“Ti do duemila euro se ti butti in mare con il motorino”. La proposta indecente è del calciatore Mario Balotelli che, all’alba davanti al porticciolo di Mergellina a Napoli, ha deciso di chiudere così una nottata passata con amici campani. Proposta, va detto subito, accettata da un uomo (“Catello”), probabilmente uno dei suoi conoscenti. Quanto accaduto è stato pubblicato, anche dallo stesso Balotelli, in un video sui social ed ha subito raggiunto migliaia di condivisioni. Nelle immagini Super Mario passa una mazzetta di banconote al centauro in mutande che, incitato da una piccola folla, si lancia con lo scooter in acqua. Lui riemerge mostrando orgoglioso dopo un po’ i soldi; forse, non avendo di chi fidarsi, se li è portati ben stretti infilati nello slip mentre il recupero del motorino, come racconta all’Ansa una delle persone che ha assistito al tuffo, è costato a Balotelli altri 100 euro regalati ad un paio di ragazzi. Anche il recupero è stato documentato da Balotelli e subito postato per rispondere a chi avesse voluto accusarlo di inquinamento dello specchio d’acqua. Sul posto sono intervenuti uomini della Guardia Costiera e della polizia Municipale che hanno acquisito il video per successive valutazioni.
“Troviamo il midollo per Diana”. Anche atleti delle Universiadi tra centinaia di ragazzi in fila
Dalle prime ore del mattino di ieri centinaia di giovani, dopo l’appello sui social del papà di Diana – la bimba di 6 anni affetta da una rara sindrome immunodepressiva – si sono messi in fila davanti ai gazebo dall’Admo, l’Associazione donatori di midollo osseo, per il prelievo del tampone salivare utile alla ricerca di un donatore compatibile per effettuare il trapianto. Tra la folla dei giovani, tra i 18 e 35 anni come richiede il protocollo medico, anche Michele Bisceglia, papà di Diana, che ha voluto essere presente nel quartiere Fuorigrotta alla raccolta dei campioni ringraziando e rassicurando tutti sulle fasi poco invasive o dolorose di un eventuale espianto. “Sull’intervento – spiega all’agenzia Ansa – c’è poca informazione che porta i donatori a temere un’eventuale chiamata all’espianto. Diana – ricorda Michele – era ad un passo dall’operazione ma la donatrice trovata in Germania all’ultimo momento si è tirata indietro”. Tra i donatori anche ragazze dello staff delle Universiadi che sono arrivate in Piazzale Tecchio dal vicino quartier generale dei giochi. “Anche Diana ama lo sport, è una piccola amazzone, la mascotte della scuderia di Agnano dove correva e dove, spero momentaneamente, ha dovuto lasciare i suoi cavalli”. Nell’autunno scorso, la piccola è stata ricoverata prima a Napoli, poi a Roma e la diagnosi è aplasia midollare di grado severo che colpisce 2 persone su un milione. “Non avevo dubbi che i ragazzi di Napoli così come è successo per altre volte – ha voluto ricordare Michele – rispondessero numerosi all’appello amplificato da media e sui social grazie anche a testimonial del mondo dello spettacolo”. Prima delle 12, sotto il sole cocente, più di 1500 giovani avevano già effettuato il test. Sulle maglie e sui volantini dei volontari Admo una fotografia di una sorridente Diana con le dita che tracciano due V in segno di vittoria. “Siete bellissimi – ha commentato commosso Michele – giovani e sani con poteri che neanche immaginate. Siete come supereroi e come loro potete salvare molte vite”
Indagato il presidente di Exit per il suicidio di Alessandra, depressa e malata di nevralgia
Alessandra è morta il 27 marzo nella casa dei suicidi, la clinica Dignitas vicino a Zurigo in Svizzera. Aveva 46 anni, aveva smesso di fare l’insegnante a Paternò (Catania), soffriva di una grave nevralgia cronica – la sindrome di Eagle – e di una profonda depressione ma certo non era una malata terminale, né incurabile. Ora se ne occupa la Procura di Catania che ha inviato un avviso di garanzia a Emilio Coveri, 68 anni, di Torino, presidente dell’associazione Exit Italia, che da anni propugna “il diritto delle persone a una morte dignitosa” e il diritto a “scegliere per sé”. Il procuratore aggiunto Ignazio Ponzo e il pm Angelo Brugaletta ipotizzano l’istigazione al suicidio a carico di Coveri . I n teoria rischia dai cinque ai dodici anni di carcere. “Me lo aspettavo – dice – e ora mi onoro di essere indagato come Cappato. Anche se io, a differenza sua, non ho fatto nulla di eroico”. Il riferimento è a Marco Cappato, l’attivista radicale che nel 2017 portò Dj Fabo a morire in Svizzera, sempre alla Dignitas.
