Salvini, nuovo blitz sulla Flat Tax. Conte: basta scavalcarmi

Ancora i soliti nervi tesi. Sulla manovra, in particolare, lo scontro tra il leader della Lega e il premier è aspro. Salvini annuncia un incontro per lunedì prossimo con i principali operatori economici del Paese, facendo pensare a un suo nuovo tentativo di blitz sulla Flat tax. E ieri la reazione di Conte non si è fatta attendere. “È legittimo che Salvini da capo politico della Lega voglia incontrare le parti sociali. La manovra economica, ovviamente, si fa nelle sedi istituzionali con il Presidente del consiglio, il ministro dell’Economia e tutti i ministri competenti”, avvertono da Palazzo Chigi mentre fonti di maggioranza spiegano come Conte si sia fatto sentire direttamente con il vicepremier. Ponendo un tema, che già altre volte il premier ha dovuto ribadire nei confronti del suo vice: quello di evitare “sgrammaticature istituzionali”. Tradotto: non mi si deve scavalcare, ognuno stia al suo posto.

“Sono il vicepremier, farò l’incontro”, ha confermato comunque Salvini parlando poi in serata in una trasmissione televisiva su Rete4.

Ora i Renzi non si presentano al processo

“Adesso basta, sono io che chiedo che si facciano i processi. Ma in tribunale, non sui giornali” scriveva Tiziano Renzi un anno fa nel pieno delle indagini a Firenze sulle presunte false fatture emesse dalla sua società – la Eventi 6 di Rignano sull’Arno – alla Tramor del re degli outlet Luigi Dagostino, anche lui oggi imputato nello stesso processo. Eppure, un anno dopo quella lettera contro i “processi sui giornali”, i genitori dell’ex premier devono aver cambiato idea: ieri mattina Tiziano Renzi e Laura Bovoli erano attesi in tribunale a Firenze ma non si sono presentati. Lo stesso ha fatto l’imprenditore pugliese Dagostino, che è accusato anche di truffa. Secondo i pm di Firenze, le fatture per un totale di 160 mila euro sarebbero false perchè emesse per prestazioni inesistenti riguardo al progetto di ampliamento del The Mall, l’outlet a pochi chilometri da Rignano.

L’esame delle parti è quella fase finale del dibattimento in cui gli imputati sono sottoposti a domande incrociate del pm di turno, in questo caso di Christine Von Borries e Luca Turco, e delle altre parti in causa. L’avvocato dei Renzi, Federico Bagattini, ha spiegato che i suoi assistiti hanno rinunciato perché “l’istruttoria dibattimentale ha già offerto il massimo degli argomenti difensivi” e che l’emissione delle due fatture “non comportó alcun danno erariale”. “Dal processo sono emersi elementi positivi – spiega l’avvocato al Fatto – e quindi è stata una scelta difensiva. A questo si aggiunge che con i cognomi che portano e il seguito mediatico che hanno ogni volta che si presentano in aula, abbiamo deciso di non presentarci”.

Caso diverso invece per Dagostino: “È stata una scelta di metodo – spiega il suo avvocato Alessandro Traversi – con l’esame delle parti il mio assistito rischiava di perdere il filo mentre la prossima settimana si presenterà e rilascerà dichiarazioni spontanee”. Tra una settimana l’imprenditore pugliese dovrebbe confermare il contenuto delle intercettazioni secondo cui era consapevole di pagare ai Renzi, tramite la Tramor, una cifra più alta del dovuto: “Lo so benissimo che questo è un lavoro che valeva al massimo 50-60-70 mila euro – diceva al telefono -. Ma se tu me ne chiedi 130 e sei il padre del presidente del Consiglio mi posso mettere a discutere con te e chiederti di farmi lo sconto?”. Improbabile invece che parleranno, nell’ultima udienza dibattimentale prevista per il 15 luglio, i Renzi che dovrebbero depositare una memoria scritta dopo l’assenza di ieri. L’ennesima, nonostante i proclami del figlio Matteo, che attaccando Il Fatto diceva: “Noi non scappiamo dall’aula come fanno altri, vogliamo andare in quell’aula. Perché lì vedremo chi ha ragione e chi torto”.

“Basta col correntismo dem, preferisco Salvini”

Le correnti stufano, i tempi cambiano, la Lega vince. Urgono rimedi, anche drastici. Per informazioni chiedere a Martina Minchella, ex segretaria del Pd di Viterbo – renziana doc e già legata a Beppe Fioroni – che ha appena lasciato il partito e si prepara a un approdo sulla sponda leghista. Con tanti saluti all’opposizione, a Zingaretti, al ditino alzato di Orfini sopra la Sea Watch. Qui ci vuole un po’ di pragmatismo: “Salvini è un vero leader, a dirlo sono gli italiani”.

Martina Minchella, davvero passerà dal Pd alla Lega?

Se me lo proporranno valuterò. Ma prima del matrimonio c’è il fidanzamento, e prima ancora il corteggiamento.

È lei che corteggia?

No, preferisco essere corteggiata.

Salvini la affascina?

È un vero leader, ma a dirlo non sono io, sono i cittadini. Di sicuro trasmette senso di unità e di appartenenza, ci si sente parte di una comunità, cosa che nel Pd è mancata in questi anni.

