Moggi smemorato: “Buffon? Un matto”

Intervistato dal Giornale di venerdì scorso, sul ritorno di Buffon alla Juventus dopo l’addio dell’estate 2018, Luciano Moggi si è inerpicato in un panegirico degno di miglior causa. “Il mio Gigi strappato al Barça: era ragazzino e già carismatico”, diceva il titolo. Con l’occhiello a rafforzare il concetto: “Da sempre così: quando parla è Vangelo per i compagni”. Poi l’intervista. “Alla Juventus ha un futuro in società, il carisma lo esercita di sicuro. Giocatori come lui, con la sua carriera, con il suo passato, sono credibili. Quando arrivò, i primi tempi era sperduto, ma dopo alcune settimane cominciò a far sentire la sua voce. Lui già diceva la sua e ogni parola che pronunciava non era scontata”. Big Luciano, che dopodomani compirà 82 anni, ha forse problemi di memoria. In un’intercettazione del 12 ottobre 2004, Moggi e Giraudo parlavano del portiere come di un insopportabile fanfarone. Anzi, di un “matto”.

Moggi: “Aho, allora…”

Giraudo: “Volevo chiederti una cosa. Poi… poi parliamo di Galliani, ma Buffon che parla a ruota di…”.

Moggi: “Gli ho già parlato, gli ho già telefonato”.

Giraudo: “Tutti i giorni, ma tutti i giorni!”.

Moggi: “No, no, gli ho già telefonato. Gli ho detto, guarda: ti hanno insegnato a farti i cazzi tuoi e a fare il mestiere tuo. Cerca di farlo”.

Giraudo: “Questo deve cominciare a parare, che piglia dei gol del cazzo”.

Moggi: “No, no, no. Questo non glielo posso di’… Ha parlato male anche dei palloni”.

Giraudo: “Dei palloni! Ma questo è matto. Ohhh!”.

Moggi: “Sì, sì, no no, ma gliel’ho… gli ho fatto la ramanzina”.

Giraudo: “Oh, bravo!”.

A Moggi avranno dato alla testa i complimenti ricevuti la settimana scorsa da Marcello Lippi, che lo ha definito il dirigente più competente della storia del calcio. Con qualche ragione, visto che la formazione della nazionale, quando Lippi era c.t., gliela dettava Moggi: lui prendeva nota. Dalla stessa intercettazione:

Giraudo: “Senti, Camoranesi cosa ci ha? Niente?”.

Moggi: “No, beh, Camoranesi ha un po’ il ginocchio gonfio, gli ho detto a Marcello e gli ho detto anche di coso, gli ho detto anche di Cannavaro, sì esatto! Di non farlo giocare, lo mette in panchina, perché sai, lui è appena rientrato, sennò va a fini’ che la Nazionale ce li manda tutti mezzi… E poi Zambrotta di fargli fa’ un tempo!”.

Giraudo: “Oh, ce l’ha…”.

Moggi: “… Eh, non ci ha giocatori. Ehm… sì ma lo sai Cannavaro che mi ha fatto? Eh, m’ha fatto telefona’ da coso, perché io gli ho telefonato e gli ho detto: guarda non giochi. Poi ti parlerà l’allenatore, ti dice quello che ti deve dire. E lui, vabbè, ma io vorrei gioca’, eccetera. No Fabio, non giochi! Stasera mi telefona coso, mi telefona Fedele dice: sai c’è rimasto male Fabio. Allora guarda, visto che c’è rimasto male, digli ’na cosa, qui non siamo all’Inter, no? Il posto in Nazionale non glielo leva nessuno. Gli interessi preminenti sono quelli della Juve e non rompesse i coglioni! È rientrato da poco, ora ci manca che si faccia male con la Nazionale. Ma scherziamo? Se c’è rimasto male, ci rimane bene un’altra volta”. Dal fronte del Pianeta Pallone italico per oggi è tutto. Passo e chiudo.

La serata del Premio Strega, la metafora perfetta di Roma

É la prima volta in vita mia che sono stato invitato alla serata conclusiva del premio Strega e ne ho riportato la convinzione che il luogo, la cosa e il modo siano una compiuta metafora di Roma: una mousse di pressappochismo organizzativo, pasticcio familistico, assenza di stile che poi, solo per miracolo, sono riusciti a indicare in misura inequivocabile un’opera e un autore di altissima qualità: Antonio Scurati e il suo libro su Benito Mussolini hanno vinto con 228 voti, centouno più di Benedetta Cibrario, seconda classificata.

La serata finale voleva essere chic ma gli invitati in overbooking e la confusione erano tali e tanti che ogni cosa – pranzo, interviste, diretta televisiva, comunicazione dei risultati, proclamazione del vincitore – tutto, dentro il Ninfeo, degenerava in un’approssimazione simmetrica alle buche stradali e ai cassonetti ridondanti fuori del Ninfeo.

Lo Strega è il premio letterario più ambito in Italia; la sua vittoria consacra uno scrittore e gratifica una casa editrice; dopo la fuga da Roma della moda, del design, delle case editrici, resta una delle ultime eccellenze culturali della capitale. Perché non farne un evento organizzativamente e mediaticamente impeccabile come avviene a Milano con le prime alla Scala o come avviene a Venezia con il Campiello?

La sciattezza a Roma è di casa e la sua attuale epifania scandalizza solo gli sprovveduti di memoria storica. Ne abbiamo una ininterrotta testimonianza da parte degli intellettuali che solo raramente hanno espresso rispetto, amore o sogno; molto più spesso sono stati spietati nella critica e perfino nell’arroganza.

Testimoniano rispetto le pagine di un poeta come Goethe o di un premio Nobel come Mommsen. C’è affetto in Palazzeschi che chiude il suo romanzo invocando: “Roma, Roma, Roma, Roma. Giovane e decrepita, povera e miliardaria, intima e spampanata, angusta e infinita”. L’orologio di Carlo Levi ha un incipit sognante: “La notte, a Roma, par di sentire ruggire i leoni. Un mormorio indistinto è il respiro della città, fra le sue cupole nere e i colli lontani, nell’ombra qua e là scintillante”.

Per il resto, è quasi tutta indignazione, o critica corrosiva, o sprezzante superiorità. Nel Settecento Vittorio Alfieri scrisse che la città eterna “ogni lustro cangiar vede, ma in peggio”. Nel secolo successivo, il primo gennaio 1817, Sthendal annotò nel suo diario: “Questo soggiorno tende a infiacchire lo spirito, a gettarlo in una sorta di stupore. Mai uno sforzo, mai un po’ d’energia: niente che vada di fretta”. Il 4 gennaio: “Ho passato venticinque giorni ad ammirare e a indignarmi”.

Nel primo Novecento Matilde Serao colse nel segno: “L’attitudine di Roma è in una virtù quasi divina: l’indifferenza”. Nel secondo Novecento Andy Warhol disse che “Roma è un esempio di quello che succede quando i monumenti di una città durano troppo a lungo”; e Gaetano Afeltra, dall’alto del suo Corriere della Sera, tagliò netto e truce: “Roma è un troiaio”.

Nel 1975 l’editore Bompiani pubblicò un libro collettivo, non a caso intitolato Contro Roma, in cui erano raccolte illustri invettive contro la capitale. Eugenio Montale scriveva: “Io so che a Roma tutto diventa un baraccone […] È una città provvisoria, vive sul provvisorio: però questo provvisorio è costituzionale, eterno e probabilmente non finirà mai”. Per Goffredo Parise Roma “è un souk. Nei souk calano i mercanti e i cammellieri, trafficano, commerciano con gli sceicchi al potere”.

Per Guido Piovene, “Roma, si sa, è teatro… Tra Roma e le diverse parti d’Italia non si sa quale sia più attiva nel corrompere l’altra. L’Italia è tutta e quasi egualmente mafiosa, la periferia guasta il centro e il centro la periferia”.

