Jurassic Rai, è la tivù dei dinosauri Minoli&C: altro che cambiamento

Nella Rai del cambiamento ci sono sempre le solite facce. Nei palinsesti della prossima stagione, che verranno presentati martedì a Milano, vedremo gli stessi volti noti riproposti ogni anno, alcuni dei quali legati al partito Rai o al potente di turno. Di questi tempi molto più Lega che 5 Stelle, ma pure Pd, che a Viale Mazzini conserva solidissime posizioni di potere. È un lungo elenco di consolidati nomi Rai, con ben poche novità, e qualche ritorno eccellente. Come quello di Giovanni Minoli, che dopo varie peregrinazioni torna con un programma radiofonico su Radiouno. Sempre all’insegna del largo ai giovani, viene confermato pure Maurizio Costanzo, con le interviste di S’è fatta notte e il nuovo programma Gran Varietà. O Corrado Augias, nella prima serata del sabato con il suo Città segrete. Ma torna pure, in salsa leghista, Lorella Cuccarini, che affiancherà Alberto Matano a La vita in diretta. Uno spazio quotidiano di approfondimento sarà affidato a Monica Setta a Uno mattina. A Uno mattina versione invernale saranno confermati Roberto Poletti e Valentina Bisti. Tiberio Timperi si sposta nel week end di Raiuno per condurre Mattino in famiglia con la citata Setta. Francesca Fialdini invece condurrà per la prima volta da sola: A ruota libera il nome del programma in onda dopo Domenica in dove è confermata Mara Venier. Ci sarà poi l’inossidabile Bruno Vespa, Giancarlo Magalli ancora con I fatti vostri, Elisa Isoardi a La prova del cuoco nonostante i bassi ascolti. Paola Ferrari si riprende la Domenica sportiva, mentre senza programma (solo qualche evento) è Antonella Clerici, che ha un contratto di 1 milione e 200 mila euro. In stallo la trattativa con Fiorello: l’artista vuole una cifra considerevole e anche l’impiego su Raiplay non convince.

 

Giovanni Minoli
A volte ritornano: ecco rientrare in Rai pure Giovanni Minoli. Che da queste parti ha veleggiato parecchio, come craxiano di ferro tra gli ‘80 e i ‘90, inventandosi programmi come Mixer. Ora, classe 1945, dopo anni a Radio 24 e dopo essersi proposto invano per il Cda ma pure come presidente, torna in Viale Mazzini su Rai Radio 1. Un nuovo programma che, a quanto si sa, è sempre il vecchio: le sue inossidabili interviste.

 

Maurizio Costanzo
La pensione non piace a nessuno, men che meno a Maurizio Costanzo, classe 1938. Ormai fuori da Mediaset, Costanzo sverna davanti alle telecamere di Raiuno con le sue interviste in S’è fatta notte, in orario da fase rem, cui ora si aggiungerà Gran Varietà, che il sabato sera pescherà nelle Teche Rai per proporre i pezzi dei grandi show del passato.

 

Bruno Vespa
Anchela prossima stagione avrà le sue tre seconde serate di Porta a porta, su Raiuno. Riuscito a scampare alla tagliola del tetto sui compensi dei giornalisti (240 mila euro), l’“artista” Vespa è in trattativa con Fabrizio Salini che vuole ridurgli il lauto stipendio (1 milione e 280 mila) del 20%. “Me lo sono già ridotto di parecchio, prima andate dagli altri”, ha detto. C’è tempo fino a settembre.

 

Paola Ferrari
Per qualche annoanno l’avevano estromessa: lei, la signora del calcio di mamma Rai. Ma col prossimo campionato ecco il ritorno di Paola Ferrari alla Domenica sportiva (fuori la brava Giorgia Cardinaletti). La moglie (di destra) di Marco De Benedetti si gode la sua rivincita, sotto l’egida leghista di Auro Bulbarelli, direttore di Rai Sport: sarà di nuovo in sella nel programma sportivo di punta della tv pubblica.

 

Corrado Augias
Quando il M5Sha osato criticare i suoi 370 mila euro l’anno, Corrado Augias, sinistra chic di Repubblica, è trasecolato sulla poltrona chesterfield che il tè gli usciva dalla tazza, col rischio di macchiargli le punte delle scarpe inglesi. “Ma io faccio ascolti…”, la sua risposta incredula. Il sabato continuerà a condurre in prima serata su Raitre Città segrete. Che finora si è barcamenato tra il 6,7 e l’8,7%. Non proprio numeri da sballo.