I familiari, che dicono di esserle stati sempre vicini, hanno saputo che Alessandra era partita per Svizzera il 25 marzo da un conoscente che aveva incontrato la donna in aeroporto. Dalle indagini di carabinieri e polizia postale risulta che Coveri e la donna erano in contatto dal 2017. Telefonate, e-mail, sms dove gli inquirenti rilevano, tra l’altro, “sollecitazioni e argomentazioni in ordine alla legittimità, anche etica, della scelta suicidiaria”. Il 5 febbraio 2018 l’insegnante prese la tessera di Exit, tredici mesi dopo è morta. I parenti hanno presentato una denuncia. I pm hanno subito tentato – ma un giudice si è opposto – di bloccare i beni della donna nel timore che, oltre a versare i 6.200 euro per l’assistenza, avesse intestato a qualcuno il resto dei suoi averi. La Procura ricorda che anche le leggi elvetiche richiedono che l’eutanasia “sia praticata solo nei casi di “patologie incurabili, handicap intollerabili, dolori insopportabili”. Per il momento un giudice ha concluso che l’insegnante sapeva quello che faceva e che la Dignitas si occupò di lei con ogni scrupolo.
Pregano contro il “Brianza pride”. Ma la madre superiora li caccia
La manifestazione si è svolta ieri pomeriggio senza problemi. In duemila hanno sfilato attraversando il centro di Monza per il primo “Brianza pride” in difesa dei diritti della comunità Lgbt. La parata (definita dagli organizzatori “Human Pride”), era parte del week end dell’Onda Pride, la mobilitazione dell’orgoglio gay organizzata in diverse regioni italiane. L’evento si è svolto in un clima colorato e festoso, con tante bandiere e striscioni di Arcigay, sindacati, Sentinelli, Amnesty international e altre associazioni.
Il tutto però è stato anticipato nei giorni scorsi da diverse polemiche. A differenza di molti comuni della provincia monzese, per dire, il sindaco della città Dario Allevi (Forza Italia) ha negato il patrocinio, giudicando la manifestazione troppo “politicizzata” e orientata a sinistra: “Il manifesto dell’evento – si è giustificato – ha voluto mettere al centro argomenti come quello delle politiche sull’immigrazione e tanto altro. Il tema dei diritti civili è un’altra cosa, vogliamo discuterne apertamente, senza pregiudizi ideologici e bandierine”.
Venerdì pomeriggio, alla vigilia del corteo, si è invece verificata una scena surreale. Diversi aderenti a gruppi di preghiera riuniti sotto la sigla del “Comitato Teodolinda”, al quale aderirebbero anche militanti di Forza Nuova e Militia Christi, hanno inscenato sul sagrato della Chiesa delle suore Sacramentine una “preghiera riparatrice”. Secondo quanto riportato dal sito Cittadinomb.it la singolare protesta è stata interrotta dalla Madre Superiora del convento che è uscita per allontanare i presenti. La religiosa – Madre Maria Benedetta dell’Unità ha spiegato che le persone “non erano autorizzate” a stare sul sagrato della Chiesa, in pieno centro cittadino, visto che si tratta di “proprietà privata”.
Dolce e Gabbana alla Valle dei Templi: spostato un matrimonio, proteste a Sciacca
Dolce e Gabbana arrivano ad Agrigento, si appropriano della Valle dei Templi, cambiano il volto di Palma di Montechiaro, spostano perfino un matrimonio a Sciacca. I due stilisti siciliani, in un progetto avviato tre anni fa, hanno infatti scelto di venire qui per mostrare il meglio della gioielleria, della sartoria e dell’alta moda della loro casa, sconvolgendo la normale routine delle cittadine siciliane, tra elogi e critiche. Ieri il grande evento. A Sciacca un matrimonio che doveva svolgersi ieri nella basilica del Soccorso, programmato da ben due anni, è stato celebrato in un’altra chiesa perché anche i due stilisti hanno scelto la basilica per il loro grande evento. A nulla sono valse le sollecitazioni degli sposi che già nel settembre 2017 avevano già prenotato la data, scegliendo di conseguenza il locale e tutto il resto: a marzo infatti l’arciprete della città delle terme aveva annunciato il disguido che adesso però potrebbe finire in tribunale. È intenzione dei due coniugi fare causa all’organizzazione dell’evento e al Comune di Sciacca per un fatto che ha destato grande clamore e ha costretto la coppia a cambiare la location.