Secondo Moravia, “la cultura, che è altrove scambio e inquietudine, a Roma non è che passatempo e vacuità…. Il popolo romano si direbbe oggi composto in prevalenza di teppisti che decapitano le statue, riempiono strade, piazze e giardini di immondezze, coprono i monumenti di scritte oscene e cretine, distruggono, insomma, tutto quello che possono con un vandalismo che sembra addirittura premeditato e pianificato”.

Per Dario Bellezza Roma era una “città che puzza e dove non c’è spazio né per l’amore ucciso dal cinismo né per l’amicizia uccisa dalla superficialità e dalla volgarità… Roma è nel caos metropolitano, nella polvere, nella sporcizia immonda dei suoi rifiuti depositati per le strade strette, nella fame antica e inquieta degli inurbati di fresco, nella facile, corruttrice ricchezza del cinema di Cinecittà”.

Per Raffaele La Capria: “Roma è prevalentemente una città di impiegati che non hanno trovato un lavoro e che lo Stato mantiene in cambio di prestazioni incontrollabili”. Dacia Maraini confessa: “Non credo di poter dire niente di originale sulle ragioni passate e politiche che hanno reso Roma quella città brutta e sgangherata e inefficiente che è oggi”.

Dunque, la Roma di Virginia Raggi è iniziata ben prima della Raggi. E, se si vuole risalire la china, occorre fare uno sforzo organizzativo che a Roma risulta contro natura, ma è tuttavia imprescindibile. A cominciare dai suoi punti di forza: come il premio Strega.

Tra kamikaze e ricoveri: Tunisia immersa nell’incertezza

Dopo il doppio attacco kamikaze di giovedì 27 giugno a Tunisi e il ricovero in ospedale del presidente Beji Caid Essebsi, la resilienza dei tunisini ha messo in evidenza, otto anni dopo la rivoluzione, la debolezza delle istituzioni e il divario esistente tra il popolo e le élite politiche.

Tunisi. È bastata una foto per smorzare le più folli teorie che circolavano da alcuni giorni: quella di Essebsi, 92 anni, vestito di nero, sorridente e circondato dai medici, scattata nel momento in cui il presidente sarebbe stato dimesso dall’ospedale, la sera del lunedì primo luglio. L’immagine ha messo fine alle tante voci sulla presunta morte di Essebsi che andavano in giro dal giorno del suo ricovero, il 27 giugno. “C’è stato un bel caos. Ministri, personalità influenti e anche giornalisti hanno pensato che Essebsi fosse morto per davvero”, confida un giornalista tunisino che ha seguito i fatti da vicino. La situazione era ancora più agitata dal momento che, la mattina stessa, un doppio attacco kamikaze aveva colpito Tunisi, la capitale. Un poliziotto di 27 anni, Mehdi Zammali, era rimasto ucciso. Un altro uomo, ferito gravemente, è poi morto giovedì 4 luglio. Due ore dopo gli attacchi, un consigliere del presidente aveva annunciato su Facebook il ricovero di Beji Caid Essebsi, precisando che lo stato di salute del presidente era “critico” e chiedendo ai tunisini di “pregare per lui”. A quel punto si è scatenato il panico. Sull’avenue Habib-Bourguiba, alle 11.35, Karim Ben Saïd, 35 anni, giornalista del quotidiano francofono La Presse, ha avviato un live su Facebook: “Ricordo che la polizia tentava di farsi strada tra la folla – racconta -. C’era un sorta di incoscienza tra la gente, tutti volevano restare sul posto e guardare”. Zahoua Rajdi, 66 anni, stava facendo la spesa al momento degli attacchi. “È stato strano. Quando c’è stata l’esplosione – racconta la donna – ho pensato che fosse venuto giù il palazzo. Alcune persone si sono messe a correre, altre si sono fermate, restando immobili, come sotto shock. Nessuno sapeva cosa fare”.

 

Il terrore arriva in bicicletta. Poi l’eco dell’esplosione

A Montfleury, poco fuori dal centro di Tunisi, Anis Morai, giornalista a Rtci (Radio Tunisi, un canale internazionale) e docente universitario, aveva da poco finito di presentare il giornale del mattino e si trovava in ateneo per delle discussioni di tesi quando ha sentito la deflagrazione. Il kamikaze, che era arrivato in bicicletta, si era fatto esplodere davanti alla caserma El-Gorjani, nel parcheggio di fronte agli uffici dell’antiterrorismo, senza fare vittime. “La polizia ha subito stabilito un perimetro di sicurezza e non ci faceva passare. Ma come sull’avenue Habib-Bourguiba – racconta Anis Morai –, molti tunisini sono rimasti fermi lì, a guardare. Quando è arrivata la notizia che il presidente era malato, le persone si sono dette che la verità non si sarebbe mai saputa. Senza informazioni sicure, le voci hanno cominciato a circolare alimentando il caos. Ormai, con la comunicazione che non funziona, la gente non crede più ai discorsi ufficiali”.

La mancanza di trasparenza si fa sentire anche ai più alti livelli. Quando, dopo l’attentato, il capo del governo, Youssef Chahed, ha fatto la sua dichiarazione sbrigativa al ministero dell’Interno, niente è filtrato dal suo entourage sullo stato di salute del presidente. In Parlamento si è creato un gran trambusto, con i deputati che non sapevano più cosa pensare. Anche il presidente dell’Assemblea, Mohamed Ennaceur, 85 anni, che in caso di impedimento permanente del presidente della Repubblica dovrebbe assumere l’interim, come previsto dalla Costituzione, era assente, già da alcune settimane, per problemi di salute. Se i vertici dello Stato restano vacanti, la Costituzione tunisina stabilisce che sia la Corte Costituzionale a decidere sul da farsi. Ma in Tunisia la Corte non esiste. I deputati non sono mai riusciti a mettersi d’accordo sui nomi di quattro dei suoi dodici membri. “Non sapere se il presidente era cosciente o no, ha rivelato la profonda crisi costituzionale in cui versa il paese. Da tre anni denunciamo il problema. Il ritardo preso dai deputati a eleggere i membri della Corte, in mancanza di accordo, ha rivelato che gli interessi di parte hanno preso il sopravvento sull’interesse generale del paese”, osserva Selim Kharrat, presidente della Ong Al-Bawsala. Di conseguenza, nei giorni scorsi, è emerso un acceso dibattito che ha contrapposto, da un lato, chi riteneva che il presidente del Parlamento dovesse assumere la presidenza ad interim del paese, dall’altro chi, mettendo in evidenza lo stato di salute precario di Ennaceur, proponeva di designare il vice-presidente dell’Assemblea, membro del partito Ennahda. Cosa che però ha sollevato altre polemiche. Alla fine, Mohamed Ennaceur è rientrato dalla malattia, mostrando a tutti che l’amministrazione del potere era garantita. “Questa mancanza di trasparenza ci dice che siamo sempre più vicini ad un sistema politico alla Bouteflika, in cui – aggiunge Selim Kharrat – le informazioni vengono trasmesse col contagocce. Ed invece, dall’insediamento del Parlamento, non si fa altro che chiedere trasparenza sullo stato di salute dei nostri dirigenti”.

Sono circolate voci una più insensata dell’altra: siamo di fronte ad un nuovo “colpo di stato medico”, come quello del 6 novembre 1987 che portò alla destituzione del presidente Bourguiba? Gli attentati sono solo un complotto per rinviare le elezioni? Da parte loro i governanti sono rimasti silenziosi. “Abbiamo avuto l’impressione che il paese fosse sospeso alla salute di una persona, come in Algeria. È un segnale evidente del vuoto giuridico e del divario esistente tra classi dirigenti e popolo. Molte persone non hanno creduto che l’attentato fosse davvero dovuto ai jihadisti. Hanno subito pensato ad un complotto. D’altra parte – ha spiegato Michaël Béchir Ayari, dell’Ong International Crisis Group – questo scetticismo indica anche che i jihadisti stanno perdendo credibilità e che quindi l’impatto politico dell’azione terroristica è più debole rispetto al passato”.

