Etruria & C: la via crucis burocratica per i risparmiatori vittime dei crac

La Consap, società del ministero dell’Economia, ha aperto il portale del Fondo indennizzi risparmiatori (Fir) delle banche “fallite”: Banca Etruria, Veneto Banca ecc. Manca solo la data, imminente, da cui partiranno i 180 giorni entro cui presentare le domande.

Nessuna obiezione sulla cosa in sé. Gravissime sono infatti le responsabilità degli organi di controllo e vigilanza, che hanno lasciato incancrenire le situazioni degli istituti di credito in questione, chiudendo gli occhi su cosa combinavano, allo sportello e nei bilanci.

Qualche critica sulla procedura d’indennizzo però ci sta, in particolare per la burocrazia richiesta. Impietoso è il confronto con la vicenda degli azionisti e obbligazionisti Alitalia, conclusasi giusto dieci anni fa. Allora bastò firmare un modulo e consegnarlo alla banca o sim. Adesso è un lavoraccio: ci vuole una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, la prova dell’eventuale provenienza da familiari o per successione e, oltre ad altro, in particolare gli estremi contabili degli acquisiti. Personalmente conservo i documenti bancari dal 1974, ma temo che alcuni risparmiatori siano meno ordinati.

In effetti secondo il portale basterebbe il “Dossier Titoli” a documentare l’acquisto. Però tali documenti riportano i prezzi medi, ma non le date, invece richieste per le obbligazioni subordinate. Il rimborso è infatti ridotto in funzione del rendimento di un Btp di durata equivalente. Norma inoltre di dubbia interpretazione: contano i rendimenti lordi o invece quelli netti d’imposta? Al riguardo merita ribadire che molte emissioni furono collocate a tassi solo di poco superiori a quelli dei titoli di Stato, sbugiardando chi vuol fare passare per incalliti speculatori quanti li hanno sottoscritti.

Altro problema la cosiddetta tipizzazione delle violazioni per chi supera i 35 mila euro di reddito complessivo o i 100 mila di patrimonio mobiliare. Se non saranno rese note preliminarmente le fattispecie che danno diritto all’indennizzo, uno corre il rischio di sobbarcarsi inutilmente una notevole mole di lavoro.

A proposito, vista la complessità della procedura, molti preferiranno farsi aiutare da qualcuno. Nessun problema se sarà un consulente finanziario vero o finto, un ragioniere, un matematico-finanziario, un’associazione, uno psicologo ecc. Chiunque tranne un avvocato, perché la legge di bilancio 2019 ha stabilito che tale lavoro “non rientra nell’ambito delle prestazioni forensi e non dà luogo a compenso”. Sembra quasi un dispetto.

 

Due disegni di legge 5S per colmare il gap

C’è una gran richiesta di infermieri. Di famiglia e in intramoenia. Questo prevedono i 2 disegni di legge targati Cinque stelle. Il primo di iniziativa del senatore Gaspare Antonio Marinello. Il secondo invece è firmato dal presidente della commissione Sanità del Senato Pierpaolo Sileri.

In ambo i casi si vuole colmare un bisogno assistenziale. Quello dei malati cronici, soprattutto non autosufficienti, che non richiedono cure intensive in ospedale. L’infermiere diventerebbe responsabile dell’assistenza a domicilio in collaborazione con il medico di famiglia. Se poi il paziente vuole scegliersi l’infermiere di fiducia, per un’assistenza h24 o solo per la notte, allora c’è in progetto di consentire la libera professione intramuraria anche a questa figura. In quali modalità è ancora tutto da decidere. Ma sicuramente questo servizio privato non sottrarrà forza lavoro al sistema pubblico, che già langue. Secondo le stime dei sindacati infatti mancherebbero oltre 50mila infermieri nei nostri ospedali. Prima quindi non converrebbe assumerne di più?

Saldi, la mappa per muoversi tra offerte, garanzie e scontrini

Partiamo da un’amara verità: quando un negoziante si rifiuta di cambiare un prodotto acquistato in saldo ha ragione; la legge glielo consente. La vendita in saldo è, infatti, coperta dalle stesse garanzie previste per le vendite ordinarie. E non esiste nessun obbligo per il commerciante di sostituire la merce che non presenta difetti. Il negoziante che cambia la merce lo fa, insomma, solo per cortesia. Meglio ricordare che la regola del cambio vale soltanto per le vendite a domicilio, via Internet, per i contratti conclusi fuori dai locali commerciali (per strada, sul luogo di lavoro, al telefono ecc.).