Colpa dalle correnti?

Il mio addio è dovuto a dinamiche nazionali e locali. Si è arrivati a un punto in cui non si parla più di temi, ci si guarda solo la pancia senza più sapere come arrivare ai cittadini. Non era più sostenibile.

Dopo il 4 marzo avete aspettato un anno prima di ri-organizzarvi.

Chi ha il coraggio di dimettersi vada apprezzato. Il fatto che Renzi si sia fatto da parte dopo il 4 marzo è stato un segno di grande generosità nei confronti del Pd. Dopotutto diventa anche difficile andare avanti mentre la ditta spara continuamente su di te.

Dunque Salvini. Ma lei non era di sinistra?

Capisco chi appartiene a una generazione precedente, ma alcuni concetti di destra e sinistra oggi sono sfumati. Bisogna capire come evolvono i tempi, non si può parlare di lotta di classe.

Però si può parlare di migranti.

Sul caso Sea Watch ho trovato assolutamente fuori luogo la raccolta fondi organizzata dal Pd laziale. E neanche ho gradito la passerella dei deputati a bordo. Non amo l’ipocrisia e il buonismo sciatto.


Non è normale che la sinistra sostenga le Ong?

Sono crisi per cui si devono muovere istituzioni internazionali, qualcuno che si prenda la responsabilità a livello comunitario. Non c’entra niente Orfini.


Ci pare di capire che non sia una fan di Carola Rackete.

C’è una legge che va rispettata. La legalità ha un suo valore e gli italiani la percepiscono come prioritaria. E io sono d’accordo.

Anche sulla stretta contro le Ong del decreto Sicurezza?

Non riusciamo ad accogliere tutti. Se esistono situazioni percepite come un’emergenza c’è bisogno di trovare soluzioni rapide.

Così non si mettono gli ultimi contro i penultimi?

La guerra tra poveri la crea chi vuol fare entrare tutti, non chi vuol mettere delle regole.

Vitalizi, bocciato il ricorso: “Decide solo il Parlamento”

La Cassazione respinge il primo tentativo degli ex parlamentari: il ricorso dell’ex deputato di An Paolo Armaroli contro il taglio dei vitalizi è stato dichiarato inammissibile. I Cinque Stelle esultano: la delibera che porta la firma di Roberto Fico è una delle bandiere di questa legislatura per il Movimento. Ha stabilito il ricalcolo – e nella maggior parte dei casi la corposa diminuzione – di circa 2.700 assegni di ex deputati e senatori. Una norma che secondo le stime del legislatore dovrebbe permettere di risparmiare circa 56 milioni di euro l’anno, oltre 250 in una legislatura piena.

Le sezioni unite civili della Cassazione non hanno espresso un giudizio di merito sul taglio, ma hanno stabilito un criterio cruciale: la sede che deve decidere sulla legittimità della delibera Fico non è la suprema corte, ma il Parlamento stesso. Come si legge nell’ordinanza depositata ieri, questo genere di controversie “non possono che essere decise dagli organi dell’autodichia, la cui previsione risponde alla medesima finalità di garantire la particolare autonomia del Parlamento”.

Proviamo a tradurre: l’autodichia è il principio costituzionale che stabilisce l’autonomia giurisdizionale di Camera e Senato. Secondo la Cassazione, a esprimere un giudizio sui ricorsi degli ex parlamentari possono essere solo gli organi interni di Montecitorio e Palazzo Madama. Alla Camera sono il Consiglio di giurisdizione e in seconda istanza il Collegio d’appello; al Senato, nell’ordine, la Commissione per il contenzioso e il Consiglio di garanzia.

Si tratta di organi composti da parlamentari in carica. Eletti, cioè, negli stessi partiti che hanno appena deliberato il taglio dei vitalizi negli uffici di presidenza di Camera e Senato. Dal punto di vista politico è altamente improbabile che in questa nuova sede deputati e senatori smentiscano i propri compagni di partito e cancellino il taglio dei vitalizi. Anche se dal punto di vista formale i componenti degli organi giurisdizionali del Parlamento dovrebbero spogliarsi dall’appartenenza politica e decidere secondo “indipendenza e imparzialità”. Insomma, come fossero giudici “veri”.

L’ordinanza della Cassazione lascia aperta anche una terza strada e stabilisce “la legittimazione degli organi di autodichia a sollevare questioni di legittimità costituzionale delle norme di legge cui le fonti di autonomia effettuino rinvio”. Traduciamo di nuovo: gli organi interni di Camera e Senato che giudicheranno i ricorsi contro il taglio dei vitalizi (oltre 1.500) potrebbero anche decidere di rinviare la decisione alla Corte Costituzionale. Sarebbe una decisione prudente, ma (pure in questo caso) molto sorprendente dal punto di vista politico.

