siamo andati alla Rida, solo che non ci hanno fatto entrare dallo spiazzo principale: quello nel video era il retro’. La certezza è che ieri la Regione ha dovuto scrivere all’azienda di Aprilia, che lamentava errori nell’ordinanza, per ‘correggere’ il provvedimento con una nuova determina”. Infine, che l’ordinanza di Zingaretti abbia i suoi problemi lo testimonia una dichiarazione della Rida diffusa proprio ieri: “O chiarite entro mercoledì prossimo come i flussi di rifiuti dovranno transitare a mezzo del nostro impianto intermedio di trattamento” oppure da lunedì prossimo, 15 luglio, non potrà ulteriormente aiutare Roma Capitale.

“Basta liti sui rifiuti a Roma. Ora diano spazio ai tecnici”

Non vuole chiamarla emergenza, ma situazione di criticità: “Sono due cose diverse tra loro, anche a livello normativo”. Così il ministro dell’Ambiente Sergio Costa, tecnico scelto dai Cinque Stelle, giudica la situazione dei rifiuti a Roma. E la differenza per Costa, ex comandante regionale del Corpo forestale della Campania, generale dei Carabinieri, già referente della Dna nelle investigazioni sulle ecomafie, non è solo un affare per legulei: “Dobbiamo risolvere in fretta le difficoltà della capitale, perché altrimenti si rischia davvero l’emergenza, e quando questa arriva si diventa porosi agli interessi delle mafie”.

Al di là delle definizioni, com’è messa la Capitale?

Rispetto a tre giorni fa la situazione è migliorata, stando alle foto e ai report che ho ricevuto. Venerdì la Regione Lazio ha emesso un’ordinanza per ampliare la capacità di ricevere rifiuti di nove siti del Lazio, ma partendo nel fine settimana il provvedimento ha fatto un po’ più di fatica a dare i suoi effetti. Gli operatori hanno dovuto fare turni straordinari serali e festivi, i siti si sono dovuti organizzare. Ma stiamo entrando a regime.

Per la sindaca Virginia Raggi l’ordinanza è inapplicabile e un’azienda di Aprilia, la Rida, ha ottenuto un’integrazione del provvedimento dalla Regione. E oggi sempre la Rida ha scritto una nuova lettera, in cui sostiene che l’ordinanza può essere applicata solo per una settimana. Bel guaio no?

Tutto è nato con velocità, sia sull’ordinanza che sulla raccolta dei rifiuti. Domani (oggi, ndr) al ministero ci sarà una riunione della cabina di regia con le amministrazioni e con il prefetto. E sarà l’occasione per ricalibrare qualcosa, sia per quanto riguarda il provvedimento che per il piano straordinario di raccolta dei rifiuti.

La Regione deve correggere il testo e il Campidoglio deve organizzare meglio la raccolta. Grave, non crede?

Bisogna modificare qualcosa, da una parte e dall’altra. Può accadere in condizioni del genere, e lo dico avendo investigato per anni su situazioni ben peggiori in Campania.

È normale che Regione e Comune litighino con video e comunicati?

Dobbiamo andare oltre la sterile polemica politica e risolvere il problema dei troppi rifiuti a terra. Possiamo pensare che i controlli li facciano le parti politiche? In riunione suggerirò di lasciare spazio ai tecnici, ossia di fare effettuare le verifiche all’agenzia regionale Arpa e all’Ispra, che dipende dal mio ministero. Organi terzi, che potranno dare consigli ai soggetti coinvolti.

Raggi e Zingaretti hanno esagerato?

Le polemiche non servono. Io ho scelto un operoso silenzio.

Lei ha dovuto commissariarli.

La parola commissariamento mi fa attorcigliare lo stomaco (sorride, ndr). La cabina di regia è una camera di raffreddamento delle rispettive istanze, dove confrontarsi e trovare soluzioni semplici a problemi complessi.

I sindaci della zona di San Vittore (Frosinone), dove c’è il termocombustore nel quale dovrebbe affluire gran parte dell’immondizia, sono sul piede di guerra. C’è chi minaccia di bloccare l’Autostrada A1.

È comprensibile che i sindaci alzino la voce. Ma a noi serve un periodo di tempo limitato per uscire dal disagio attuale, l’ordinanza non è una misura strutturale. Chiedo ai sindaci un surplus di pazienza.

Ma come si esce da questo sfacelo?

La Regione deve approvare un piano rifiuti per la costruzione di nuovi impianti, e mi hanno detto che ciò potrà avvenire entro l’estate. Dopodiché a mio avviso si potrebbe puntare su impianti di compostaggio e altri centri di selezione in vari punti del Lazio.

Quanti e dove vanno costruiti?

Non mi permetto di dirlo, questo spetta all’ente regionale. Però per la mia esperienza si potrebbero costruire impianti medio grandi, correlati ad altri micro-siti di prossimità. Come si dice in gergo, un sistema di compostaggio a stella. Per realizzarlo tra bandi e tempi di costruzione ci vorrebbero tra i 3 e i 4 anni.

E nell’attesa? Appena un Tmb si ferma Roma sprofonda.

Stiamo negoziando con due o tre Paesi europei per inviarvi parte dei rifiuti.

Di quante tonnellate parliamo?

Non glielo posso dire, altrimenti rischierei di far alzare il prezzo nella negoziazione internazionale, che invece deve rimanere bassa a beneficio dei cittadini che già stanno soffrendo troppo. Ma conto di chiudere tutto nel giro di qualche settimana. E la bolletta per i romani a mio avviso non salirà: anche le raccolte straordinarie di rifiuti costano.

A dicembre il Tmb Salario è andato a fuoco, e in città i cassonetti bruciano di continuo. La criminalità organizzata c’entra sulla crisi di Roma?

Più ti spingi verso la soglia dell’emergenza ambientale, più apri alle mafie. Anche perché l’emergenza richiede norme più veloci e quindi con maglie più larghe, in cui può insinuarsi la criminalità. Sono molto attento quando brucia un Tmb.

Nella Capitale vede brutti segnali?

Per questo bisogna intervenire a Roma, per non lasciare spazio a chi non aspetta altro.

Piemonte, chiesta archiviazione per governatore Cirio

La Procura di Torino ha chiesto l’archiviazione per 28 ex consiglieri regionali del Piemonte, in carica dal 2008 al 2010, che erano stati indagati con l’accusa di peculato per alcuni rimborsi illeciti. Tra di loro compare anche il nome dell’attuale presidente del Piemonte, Alberto Cirio, vincitore delle elezioni regionali dello scorso maggio a capo di una coalizione di centrodestra. Oltre alle 28 archiviazioni richieste, la Procura ha formalizzato anche la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di altri 18 ex consiglieri regionali che, sempre tra il 2008 e il 2010, avrebbero ottenuto rimborsi illeciti. Tra i loro nomi compaiono quelli di Michele Giovine (Partito dei Pensionati), di Maurizio Lupi (Verdi) e di Alberto Burzi (ex Forza Italia), già condannati dalla Corte d’appello di Torino per il primo scandalo rimborsopoli, quella dell’era della giunta del leghista di Roberto Cota (dal 2010 al 2014), e ora in attesa del pronunciamento della Corte di Cassazione. Quattro ex consiglieri, invece, hanno proposto di patteggiare la pena.