 

Monica Setta
Chi eraal Quirinale per la festa del 2 giugno l’ha vista parlare, sotto braccio, per una ventina di minuti con la direttrice di Raiuno Teresa De Santis. Insomma, laddove non ce l’ha fatta Maria Giovanna Maglie, Monica Setta, vecchissimo volto Rai di B. e Bossi ha fatto centro due volte: condurrà una striscia all’interno di Uno mattina, mentre il sabato e la domenica sarà al fianco di Tiberio Timperi a Uno mattina in famiglia.

Scontro tra Di Maio e Autostrade per un video sul Morandi

“Noi andiamo avanti, i Benetton non ci fanno paura”. Con queste parole, e con un video di 3 minuti sul crollo del ponte Morandi pubblicato su Facebook, il vicepremier Luigi Di Maio ha ribadito ieri l’intenzione di revocare la concessione ad Atlantia (anche se sul Corsera ha aperto a una trattativa). Nel video si sottolinea che “il disastro poteva essere evitato”. In particolare, il video riferisce che “nel 2017 il Politecnico di Milano aveva evidenziato il degrado dei piloni 9 e 10” e che “a maggio 2018 viene pubblicato un bando di gara per adeguamento strutturale che scade due mesi prima del crollo, è troppo tardi”. Si afferma poi che “negli ultimi 20 anni la società ha speso solo 23mila euro all’anno per la manutenzione strutturale del ponte. Prima lo Stato dedicava all’opera 1,3 milioni”. Inoltre, si rileva, “dalla privatizzazione della gestione autostradale nel ’99 Aspi ha guadagnato oltre 10 miliardi di euro”. Secca la replica di Autostrade: “Il video non rappresenta la verità dei fatti”. La società ha poi snocciolato le cifre: 439 milioni per finanziare la ricostruzione del Morandi; 60 milioni per i familiari delle vittime e 5,2 miliardi dal 2007 per le manutenzioni sull’intera rete autostradale.

Deutsche Bank, via in 20mila per salvarsi (forse)

Oggi a Francoforte è il giorno del giudizio per Deutsche Bank. Il consiglio di sorveglianza del gigante tedesco malato si riunisce per varare il piano di ristrutturazione annunciato all’assemblea degli azionisti del 24 maggio, dopo il tramonto dell’ipotesi di “matrimonio” con l’altro grande istituto tedesco, Commerzbank. Il problema sono i conti, squassati dall’impatto dei contratti derivati a bilancio per un valore nozionale monstre di 45mila miliardi di dollari. Vent’anni dopo l’ingresso nel mercato americano (l’acquisizione di Bankers Trust per 10,1 miliardi di dollari il 4 giugno 1999), il piano sancirà l’uscita della banca dagli Usa con la cessione o dismissione della divisione americana di investment banking che ha 38.300 addetti e nel 2018 ha perso 750 milioni di euro. Verrebbe poi creata una “bad bank” nella quale far confluire titoli tossici per una cinquantina di miliardi di euro. Secondo indiscrezioni, i tagli colpirebbero dai 15mila ai 20mila dipendenti, dal 16% al 22% dei lavoratori del gruppo (91.463 a fine marzo), con oneri di ristrutturazione stimati in 5,4 miliardi di euro. Altri possibili tagli riguarderebbero la divisione retail, con eccedenze di personale al ritmo di 2mila addetti l’anno.

L’amministratore delegato Christian Sewing sta cercando di convincere gli azionisti di poter realizzare la ristrutturazione, la quinta nell’ultimo decennio. Nel 2015, sotto l’ex ad John Cryan, la banca aveva promesso tagli per 15mila addetti che non si sono mai concretizzati. Secondo alcuni osservatori si tratta dell’ultima chance di salvezza per Db, ma c’è chi dubita che le divisioni che rimarrebbero siano abbastanza redditizie per sostenere la banca: da solo l’investment banking generava la metà dei ricavi di gruppo.

Intanto cominciano a cadere teste. Venerdì il capo dell’investment banking Garth Ritchie ha lasciato la banca. Nell’ultima assemblea una mozione contro di lui aveva ottenuto il 39% dei voti, tra i quali quelli, pesantissimi, dei fondi che fanno capo alla famiglia regnante del Qatar primo azionista del gruppo. Insieme a Ritchie sono in uscita Sylvie Matherat, il capo dell’ufficio legale, e James von Moltke, il responsabile finanziario. Ma potrebbe traballare anche la poltrona di Paul Achleitner, presidente del consiglio di sorveglianza in carica dal 2012.