Sta di fatto che l’ordinanza della Cassazione è stata salutata come una vittoria campale dal Movimento Cinque Stelle. A partire dal capo Luigi Di Maio: “Una bellissima notizia. Quei soldi invece di finire nelle tasche di pochi privilegiati potranno essere usati a favore degli italiani”. Il senatore grillino Gianluca Castaldi alza già l’asticella: “Dopo la cancellazione dei vecchi vitalizi è il momento del taglio del numero dei parlamentari”. Dall’altra parte della barricata, gli ex onorevoli sono ancora ben lontani dal gettare la spugna. Il presidente dell’Associazione degli ex parlamentari, Antonello Falomi, minimizza il significato dell’ordinanza della corte suprema: “La Cassazione – spiega – si è limitata a stabilire chi è il giudice che ha la competenza a giudicare. Sul merito, invece, ha ribadito quello che abbiamo sempre sostenuto e cioè che il vitalizio, come l’indennità parlamentare, non è un privilegio ma una garanzia”. Si riferisce a un passaggio specifico del documento licenziato dai giudici: l’assegno vitalizio “deve essere considerato come una delle garanzie (…) dell’accesso dei cittadini alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza e del libero esercizio delle funzioni del parlamentare senza vincolo di mandato”. La Cassazione però ha riconosciuto di non poter intervenire: l’unica parola spetta (ancora) al Parlamento.

Pd in bolletta per i morosi: Lotti si fa lo sconto da solo

Il 19 giugno, accanto al nome Lotti Luca, sul documento che riporta i versamenti al Pd dal primo gennaio 2019, appare la cifra “750”. Ovvero, la metà dei 1500 euro dovuti mensilmente da ciascun parlamentare al partito (che si vanno a sommare a quelli dovuti ai territori, variabili da Regione a Regione). Perché? Dal suo staff fanno sapere che dipende dal fatto che è “autosospeso”.

Come ogni anno, di questi tempi, con la chiusura del bilancio, al Nazareno scoppia il caso “morosi”. Resta agli annali la vera e propria fatwa lanciata dall’ex tesoriere, Francesco Bonifazi, contro Pietro Grasso “reo” di dovere al partito 83mila euro.

L’ultimo bilancio del Partito democratico, quello relativo all’esercizio 2018, si chiude con un passivo di 600.495 euro. Undici milioni e 819.729 euro è l’ammontare delle spese. Le voci principali di spesa sono quelle relative alle campagne elettorali (2.693.696 euro) e i costi per il personale dipendente (4.690.738 euro). Ma, come spiega il tesoriere Luigi Zanda nella sua relazione, “i crediti vantati dal Nazareno nei confronti dei parlamentari ammontano a 822.542 euro, non ancora incassati alla data di chiusura dell’esercizio 2018 e per molti dei quali è stata promossa relativa azione di recupero”.

Interpellato dal Fatto, Zanda risponde così: “Io ho un cuore e non intendo additare alla pubblica gogna queste persone. Non ci sono big e la maggior parte di loro si sta rimettendo in pari”. In realtà, il file con i versamenti dei primi 6 mesi, semina il panico nel Pd. Pure se lo stesso tesoriere ci tiene a precisare: “Sono dati parziali, che non vanno presi come ultimativi. Anche perché alcuni parlamentari si fanno fare parte del versamento dai loro mandatari elettorali, che non risultano in quell’elenco”.

Qualche versamento esorbitante nasconde qualche altarino del partito, però. È per esempio il caso di Tommaso Nannicini, che ha dato in una sola volta, lo scorso 3 giugno, 10.500 euro. Lui la spiega così: “Sì è vero, non avevo pagato per mesi, perché era l’unico modo che avevo per fare pressione sul Pd: non stavano pagando una start-up di analisi dati della politica, la Entrepreneurship, che ci aveva dato una mano per il forum della campagna di ascolto che avevamo lanciato. Quando l’hanno pagata, ho saldato i miei debiti”. 5000 euro tutti insieme li ha versati anche Andrea Orlando, vice segretario dem, a marzo. “Ero in ritardo di due pagamenti – dice lui – perché l’anno scorso mi erano saltati due bonifici automatici”. E poi c’è chi, come la deputata Maria Chiara Gribaudo, ammette: “Ero indietro, ma mi sono messa a posto con il versamento di 15mila euro”. Difficile ricostruire la lista finale dei morosi solo con i dati nazionali. Anche perché, per esempio, molti non sono deducibili dal file reso pubblico in nome della trasparenza. Per Luciano Nobili, capo corrente della minoranza renziana più ultrà che c’è con Roberto Giachetti e Anna Ascani, risulta un unico versamento di 4500 euro il 30 aprile. Ma lui assicura: “Ho versato i 1500 euro tutti i mesi, fino a giugno 2019 compreso. Ho tutti i bonifici”. Poi, però ammette: “Ho un pregresso, credo, sul contributo per la candidatura: ero in cassa integrazione quando mi hanno candidato”. Sì, perché il partito chiede una cifra variabile (a seconda dei territori) di circa 30mila euro.

Mentre il partito è in bolletta, le varie correnti organizzano le loro riunioni, pagandole con l’autofinanziamento. È stato così per la minoranza di Giachetti, che qualche settimana fa si è riunita ad Assisi. È stato così per Base riformista, quella di Luca Lotti, fresca di mini convention a Montecatini. “Certo, tra i morosi c’è anche qualcuno di Br”, dice Zanda, sempre però abbottonatissimo sui nomi.