Nonostante le lamentele per le strade chiuse e l’impossibilità per i non invitati di partecipare alla grande serata, sempre a Sciacca, nella piazza Angelo Scandaliato, i due stilisti hanno dall’altro lato mostrato l’immagine più bella della provincia di Agrigento al mondo e a più di 70 giornalisti arrivati da ogni parte del pianeta per le tre sfilate.
Chiusure e divieti ci sono stati anche ad Agrigento dove la Valle era impossibile durante l’evento di ieri, così come le strade che arrivano al Parco archeologico, chiuse già dal primo pomeriggio per consentire gli ultimi preparativi e l’arrivo delle modelle che hanno sfilato sulla passerella allestita nel maestoso tempio della Concordia. Quest’ultima però, grazie al contributo dei due stilisti, rimarrà anche nei prossimi mesi permettendo un nuovo itinerario ai visitatori del tempio.
Dolce e Gabbana hanno trasformato Palma di Montechiaro in un set cinematografico degli anni Ottanta: nella città del Gattopardo, però, hanno fatto una donazione al Comune per il restauro del Palazzo ducale Tomasi di Lampedusa, oltre a un progetto di floral design per i giardini della villa comunale e al regalo degli allestimenti che hanno reso unica la piazza principale del paese, che nei prossimi giorni sarà meta di numerosi turisti. La risonanza dell’evento, così come accaduto negli anni passati con il Google Camp, probabilmente mitigherà anche le critiche di alcune commercianti di Sciacca i quali hanno dovuto spegnere le insegne e le illuminazioni dei propri negozi durante l’evento di ieri sera, per non interferire con i giochi di luce previsti dall’organizzazione. Coloro che abitano in zona poi, hanno dovuto “limitare gli spostamenti – come si legge nella nota del Comune – e pianificare i movimenti delle auto entro il 5 luglio”.
La denuncia di Mathieu al Papa “Il Nunzio è noto molestatore”
Il francese Mathieu de La Souchère è appena sbarcato a Roma. Non è in vacanza. Mathieu ha 27 anni, una carriera già robusta, un incarico di prestigio al cerimoniale del Comune di Parigi. Appoggia il telefono sulla scrivania, non ha appunti né foglietti, va a memoria con estrema accortezza, chiede un sorso d’acqua, fa un cenno col capo per confortare l’avvocato che l’assiste nel viaggio in Vaticano e racconta di quel giorno di gennaio quando il fato l’ha caricato di una grossa responsabilità: denunciare le molestie sessuali di monsignor Luigi Ventura, nunzio apostolico in Francia, e rompere con la sua voce ferma l’omertà che per anni ha ingabbiato altre presunte vittime del prelato.
“Sono qui per le mie accuse – dice – contro Luigi Ventura per le tre aggressioni sessuali avvenute nel breve tempo di un quarto d’ora, mentre svolgevo le mie funzioni al Comune di Parigi. Dopo di me, altre sei persone hanno deciso di denunciare e altre vittime di svelare le loro esperienze. Uomini giovani e fragili, tra cui un seminarista di 19 anni che per le sue lamentele è stato minacciato e cacciato. Abbiamo fatto richiesta al Vaticano, tramite il ministero degli Esteri, di togliere l’immunità diplomatica al nunzio affinché possa esserci un’inchiesta (il fascicolo è aperto, ndr) e un processo e s’è mosso anche il ministero della Giustizia, ma finora non c’è stata risposta. Così depositerò una querela al tribunale vaticano”. Mathieu è convinto che il suo coraggio ispiri il coraggio degli altri, e neanche si domanda perché, dopo il clamore su Ventura, il governo di Macron non gli abbia rinnovato l’offerta di lavorare al protocollo dell’Eliseo: “Il modus operandi del nunzio è spesso simile, come se fosse studiato; le aggressioni avvengono sovente in pubblico, in modo da sentirsi protetto dall’occasione: difficile reagire in presenza di decine se non centinaia di persone. Molte volte, quando Ventura presenzia a delle messe nei seminari, il segretario personale si annota i giovani seminaristi che piacciono al nunzio, poi li contatta e organizza delle cene nella sede diplomatica, come una specie di Ius primae noctis: in un anno almeno 6 amici del giovane seminarista sono stati invitati. Tutti i fatti esposti alla polizia si sono svolti in circa 2 anni e coinvolgono uomini tra i 18 e i 45 anni”.