Anche quando il presidente ha lasciato l’ospedale, non è filtrata nessuna notizia sulla sua capacità o meno di restare in funzione. Fonti della presidenza assicuravano che il presidente “legge la posta come tutte le mattine e consulta i suoi collaboratori e il presidente dell’Assemblea”. La sua portavoce, Saïda Garrach, ha anche confermato che, il 5 luglio, prima della data limite del 6, Essebsi avrebbe firmato due decreti, l’uno per prolungare lo stato di emergenza, l’altro per convocare gli elettori alle urne a ottobre e novembre per le presidenziali e le legislative. Così è stato. (Venerdì scorso un video ufficiale diffuso sul web, mostrava il presidente Essebsi mentre firmava i due decreti. Le elezioni si terranno i prossimi 6 ottobre e 17 novembre, ndt).

 

Un divario profondo tra gente e istituzioni

Intanto, la vita continuava a seguire il suo corso in Tunisia, mentre il divario tra la gente e le istituzioni continuava a crescere. Poi, martedì scorso, in serata, un nuovo allarme è cresciuto su Internet: un’altra esplosione si era verificata nella cité di Intilaka, in uno dei quartieri più popolosi della città di Tunisi, Hay-Ettadhamen. Foto e video sono cominciati a fioccare su internet. In un’immagine di un fotografo dell’agenzia Reuters, un poliziotto in civile, armato, posava trionfante. Aymen Smiri, 23 anni, quello che secondo il ministero dell’Interno, era il “cervello degli attentati” del 27 giugno, si è fatto esplodere mentre era accerchiato dagli agenti dei corpi speciali della polizia. Era ricercato dal giorno prima. La folla ha filmato tutto con gli smartphone. Come a Bab El-Bhar o a Ben Gardane, nel 2016, quando i tunisini avevano respinto un attacco terroristico, la folla è stata ancora presente, ha ricordato una internauta in un messaggio su Twitter. “L’operazione di Intilaka è stata un successo, l’ultimo terrorista dell’attacco di Tunisi è morto”, si è rallegrato il capo dell’esecutivo, Youssef Chahed. Non ci sono stati commenti, nessuna conferenza stampa e neanche è stata aperta un’inchiesta per fare luce sulle dinamiche degli attentati. Il presidente ha continuato a non mostrarsi in pubblico e la Corte Costituzionale a non esistere. Le date delle prossime sedute plenarie per eleggere i membri mancanti sono state fissate. “Questo voto è necessario – conclude l’esperto Michaël Ayari -. Altrimenti il divario esistente tra gli elettori e la classe politica continuerà a scavarsi ancora di più”.

(traduzione Luana De Micco)

I greci salutano Tsipras: stravince il centrodestra

Il giorno del “giudizio” si è concluso, come previsto, con la vittoria schiacciante di Nea Demokratia. Ma i greci non hanno condannato all’inferno Syriza – nè il resto della sinistra – che, rispetto al risultato delle recenti europee, è risalita di numerosi punti percentuali, confermandosi saldamente il secondo partito del Paese . “La possibilità di un’alternativa è la sostanza della democrazia. Noi continueremo a lottare per difendere i diritti dei deboli e svantaggiati”, ha esordito nel suo discorso di commiato l’ormai ex premier Alexis Tsipras alle 21.30, a due ore e mezza dalla chiusura dei seggi, dopo aver fatto gli auguri al neo premier Kyriakos Mitsotakis.

Dalle urne Nea Demokratia emerge con quasi il 40 per cento dei voti, seguita da Syriza con il 31 per cento. Se le proiezioni ufficiali verranno confermate, tutti gli altri partiti seguono a grande distanza, descrivendo un bipolarismo de facto. Il terzo partito, Kinal, evoluzione del socialista Pasok, ha ottenuto l’8 per cento posizionandosi davanti al Partito Comunista KKE, arrivato al 5 per cento.

Da oggi il leader del partito di centro destra, il rampollo cinquantenne Kyriakos Mistotakis, soprannominato lo yankee per la sua formazione alla facoltà di economia di Harvard, prenderà dunque il posto occupato dal 2015 da Alexis Tsipras e governerà la Grecia senza bisogno di formare una coalizione.

La Grecia ha dunque ridato fiducia al centrodestra di Nea Dimokratia, lo stesso partito che era al governo quando esattamente 10 anni fa esplose la catastrofica crisi finanziaria, diventata poi crisi sociale. Da quando Mitsotakis, tre anni fa, ne ha preso la leadership soffiandola al cupo Antonis Samaras, ha tentato di spacciarsi come una realtà politica nuova e diversa: Mitsotakis ha condotto una campagna elettorale in maniche di camicia, senza cravatta, come Tsipras, visitando ogni angolo del Paese e promettendo il cambiamento che molti si aspettano, in particolare sul fronte fiscale.

Con la sua aria da riformatore moderato, Mitsotakis sembra aver conquistato la fiducia delle classi medio-alte, da sempre ostili a Tsipras. Kyriakos è l’erede della famiglia politica conservatrice (ma fortemente europeista) Mitsotakis-Bakoyannis. Suo padre, Kostantinos Mitsotakis, è stato premier dal 1990 al 1993, un esecutivo in cui sua sorella Dora Bakoyannis (nata Theodora Mitsotakis) fu ministro della Cultura, per poi diventare sindaco di Atene e ministro degli Esteri. A rafforzare la sensazione del grande ritorno di questo clan politico ai vertici di Atene anche la recente elezione a sindaco di Kostas Bakoyannis, figlio di Dora e nipote di Kyriakos.

Sugli scranni del Parlamento debuttano inoltre due neo partiti di segno opposto : Mera25 dell’ex ministro dell’economia di Syriza, Yanis Varoufakis, che ha superato di quasi un punto la soglia di sbarramento del 3 per cento e l’ultranazionalista di estrema destra Soluzione Ellenika, fondata dal televenditore Kyriakos Velopoulos, che ha collezionato quasi il 4 per cento. Questa nuova formazione dichiaratamente filo russa, meglio “putiniana” , ha drenato buona parte dei voti dei nazisti di Alba Dorata, contribuendo a farla uscire dall’arco parlamentare.

Alle dieci di sera, davanti alla sede di Nea Demokratia, lontano da palazzo Maximou dove oggi governerà la Grecia, uscita l’anno scorso dalla sorveglianza della Troika, Mistotakis ha promesso nel suo primo discorso da premier che “da ora in poi il sole sarà più splendente e il cielo sempre più blu” ( il colore del partito). Il primo a crederci, o a far finta, è stato il presidente turco Erdogan che ha battuto tutti sul tempo facendo al vincitore la prima telefonata di auguri.

Passeggiate lunari: l’inutile festa globale

In quegli anni mi interessava l’America. Mi sembrava naturale che la porta per la Luna fosse l’America. Ma poiché, vivendo e lavorando in America, stavo un po’ dappertutto e mi spostavo continuamente, tra il vasto movimento rivoluzionario dei diritti civili e i primi trapianti di cuore cominciati a Houston (dopo il miracolo solitario del sudafricano Barnard), niente mi sembrava straordinario negli Stati Uniti. C’era l’irrompere dei nuovi giovani e quello della nuova musica nel Paese dei grandi errori (la guerra nel Vietnam) e di eventi grandiosi come la guerra alla povertà di Lyndon Johnson, una serie di interventi a tappeto (affermative action) di protezione, a tutti i livelli della povertà (dal diritto alla casa, alle cure, all’Università, anche per i più emarginati). Lo stesso Presidente che si era spinto all’estremo in due direzioni opposte, provocando, allo stesso tempo, esaltazione e condanna, temporanea salvezza dei poveri e accanita opposizione alla guerra.