Intanto la banca è nel mirino di numerose autorità di vigilanza. Negli Usa è sotto inchiesta per 350 milioni di dollari elargiti in passato al presidente Donald Trump e al suo consigliere e genero Jared Kushner. La polizia tedesca indaga per violazioni antiriciclaggio. Nel 2017 era già stata multata per 554 milioni di euro dalle autorità Usa e britanniche per aver riciclato denaro dalla Russia. Ritchie era il responsabile della supervisione sulla divisione azionaria di Db a Mosca che aveva realizzato “vendite speculari” su titoli aiutando a esportare illegalmente 10 miliardi di dollari. Nello stesso anno la banca aveva pagato una sanzione da 6,4 miliardi negli Stati Uniti per aver collocato tra il 2005 e il 2007 titoli tossici legati ai mutui subprime. Nel 2015 era stata multata per 2,2 miliardi dalle autorità Usa e britanniche per aver contribuito a manipolare il tasso interbancario Libor tra il 2003 e il 2007. Lo stesso anno aveva pagato un’altra sanzione agli Usa da 230 milioni per aver violato dal 1999 al 2006 l’embargo contro Iran, Siria, Libia e Sudan.

L’annuncio del piano di ristrutturazione ha ridato fiato all’azione Db. Rispetto al massimo storico, toccato il 18 maggio 2007 a 110,97 euro, l’ultima chiusura a 7,18 euro di venerdì scorso segna un tracollo del 94% ma è in recupero del 20% dal minimo storico di 5,97 euro datato 7 giugno.

Adr, troppi gli extra-profitti “Rinegoziare la concessione”

Dopo le autostrade, l’aeroporto di Fiumicino. Al ministero dei Trasporti di Danilo Toninelli stanno attentamente valutando l’ipotesi di rivedere i termini della concessione di Aeroporti di Roma della famiglia Benetton dopo aver annunciato un anno fa di voler far decadere la concessione per i 3 mila chilometri di autostrade in seguito al crollo del ponte Morandi. I consiglieri del ministro hanno scoperto che l’azienda che gestisce gli scali romani (Fiumicino e Ciampino) ha incamerato indebitamente per anni, e continua a incamerare, dividendi di centinaia di milioni di euro.

Cifre abbondantemente superiori a quelle massime consentite dalla legge costitutiva della società Aeroporti di Roma (Adr), la numero 755 del 1973 modificata da una successiva legge, la numero 985 del 1977, ma mai abrogata. Il comma 6 dell’articolo 5 di quella legge prevede che debbano essere devoluti allo Stato gli eventuali utili di esercizio “al netto dell’accantonamento per innovazioni, ammodernamenti e completamenti, ed eccedenti l’assegnazione di un dividendo annuale determinato in base alle modalità da stabilirsi nella Convenzione e riferito al capitale sociale della società concessionaria, dopo le assegnazioni a riserva previste dalla Legge e comunque non superiore all’8 per cento del capitale stesso”.

Negli ultimi 4 anni i dividendi che i Benetton si sono elargiti con Aeroporti di Roma superano di gran lunga quell’8 per cento fissato dalla legge. L’avvocato Nunzio Roberto Valenza che collabora con il Comitato Fuoripista, la piccola organizzazione che da anni si batte contro l’inutile raddoppio dell’aeroporto, ha calcolato che nel 2015 il rapporto di incidenza tra i dividendi e il capitale sociale ammontava al 216 per cento, nel 2016 al 346, l’anno dopo al 390 fino al record del 394 per cento l’anno passato. In cifra assoluta il complesso dei dividendi extra legge è di circa 768 milioni; il totale di quelli distribuiti nel rispetto del limite dell’8 per cento ammonta invece a 67 milioni. Sommati gli uni e gli altri, i Benetton grazie all’aeroporto di Fiumicino hanno incamerato in totale dal 2014 in poi 835 milioni di euro di dividendi. In questi anni, in sostanza, chi avrebbe dovuto controllare che la legge fosse rispettata si è voltato dall’altra parte e i soldi che avrebbero dovuto finire nelle casse dello Stato sono invece andati in quelle del concessionario.

La società Aeroporti di Roma fu istituita con una legge apposita 45 anni fa: da costola del ministero dei Trasporti fu trasformata in una società per azioni a capitale pubblico controllata dall’Iri, confluendo nel grande contenitore delle partecipazioni statali. In quella legge fu inserita la clausola dell’8 per cento sui dividendi. Nel 2000 la società di Fiumicino fu privatizzata e la gestione passò dall’Iri ai Romiti, che otto anni dopo la consegnarono ai Benetton. Dal punto di vista reddituale la svolta è avvenuta nel 2012, sotto le feste di Natale. In quei giorni il governo Monti consentì con un decreto ad AdR e ad altri tre grandi scali di stipulare “contratti in deroga” con l’Enac, l’Ente per l’aviazione civile. In soldoni voleva dire che Fiumicino avrebbe potuto alzare di molto le tariffe aeroportuali, cosa che è avvenuta con l’aumento del prezzo dei biglietti aerei che ha permesso ai Benetton di incamerare negli anni successivi quel bendidio di dividendi.