Una mancata possibilità di recesso per le vendite tradizionali che, insieme ad altre disposizioni, sarebbe meglio tenere a mente in queste settimane di saldi per evitare di fare la fine del pollo da spennare. E, alla fine di giornate frenetiche di shopping, portare a casa più che un “affarone” il solito “pacco”. In questo periodo di promozioni, infatti, occorre prestare molta attenzione alle reali opportunità di risparmio, fare una valutazione del rapporto qualità-prezzo e ricordare sempre che lo sconto applicato non comporta una riduzione dei diritti di chi compra. É, inoltre, noto a tutti il triste fenomeno dei prezzi aumentati prima dei saldi, dei cartellini taroccati riscritti senza l’originale, dei richiami di sconti esagerati disattesi e di tutte le altre trovate pur di speculare. Per evitare brutte sorprese, meglio fare attenzione a poche regole per fare buoni affari, tra ribassi che – proposti via sms, Facebook, Whatsapp o con email – possono arrivare fino al 60%.

La spesa degli italiani. Secondo le stime dell’Ufficio Studi di Confcommercio ogni famiglia spenderà 224 euro, circa 100 euro pro-capite, per l’acquisto di capi d’abbigliamento, calzature ed accessori per un valore complessivo di 3,5 miliardi di euro. Numeri decisamente in contrazione rispetto a due anni fa, quando il giro d’affari raggiunse quota 5,3 miliardi (pari a 344 euro di spesa media) e che per il presidente di Federazione Moda Italia/Confcommercio Renato Borghi rappresentano una “condizione di disastro economico per le imprese”, dal momento che i saldi estivi valgono circa il 12% dei fatturati dei negozi d’abbigliamento.

Ma più che contrazione dei consumi, c’è un’altra e più consistente ragione che, anno dopo anno, vede diminuire la spesa delle famiglie nel periodo dei saldi: gli acquisti online. Una tendenza consolidata come dimostrano i dati dell’ultima indagine dell’Osservatorio eCommerce B2C-Consorzio Netcomm/School of Management del Politecnico di Milano: nel 2019 gli acquisti online cresceranno del 15% rispetto all’anno scorso arrivando a superare i 31,5 miliardi di euro. Con lo smartphone che viene usato per il 40% degli acquisti online.

Prezzi. In base a quanto disposto dal d.lgs. 114/98, il cartellino deve indicare sia il prezzo ordinario che quello scontato, riportando altresì la percentuale di sconto. Gli esercizi commerciali sono obbligati a garantire ai clienti il pagamento tramite pos, quindi con carta di credito o bancomat. Nel caso in cui l’esercente non consenta tale opzione di pagamento, è possibile segnalare l’episodio alla Guardia di Finanza.

Garanzie. Se da una parte il negoziante non è tenuto per legge a sostituire un prodotto integro, la situazione cambia radicalmente in caso di prodotto difettoso. Il d.lgs. 24/2002 stabilisce un periodo di garanzia di due anni per i prodotti nuovi e di un anno per i beni usati, anche nel caso di merce acquistata a saldo.

Controlli. In caso di problemi bisogna rivolgersi alla polizia municipale che può accedere ai punti vendita per effettuare i relativi controlli sul corretto svolgimento delle vendite straordinarie.

Shopping online. La prima regola da seguire è quella di utilizzare un antivirus o programmi specifici, in grado di controllare l’affidabilità dei siti internet. Sempre per valutarne la sicurezza, è necessario controllare che prima dell’indirizzo ci sia scritto https://, deve cioè esserci la “s” finale.

La regola d’oro “Diffidate degli sconti superiori al 50%, spesso nascondono merce non proprio nuova, o prezzi vecchi falsi (si gonfia il prezzo vecchio così da aumentare la percentuale di sconto ed invogliare maggiormente all’acquisto). Un commerciante, salvo nell’Alta moda, non può avere, infatti, ricarichi così alti e dovrebbe vendere sottocosto”, ammonisce il Codacons.