Insomma, mentre il Pd è in bolletta, alcuni parlamentari preferiscono finanziare la loro corrente piuttosto che rimpinguare le casse del partito. Spiegano dall’organizzazione di Montecatini che la tre giorni dello scorso week-end è costata 18mila euro, tra affitto della sala del convegno, allestimento, service, ospitalità per i relatori. Che però ancora non sono stati saldati: Br si sta costituendo in associazione e non ha ancora un Iban. Quindi, per adesso, sono state fornite delle caparre. Poi, l’autofinanziamento diventerà normale. Nel frattempo, i partecipanti si sono pagati vitto e alloggio da soli.

Autonomia, ancora scontro sulla scuola. Se ne riparla giovedì

Nuovo vertice sulle autonomie tra il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, i vicepremier e i ministri di Lega e 5 Stelle. Da una parte la frenesia di Matteo Salvini e del ministro per gli Affari Regionali Erika Stefani, dall’altra parte i timori del M5s sulla tenuta dei conti pubblici e della solidarietà nazionale. Ieri le trattative sono proseguite senza che si trovasse la quadra definitiva – i ministri si aggiorneranno giovedì mattina – ma sarebbero stati trovati “punti di incontro” su diversi temi. A partire da “salute, ambiente e lavoro”, come precisa la Stefani (ma i 5Stelle non la pensano uguale), che ora giura: “Andiamo avanti a oltranza finché non si chiude l’intesa”. A stare a cuore al Movimento 5 Stelle sono i Lep, i livelli essenziali delle prestazioni, ovvero i servizi minimi che devono essere garantiti ad ogni italiano e che una errato trasferimento delle risorse alle Regioni metterebbero in pericolo. Fonti del M5S rassicurano anche riguardo al fondo di perequazione: una volta trasferita una quota di gettito alla Regione, “se la situazione economica dello Stato dovesse cambiare è necessario che parte del maggiore gettito venga indirizzata alle altre Regioni, proprio per garantire stessi servizi da un estremo all’altro della Penisola”. Nessun accenno specifico al tema dei costi standard, che saranno oggetti dei futuri incontri. Centrale già ieri, invece, il nodo dell’istruzione, con le resistenze del M5s sulla possibilità di assunzione diretta dei docenti da parte delle Regioni, ritenuta a rischio incostituzionalità. Ancora da limare l’accordo sui trasporti: le Regioni spingono per avere la gestione di autostrade, porti, aeroporti e ferrovie, mentre il Mit spinge per mantenerne il controllo. Il compromesso, in questo caso, potrebbe riguardare la concessione ai territori degli aeroporti. La discussione ha comunque soddisfatto Matteo Salvini, che a fine vertice si è detto ottimista per la riuscita dell’accordo: “C’è stato un passo avanti interessante”.

Teheran sfida gli States e va avanti: uranio al 4,5%

Passettino dopo passettino, minaccia dopo minaccia, sanzione dopo sanzione, Donald Trump sta spingendo l’Iran più vicino alla bomba, là dov’era prima di firmare l’accordo sul nucleare nel 2015 e di rispettarlo scrupolosamente per quattro anni. Teheran, che aveva già confermato domenica l’avvenuto superamento dei limiti d’arricchimento dell’uranio posti dall’intesa, ha ieri precisato d’avere innalzato al 4,5 per cento il livello, rispetto al 3,67 consentito dall’accordo.

Secondo il portavoce dell’Organizzazione per l’energia atomica iraniana Behruz Kamalvandi, campioni d’uranio arricchito sono stati inviati all’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), che domani a Vienna si riunirà in sessione straordinaria su richiesta degli Stati Uniti. L’Aiea ha già confermato l’avvenuto sforamento dei limiti concordati. L’Iran resta molto lontano dalle quantità di uranio arricchito e dai livelli di arricchimento necessari per una bomba nucleare di ultima generazione. Ma il presidente iraniano Hassan Rohani spera così di fare recedere gli Stati Uniti dall’applicare sanzioni che ne soffochino ulteriormente l’economia del Paese e cerca di mettere gli europei contro l’Amministrazione statunitense. Il primo obiettivo appare illusorio: Trump, oltre un anno fa, denunciò l’accordo, nonostante l’Iran lo stesse rispettando, e reintrodusse le sanzioni levate da Obama. Teheran chiede che Washington cessi “la guerra economica” contro l’Iran. Ma il segretario di Stato Mike Pompeo minaccia “più isolamento e più sanzioni”; il presidente Trump ammonisce l’Iran “a stare attento”; e il suo vice Mike Pence dice “non vogliamo la guerra, ma non cediamo”.

Il secondo obiettivo appare velleitario, nonostante l’annuncio dell’avvenuto arricchimento “illecito” s’accompagna a un ultimatum di 60 giorni ai partner europei dell’accordo nucleare perché agiscano per salvarlo. Se non ci saranno azioni concrete per contrastare gli effetti negativi delle sanzioni Usa sull’economia iraniana, la Repubblica islamica compirà a settembre nuovi passi verso la “riduzione” dei suoi impegni. Si ipotizza un arricchimento dell’uranio al 20 per cento.