Quando la Luna è arrivata (il giorno e la notte del grande viaggio e del grande allunaggio. Era il 20 luglio del 1969) devo confessare che non ho condiviso il senso di ansia e di attesa che travolgeva tutti. La mia immaginazione era ed è rimasta legata a un mondo da percorrere, conoscere e riconoscere, persone e luoghi. Un villaggio tibetano mi sarebbe interessato mille volte di più del famoso passo sulla Luna. Non mi sono mai aspettato (strano limite per uno che aspetta e desidera la caduta di ogni confine) che le nuove strade dell’altrove, del nuovo, del futuro, passassero per i percorsi dei nuovi eroi (gli astronauti ) e per le invisibili strade delle loro mappe.

 

Lo sbarco in diretta Rai: lo spettacolo televisivo

La famosa notte della Luna ero in Italia, ero nello studio della Rai, fuori dall’inquadratura di Tito Stagno, poi diventata celebre con il suo entusiasta protagonista. C’era Andrea Barbato, che era un giornalista sereno e calmo anche nelle emergenze. E in collegamento, in quello studio, c’era Ruggero Orlando, il leggendario (leggendario già allora) corrispondente del Tg da New York, che, in onda e fuori onda era la fonte colta, intensa, lietamente popolare, di una quantità di notizie. Tra i giornalisti Rai – ho già detto – lo specialista dello Spazio era Stagno. Come uno studente preparato conosceva ogni dettaglio e poteva guidare e spiegare tutto, senza tradurre dal feedback della televisione americana altro che i dati di tempo e di spazio che mutavano nel corso dell’evento.

Io mi sentivo uno spettatore lieto dell’invito ma estraneo, che osservava e apprendeva cose importanti che mi riguardavano solo come informazione di prima mano. Mi interessava il lavoro dei miei colleghi, mi interessava la loro passione per l’evento, verso cui mi sentivo come uno che si interessa ai riti di una fede estranea, senza ragioni per parteciparvi. Sapevo benissimo che era un esperimento grandioso per smuovere in avanti la macchina del mondo. Ma mi appariva più un esercizio di tante forze di uno straordinario progetto organizzativo (forze fisiche, scientifiche, intellettuali, materiali, anche militari, aggregate insieme) con un fine di prova, di esperimento, di verifica, ma anche di dimostrazione di qualche altra cosa, oltre la Luna.

 

Guerra fredda: la sfida è nello Spazio

Il mio pregiudizio era che persino un gesto grandioso come decidere di andare sulla Luna e poi costruire una straordinaria organizzazione e accumulo di risorse per farlo, e poi andarci davvero, sarebbe stato un clamoroso episodio, certo, del progresso dell’umanità. Ma sopratutto un grande punto segnato nel confronto continuo della guerra fredda. L’Unione Sovietica aveva percorso lo Spazio con il suo astronauta, e persino una cagnetta porta–fortuna. Gli Stati Uniti dovevano ripetere l’evento molto più in grande, dovevano mettere fisicamente piede su un luogo che fino a quel momento era stato solo immaginazione, e piantarvi una bandiera a stelle e strisce, per lasciare un sensazionale documento ai posteri.

 

Ritorno sulla Terra: guerre e disuguaglianze

I posteri non si sono fatti trovare. Hanno avuto gioie più grandi con il diffondersi del benessere e vite più dure con l’espandersi della disuguaglianza. Poi si sono aggregati a diverse processioni di guerra, con un moltiplicarsi di bandiere nemiche fra loro. Sono crollati pezzi delle grandi costruzioni, che ci sembravano il paesaggio stabile della nostra vita, e che credevamo segnassero il percorso. Guerre feroci, il più delle volte sconnesse, isolate, molto piccole e sempre a carico dei civili, condotte con una tecnologia sempre nuova, degna della Luna, ma puntate in terra e sotto terra, portano un formicaio di distruzione molto estesa e poco raccontata, dove è facile morire e facile non saperlo e dimenticare. Ecco, credo che questo sia un buon ritratto del dopo–Luna.

Nel dopo Luna le distanze, che ormai sembravano brevi, a giudicare dal famoso, elettrizzante evento della notte di Stagno e di Orlando, sono diventate grandi al punto che non si riesce più ad attraversare il Mediterraneo. Non è ragionevole dire che tutto ciò gli anti–Luna lo avevano previsto. Semplicemente l’evento dell’arrivo sulla Luna ad alcuni era sembrato, già allora, una festa inutile.

“L’emozione del ‘67-‘69. Vivere e raccontare fatti che saranno storia”

C’è Ruggero Orlando collegato da Nuova York, come lui, purista della lingua, sottolinea ogni sera. A Roma, nello studio del telegiornale, c’è eccitazione. La navicella è in viaggio verso la luna: “Allora Ruggero, novità?” E lui: “Sto aspettando Maria che ci deve portare le notizie”.

Maria Bosio aveva neanche vent’anni quando capitò, grazie a un’imbeccata di Jas Gawronski, nella sede di Rai Corporation e poi al fianco, come assistente, del corrispondente principe della televisione italiana.

“Il caso ha condotto la mia vita dove non avrei creduto. Ero a New York per godermi l’America coast to coast. Un viaggio di piacere che avrebbe preceduto l’obiettivo della trasferta: fare la scuola di cinema. Invece atterrai a Washington nel giorno in cui uccisero Martin Luter King. C’era ansia, si viveva un dramma civile e anche politico. Gawronski si fiondò nella capitale per seguire gli sviluppi della notizia. E io per caso lo incrociai. Gli dissi che cercavo lavoro, mi spiegò che alla Rai cercavano una receptionist. E dunque…”

La conquista della luna. Lei è stata testimone di un avvenimento che l’umanità non conoscerà più. Il cosmo è naturalmente più indagato e attraversato di cinquant’anni fa, ma quella conquista resta rivoluzionaria, memorabile, irragiungibile.

È così. In quegli anni il mondo cambia in un modo spaventoso e l’allunaggio conserva un tratto unico, è parte di un anello di conquiste strepitose. Pensi ai diritti civili, alle battaglie antirazziste, al femminismo. Pensi alle scoperte di quegli anni. Pensi al rock, alle droghe. Pensi alla guerra in Vietnam.

Tra il ‘67 e il ‘69 il mondo macina avvenimenti clamorosi.

Non c’era modo di annoiarsi, stare in casa a vedere la tv. Ogni giorno una luce nuova, un casino nuovo, una conquista nuova.

E la luna.

E Ruggero Orlando. Un giornalista eccentrico, colto, pignolo. Laureato in matematica, ma grandemente curioso. Quando disse in diretta che Maria, cioè io, stava per recargli le ultime notizie, eravamo a Houston, alla base della Nasa. E io correvo da una parte all’altra con i lanci delle agenzie di stampa in mano e le ultime novità che origliavo e consegnavo a Orlando, chiuso in una specie di cubo, una celletta minuscola perchè i giornalisti accreditati erano centinaia e lo spazio notevolmente ridotto.

Quei quattro giorni di viaggio dell’uomo nello spazio furono incandescenti.

Furono quattro giorni strepitosi, e io da sua assistente, dunque da minuscola testimone, tenevo in ordine i fili della comunicazione, il corretto svolgimento dei fatti. Consegnavo carta che lui leggeva, interpretava e poi comunicava agli italiani.

L’allunaggio resta una conquista senza eguali. È passato il tempo ma non la misura di quell’operazione.

Fu un avvenimento non solo scientifico, e neanche solo militare, e nemmeno unicamente tecnologico. Fu una prova che coniugava queste tre sfide, aggiungeva altre, come quella sportiva. Ricordo che a Houston c’erano anche Ameri e Barendson, le voci dello sport in Rai.

E poi il confronto con l’Urss.

La guerra fredda, il nemico che aveva posizionato in orbita un satellite che ostruiva le comunicazioni, interferiva con la missione spaziale americana. Fu rischiosa quella missione, e si temette qualcosa di grave. Il confronto militare per qualche ora sembrò trasferirsi nel cosmo.