Urus, tutti i colori di Lamborghini: “La nuova via”

Urus, ultimo nato in casa Lamborghini, sta registrando vendite record per un’azienda che ha sempre fatto delle piccole cifre un segno di esclusività. Tuttavia, se nei primi mesi del 2019 le consegne totali sono state 4.553 – ovvero il 96% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente – è soprattutto merito del super sport utility, che nel semestre ha raggiunto da solo quota 2.693. Cifre significative, che confermano quanto il brand di proprietà Audi puntasse sul “bos taurus primigenius” (da cui deriva il nome del modello) per raggiungere una clientela di una nicchia un po’ più grande. Al suv, poi, è dedicato un nuovo impianto di verniciatura, fresco d’inaugurazione e sorto all’interno del quartier generale come ultimo tassello di una serie di investimenti volti a rendere la Urus in tutto e per tutto “figlia” del polo di Sant’Agata Bolognese. Il reparto di verniciatura è la piena espressione dell’innovazione manifatturiera che integra lavoro di uomini e robot e che consente a ogni auto di godere di un processo di lavorazione ad hoc. Tanto che “il gruppo (Volkswagen, n.d.r.) ha definito Lamborghini come progetto pilota per vedere se questo tipo di flessibilità e processo può essere esteso a dimensioni diverse”, riferisce Stefano Domenicali, presidente e amministratore delegato della Casa del Toro.

Una direzione inedita per la factory bolognese, che ora fa da apripista dell’innovazione e sembra stupirsi anch’essa dei suoi risultati quando sottolinea che per la prima volta, nella fabbrica, avvengono in contemporanea tre produzioni: Huracàn, Aventador e Urus.

L’italianità dell’auto: un valore, un orgoglio

I 62 anni della Fiat 500, la Lamborghini che chiude il cerchio della sua strategia industriale, la morte di Lee Iacocca. La settimana appena trascorsa ha dato uno scossone all’auto, con un comun denominatore: l’italianità. Ce n’è tanta, forse anche troppa, nel dna del modello che motorizzò il nostro Paese, divenendone il simbolo su quattro ruote. Dunque auguri per altri 62 anni di successi alla 500: l’auspicio è che incarni la rinascita di un marchio e di un’azienda. La casa del Toro, invece, non è più di proprietà italiana da oltre vent’anni. Da quando, nel 1998, venne acquistata da Audi e dunque dal gruppo Vw. Ma di nostrano ha conservato lo spirito di intraprendenza del patron Ferruccio, che saltò dai trattori alle supercar senza battere ciglio. E un buon timoniere che viene da Imola, Stefano Domenicali, che fiutando il business ha virato dritto sui suv, mettendo nel mirino il raddoppio di volumi e fabbrica: tempo e numeri gli stanno dando ragione, e i tedeschi non possono far altro che ringraziare.

Da ultimo Lido Anthony Iacocca, in arte Lee. Il grande vecchio dell’auto yankee, il papà della Ford Mustang e dei van all’americana, dalla Dodge Caravan alla Plymouth Voyager, se n’è andato a 94 anni. Figlio d’immigrati originari di San Marco dei Cavoti, in provincia di Benevento, nonostante il successo non dimenticò mai le origini, tornando diverse volte nel Sannio. Essere italiani è anche fonte d’ispirazione, ogni tanto bisognerebbe ricordarselo.

Fiat 500 compie gli anni. Il futuro è elettrico e green

Fiat festeggia 500, nata il 4 luglio del 1957 e rinata il 4 luglio del 2007 all’insegna di un progetto curato in maniera così maniacale da essere ancora oggi un esempio di design industriale, con ormai oltre 2 milioni di esemplari venduti e un apprezzamento a livello mondiale che è riuscito a trasformare il singolo modello in un marchio a parte, vera spina dorsale del listino Fiat. Insieme a 500, 500L e il suv urbano 500X valgono ormai tre milioni di vendite in Europa, il 62% fuori dall’Italia, e costituiscono una gamma credibile con l’unico paragone possibile: quello con Mini, sotto la gestione BMW. Fiat 500 si può festeggiare, con la versione speciale Dolcevita, una edizione ispirata al design degli anni ’60 con una livrea in bianco e molti dettagli che legano la vettura alle radici dell’entusiasmo dell’auto italiana. Avrà motori a benzina 1.2 da 69 Cv, 0.9 Twin Air da 85 Cv e anche 1.2 GPL da 69 Cv, ma è chiaro gli ormai dodici anni di vita devono aprire orizzonti diversi, se è vero che Fca può puntare al marketing delle suggestioni piuttosto che al pallottoliere delle fusioni.