Nel verbale raccolto dalla polizia di Parigi, de La Souchère riferisce che la mattina del 17 gennaio più di una volta, nel cortile del Municipio, in ascensore con un testimone e nel salone d’onore, ha subìto e respinto i palpeggiamenti del diplomatico vaticano.
Ventura ha agitato lo spettro, solito, del complotto, stavolta di sinistra perché di sinistra è la sindaca Anne Hidalgo che supporta, è palese, la ricerca della giustizia di Mathieu. Hidalgo è la prima donna assurta al vertice di Parigi, dopo la lunga gavetta di vice di Bertrand Delanoe; è l’unica superstite di successo della stagione socialista di Francois Hollande. Oltre le più sincere intenzioni e la legge che l’ha spinto a recarsi dai gendarmi, perché un funzionario della Repubblica non può tacere dinanzi a un’ipotesi di reato, Mathiue rappresenta un punto di svolta nei rapporti tra il governo di Emmanuel Macron e la Chiesa di papa Francesco. De La Souchère, non per caso, nel nostro colloquio, cita il precedente di Laurent Stefanini, l’ambasciatore francese proposto al Vaticano e rifiutato perché apertamente gay. Anche Mathieu è omosessuale, “orientamento conosciuto e accettato pubblicamente, senza però alcuna forma di militanza o rivendicazione”, precisa alla polizia per ribadire che la sua battaglia è scevra da qualsiasi malevola interpretazione. Non agisce per screditare il Vaticano, come sostiene Ventura: “Io non sono un nemico della Chiesa e non voglio risarcimenti, vorrei soltanto le scuse del nunzio e un giusto processo. I prelati francesi ordinano ai seminaristi di non parlare, la bolla di silenzio è scoppiata, ma la società civile è attenta e molti credenti mi spingono a non fermarmi”. Siccome il Vaticano di Francesco non vuole condannare la questione di Ventura all’indifferenza, mercoledì Mathieu e l’avvocato hanno incontrato padre Hans Zollner, il gesuita componente della Pontificia commissione per la tutela dei minori e tra i principali organizzatori del raduno degli episcopati mondiali per il contrasto alla pedofilia che s’è tenuto in febbraio.
Mathieu è soddisfatto: “Zollner non nega la nostra versione e ci incoraggia a continuare la lotta. Ci suggerisce di rivolgerci alla segreteria di Stato e all’ambasciata francese presso la Santa Sede per andare avanti. Ci ha spiegato che l’immunità non sarà mai revocata e perciò noi invieremo l’accusa anche al tribunale vaticano”.
Ventura è un arcivescovo, compie 75 anni a dicembre e allora dovrà presentare le dimissioni a papa Francesco. Il pontefice, che ha firmato un motu proprio dal titolo “imparare a congedarsi” per riaffermare il limite operativo dei 75 anni, potrà prorogare il mandato del nunzio oppure lasciarlo riposare in pensione. Più probabile la seconda opzione. Al momento, il Vaticano è prudente e dichiara che Ventura collabora con le autorità giudiziarie francesi. Mathieu, invece, ha un aneddoto: “A maggio c’è anche stato un confronto diretto con Ventura, auspicato dal procuratore: si è risolto con una farsa; il faccia a faccia non è imposto e il prelato ne ha approfittato per fare bella figura presentandosi di fronte alla giustizia solo per ripetere la sua versione assolutoria e minacciare i denuncianti”. Non è finita. Mathieu promette che tornerà a Roma.