Lei era una ragazza fortunata.

Il caso mi ha accompagnato per tutta la vita, gli incontri sono stati fortunati poi, negli anni, hanno anche mostrato il loro volto opposto.

Due anni con Orlando.

Poi fui presa dall’amore per il cinema. Iniziai a girare con la telecamera, feci i primi piccoli servizi per la Rai. Tornai a Milano, dove imparai a montare i filmati.

Fu assunta.

Regista programmista. Mi assunsero e mi mandarono in Basilicata, a Potenza.

Una città meno strepitosa di New York.

Però il caso mi aiutò ancora perchè mi chiamarono a sostituire Giuliano Montaldo che aveva iniziato a seguire il processo di Catanzaro (a seguito della strage di piazza Fontana, ndr). Rimasi 18 mesi, fu un’esperienza indimenticabile.

Erano gli anni di piombo.

Il 1976, il 77. Un altro clima, un altro colore del cielo.

L’America era stata un’altra cosa.

Lì succedevano così tante cose, e così vicine le une all’altre che non avevi neanche il tempo di digerirle. Ma poi il vento si acquieta e la vita ti fa planare dove non avresti pensato. E tutto un po’ si tiene.

Quel passo sulla Luna: così il mondo è cambiato

Dici Luna, anzi “allunaggio”, e subito vieni sopraffatto da ricordi sparsi, senza logica alcuna. Una canzone, per esempio. Domenico Modugno. Anno di grazia 1962. Forse l’aveva ispirato Yuri Gagarin. O Jules Verne? “Selene-ene-a/com’è bello stare qua/selene-ene-a/con un salto arrivo là/è un mistero e non si sa/il peso sulla luna è la metà della metà…”.

Le parole scioccherelle ma divertenti erano del complice Franco Migliacci: quella domenica sera del 20 luglio di mezzo secolo fa, la cantammo in coro, per smorzare la tensione, ballando il twist, mentre Neil Armstrong si preparava a camminare sulla superficie del nostro satellite. Immagini sfocate, un po’ nebulose, in bianco e nero.

Dopo, non siamo più stati gli stessi.

La diretta tv. Quando la tv voleva dire censura. E tabù. A cominciare da Carosello. Era rischioso dire uccello, passera (al contrario di passero, tollerato), membro (accettato se “del Parlamento”). I cronisti sportivi dovevano dribblare il nome del Benfica…tre anni prima dell’impresa di Armstrong era stato varato il “codice di autodisciplina pubblicitaria”. Se si inquadrava una coppia sul divano, lei doveva mostrare la fede in modo evidente. Nelle scene matrimoniali, era preferibile filmarle coi letti separati. Solo a Raimondo Vianello e Sandra Mondaini era concesso il lettone matrimoniale: perché erano marito e moglie nella vita. Vietatissime le banane con donne accanto. Dopo “Ultimo tango a Parigi”, fu vietato mostrare il burro spalmato sulle fette biscottate. Quanto all’olio, per anni non fu vergine, ma puro. La pubblicità per la biancheria intima fu possibile solo dopo il 1972, tre anni dopo Woodstock, dopo l’autunno caldo, la strage di piazza Fontana, il dibattito estenuante sul divorzio, l’ultima missione lunare.

Quei tempi sembrano lontano più della Luna. Anni luce di emancipazione, libertà d’espressione, diritti delle donne. Anni luce di battaglie sociali. Di welfare state. Mezzo secolo fa eravamo 3,6 miliardi di terrestri. Oggi più del doppio. Allora il mondo era diviso in due. L’Occidente. L’Unione Sovietica e i suoi satelliti. Il resto del pianeta contava come il due di picche: veniva etichettato come Terzo Mondo. Il Muro di Berlino sigillava i due fronti. Televisione e giornali egemonizzavano l’informazione: spiegarono la conquista della Luna come fosse una gara che avrebbe sancito il predominio di un blocco rispetto all’altro. I russi avevano vinto il primo round con lo Sputnik, poi il secondo con la cagnetta Laika, primo essere vivente spedito nello spazio, poi il terzo – quello più spettacolare – con Gagarin primo uomo in orbita attorno alla Terra, e altri due round con Valentina Tereshkova, prima cosmonauta, e Alexei Leonov, primo a passeggiare fuori dal veicolo spaziale. Dulcis in fundo, il duplice primato dell’aggancio tra due capsule senza e con equipaggio (Soyuz 4 e 5). Insomma, Russia-Usa 7-0. Ma gli Stati Uniti, pur barcollanti, erano rimasti in piedi. In attesa di sferrare il kappaò. Questa la narrazione che ci schierò davanti ai teleschermi.

Lo sbarco sulla Luna fu la più grande impresa tecnologica del Novecento, in cui avevano collaborato 400mila tra scienziati e tecnici. Pochi mesi dopo l’allunaggio, un professore di Los Angeles realizzò il primo collegamento telematico Arpanet con lo Stanford Research Institute, a 500 chilometri di stanza. La Guerra Fredda sarebbe durata ancora vent’anni. Ma la fantascienza stava diventando realtà. E se in Terra c’era il gelo tra le due superpotenze, in cielo c’era il caldo. Nel luglio del 1975 iniziò la collaborazione delle attività spaziali, con la missione congiunta Apollo-Soyuz che resiste tuttora, garantita dall’esistenza della Stazione spaziale internazionale.

Qualcuno attribuisce la dissoluzione dell’Urss in parte alla supremazia spaziale conquistata dagli americani. Altri hanno diffuso la fantaballa che l’allunaggio fu una messinscena. Complottisti e terrapiattisti sono “devianti convinzioni”. In altre parole, farneticazioni. Diceva Flaiano che oggi il cretino è pieno di idee…Di certo non fu la Luna a smantellare il Muro di Berlino. Ma il collasso di un sistema. Da un mondo bipolare siamo passati ad un instabile mondo multipolare, e a sempre più precari equilibri geopolitici. L’irruzione devastante di Trump, il dominio assolutista di Putin, la potenza economica cinese, la debolezza dell’Unione europea avvelenata da rigurgiti nazionalisti e da spinte sovraniste: chi l’avrebbe mai immaginato cinquant’anni fa? Persino la guerra di sovranità nello spazio si sta intensificando, il razzo europeo Ariane e il progetto Galileo sono minacciati dall’offensiva di americani e cinesi…

Di nuovo, un souvenir musicale. John Stewart è stato un grande cantautore, scomparso nel 2008. Compose “Moon Rider” (1973): “Riesco a vedere il bianco delle montagne innevate/il blu e il turchese degli oceani si fondono/Australia e Asia arrivano dietro l’angolo/e non posso dire dove inizia un paese e finisce l’altro”. Aveva visto il mondo senza confini, e noi con lui speravamo che i confini poco per volta venissero aboliti, “se sei nello spazio esterno/non sentirti fuori posto perché ce ne sono migliaia di altri come te”. Come i poveri migranti della Sea Watch… Dopo l’allunaggio, crebbe in noi la fiducia nel progresso, nella scienza, nell’innovazione. Ma, altrettanto ferocemente, perdemmo la fiducia nella politica che li doveva gestire. Grazie “sora luna”.

Fiction: guerra di contenuti a peso d’oro (per gli utenti)

Alzi la mano chi non ha mai visto una puntata del Trono di Spade, Big Bang Theory, Walking Dead o Grey’s Anathomy, ma anche Breaking Bad, Black Mirror, The Crown, Sherlock e, più indietro nel tempo, Csi o X Files. Faccia un passo avanti, per restare all’Italia, chi non ha mai guardato Montalbano o Don Matteo. Le serie sono il fenomeno che ha radicalmente cambiato la televisione, coinvolgendo miliardi di telespettatori, e il motore del successo dei principali operatori che sta segnando il passaggio dalla pay tv alla tv digitale on demand. Ma proprio il loro successo sta cannibalizzando tutto il settore della produzione, spingendo i costi alle stelle e scatenando un meccanismo di riappropriazione dei contenuti che rischia di venire pagato a peso d’oro dai telespettatori.