La “deroga” introdotta dal governo Monti non ha tuttavia cancellato la legge del 1973, che rimane valida. Commenta Ugo Arrigo, professore dell’università Bicocca di Milano e consigliere di Toninelli: “L’atto unico di fine 2012 in favore di Adr fu anomalo per molti aspetti. Includeva un contratto di programma basato su una norma di legge che permetteva una deroga alle regole vigenti del tutto priva di perimetrazione e limitazioni. Inoltre non fu verificato in quell’occasione che AdR rientrasse effettivamente nei requisiti previsti da quella norma su misura, in particolare il fatto di finanziare almeno in parte gli investimenti con mezzi propri. Rivedere quella catena di anomalie appare doveroso”.

Il processo Geronzi e le gravi colpe di Csm e magistrati

Non viviamo in un Paese dove si verificano sempre le cause e non gli effetti. L’aforisma di Italo Calvino (Il barone rampante, 1957) va aggiornato: viviamo in un Paese dove la classe dirigente litiga sulle cause per nasconderne gli effetti. Così può minimizzare le sue porcate e continuare a officiare la sua liturgia: scandalo, propositi di rinnovamento, individuazione del capro espiatorio, autoassoluzione, oblio. I cittadini non devono sapere la verità. Gran parte della stampa obbedisce all’imperativo categorico e non dice nemmeno chi ha dato l’ordine: il Quirinale. Il gioco è pericoloso perché sappiamo che il presidente Sergio Mattarella è animato dall’etica del bene comune, ma “un fatto è un fatto” (Leonardo Sciascia, Candido, 1977) e occultarlo incentiva incredulità e sospetti, a tutto vantaggio dell’eversione da cui il Quirinale è circondato. Così dello scandalo che travolge la Giustizia si raccontano solo le cause: magistrati che si intercettano tra loro; le avventure del dottor Luca Palamara; il faccendiere Fabrizio Centofanti accusato di corrompere tutti quelli che frequenta fuorché quello con cui andava a cena più spesso, l’ex procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone; l’ex ministro Luca Lotti che vuole scegliersi il magistrato che deve indagare su di lui.

Ma parliamo degli effetti. Tre giorni fa la Cassazione ha condannato definitivamente Cesare Geronzi, ex banchiere più potente d’Italia: quattro anni e sei mesi di reclusione per bancarotta fraudolenta. Con lui è stato condannato (tre anni e sei mesi) Matteo Arpe, ex amministratore delegato di Capitalia, la banca di cui Geronzi era presidente. Hanno contribuito al crac da 14 miliardi della Parmalat costringendo il patron Calisto Tanzi a strapagare l’acqua Ciappazzi a Giuseppe Ciarrapico per alleggerire il debito dell’imprenditore amico di Giulio Andreotti verso Capitalia. Geronzi ha commesso il reato a 67 anni, ora ne ha 84 e la sua carriera è finita da tempo: è stato fatto fuori con pochi giorni di processo dalla giustizia privata (in nome del più ricco) del potere finanziario, molto più efficiente di quella in nome del popolo italiano. Al re dei banchieri il sistema giudiziario ha concesso un bonus di 17 anni da presunto innocente, durante i quali, servito e riverito, ha pilotato la fusione di Capitalia in Unicredit, voluta per lui dalla Banca d’Italia per nascondere le voragini dei prestiti agli amici degli amici; è diventato presidente di Mediobanca e poi presidente delle Assicurazioni Generali; ha detto la sua in ogni partita di potere, compresa la nomina dei direttori del Corriere della Sera. E potremmo seguitare.

Che il bancarottiere, vista l’età, non vada in carcere è un rammarico da miserabili. Dopo il servizietto che gli ha fatto la cupola di cui fu leader, Geronzi è un’altra persona e ha già pagato prezzi per lui molto più amari di qualche visita all’ospizio di Cesano Boscone. Ma la sua storia processuale è un effetto delle cause di cui sopra e pone il vero problema: a che cosa serve questa giustizia se non alle carriere di magistrati ambiziosi e/o amici degli imputati? La lentezza dei processi è frutto solo di inefficienza o anche della malafede di magistrati corrotti? Quanti imitatori di Geronzi, durante questi 17 anni, hanno spolpato le loro banche vedendo che il sistema giudiziario, male che vada, ti presenta il conto quando sei vecchio e fuori dai giochi? E quanti magistrati sono stati scoraggiati dal fare il proprio dovere vedendo che gli insabbiatori seriali e scientifici facevano carriera mentre gli onesti venivano infangati come rompicoglioni o, nella migliore delle ipotesi, come don Chisciotte un po’ coglioni? Di questo dovrebbe discutere il Csm, anziché cercare vendette sui suoi complici del giorno prima.