Meletti: “Sono faglie diverse”
Carlo Meletti è geologo e responsabile del Centro Pericolosità Sismica dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia. Sulle due scosse di questi giorni in California dice: “Anche se fosse ‘The Big One’ non farebbe i danni descritti nei film”
Cosa sta succedendo in California? Siamo vicini a “The big One?”
Se siamo vicini al grande terremoto che ci si aspetta in California non lo può dire nessuno. “The Big One” sarebbe una scossa sopra l’8° grado della scala Richter sulla faglia di Sant’Andrea, qui parliamo dell’interno, invece, al confine con il Nevada, su faglie in parte conosciute e in parte no, vicine, contigue e perpendicolari. È successo come per il terremoto dell’Emilia Romagna nel 2012, due scosse su due faglie contigue e come spesso accade la seconda è più forte.
Viene spontaneo chiedersi come mai non ci siano state vittime.
Sono condizioni molto diverse da quella italiane. La zona è scarsamente abitata. Dicono i colleghi americani che la città epicentrale sia stata costruita negli anni ‘40, quando già era considerata zona sismica, con una tipologia di edifici di case basse di legno sicure. Non sappiamo dire se nel caso di un terremoto a Los Angeles o a San Francisco sarebbe lo stesso.
Il terremoto “hollywoodiano” è verosimile?
La faglia di Sant’Andrea si muove in senso orizzontale, in caso si aprisse non sarebbe una voragine così spettacolare.
La California trema. Ma è un film visto già decine di volte
Nella realtà, non è mai successo (finora). Al cinema, è già accaduto più volte: il tema è un classico, raccontato più volte. Ogni volta che la terra trema in California, e accade spesso, si evoca, magari solo per esorcizzarlo, il Big One, “quello grosso”, il terremoto definitivo, di una potenzia superiore al decimo grado della scala Richter, che potrebbe trasformare il sud dello Stato in un’isola.
Quando poi gli eventi si ripetono ravvicinati, la percezione che il disastro sia imminente diventa più realistica, anche se vittime e danni sono modesti (grazie anche alle misure antisismiche, che non sono confrontabili con quelle giapponesi, ma risultano comunque efficaci). Venerdì sera, una scossa di terremoto di magnitudo 7.1 ha colpito il sud della California, ancora più forte di quella del giorno prima, che aveva avuto un’intensità di 6.4.
L’epicentro era a 18 chilometri da Ridgecrest, la località già colpita giovedì, a una profondità inizialmente stimata a soli 900 metri, ma poi collocata a 17 km sotto la superficie. È il più forte sisma in California negli ultimi 20 anni ed è stato avvertito anche in Messico. Oltre mille i vigili del fuoco mobilitati. A Los Angeles, nessun morto, nessun ferito grave, nessun danno rilevante alle infrastrutture. Prima delle 23 ora locale, le 8 del mattino in Italia, l’emergenza s’è risolta: “Vi chiediamo di considerare quanto avvenuto questa notte un promemoria e di restare preparati”, si legge in un comunicato dei vigili del fuoco ai cittadini.
Sui social, testimonianze, scene di panico, sequenze impressionanti, anche a centinaia di chilometri dall’epicentro: una conduttrice televisiva che in diretta si rifugia sotto la scrivania, auto che ballano, la terra solcata da profonde spaccature. A Las Vegas, in Nevada, al di là delle Montagne Rocciose, una partita della Summer League della Nba è stata sospesa e posticipata. A Los Angeles, il sisma ha invece fatto tremare il Dodger Stadium durante una partita di baseball, che non è stata interrotta.
Come spesso capita, personaggi della cronaca si sovrappongono a quelli della fiction. Lucy Jones, sismologa del California Institute of Technology (il CalTech), ex consulente dello Us Geological Survey, calcola una probabilità su dieci che un altro terremoto di 7.0 possa colpire la California entro una settimana. Ma la Jones constata che la linea di faglia di San Andreas, quella del Big One, è lontana dalla scena di queste scosse.
Nel film di genere catastrofico di Brad Peyton San Andreas (Usa, 2015), Paul Giamatti è Lawrence Hayes, un sismologo del Caltech, che riesce ad attenuare l’impatto, comunque devastante, di uno sciame sismico nei pressi della Diga di Hoover, anche lì lungo una faglia sconosciuta.