Il fenomeno è fotografato dalla Motion picture association of America (Mpaa), l’associazione dei produttori di audiovisivi Usa. L’ultimo rapporto Theme della Mpaa, l’indagine sul mercato mondiale del cinema e dell’home entertainment, spiega che l’industria globale dell’audiovisivo nel 2018 ha fatturato 97 miliardi di dollari, in crescita del 9% sul 2017 e del 25% in cinque anni. Un incremento guidata dal boom dei servizi in streaming, mentre il consumo procapite di tv “non web” negli Usa si è dimezzato tra il 2012 e il 2018.

Nel 2018 la spesa globale per l’home entertainment, che comprende sia i contenuti distribuiti in streaming che su disco, ha raggiunto i 55,7 miliardi di dollari e segnato +16% sul 2017. In un anno la spesa Usa per i contenuti distribuiti via web è però aumentata del 24%, quella internazionale addirittura del 34% e dal 2014 l’incremento su base mondiale è del 170%. Gli abbonati ai servizi on demand come Netflix o Amazon Prime l’anno scorso nel mondo hanno raggiunto i 613,3 milioni, con un aumento del 27% sul 2017, superando per la prima volta quelli alla tv via cavo (556 milioni). Negli Usa, la spesa per l’home entertainment ha raggiunto i 23,3 miliardi, di cui la metà è stata realizzata sui nuovi canali digitali grazie a un aumento del 17% degli abbonamenti alle web tv che hanno raggiunto quota 186,9 milioni. Se l’80% degli americani guarda ancora la tv “tradizionale”, il 70% la guarda anche online e la maggioranza delle case ha entrambi i servizi.

A trainare il settore sono le serie tv. Nei soli Usa nel 2009-2018 le serie prodotte sono più che raddoppiate da 210 a 496 l’anno. Il canale di distribuzione che ha lanciato questo fenomeno è proprio la tv digitale on demand: se nel 2014 le serie per la tv digitale erano solo 33 su 389, lo scorso anno sono state 160 su 496, con un aumento in cinque anni del 385%. Questo perché ormai in media il pubblico consuma sempre più video sul web: nel 2018 gli statunitensi hanno passato online, specie sul mobile, il 52% del tempo speso sui media. Non a caso gli esperti prevedono che i video in streaming quest’anno rappresenteranno l’80% del traffico su Internet. Proprio la natura del web ha consentito ad aziende come Netflix di esaminare una grande quantità di dati sui consumatori, il che consente di ottenere informazioni sui gusti e le preferenze del pubblico prima di produrre serie che costano centinaia di milioni. Un fattore chiave delle decisioni è l’analisi del consumo di determinate serie in base alle situazioni narrative: grazie a big data e all’analisi delle visualizzazioni, ad esempio, Netflix ha deciso di produrre House of Cards.

Così, grazie al successo del Trono di Spade, dal 2011 a oggi la casa di produzione Hbo ha incassato circa 2,3 miliardi di dollari, pagando agli attori e all’ideatore George R. R. Martin ben 213 milioni, ai quali vanno aggiunti 79 milioni versati agli agenti. I grandi sceneggiatori vengono contesi a peso d’oro: Lisa Joy e Jonathan Nolan, creatori di Westworld per la Hbo, hanno firmato un accordo quinquennale con Amazon per circa 150 milioni di dollari. Ma il costo a puntata della produzione del Trono di Spade, iniziato tra i 5 e i 10 milioni (già tanti rispetto alla media di 3-4 milioni di una serie cinque anni prima), ha toccato nelle ultime stagioni una media di oltre 15 milioni a puntata. La corsa al rialzo dei costi riguarda anche altre produzioni: Stranger Things costava 6 milioni a episodio nella prima stagione, ma è salita a 8 nella seconda, mentre The Crown veleggia ormai verso la decina a puntata.

Produrre contenuti originali costa sempre di più anche perché nessuna società vuole più legare il suo futuro ai diritti di terze parti. Netflix ha affermato che l’85% del suo investimento di 8 miliardi di dollari nel 2018 è andato alle produzioni originali, Amazon ha investito circa 5 miliardi sui contenuti video, in particolare su show originali a grosso budget. Nei prossimi tre anni, Apple spenderà 4,2 miliardi per la programmazione originale.

Anche i social network, tipo Facebook, stanno entrando nei contenuti video e iniziano a fare offerte per eventi sportivi, intrattenimento e serie originali. Il tutto verrà ulteriormente potenziato quando entrerà in campo la tecnologia 5G, che interesserà quasi tutti gli aspetti del settore dei media e dell’intrattenimento, soprattutto il mobile. Ma proprio il boom delle serie potrebbe rappresentare, per un curioso e solo apparente contrappasso, anche l’inizio della fine dell’età dell’oro della tv digitale on demand. Un grosso aumento dei costi degli abbonamenti è proprio dietro l’angolo e segnerà lo spartiacque nei consumi televisivi.

L’Eldorato dell’accoglienza brilla sulle porte d’Italia

“L’arte stessa deve stabilire con la realtà un rapporto che non è più di ornamento, di imitazione, ma di messa a nudo, di smascheramento, di ripulitura, di scavo, di riduzione violenta alla dimensione elementare dell’esistenza. È soprattutto nell’arte che si concentrano – nel mondo moderno, nel nostro mondo – le forme più intense di un dire il vero che accetta il coraggio e il rischio di ferire”. È questa la missione che Michel Foucault assegna all’arte nel suo altissimo testamento, l’ultimo corso tenuto al Collège de France (Il coraggio della verità, 1984) prima della morte.

Ed è questa la sfida raccolta da Giovanni de Gara (Firenze 1977), un artista che da oltre un anno sta girando l’Italia per dire la verità attraverso il lavoro delle sue mani e della sua mente. L’idea è semplicissima, l’effetto grandioso: rivestire d’oro, per un breve periodo, le porte di chiese, o di importanti edifici pubblici.

La prima volta è stato il 28 giugno 2018, con quelle della venerabile basilica di San Miniato, sospesa tra cielo e terra sopra Firenze. L’entusiastica benedizione del giovane, colto e sinceramente evangelico abate (padre Bernardo Gianni, poi invitato da papa Francesco a predicare gli esercizi spirituali pasquali alla Curia romana) ha aperto a de Gara una serie travolgente di occasioni: dal monastero di San Giovanni a Parma al Comune di Palermo, dal Maschio Angioino di Napoli a San Faustino a Brescia, passando per le chiese di Lampedusa e per la parrocchia di Vicofaro di don Massimo Biancalani. E poi moltissime altre chiese: cattoliche, valdesi, metodiste e di tante altre confessioni.

È incredibile come questi luoghi – che fossero monumenti importanti o semplici chiesette, luoghi anonimi o dall’alto valore simbolico – cambiassero volto, inducendo le comunità ad essi legati a sostare, a riflettere collettivamente, a incontrarsi. Un’arte lontanissima da quella dei musei: un’arte che recupera la sua funzione più antica, quella di riunire gli umani intorno a immagini simboliche, a valori condivisi, a progetti comuni. Già, perché quell’oro non è quello delle glassature pacchiane di un Jeff Koons, ma è un oro povero e insieme profondamente umano: è l’oro delle coperte termiche che vengono offerte ai migranti salvati nel mare che bagna l’Italia – beninteso, quando qualcuno (come Carola Rackete) ha ancora il coraggio profetico di disubbidire a leggi mostruose e di ubbidire invece alla Costituzione, legge delle leggi e unico metro per misurare la legalità sulla giustizia. “Viviamo nell’epoca delle fake-news e delle contraffazioni, del complottismo e delle false speranze – spiega de Gara – e da questo prende forma il nome del progetto. Eldorato è infatti un’evidente distorsione del luogo immaginario per eccellenza (l’Eldorado) ed è stato deformato come viene deformata la realtà dei fatti, specialmente in materia di immigrazione. Sul piano etimologico, esso deriva dal termine ebraico El – che significa Dio”.