L’Unione europea, in realtà, s’è data strumenti per consentire alle sue aziende di continuare a fare affari con l’Iran senza incorrere nelle sanzioni statunitensi, ma esita ad applicarli (e le imprese temono, comunque, le ritorsioni Usa). Mohammad Javad Zarif, ministro degli Esteri iraniano, uno dei “padri” dell’intesa, nota che le misure sono reversibili: “Dipende dagli europei”. La logica dell’atteggiamento persecutorio di Trump contro l’Iran non è chiara, al di là della sintonia con le preoccupazioni d’Israele – il premier Benjamin Netanyahu insiste perché l’Ue reintroduca le sanzioni – e con le ambizioni d’egemonia regionale dell’Arabia saudita. Il presidente che riconosce uno statuto internazionale al dittatore nord-coreano Kim Jong-un, che s’è dotato dell’atomica, vuole mettere in ginocchio un Paese che non ce l’ha e che accetta di non averla.

La posizione americana crea imbarazzo in Europa. Kim Darroch, l’ambasciatore di Londra a Washington, scrive, in cablogrammi destinati a rimanere riservati, ma resi pubblici dal Daily Mail, che il presidente Trump “irradia insicurezza”, in particolare nelle valutazioni sull’Iran. L’ostilità verso Teheran emerge anche da scortesie gratuite, come quelle subite dalla nazionale di pallavolo iraniana al suo arrivo negli USA. Commentando gli ultimi sviluppi, la Cina denuncia “il bullismo unilaterale” degli Stati Uniti, visto come “un tumore che si diffonde e sta creando più problemi e crisi su scala globale”: “Le pressioni degli Usa (sull’Iran) sono alla radice della crisi sulla questione nucleare”.

I tre fronti aperti e la promessa di Trump sul ritiro

I fronti militari dove l’Italia impiega più uomini sono Afghanistan, Iraq e Libano. Secondo la relazione delle Commissioni Affari esteri e Difesa discussa il 3 luglio, l’Italia può schierare fino a 800 uomini nella missione NATO Resolute Support Mission in Afghanistan, 1.100 nella Coalizione internazionale impegnata contro Daesh in Iraq e 1.076 nella storica missione Onu in Libano UNIFIL. L’Italia ha di recente rafforzato la sua presenza anche in Africa, con le missioni in Libia (principalmente con due missioni bilaterali, una da 400 unità di supporto a terra e un’altra con 25 per l’aiuto della Guardia costiera libica), Niger (290 unità in una missione bilaterale) e la storica Eunavfor Atlanta in Somalia (azione contro la pirateria dove l’Italia schiera 407 unità).

Ora però Washington chiama, chiedendo all’Italia un maggiore impegno in Siria. Al momento i nostri 130 soldati sono schierati lungo il confine con la Turchia, nella zona tra Adana, Kahramanmaras e Gaziantep allo scopo di “difendere la popolazione dalla minaccia di eventuali lanci di missili dalla Siria”, si legge nella relazione. Ma la situazione potrebbe evolversi. La guerra in Siria si sta combattendo ora su due fronti ben distinti, “che hanno poco o nulla a che fare l’uno con l’altro – spiega il ricercatore di Ispi esperto di Medio Oriente Eugenio Dacrema -. Il primo è il più caldo sul piano militare, quello di Idlib, il secondo è più diplomatico, a Nord-Est del Paese”.

Idlib, circa 60 chilometri a Sud-Est di Aleppo, è l’ultima roccaforte dei ribelli armati, ora formati per lo più da fazioni islamiste. Da settembre 2018 e aprile 2019 la zona è stata amministrata da Russia e Turchia, che avevano un accordo: i primi avrebbero evitato che Assad attaccasse a patto che i turchi eliminassero i gruppi armati jihadisti dall’area. Il patto è saltato per il fallimento della missione turca, incapace di sconfiggere i ribelli. Approfittando della situazione, Bashar al-Assad ha cominciato le operazioni militari. La situazione ora è degenerata, con una crisi umanitaria in corso per i circa 3 milioni abitanti della zona. Al Jazeera il 7 luglio riportava i dati del Syrian Network for Human Rights (SNHR), rete a cui fanno affidamento anche le Nazioni Unite per la stima dei morti del conflitto, secondo cui le vittime civili dall’inizio dell’offensiva sono almeno 544 (di cui 130 bambini) a cui aggiungere 2mila feriti. Sul piano militare, l’offensiva del regime non avanza, anche perché l’esercito siriano è spaccato in due fazioni: una filo-russa, l’altra filo-iraniana, vicina al fratello di al-Assad, Maher, la quale non ha combattuto fino adesso.