Gia in Terremoto di Mark Robson (Usa, 1974), Charlton Heston e un manipolo d’eroi s’impegnano a salvare la popolazione di Los Angeles colpita da un terremoto e un maremoto. Robert Altman mise il Big One alla fine del suo America oggi, vincitore del Leone d’Oro a Venezia nel 1993. L’anno dopo, un terremoto di magnitudo 6.7 a Los Angeles fece 60 vittime e migliaia di feriti, accartocciando l’uno sull’altro i nastri autostradali d’un gigantesco svincolo. E il cinema ha pure ipotizzato il ricorso alle atomiche per “soffocare” il Big One, in una sequenza alla Armageddon.
Nella realtà, la cosa più vicina al Big One di cui l’uomo a memoria è il terremoto di San Francisco del 18 aprile 1906: magnitudo 8.3, epicentro a sud-est di San Francisco, vicino a Daly City, forse 3000 vittime – il numero non fu mai accertato, perché nessuno allora censiva i cinesi –. Il cinema lo raccontò già ai tempi del muto e poi in San Francisco (Usa, 1936) con Clark Gable e Spencer Tracy.
I californiani fanno del Big One anche un’attrazione turistica: in più punti, è possibile camminare dentro la faglia di Sant’Andrea, che corre per oltre 1200 km lungo lo Stato, tra le due placche che scorrendo in senso opposto sono all’origine dei sismi.
Studi del 2005 affermano che le probabilità che il Big One colpisca la California entro il 2035 sono molto alte: secondo i calcoli, Los Angeles corre più rischi di San Francisco.
Silvia, parlano le amiche. Le indagini ripartono dalla cerchia della onlus
“Appena letto. Bellissimo. Grazie di aver pensato a me. Anche io mi ci sono rispecchiata tanto. E più passano i giorni, più sono convinta della mia scelta di andare contro corrente. Contro gli schemi della società che ti impongono tanti limiti. Ma io non voglio seguire il giudizio di persone care, un papà o un’amica, che non possono capire questa scelta e non la comprenderanno mai. Non gliene faccio una colpa. Mi dispiace, per loro che non immaginano quanta vita si perdono a fare del bene. A entrare nella quotidianità di altri popoli. A viaggiare, avere nuovi amici splendidi di un altro continente. Come fratelli. Incontrare la luce che hanno questi bimbi. E vorrò continuare a seguire questa strada finché lo sentirò. Negli ultimi quattro mesi ho incontrato così tante persone straordinarie. Tra cui anche tu. Che mi hai regalato il viaggio e sono sicura che ne incontrerò ancora tante. E così diventerò una persona migliore”.
Così l’11 novembre, cioè nove giorni prima di essere rapita, e subito dopo aver letto il libro Bianco come Dio di Nicolò Govoni, Silvia Romano scriveva a una sua amica. “Un messaggio che trasuda determinazione, caparbietà e tanta intelligenza. Una capacità di andare controcorrente per capire il mondo e non farsi travolgere da esso. Lei ci provava con tanto cuore e braccia aperte verso gli altri, i meno fortunati di lei – spiega Anna (il nome è di fantasia per rispettare la privacy in un momento tanto delicato) la ragazza che era l’amica del cuore di Silvia – . Lei rappresenta l’Italia migliore di cui andare orgogliosi”. Dopo che per settimane le indagini sul rapimento di Silvia Romano, sequestrata il 20 novembre in un piccolo villaggio keniota, erano ferme, ora finalmente qualcosa si sta muovendo. I carabinieri del Ros hanno convocato altre persone ascoltate come “informate dei fatti”. Amiche di Silvia, volontari e volontarie che hanno lavorato a Chakama per l’organizzazione Africa Milele, dove la giovane milanese rapita prestava la sua opera di aiuto ai bambini locali. Ma non solo. Anche gli inquirenti kenioti hanno finalmente dato segni di vita. A Chakama, il villaggio dove la giovane italiana è stata portata via da un commando di uomini armati solo di pistole e di una granata lanciata più per spaventare che per uccidere, sono ricomparse le camionette della polizia.