 

La comunità cristiana è nutrita dal dono più prezioso: la pace

In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: “La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: ‘Pace a questa casa!’. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: ‘È vicino a voi il Regno di Dio’. Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: ‘Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il Regno di Dio è vicino’. Io vi dico che, in quel giorno, Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città”. I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: “Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome”. Egli disse loro: “Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli” (Luca 10,1-12.17-20).

Il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due avanti a sé. In questo numero simbolico c’è la comunità cristiana di ieri e di oggi, mossa dalla Parola e nutrita dal dono del Risorto: la pace. Chi ha fatto esperienza di una fede autentica e ha incontrato il Signore, sente di dovere annunciarlo e di condividerne la gioia con tutti.

Ecco il senso del grido d’Isaia: Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa; a Gerusalemme sarete consolati (Is 66,10.13). Queste sono le parole dirette a Israele che sta ritornando dopo il lungo esilio babilonese. L’amata città santa torna a essere luogo e riflesso della compassione di Dio, che la cura come tenera madre. La stessa pienezza di gioia, colma di pace, risuona nel Vangelo, nella buona notizia affidata da Gesù ai discepoli: l’annuncio buono foriero di pace e la vicinanza del Regno di Dio è Gesù stesso, l’amore fedele di Dio che non viene bloccato dalle nostre resistenze, dalle infedeltà dell’uomo, dal peccato. La guarigione dal male, la pace di cui ha bisogno ogni casa, la consolazione dello Spirito, il diventare discepoli per Paolo ha un titolo forte: Non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo (Gal 6,14).

La responsabilità della missione propria della comunità cristiana e del singolo fedele, la trasparenza di stile e la radicalità interiore derivano dal fatto che il discepolo è colui che precede il volto di Gesù. È il Signore stesso a mandare come Apostoli: alla Sua gratuità appartiene l’annuncio della prossimità del Regno di Dio e la sua efficacia.

Non possiamo non cogliere una disparità notevole tra l’abbondanza della messe e lo scarso numero degli operai. Tuttavia, i settantadue che tornano pieni di gioia per aver vinto Satana sono segno della vittoria sull’egoismo, sulla violenza e sulla durezza dei cuori, indicano il superamento della miseria degli uomini a vantaggio di un più grande progetto di amore.

Tra il piccolo numero dei discepoli e l’immenso compito affidato alla missione di raggiungere gli estremi confini della terra appare la misteriosa efficacia della preghiera. Essa ci ricorda che lavoriamo in un campo non nostro e che il seminato, sempre sottoposto ai rischi del rifiuto e del giudizio umano, vive nel tempo della pazienza e della conversione concesso dal Signore. Bisogna rallegrarsi solamente del fatto che i nomi dei discepoli, cioè i nostri nomi, sono scritti nei cieli.

* Arcivescovo emerito di Camerino – San Severino Marche

Chi è il proprietario del mare

La storia è rimasta in sospeso, come se tutti fossimo in attesa di qualche cosa. Eppure si tratta di qualcosa che viene prima della politica, prima delle inclinazioni di un governo o del violento e cattivo umore di un ministro: viene persino prima della pace e della guerra. È una cosa che distingue e fa unico, nell’Europa continentale, un Paese come l’Italia. È il mare.

Non si tratta di poesia o di canzoni. Guardate la carta. L’Italia, salvo il forte aggancio di valli e pianure del Nord al resto d’Europa, è tutto mare. Tutto mare vuol dire un destino. È stato un buon destino. Nei millenni e nei secoli l’Italia, comunque si chiamasse, è diventata una serie di porti che hanno vissuto e fatto vivere sullo scambio, sugli arrivi e sulle partenze, su immensi commerci che sono cominciati all’inizio della storia e non sono finiti mai. Qualunque cosa sia cultura in Italia viene dal mare. Qualunque cosa sia conoscenza e fatto nuovo viene dal mare. Qualunque cosa si chiami scambio (e dunque rappresenti una crescita senza fine di dare, avere e sapere) è a causa di quel mare che c’è in ogni singolo angolo di costa italiana. Il mare è stato sempre e continua a essere per l’Italia, una vasta area di ricchezza da cui dipende tutto quello che siamo. Come si vede dalle città e dai porti, dai monumenti e dall’arte, dai viadotti e dalle strade, siamo molto.

Ogni Paese che abbia un pezzo di costa ha la sua riserva di ricchezza. Ma noi siamo tutta costa, salvo le Alpi, e dunque siamo da sempre titolari di una ricchezza senza fine. Avrete notato che non ho parlato del venire e partire delle persone che sono il vero grande contributo del mare alla civiltà umana. Non l’ho fatto perché sarei caduto nella trappola di Salvini: rabbia e insulti fino all’orlo della crisi nervosa se gli porti o difendi qualcuno che non è nato, cresciuto e ha imparato il linguaggio discutibile dalle sue parti (non è vero, naturalmente, ma è ciò che il ministro vuole far credere a 60 milioni di italiani, che ormai sono 55).