Il secondo fronte, più statico, è a Nord-Est del Paese, dal nord della provincia di Aleppo fino alla regione di Afrin. L’area è sotto il controllo di Ankara, che vorrebbe annetterla, perseguendo il sogno della Grande Turchia di Recep Tayyip Erdogan. A gennaio 2019, via media filo-governativi, Ankara aveva annunciato il dispiegamento di 80mila uomini nell’area: il più importante contingente turco mai inviato all’estero, da schierarsi allo scopo di riprendersi il territorio dove hanno combattuto i guerriglieri curdi delle YPG. C’è un problema, però: le YPG sono sostenute dagli Stati Uniti, che hanno tutto l’interesse di evitare che la Turchia si espanda oltre misura. L’offensiva di Erdogan è stata così rimandata dal primo annuncio a settembre 2019, con la speranza che il presidente americano Donald Trump mantenesse la parola data a dicembre 2018 di ritirare le sue duemila truppe dalla Siria. Ma il rientro negli Usa, nei piani della Casa Bianca, è possibile solo in caso di una forza multinazionale che possa schierarsi nella zona che interessa a Erdogan. Ora la situazione è in stallo sulle negoziazioni per una buffer zone neutrale al confine Turchia-Siria: Erdogan la vorrebbe di 40 chilometri di profondità, la Russia vorrebbe concederne 5, gli Stati Uniti zero. Il chiaro obiettivo di Ankara è prendersi quella fascia-cuscinetto.

Gli interessi contrapposti sono tre, quindi: quelli curdi (finora supportati dagli Stati Uniti) che vogliono mantenere quel territorio; quelli di Erdogan, che vuole espandere la sua influenza, e quelli Bashar al-Assad, che conta su sacche di truppe pro-regime per ristabilire i vecchi confini siriani.

L’Italia dice no agli Usa: niente truppe in Siria

Roma ha abituato gli alleati americani a lunghe meditazioni e risposte interlocutorie, stavolta la posizione del governo è determinata: l’Italia respinge la richiesta di Washington di inviare soldati e aerei in Siria e si limita a garantire un “supporto umanitario”. Stavolta l’Italia ripudia la guerra nei fatti, come da Costituzione, dopo più di un mese di dubbi, bilaterali, pressioni.

Per gli analisti, sospeso tra sovranismo e irruenza (verbale), il presidente Donald Trump persegue una politica estera errante, che produce annunci e smentite degli annunci, ritiri di truppe e precisazioni sui ritiri di truppe. Però gli Stati Uniti, ormai da un anno, cercano di ridurre il numero dei militari in Siria e di reclutare, in una sorta di supplenza, il sostegno degli alleati all’interno della Nato per formare una coalizione massiccia e perciò mista con francesi e inglesi in prima linea.

Il diniego di Roma ricalca il no di Berlino. Il diplomatico James Franklin Jeffrey, delegato speciale di Washington per la Siria e la lotta al terrorismo di Isis, ha tentato di conquistare l’assenso della Germania per coprire le zone a Nord di Damasco. Berlino è impegnata in Siria con i voli di ricognizione dei Tornado e, sempre nel quadrante mediorientale, con una squadra di istruttori in Iraq. Un portavoce del governo di Berlino, a pochi mesi dalla scadenza dei finanziamenti del Parlamento per le missioni militari, ha ripetuto, quasi con sarcasmo, che i tedeschi non hanno scarponi in Siria e mai li avranno. Gli Stati Uniti hanno recapitato a Roma la stessa domanda rivolta ai tedeschi sfruttando i fitti canali diplomatici con alte cariche dello Stato, i contatti con il ministero della Difesa di Elisabetta Trenta (contraria all’intervento), le occasioni istituzionali con il recente viaggio americano del vicepremier Matteo Salvini. Il messaggio: il terrorismo è un problema comune, aiutateci, con circa 150 soldati e 10 caccia. Washington non ha più intenzione di svolgere il ruolo di guardiano del mondo, soprattutto nei pantani bellici come la Siria in cui – da più di sette anni con centinaia di migliaia di vittime, oltre sei milioni di profughi – si fronteggiano i fedeli del regime di Assad, russi, turchi, arabi, curdi, iraniani e via elencando con l’ombra nera dell’internazionale del terrorismo Isis.

I Verdi, la Spd, la Link, i Liberali: i partiti tedeschi all’unisono hanno rinvigorito la ritrosia del cancellerie Angela Merkel, che non avrà faticato a convincere i suoi referenti in Cdu e Csu. Il 2019 è l’anno della mutazione diplomatica dei leghisti e di Matteo Salvini, da entusiasti amiconi e frequentatori della Russia di Vladimir Putin a disciplinati alleati degli Stati Uniti. Quest’anno il Carroccio ha una profonda esigenza nonché un plateale desiderio di assecondare – s’è visto con il memorandum cinese e il Venezuela – le indicazioni di Washington, ha alzato il livello di attenzione sul tema Siria, ha imposto le solite riflessioni ai colleghi del governo gialloverde, ma alla fine ha convenuto su un dato di fatto: una spedizione militare in Siria non sarebbe accettata dagli italiani e neanche dai parlamentari e andrebbe contro gli interessi di Roma che adesso sono concentrati in Libia. E poi l’Italia – questa è la spiegazione fornita agli americani – è al fianco degli alleati in Libano, in Kosovo, in Afghanistan.