A San Miniato, l’apertura di quelle porte è stata accompagnata da una preghiera: “Tu hai detto: ‘Io sono la porta’. Ricordaci che chi vuole chiudere le porte in nome dell’odio, anche se giura sul tuo Vangelo e stringe un rosario, è un falso profeta e, letteralmente un anti-Cristo. Tu hai detto di te stesso: ‘Ero straniero’. E ci hai ricordato che saremo giudicati esattamente su questo: ‘Mi avete accolto’ o ‘Non mi avete accolto’. Ricordaci che non possiamo dirci cristiani se non accogliamo lo straniero. Perché non c’è una ‘casa loro’ in cui aiutarli e una casa nostra da cui respingerli: c’è una sola famiglia umana”.

Preti, vescovi, sindaci, e centinaia di cittadini si sono, così, riuniti intorno ad un artista che promuove una profonda riflessione collettiva sul tema dell’accoglienza verso ogni individuo, senza distinzione di razza, genere e religione. È un’esperienza densa di riferimenti storici e culturali: secondo la Bibbia, per esempio, la Porta d’Oro di Gerusalemme era quella attraverso cui si manifestava la presenza di Dio, mentre oggi le porte d’oro di de Gara invocano la nostra umanità, la interpellano senza sosta perché torni a manifestarsi.

Quando chi diceva di voler difendere la Costituzione ora ne calpesta il nucleo morale più sacro (“dare ad ogni uomo la dignità di uomo”, diceva Calamandrei), quando chi gridava “onestà!” oggi si scaglia contro i giudici che applicano la legge, quando chi regge i destini della Repubblica parla e agisce senza disciplina e onore, quando è quasi solo la Chiesa a lottare per i diritti umani che ha impiegato tanti secoli a riconoscere: quando nessuno sembra volere o saper fare ciò che dovrebbe fare, è paradossalmente un artista a esser fedele fino in fondo all’antichissima, e così spesso trascurata, funzione dell’arte. Alla tanto diffusa domanda ‘cos’è l’arte di oggi’ si può allora rispondere con un’altra domanda: ‘a cosa serve l’arte? a cosa servono gli artisti oggi?’ La risposta è naturale, cioè pre-culturale. Profondamente connessa alla natura umana. E lo si capisce in epoche di forte turbamento collettivo, quando le parole non bastano e in molti sentiamo la necessità di un linguaggio diverso, più denso, più sintetico, più forte e insieme più alto.

Come il linguaggio semplice e altissimo di Giovanni de Gara, che rivestendo d’oro e d’amore le porte – cioè le frontiere, i confini, ciò che separa il dentro e il fuori – ci invita a cercare non in ciò che è fuori, ma in ciò che è dentro di noi. La nostra comune umanità, l’unica patria per cui valga la pena di combattere.

Da Fiat fino a Fca: 120 anni nei giorni della disillusione

Erano un’altra Italia e un’altra Torino, soprattutto un altro mondo. Quelli di 120 anni fa, quando l’11 luglio 1899 un gruppo di aristocratici, professionisti, banchieri, possidenti e imprenditori firmarono, davanti al notaio Ernesto Torretta, nel palazzo del conte Emanuele Cacherano di Bricherasio, (il vero regista dell’inizio di quella straordinaria avventura, come ha rievocato Massimo Novelli nell’edizione del 24 giugno), l’atto costitutivo della “Fabbrica Italiana Automobili Torino”, poi conosciuta e raccontata solo con il suo acronimo, Fiat; scomparso nel 2014 in piena era Marchionne e sostituito dal nuovo brand di un’azienda con il cuore negli Usa e le sedi fiscale e legale a Londra e ad Amsterdam: Fca, “Fiat Chrysler Automobiles”.

Un quadro di Lorenzo Delleani immortalò quell’evento, organizzato dopo alcune chiacchiere in un bar tabarin: al centro, seduto alla scrivania e intento a firmare, ecco il conte in giacca chiara. Il secondo alla sua destra, invece, è Giovanni Francesco Luigi Edoardo Aniceto Agnelli, benestante e proprietario terriero di Villar Perosa (vicino a Pinerolo, nelle terre dell’eresia valdese), ex ufficiale del Savoia Cavalleria. Pochi anni dopo, anche in seguito a forti contrasti societari e giudiziari, sarebbe diventato il proprietario di tutto, legando per sempre la Fiat agli Agnelli. Il nome della famiglia e quello della fabbrica: intercambiabili, nelle cronache economiche e sindacali, nel mito dell’Avvocato (quasi un principe, simbolo della rinascita italiana dopo la Seconda Guerra mondiale), persino negli slogan delle proteste operaie. Da questo punto di vista (forse l’ultimo a resistere), oggi è ancora così: anche se il presidente di Fca porta pure lui un altro nome, John Elkann detto Jaki, nipote di Gianni Agnelli.

Ma che cosa resta, davvero, di quel pezzo di storia nazionale e mondiale? Di uno spaccato multiforme e gigantesco che ha segnato e modificato la società italiana, con la sua produzione industriale, la diffusione dell’automobile come bene di massa, l’influenza del capitalismo degli Agnelli e dei loro collaboratori sulla politica, dall’Italia prefascista sino al boom economico e al declino della Prima Repubblica, passando per le lotte e le occupazioni del “biennio rosso”, il ventennio e il regime di Mussolini, mai amato davvero, sopportato (probabilmente disprezzato) con un cipiglio quasi aristocratico, ma fiancheggiato per il tornaconto che gli interessi dell’azienda giustificavano a dismisura. Infine, nella Torino “laboratorio d’Italia”, il polo antagonista dei “padroni” (appoggiato dalle forze politiche conservatrici di un Paese immerso nella realtà dei due blocchi mondiali). Una formidabile e pervicace macchina per lo sfruttamento del lavoro e delle esistenze altrui contrapposta, nella lotta di classe, ai propri lavoratori, alle forze della sinistra, al Pci nella stessa città degli esordi di Antonio Gramsci e di Palmiro Togliatti e poi del “sindaco rosso” Diego Novelli, al sindacato, agli “operai massa” dell’Autunno caldo del 1969 (un’altra ricorrenza: tutto cominciò 50 anni fa con gli scontri di corso Traiano a Torino, il 3 luglio) e dell’immigrazione dal Sud, alla irriducibile “sinistra sociale” del dc torinese Carlo Donat-Cattin, alla Chiesa conciliare di Padre Michele Pellegrino, fino al trionfo finale dei “35 giorni” e della “marcia dei 40 mila” del 1980, dopo le tragedie degli Anni di piombo. Da Vittorio Valletta sino a Cesare Romiti: il tutto sempre accompagnato dal giornalismo cordiale de La Stampa (e non solo) e dall’oppio dei popoli della Juventus dei giocatori meridionali come Pietro Anastasi, nella metropoli gonfiata dagli immigrati. Con in mezzo la pagina nera delle “schedature Fiat”: scoperte nel 1971 e che riguardarono 357.077 persone tra dipendenti, politici, sindacalisti, cittadini.

Il caso, il fato che nell’antica Roma piegava persino la volontà di Giove, ha voluto che il compiersi di quei 120 anni giunga proprio poco prima di un altro anniversario, questa volta triste ma altrettanto simbolico: il primo dalla scomparsa, il 25 luglio 2018, di Sergio Marchionne, il manager italo-svizzero-canadese che, nel 2004, era stato nominato, alla morte di Umberto Agnelli, amministratore delegato di una Fiat disperata, sull’orlo del dover portare i libri in tribunale, “prigioniera” delle banche creditrici e di un patto societario con General Motors che rischiava di provocarne la definitiva distruzione come entità italiana e autonoma. Ma anche, nelle due ultime settimane, da accadimenti che turbano il futuro, da una parte, e che ripropongono invece un sempiterno interrogativo (dura anch’esso da quasi 120 anni), dall’altra: quante colpe ha la politica italiana, di qualsiasi colore (nel passato come oggi), per aver lasciato fare alla Fiat (e poi a Fca) tutto ciò che voleva?