Dunque mi fermo a due punti fondamentali, ma anche clamorosamente evidenti e necessari per la nostra vita, dal passato fino a oggi: le coste e la ricchezza italiana. Nel momento in cui l’intero ordine dei rapporti, anche naturali, fra l’Italia e il mondo, vengono buttati con rabbia nel peggior disordine (il peggiore tranne le guerre), noi stiamo recitando una infinita litania di recriminazioni, rimproveri e condanne contro l’Europa che non protegge il nostro mare. Ma intanto il nostro mare continua a produrre ricchezza, attraverso i suoi porti, i suoi scambi, le sue partenze e arrivi di turisti a milioni, partendo e arrivando nei luoghi che vengono – come per fronteggiare una epidemia – dichiarati “chiusi”.

Ma non parlerò dei porti chiusi, solo del mare. L’Italia ha una immensa ricchezza e si lamenta. Perché altri, che non ce l’hanno, vengano giù a difenderci per poi tornare nei loro fiordi e nelle loro valli. L’Italia ha una immensa ricchezza e si dichiara, nello stesso tempo, padrona del mare, delle coste più belle del mondo. Ma, allo stesso tempo, indifesa e abbandonata perché spezzoni di un trasferimento di popoli, che non è mai avvenuto, le ingombrano le banchine. Credo si possa dire che il momento più umiliante della misera sceneggiata contro Carola, comandante della Sea Watch 3, e del salvataggio appena compiuto di 42 esseri umani ancora sulla barca è stato quando un gruppo di uomini ha cominciato a cantare nella notte: “Viva gli italiani”. Il non senso era pauroso, tipico di un film che da crudele diventa grottesco, inducendo il produttore a tagliare la scena. A Lampedusa nessuno ha tagliato la scena. Il penoso coro maschile è continuato a lungo, e questi italiani a cui si gridava “evviva” erano gli stessi che intanto indicavano l’intenzione di stupro che molti altri italiani, ancora sani di mente, hanno condannato.

Però mettetevi nei panni degli altri Paesi dell’Unione Europea che non sono venuti al soccorso. Un Paese fatto di mare che deve tutto al mare e continua a goderne gli immensi vantaggi anche mentre un pugno di umanità disperata sbarca o tenta di sbarcare, e per giunta esalta i suoi peggiori cittadini e chiude i porti da cui ti giunge tuttora più ricchezza che a ogni altro Paese europeo, è difficile da aiutare. Orrendo e facile circondare l’Ungheria di filo spinato. Senza dubbio folle il muro con la Slovenia, un muro che forse neppure Trump vorrebbe, fra Paesi della stessa Unione, ma “chiudere i porti” (con la inspiegabile collaborazione obbediente del ministro 5 Stelle Toninelli) e dunque chiudere il mare, che dona molto ma non conosce padroni, è un progetto a cui nessuna persona mentalmente serena vorrà partecipare.

Mail box

 

La politica nel cortocircuito pericoloso dei social network

Gentile redazione, uno dei più grandi difetti dell’essere umano in quest’era profondamente social è ciò che viene definito gratificazione istantanea, cioè quel bisogno di ricevere un immediato feedback gradevole. Vogliamo il piacere e lo vogliamo subito. È inevitabile che questa dinamica premi, in certi casi, lo stomaco e il cuore, prima del cervello. In una politica sempre più social, è inevitabile che chi cerca di gratificare istantaneamente lo stomaco dell’elettore ha più vantaggi di chi ragiona, ma noi non dobbiamo mai dimenticare che la democrazia esiste proprio perché le scelte siano lente e ponderate. Di fronte al bisogno di rapidità che i social pretendono dai governi, qualcosa bisogna pur fare e io dico di andare esattamente nella direzione opposta iniziando dal ribaltare l’ordine odierno (social ergo politica) nell’esatto contrario (politica ergo social). Tutto questo si può fare riformando i partiti, i cui problemi sono: l’etica, la qualità della classe dirigente e il rispetto della volontà popolare.

G. C.

 

Renzi, l’autocritica sui migranti arriva tardi

Matteo Renzi ha detto: “Abbiamo sbagliato a considerare ‘una minaccia alla democrazia’ qualche decina di barche, in un Paese di 60 milioni di abitanti. Siamo stati pavidi sullo ius soli”. Dichiarazioni, in parte, condivisibili. L’ex premier, tuttavia, rinfocolando vecchie polemiche nel Pd, ha contribuito a riaccendere le liti interne, in una fase non facile per l’opposizione, dopo la discussa trasferta di Orfini e altri deputati a Lampedusa, per esprimere solidarietà a Carola, la giovane capitana, tedesca, della Sea Watch 3.