Chi conta sui mercati asiatici e chi investe su quello europeo oggi è davvero a caccia di nomi forti, capaci di proiettare qualsiasi prodotto meccanico ben strutturato nel palcoscenico del premium, di renderlo una storia automobilistica che si vende perché si può raccontare. È stata l’evocazione futuristica di Tesla, ma è anche il vero patrimonio che Fca può far valere in qualsiasi matrimonio. Giovedì 11 luglio sarà installato il primo robot per la nuova linea della Fiat 500 elettrica nello stabilimento di Mirafiori a Torino. Pietro Gorlier, responsabile delle attività europee di Fca, ha annunciato lungamente che la 500 elettrica sarà la prima auto totalmente ad emissioni zero realizzata in Italia da Fca, che sarà prodotta dall’inizio del prossimo anno e debutterà al Salone dell’Auto di Ginevra nel marzo 2020. Dobbiamo credere non si tratti di una soluzione, ma della svolta capace di trasformare 500 in una Tesla urbana con il valore aggiunto di una italianità eloquente. Dobbiamo anche ragionare se la 500 elettrica sarà un modello singolo o l’anteprima di una piattaforma meccanica in grado di fare da base ad una vettura totalmente nuova. Che addirittura possa fare da innesco per attrarre collaborazioni da parte di altri produttori automobilistici attorno alla necessità di dotarla di motorizzazioni ibride e soluzioni tecnologiche orientate a connettività e servizi di mobilità urbana, a guida assistita o autonoma. Fiat 500 come Alfa Romeo o Maserati appartengono come pochi a questa economia delle suggestioni, in cui tutti i grandi gruppi automobilistici devono confluire. O con cui hanno 500 modi per accordarsi.

“Rinascita degli italiani? Più facile col tennis di oggi”

Di rinascita del tennis italiano si parla da un po’, complici exploit clamorosi e giovani promettenti. Il torneo di Wimbledon, in corso fino a domenica, ne sta esaltando pregi e difetti, col solito Fabio Fognini sopra le righe e Matteo Berrettini agli ottavi (se la vedrà oggi con Roger Federer), e con nel mezzo l’impresa di Thomas Fabbiano, che ha eliminato il numero 6 al mondo Stefanos Tsitsipas. Merito di chi gioca, certo, ma anche di condizioni favorevoli rispetto al passato. Almeno secondo Paolo Cané, ex tennista ed ex n. 26 al mondo, ora maestro e commentatore tv: “Col sistema delle qualificazioni di oggi è più facile emergere, anche per chi non è più giovane. Gli italiani lo sanno e ne approfittano”.

Paolo Cané, che impressione le ha fatto vedere Fabbiano battere il n. 6 del mondo?

Mi ha fatto piacere, è serio, ben allenato e crede nei propri mezzi. Parliamoci chiaro: spesso questo è sufficiente.

In che senso?

Non voglio sminuire nessuno, ma una volta a 27-28 anni eri finito, oggi c’è posto per tutti. Possono fare le qualificazioni per i grandi tornei, passano qualche turno e i montepremi sono alti, quindi hanno più possibilità di emergere.

Una volta sarebbe stato impossibile?

Trent’anni fa spesso non andavamo neanche a fare gli Slam perché costava troppo. Un biglietto per l’Australia lo pagavi 4 o 5 milioni di lire, poi arrivavi lì e magari uscivi al primo turno con 800 dollari in tasca. Oggi se vinci una o due partite puoi anche portarti a casa 50mila euro, mica ti devi centellinare. E poi fa quasi tutto il fisico.

Poca tecnica?

Sono tutti delle bestie, se stai bene fisicamente te la giochi anche con chi sta più in alto di te in classifica. Vent’anni fa se giocavi con il numero 6 al mondo prendevi 3 a 0.

Lei ora insegna ai ragazzi.

Quando sono piccoli è importante che sia solo divertimento. Dopodiché serve una buona impostazione e bisogna insegnar loro a combattere nella fossa dei leoni, a credere nei propri mezzi. La preparazione fisica e mentale è fondamentale. Sperando che i genitori facciano il loro.

In che modo?

Facendosi da parte, invece appena vedono che il ragazzo ha qualche colpo pensano di avere in casa un campioncino e iniziano a avere pretese che poi il figlio non regge. E magari a 16 o 17 anni smette di giocare. Nel mio circolo io sono il maestro, i genitori stanno fuori e se vogliono assistono a un allenamento al mese.

Dispotismo?