Il pensiero di Roma si può rintracciare nel comunicato del 25 giugno al termine del Consiglio supremo di Difesa che s’è tenuto al Quirinale col presidente Sergio Mattarella. Al tavolo c’erano il premier Conte; i vice Di Maio e Salvini; i ministri Tria (Economia), Moavero (Esteri), Trenta (Difesa); il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti; il capo di Stato Maggiore della Difesa, il generale Enzo Vecciarelli e il segretario del Consiglio supremo della Difesa, il generale Rolando Mosca Moschini. Il comunicato, diffuso dal Quirinale, ricorda dove l’Italia è schierata: “La Libia resta una priorità per il nostro Paese. In Afghanistan, l’Italia segue con attenzione gli sviluppi politico-diplomatici in atto e confida su un percorso elettorale pacifico e democratico. Il nostro Paese continuerà a dare il suo contributo, in pieno accordo con gli alleati e con le Istituzioni locali, per consentire al popolo afghano di proseguire su un percorso di stabilizzazione e sviluppo. Nel ventennale dell’intervento in Kosovo, l’Italia rimane fortemente impegnata per consolidare la stabilità della penisola Balcanica e per sviluppare, con l’Unione Europea, il processo di integrazione comunitaria. L’Alleanza Atlantica, l’Unione Europea e le Nazioni Unite rappresentano in nostri riferimenti in materia di sicurezza e difesa”. Niente Siria. Chi doveva capire, ha capito.

Ecoballe

Tale è la voluttà di gettare tutte le croci addosso a Virginia Raggi, anche quelle destinate ad altri, che ormai politici (anche dei 5 Stelle) e giornali negano persino l’evidenza. E cioè che lo smaltimento dei rifiuti della Capitale, come di tutte le città d’Italia, è competenza esclusiva della Regione. In questo caso, del Lazio governato da Nicola Zingaretti. E il principale problema dei rifiuti romani non è la raccolta, che in tempi normali faticosamente regge, nei limiti di una metropoli con quelle dimensioni, quei bilanci disastrati e quell’impatto turistico: ma è lo smaltimento. Per un motivo molto semplice: nel 2013, pressati da indagini giudiziarie, proteste popolari e una procedura d’infrazione Ue, il sindaco Ignazio Marino e il neogovernatore Nicola Zingaretti chiusero la fetentissima e inquinantissima discarica di Malagrotta, la più grande d’Europa (240 ettari), di proprietà del “re della monnezza” Manlio Cerroni: e fecero bene. Ma purtroppo si scordarono di decidere il sito alternativo con cui sostituirla per smaltirvi i rifiuti: e fecero male. Malissimo. Tant’è che Roma, a sei anni di distanza, paga ancora quella scelta (anzi non scelta) sciagurata: perchè non sa dove smaltire i suoi rifiuti. In questi sette anni le due giunte Zingaretti hanno accuratamente evitato di decidere il luogo della nuova discarica, per paura di scontrarsi con le popolazioni e le giunte dei comuni e prescelti (perlopiù targate Pd).

Quindi se oggi, come sempre fin dai tempi di Marino, a ogni guasto, o incendio, o manutenzione di uno dei quattro impianti di Tmb che reggono a stento il trattamento dei rifiuti capitali, la città va in emergenza e i rifiuti si accumulano per le strade, il colpevole è uno solo: la giunta regionale Zingaretti. La Raggi ha altre colpe, anche in tema di rifiuti: aver cambiato tre assessori in tre anni (l’ottima Muraro, la troppo ideologica Montanari e ora se stessa) e tre amministratori dell’Ama (che finora, con 1 miliardo di buco, una flotta di mezzi utilizzabili solo al 55% e tassi di assenteismo da quarto mondo, non hanno saputo mettere ordine nella municipalizzata). Ma sullo smaltimento nulla poteva né può fare, perchè non è nelle sue competenze. Infatti da tre anni chiede un nuovo Piano rifiuti alla Regione. Invano. E dire che la giunta Zingaretti è stata messa due volte in mora da altrettante sentenze del Tar, nel 2016 e nel 2018, che le ordinano di “individuare la rete integrata ed adeguata di impianti di smaltimento rifiuti in ambito regionale” perchè “crearla spetta alla Regione e non allo Stato”, e minacciano in caso di inerzia l’arrivo di “un Commissario ad acta” nominato dal prefetto.