Pietro Mancini

 

Donne abusate nei lager libici: la tragedia di cui non si parla

In questi giorni molti titoli sono sulla nave Mediterranea e i 52 migranti a bordo, di cui alcune donne incinte. Nessuno però precisa che quelle donne sono incinte perché violentate nei lager libici. Così ha gioco facile il “Cazzaro verde”: passa all’unisono il messaggio che donne incoscienti affrontino un viaggio dai rischi mortali come fosse una crociera. Assurdo.

Paolo Mazzucato

 

Quei giovani irpini vittime del nuovo feudalesimo

In Irpinia, come pure in altre aree del nostro Meridione, la negazione della “cittadinanza attiva”, la negazione dei diritti politici e civili e l’asservimento ai vari notabili locali obbligano le giovani generazioni a mendicare elemosine e favori, elargiti secondo prassi di stampo clientelare e paternalistico, sia per ottenere un lavoretto miserabile, sia persino per ricevere un normale e banale certificato. Questa mentalità succube è un malcostume di origine semifeudale, una cultura fatalista che finisce per accettare come “ineluttabile” simili pratiche. Oggi, anche in Irpinia, si registrano percentuali elevate e sconcertanti di “morti bianche”, cifre che denunciano un vero e proprio stillicidio di cui nessuno osa parlare. In Alta Irpinia, i lavoratori sono endemicamente sudditi e ricattabili, in quanto asserviti ai vecchi notabili politici. I segni di ripresa dell’iniziativa proletaria appaiono deboli, parziali, assai slegati tra loro. Non vi sono, attualmente, partiti, soggettività e associazioni politiche credibili e in grado di favorire una accelerazione dei processi di presa di coscienza e di auto-organizzazione delle masse lavoratrici.

Lucio Garofalo

 

I continui ricorsi al Tar sono indegni di un Paese civile

Spettabile Fatto Quotidiano, scrivo in merito al provvedimento del Tar Lazio che ha annullato il Concorso per dirigenti scolastici. Voglio mettere in chiaro che questo cosiddetto “scandalo” non è paragonabile a ciò che si legge in questi giorni (Università, Magistratura, ecc.): qui si tratta di un caso profondamente diverso e che rischia di mandare in fumo il lavoro onesto di tre anni compiuto da insegnanti che hanno speso, tempo, soldi, fatica intellettuale. Il fatto che ci fossero presunte irregolarità da parte dell’amministrazione non ha portato a nessun beneficio ai candidati, che con la trasparenza di tre prove hanno superato il Concorso. Poi, come accade sempre, coloro che non l’hanno superata si mettono in fila per approfittare di qualche problema procedurale. È una cosa indegna di un Paese civile.

Giorgio Nonni

 

Viva i giornali liberi e i cittadini onesti

Volevo complimentarmi con tutti voi per quello che fate e quello che scrivete. Se in Italia tutti i giornali fossero così saremmo tutti molto più contenti. Travaglio secondo me è un grande. Alla stregua di Gomez, Padellaro e Massimo Fini. Continuate così. I cittadini onesti hanno bisogno di voi.

Lettera firmata

 

Basta con il triste spettacolo degli animali al circo

Un domatore del circo, Ettore Weber di 61 anni, è stato azzannato mortalmente a Triggiano da 4 tigri. Forse sarebbe il caso di smetterla con questi indecorosi spettacoli. Come con le corride. Gli animali e la natura non sono a nostro uso e consumo. Evolviamoci.

Cristian Carbognani

 

Facebook detta l’agenda: è un “golpe comunicativo”

È in atto in Italia quello che potremmo chiamare un “golpe comunicativo”, ovvero l’agenda informativa viene dettata dai temi che la politica decide di assumere. Se al mattino il ministro dell’Interno (o altri) fa una diretta Facebook su un fatto, questo viene ripreso dai telegiornali, poi dai talk show, dai programmi radio e così avanti fino alla fine della giornata. Il “golpe” consiste nel fatto che questo mina l’indipendenza della comunicazione, guardia del potere, che dovrebbe seguire un suo ritmo, altre priorità e altre logiche. Senza la paura che gli ascolti e i lettori calino.

Fabrizio Floris

C’è vita nel Pd. Ma solo quando si tratta di menarsi

 

Matteo Renzi attacca il governo Gentiloni: “Allarmisti sui migranti e pavidi sullo Ius soli”.

Paolo Gentiloni: “Il mio governo non aveva i voti per approvare la legge. Semmai il coraggio mancò prima, quando i numeri c’erano”.