Un modo per non confondere i ruoli, io mica entravo a scuola dei miei figli. Uno che non ha mai preso una racchetta in mano non può pretendere di insegnare come si fa a chi ha giocato a tennis per una vita.

Si rivede in qualcuno dei tennisti di oggi?

Un po’ in Fognini: ho sempre fatto il tifo per lui.

Due giorni fa, mentre era in campo, si è messo a urlare “Magari scoppiasse una bomba qui”.

Un’altra occasione persa, oltretutto può dire quel che vuole ma Sandgren ha giocato meglio. È indifendibile.

Con un’altra testa avrebbe avuto una carriera migliore?

I “se” e i “ma” sono inutili, non credo sarebbe arrivato più in alto. La testa gli ha fatto perdere qualche partita, ma ne ha vinte altrettante di impensabili. Poi capisco che a volte dà fastidio, perché sembra stia in campo per farti un favore.

Quindi neanche per la sua carriera ha rimpianti del genere? Gianni Clerici la chiamava “Neuro-Cané”.

No, il rimpianto non è la testa, semmai la preparazione fisica. Oggi sarebbe diverso: nei primi 100 del mondo quasi la metà sono over 30.

Compresi i primi tre, forse inarrivabili anche in questo Wimbledon?

Federer, Djokovic e Nadal sono di un’altra categoria perché semplicemente sanno giocare a tennis. Gli altri picchiano, mettono 20 ace a partita, ma quando c’è un momento di difficoltà si vede la differenza. Sono tennisti della vecchia generazione che si sono adattati al gioco e alla preparazione di oggi.

Come mai non c’è ricambio generazionale al vertice?

Perché i nuovi sono delle macchine, ma non ha la capacità di giocare dei primi tre, non c’entrano nulla. Anzi, credo che in futuro difficilmente qualcuno arriverà ai numeri di Federer o Nadal, con 15 o 20 slam vinti.

C’è però una ragazza di 15 anni, Cori Cocò Gauff, agli ottavi. Significa che è una predestinata o può essere un fuoco di paglia?

Di certo non se ne vedono tante, ma non significa nulla, può anche darsi che nella sua carriera esprima il suo tennis migliore proprio a 15 anni.

L’unico italiano in corsa è Berrettini. Come lo ha visto?

Sta giocando bene e ha sfruttato un buon tabellone. La sua forza, contro Schwartzman, l’ha dimostrata salvando tre match point. Ora sfida Federer: magari ci può scappare la sorpresa.

Il prossimo italiano a vincere uno Slam: su chi punterebbe?

Facciamo Jannick Sinner, mi piace molto.

Zero omicidi e stupri: quanto fa bene la “teologia della terra” degli indios

Sembra quasi una risposta alle ultime polemiche sul prossimo Sinodo dell’Amazzonia avanzate dal solito fronte dei clericali di destra, che sentono l’odore del demonio ovunque nella Chiesa di papa Francesco. Nel caso specifico, la doppia questione del celibato dei preti e del sacerdozio femminile.

Invece, va in tutt’altra direzione, quella della spiritualità come apertura e dialogo, il saggio pubblicato dall’ultimo quaderno della Civiltà Cattolica, il 4057, uscito sabato scorso. Sul quindicinale gesuita diretto da padre Antonio Spadaro, molto vicino a Bergoglio, padre Adelson Araújo dos Santos ha scritto un lungo saggio su “Spiritualità indigena dell’Amazzonia e cura della ‘casa comune’”. Al centro delle riflessioni ci sono gli indios sul territorio brasiliano, che oggi sono circa 900mila. Per la precisione 305 gruppi etnici con 274 lingue diverse, la cosiddetta “Amazzonia legale” che attraversa nove Stati del Brasile.

Scrive dunque padre dos Santos: “Le spiritualità indigene sono marcatamente sapienziali, cioè insegnano la saggezza di vivere in armonia con la natura”. E ancora: “Il fondamento della spiritualità indigena nell’Amazzonia” è “una sorta di eco-spiritualità o eco-teologia, che potremmo definire ‘teologia della terra’”. Quest’armonia influisce anche sul vivere insieme della comunità, “dove molto di rado si verificano casi di omicidio, stupro, bambini di strada, prostituzione o qualsiasi altra forma di ingiustizia sociale”.