“La violenza al momento del ratto – commenta un ispettore di polizia a Nairobi – sembrava più una messa in scena teatrale. I rapitori hanno portato via Silvia in spalla, hanno raggiunto il fiume Athi Galana Sabaki, poco lontano, quasi in secca. L’hanno guadato a piedi e quindi raggiunto le motociclette che avevano lasciato al di là. Avrebbero potuto agire di sorpresa, arrivare a Chakama direttamente in sella dei loro mezzi, prendere Silva e allontanarsi così. Invece hanno scelto una strada più complicata e difficile dove qualcuno avrebbe potuto seguirli e individuarli. Nessuno invece gli è andato dietro”. L’ispettore e ottimista: “Se dovessi scommettere direi che Silvia è viva e tenuta da qualche parte”.
Indagini effettuate in loco dal Fatto Quotidiano hanno chiarito alcune cose sul conto di Francis Kalama, il pastore anglicano che Silvia aveva denunciato alla polizia per molestie nei confronti di alcune bambine. In realtà il religioso si chiama Francis Kahindi Charo, è originario di Malindi, dove vive con la sua famiglia. Ora risiede a Marafa, un altro piccolo villaggio dell’interno (guarda caso al di là del fiume Athi Galana Sabaki) dove è stato inviato come sacerdote a guidare la comunità dell’Ack, African Churches of Kenya, in quell’area.
Sabato scorso, stava celebrando un funerale. Nessuno dei partecipanti sapeva della denuncia fatta da Silvia. Lo stringer del Fatto Quotidiano domenica mattina ha avuto modo di scambiare poche parole direttamente con lui: “La polizia non mi ha cercato e non so di nessuna denuncia nei miei confronti. A novembre, quando ho conosciuto Silvia – ha continuato – sono andato a Chakama per la prima volta. Ero stato mandato lì dal mio superiore per organizzare la nostra comunità. Ci tornerò tra poco – ha aggiunto –. Ho saputo del rapimento della ragazza dalla radio nazionale. E, ripeto, non so nulla della denuncia”.
Al villaggio dove la ventitreenne milanese è stata rapita è arrivata la notizia che le indagini sono riprese in maniera assidua. Pattuglie della polizia continuano a muoversi per i polverosi sentieri del centro abitato. Venerdì gli agenti hanno prelevato alcune persone che sono state portate alla centrale di Malindi per nuovi interrogatori. Si tratta di Ronald Karissa, il ragazzo che si trovava in casa con Silvia al momento del rapimento e si è preso una bastonata perché non si muovesse, e, di nuovo, Elizabeth Kasena, la ragazza dal cui telefono risultano partite delle chiamate ai cellulari dei rapitori. Con loro è stato portato a Malindi per essere interrogato come testimone anche l’area chief (una sorta di sindaco) di Chakama. Moses Luari Chende, l’uomo arrestato subito dopo il rapimento di Silvia e marito di Elizabeth Kasena, accusato di avere partecipato alla logistica del rapimento è a breve (fine luglio primi d’agosto, la data non è stata ancora fissata) atteso al tribunale di Malindi per essere processato. La polizia keniota sospetta che tra le persone interrogate ci sia qualcuno che da giorni stava monitorando in maniera insospettabile i movimenti di Silvia e delle persone addette alla sicurezza e che, in qualche modo, abbia fatto da “palo”.
Mastella si candida a presidente e arruola l’uomo di De Luca
Da segretario dell’ex ministro Ncd Nunzia De Girolamo a consigliere per la sicurezza e le Universiadi del governatore Pd Vincenzo De Luca a promotore dei comitati “Mastella Presidente” in quota Forza Italia. È la parabola del giornalista Luigi Barone, che per la verità alle notizie ha sempre preferito la politica, saltellando da uno schieramento all’altro e rimanendo sempre a galla. È di ieri la notizia di Barone gregario del sindaco di Benevento: “Sono pronti i primi 100 circoli e stiamo mettendo a punto la macchina organizzativa” si legge in una nota, con appello a Mara Carfagna a indire le primarie “ed evitare così scelte calate dall’alto”. Il passaggio di Barone tra le file di Mastella era noto da dicembre con la nomina a presidente Asi (Azienda sviluppo industriale). Il nome di Barone compare ancora nella lista dei consiglieri di De Luca sul sito della Regione Campania. Retaggio di una militanza nel centrosinistra in quota Lorenzin. Dallo staff del governatore hanno spiegato che si tratta di un mancato aggiornamento web: l’incarico, gratuito, sarebbe stato revocato da un po’.