Le cronache più recenti, infatti, raccontano del fallimento della trattativa con Renault e Nissan per una fusione che avrebbe significato la nascita di un colosso mondiale (e forse anche la prima “diluizione” della presenza degli eredi Agnelli nel nuovo gruppo), del tonfo nelle vendite di auto nel mercato europeo e italiano, ma anche delle rampogne del presidente dell’Antitrust, Roberto Rustichelli, che ha sottolineato “il rilevante danno causato dal trasferimento della sede fiscale a Londra di quella che era la principale azienda automobilistica italiana”.

Fca si prepara a celebrare quell’11 luglio 1899 soprattutto grazie all’emissione, da parte di Poste italiane, di un francobollo che riproduce il suo primo modello, la Fiat 3 Hp. Destinato alla posta prioritaria verso l’Europa, “ma sarebbe più giusto che fosse stato stampato negli Usa – commenta Giorgio Airaudo, ex segretario della Fiom-Cgil piemontese ed ex parlamentare di Sel – Si potrebbe così usarlo per mandare i saluti a Torino, da parte di chi ha portato l’azienda, ciò che oggi di essa conta ancora nel mondo, a Detroit”.

Ed è dunque da qui, forse, che bisogna partire per intercettare sul serio questi 120 anni: che cosa sopravvive di italiano dunque in quel gruppo e quale domani gli si può vaticinare? Per il resto, invece, rimane il volume di 2093 pagine di Valerio Castronovo, voluto da Gianni Agnelli e pubblicato da Rizzoli per il centenario del 1999 (Fiat, un secolo di storia italiana). Quel luglio di 20 anni fa fu animato anch’esso da un francobollo, ma soprattutto da una due giorni di festeggiamenti con la presentazione della Nuova Punto, dalla visita del presidente della Repubblica Ciampi che incontrò anche Norberto Bobbio (“Abbiamo parlato della politica come filosofia di vita, come morale, come impegno etico”, raccontò il filosofo), una cena al Lingotto per 3 mila inviati (c’era, da presidente del Consiglio, Massimo D’Alema; menù: risotto, rombo, anatra, torta di crema, chardonnay, barolo e moscato) e un spettacolo dei Momix.. Ancora una volta, un altro mondo, un’altra Italia e un’altra Torino.

Il volume di Castronovo, adesso, andrebbe solo aggiornato con il racconto dei 14 anni della grande cavalcata di Marchionne, il salvataggio dalle banche e da Gm, la vittoria sulla Fiom, la “scoperta dell’America” con l’acquisizione di Chrysler, il cambio di nome e la “fuga fiscale”.

“Gli ultimi avvenimenti, soprattutto il tramonto dell’alleanza con Renault-Nissan, sono inquietanti – prosegue Airaudo – Con un’azienda ormai americana e i suoi stabilimenti italiani e le vendite nel segmento europeo che ne costituiscono la vera debolezza: una sorta di vagone di coda del convoglio Fca. E con carenze assolute nel campo della ricerca, tanto sul fronte dell’auto elettrica quanto su quello delle emissioni che ha costretto il gruppo ad acquistare da Tesla i bonus ambientali per evitare multe miliardarie”. Nelle parole dell’antico avversario di Marchionne, ritornano anche i temi che, per decenni, pur nello scontro, avevano mantenuto i toni quasi di un riconoscimento reciproco. “La Fiat è stata in qualche modo al centro di un sistema bilanciato, nel quale con costi sociali altissimi, quelli pagati dalle migliaia di lavoratori, e di politiche industriali che le garantivano il monopolio e la tutela degli ammortizzatori sociali, assicurava lavoro. Finchè sono stati vivi Gianni e Umberto Agnelli, l’italianità della Fiat non era in discussione. Oggi non è più così. Prima l’azienda è diventata apolide, poi statunitense”.

Ma quanto manca il manager scomparso un anno fa? Davvero le cose potrebbero cambiare se ci fosse ancora Marchionne, proprio l’uomo della denazionalizzazione della Fiat? “Non ha mai senso chiedersi che cosa farebbe chi non c’è più. Lui, però, avrebbe forse saputo approfittare persino dell’insuccesso con Renault. Magari prendendo al balzo quella sia pur flebile discussione su un ruolo dello Stato italiano nella crisi del settore auto. Non certo per un ingresso pubblico nel capitale come in Francia, ma magari con un prestito, da restituire. In fondo, è ciò che ha fatto con Chrysler e con Obama, seguendo l’esempio di Lee Iacocca, morto pochi giorni fa. E quando è arrivato Trump, che chiedeva di produrre negli Usa, non ha esitò a trasferire una fabbrica dal Messico. Ecco, il problema non è solo dove va Fca, ma che cosa intende fare l’Italia”.

Un discorso difficile, visto il passato (Matteo Renzi: “Io sto con Marchionne, senza se e senza ma”), ma anche i balbettii del governo gialloverde nei giorni del tramonto delle trattative con Parigi. “Servirebbe uno scatto della politica, decidendo se si crede che il nostro Paese possa ancora avere un ruolo nella produzione automobilistica. Si deve pretendere chiarezza da Elkann: sulle sue intenzioni e sulle possibilità che gli stabilimenti italiani abbiano davvero una vita. Il che non vuol dire per forza che tutto debba restare Fca. In una logica di una vendita-spezzatino del gruppo, per esempio, sarebbe interessante sapere se il nostro governo è interessato a favorire l’arrivo di nuovi produttori. Ma allora ci vorrebbe anche l’impegno per lo sviluppo di infrastrutture, tecnologie, ricerca, nuova mobilità: ciò che serve a un moderno mercato dell’auto”.

Un pessimismo che lo choc Renault-Nissan sembra accentuare. “Il rischio è che gli ammortizzatori sociali che stanno coprendo la crisi italiana del gruppo, a Mirafiori e Pomigliano soprattutto dove si lavora al massimo cinque giorni al mese, si esauriscano prima che giungano novità. Che il costo sociale si presenti quando sarà troppo tardi. Mi chiedo, ma lo chiedo soprattutto al goveerno, perché giustamente si richiamano i Benetton su Atlantia e le concessioni autostradali, mentre si tace su Fca?”.

Nel 1991, nel suo Il Provinciale, Giorgio Bocca scrisse così, rievocando la Fiat di Valletta: “Una grande caserma e, in caserma, chi può stangare il sottoposto si consola delle stangate dei superiori e si convince che una somma di violenze e sofferenze magari cretine, ma sopportate perché fanno parte dell’impresa comune, del capitale accumulato, delle tradizioni consolidate, tutto sommato sono una cosa buona”. Una torsione che Bocca aveva intuito e che forse, già allora, avrebbe saputo spiegare quella coda di 100 mila persone sulle rampe del Lingotto, nel gennaio 2003, per l’ultimo omaggio alla bara dell’Avvocato. Tra loro, è probabile, anche molti di quelli che, nei cortei, gridavano: “Agnelli, Pirelli: ladri gemelli!”.

Airaudo, potrebbe accadere ancora, nella Torino che vivrà i 120 anni della Fiat solo con un francobollo? “Penso proprio di no. Comincio a credere che adesso la città si senta tradita. Nel bene e nel male, ha dato molto all’azienda e alla sua proprietà. Ha anche ricevuto, ma il bilancio è di gran lunga a favore della Fiat. Oggi credo che la sensazione vera sia, invece, quella di un tradimento che si è compiuto”.