Insomma, gli indios non solo sanno vivere meglio di noi il rapporto con la natura, ma questa teologia della terra – dove il carattere immanente è evidente – si proietta su tutti gli aspetti sociali, compreso quello dell’indifferenza verso la ricchezza. Non a caso lo stesso papa è più volte intervenuto sui “valori etici e spirituali delle popolazioni indigene, affermando che ‘la loro visione del cosmo e la loro saggezza hanno molto da insegnare a noi che non apparteniamo alla loro cultura’”.

Sogno o realtà? Talk show green: l’ecologia in tv è la rivoluzione

C’è qualcosa di nuovo nei palinsesti tv quest’estate. Complice, forse, il caldo torrido, i conduttori hanno deciso che l’emergenza climatica era così importante da continuare i propri talk show parlando, soprattutto, di ambiente e riscaldamento globale. Sintonizzarsi sulla Rai ha dell’incredibile: invece delle stanche notizie di cronaca nera, invece dei soliti battibecchi su Salvini e Di Maio, gli inviati, spediti in Groenlandia ma anche in Africa, raccontano le conseguenze del riscaldamento globale. Su La7, invece, i talk show hanno mutato volto: Floris ha mollato per un po’ tasse, pensioni e mutui per invitare invece scienziati che il clima lo studiano da decenni (inascoltati), mentre partono servizi sulle aziende green che stanno cercando soluzioni al problema delle emissioni. Gli autori della Gruber, poi, devono essere impazziti, perché la conduttrice dalla chioma rossa fa domande a tappeto ai politici in studio, incalzandoli su come potremmo evitare la catastrofe climatica, su quali zone sono a rischio desertificazione, su quanta acqua abbiamo ancora a disposizione. E persino Zoro ha deciso di dedicare un piccolo spazio all’ambiente, chiamato Propaganda green, per parlare con tono più leggero di notizie ambientali e ridere su Twitter dell’incredibile ignoranza dei politici sul tema del riscaldamento globale. A intervallare i talk show ci sono poi documentari che parlano di alimentazione, turismo sostenibile e tecnologie che forse potranno salvarci. E poi, perché un po’ di leggerezza ci vuole, programmi di gossip, tipo La vita in diretta ma in versione verde, dove si discute dei vip più ecologici e dei più spreconi e di come essere felici con una vita a emissioni contenute. Tutto bellissimo se non fosse, appunto, un sogno. Perché la cupa realtà è che si tornerà a parlare di Di Maio e Salvini tutto l’anno. Eppure sarebbe così facile. E così rivoluzionario.

Palinsesti estivi: ci tocca il tedio della replica… oppure Youtube

C’era una volta il palinsesto vero, cioè l’antica pergamena che veniva scritta, e poi, previa raschiatura, riciclata per un nuovo testo: il termine significa appunto “raschiato di nuovo”. In estate, a sorpresa, il vocabolo – che si usa ormai solo per la tv – ritrova le sue radici, i programmi invernali vengono cancellati e sostituiti con quel che emerge raschiando il fondo del barile catodico: svariati il meglio di, la 274esima replica del ciclo della principessa Sissi, Techetecheté con roba che dalle teche non sarebbe mai dovuta uscire, varietà imbarazzanti con “estate” nel titolo e l’implicito sottotitolo “siamo sfigati, ma mai quanto voi che state a casa a guardarci gratis”. L’alternativa? Comporci un palinsesto estivo a piacere tipo insalata, pescando nell’infinito buffet fornito da piattaforme e YouTube, cosa che peraltro facciamo nelle altre stagioni, ma che tristezza. È la maledizione degli anni dispari, quando l’estate non prevede grandi competizioni calcistiche, Mondiali o Europei, né Olimpiadi. Spento troppo presto il sogno azzurro di Gama e co., non c’è programmazione che possa competere con la visione collettiva, in mutande e ciabatte, di epiche partite e gare avvincenti, perfetto complemento a pizzata e cocomero. Il mio palinsesto estivo dei sogni, quindi, è quello che diventerà realtà l’anno prossimo, quando avremo gli Europei di calcio, i primi a sede mista, cioè con partite in tutte le capitali, e a stretto giro i Giochi olimpici, lo spettacolo più bello dell’universo. Ce ne vorrebbe una bella dose già adesso, con un anno d’anticipo, per placare la rabbia e il risentimento che in questa estate rovente fa scoppiare la cloaca maxima dei social. La vittoria di Bartali al Tour nel ’48 non salvò l’Italia dalla guerra civile, ma diede agli italiani un motivo per sorridersi. E quanto ce ne sarebbe bisogno ora, di tornare a sorriderci.