Niente da fare: tutto fermo. Il che rende ridicolo leggere che “la Regione commissaria la sindaca”: l’unico ente che, sentenze alla mano, andrebbe commissariato è la Regione. Invece, stando ai media, pare che il problema sia che la Raggi ha fatto una gaffe in un video sui social: quello in cui dimostra che una delle aziende millantate dalla Regione come pronte ad aumentare la raccolta della monnezza romana, la Rida di Aprilia, era chiusa. Risposta della Regione: hai sbagliato azienda, quella non è la Rida. Invece è proprio la Rida, ripresa dal retro, visto che dall’ingresso principale la sindaca non l’han fatta entrare. Da tre giorni siti e giornaloni ripetono a fotocopia la fake news della “gaffe della sindaca che sbaglia ditta”. Non sbaglia ditta e comunque non è certo quello il guaio di Roma. Che dipende da ben altri fattori, raccontati per filo e per segno da Vincenzo Bisbiglia sul nostro sito.
Il ciclo dei rifiuti prevede tre fasi: raccolta (fase 1); trattamento (fase 2), con eventuale “trasbordo” provvisorio, cioè parcheggio in caso di difficoltà o ritardi del passaggio successivo) (fase 2-bis); e smaltimento (fase 3). La 1 spetta al Comune (cioè all’Ama). La 2 spetta alle società autorizzate dal Piano rifiuti regionale (in una mappa di “aree bianche” indicate da province o città metropolitane): i quattro impianti Tmb (trattamento meccanico biologico: due di Colari, l’ex gruppo di Cerroni ora commissariato dal tribunale, e due di Ama), che basterebbero a stento se fossero sempre tutti a pieno regime, invece sono troppo vecchi per non andare ogni tanto in tilt (al netto degl’incendi dolosi). La 3 spetta agli impianti decisi dalla Regione: discariche e inceneritori. E proprio la 3 manca a Roma: dalla fine di Malagrotta, il ciclo dei rifiuti non si chiude. Discariche e inceneritori del Lazio sono troppo piccoli per smaltire le 4700 tonnellate di immondizia prodotte ogni giorno dai romani. Servirebbe un nuovo Piano Rifiuti della Regione, che invece è ferma a quello del 2012 della Polverini, pre-chiusura di Malagrotta. Da allora la Regione s’è limitata ad aggiornarlo per redistribuire parte dei rifiuti romani in impianti già esistenti fuori Roma: nel Lazio, in altre regioni (Abruzzo, Veneto, Puglia, Emilia Romagna, Lombardia) e in altri Stati (Austria, Germania e Portogallo). Tutti accordi regionali costosissimi per la città: 50 milioni l’anno, pagati dai romani con la tassa rifiuti più alta d’Italia. Nel 2017 ha pure chiuso l’inceneritore di Colleferro. Intanto la differenziata, avviata da Alemanno e incrementata da Marino e Raggi, è arrivata al 45%: si può fare meglio (la sindaca ha annunciato nel 2017 un piano per portarla al 70% nel 2021: auguri), ma è già un discreto traguardo, che ha ridotto le tonnellate giornaliere da smaltire a 3mila. Ma il guaio non è la raccolta (fase 1): è il trattamento (fase 2) che spesso va in tilt, o per l’aumento dei rifiuti sotto Natale e a luglio, o per il blocco di uno o più Tmb (su quattro). E allora si tampona col trasbordo provvisorio (fase 2-bis), ma anche lì la Regione dorme: solo nel luglio 2018 ha autorizzato, fuori dai capannoni di Rocca Cencia e Salario, due aree scoperte dove appoggiare i rifiuti in attesa di trattarli. In ogni caso, manca da sei anni lo smaltimento in loco (fase 3).
Nel 2018 la situazione precipita. Un incendio doloso devasta a marzo il Tmb di Rocca Cencia e un altro, a dicembre, distrugge completamente il Tmb di Salario. I cittadini esasperati bloccano anche i trasbordi all’aperto. Così, oltre alla 3, saltano anche le fasi 2 e 2-bis. La Raggi bandisce appalti per il trattamento, ma le gare vanno regolarmente deserte (l’Antitrust indaga su possibili cartelli fra operatori, interessati ad aggravare l’emergenza per tornare ai vecchi affidamenti diretti, aumma aumma). Chiede aiuto ad altre Regioni, che spesso rispondono picche. Si appella a Zingaretti perchè vari finalmente il Piano rifiuti, per cui a gennaio 2019 la Città Metropolitana ha consegnato alla Regione la lista delle “aree bianche” dei nuovi impianti. Invano. In vista del mese critico di luglio, tenta una proroga delle aree di trasbordo a Ponte Malnome e Saxa Rubra, ma gli abitanti si ribellano. Intanto, dei tre Tmb rimasti, i due di Colari annunciano in contemporanea un programma di manutenzione da giugno a settembre, col taglio della capienza giornaliera da 1250 tonnellate a 500. E il 31 luglio scadrà pure l’accordo Lazio-Abruzzo per il trasloco di parte dell’indifferenziato romano.
É la tempesta perfetta. Il collo di bottiglia che sta strozzando la Capitale. Scrive Bisbiglia: “Dopo Pasqua le strade si riempiono di sacchetti, Ama raccoglie (con le sue difficoltà), ma non sa dove portare l’immondizia, la differenziata va in tilt fra i cittadini scoraggiati e i lavoratori sotto pressione”. L’ennesima, prevedibilissima emergenza esplode col caldo e le puzze. Ma la giunta Zingaretti partorisce l’ennesimo topolino: un’ordinanza che ordina al Comune di acquistare subito 300 nuovi cassonetti (la città ne ha 52mila), non stanzia un euro e non decide nuovi impianti. Promette solo l’uso a pieno regime di quelli del Lazio, ma questa parte è scritta coi piedi (la ditta Rida, letta la prima versione, annuncia che non prenderà un grammo in più di monnezza e cambia idea solo dopo un’aggiunta posticcia: a proposito di “gaffe”). Qualcuno ciancia di nuovi inceneritori, come se non occorressero 7-8 anni per farne uno (e allora si spera che la differenziata in più lo renderà inutile). O di una nuova discarica (a Pian dell’Olmo o altrove), che però andrebbe varata. Da chi? Dalla Regione. Fra una grida manzoniana e l’altra, Zingaretti invita la Raggi a “vergognarsi”. E lui quando si vergogna?