“La Repubblica”

 

In queste afose giornate estive immaginiamo il Nazareno immerso in un pigro silenzio, rotto solo dal frinire delle cicale. Mentre i pochi funzionari in sede percorrono i corridoi con le pattine ai piedi per non turbare il riposo di Nicola Zingaretti. L’ordine è perentorio: il segretario non va disturbato per nessun motivo. Neppure se Matteo Salvini fa messe di città e regioni che una volta appartenevano alla sinistra? Neppure. E che facciamo se a Lampedusa approdano altre navi cariche di migranti? Mandate Orfini con un paio di ciambelle di salvataggio. E nel caso dovessero chiamare, per dire, Giuseppe Conte, Sergio Mattarella, Donald Trump, il Papa? Ipotesi oziose, qui telefona soltanto chi sbaglia numero e cerca lo Zingaretti di Montalbano. Poi, di botto, urla, strepiti, porte sbattute, ingiurie, minacce che infrangono il sonno della politica. Che diamine succede? Salvini e i suoi si preparano a occupare anche il Pd? La sindaca di Roma ha fatto scaricare un camion di monnezza proprio davanti al palazzo, per ritorsione contro lo Zingaretti della Regione Lazio? Molto peggio. Matteo Renzi ha scritto una letteraccia zeppa di accuse contro Paolo Gentiloni e Marco Minniti. I quali hanno reso all’ex premier pan per focaccia. A sentire il nome Renzi, poi, Gianni Cuperlo, da anni ritenuto disperso sul Karakorum fornisce, finalmente, notizie di sé. Intanto, Luca Lotti si serve del trojan (sicuro così di finire sui giornali) per insolentire Zingaretti. Il quale, fermi tutti, si appalesa con la consueta, inspiegabile espressione gioiosa. Ma no, è incazzatissimo. Tacciono le cicale, rimbomba il tuono e il segretario scandisce parole gravi e definitive: “In questo modo si logora il presente, e si rivela lo sguardo rivolto al passato in un eterno regolamento di conti che ci isola dalla società”. Subito all’opera, studiosi di civiltà scomparse cercano significati riposti nel cartiglio. Che a noi appare chiarissimo: quando si tratta di menarsi tra compagni, c’è vita nel Pd.

Antonio Padellaro

Le 10 bombe di Pompei

Sempre fuoco. Sempre fiamme. È il destino di Pompei: prima il Vesuvio, poi le bombe della guerra. Ma qui il passato riemerge sempre. Così, insieme con i resti romani più famosi del mondo, adesso rischiano di tornare alla luce gli ordigni sganciati dalle forze alleate nel 1943: sette, forse addirittura dieci bombe inesplose che sono sottoterra, nella zona archeologica dove si deve ancora scavare. Nessun pericolo per i turisti: sono gli scalpelli degli studiosi che rischiano di incontrare le bombe sganciate dai B17. E non solo: potrebbe esserci altro, come proiettili di cannone e bombe a mano.

Un segreto finora rimasto inviolato. Racconta Antonio De Simone, archeologo e professore straordinario dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, un volto conosciuto anche per aver accompagnato, negli anni, Alberto Angela nelle sue puntate tv su Pompei (e non solo): “Esiste un’ampia documentazione relativa ai bombardamenti subiti da Pompei. L’Aerofototeca Nazionale dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, presso il ministero dei Beni e delle Attività culturali, conserva le immagini prodotte dagli Alleati per scopi di ricognizione durante la ‘Campagna d’Italia’ del 1943-1945. Strisciate aeree, rapporti ufficiali… ma non c’è nulla di preciso, nessuno studio specifico riguardo alla zona in questione. Io stesso nella mia esperienza a Pompei ho trovato ordigni non segnalati…”. De Simone prova a scherzarci sopra, con quel suo spirito così partenopeo: “Scavavamo con tutte le cautele, mica ci interessa di avere una borsa di studio in memoriam… però che sorpresa! Eravamo lì con i nostri scalpelli, le pale, a sollevare piano piano un pugno di terra per volta e all’improvviso sotto i nostri piedi ci siamo ritrovati le bombe. Due. Una già esplosa, ridotta in frammenti. L’altra, purtroppo, no. Era bella intatta… era il 1986”.

C’è ancora storia quindi sotto la terra nera di Pompei. E non soltanto perché dei 66 ettari dell’area archeologica soltanto 44 sono stati scavati: nei 22 ettari in attesa di essere scoperti – molti parlano dell’esistenza di un’altra Pompei nella Pompei – non si nascondono soltanto i segreti dell’antica Roma, ma anche quelli di un passato ben più recente. Un problema – quello degli ordigni inesplosi a Pompei – rimasto sepolto per decenni, ma oggi, forse, qualcosa può cambiare. Con il progetto “Grande Pompei” (105 milioni di investimenti, il 20 per cento a carico dello Stato e l’80 sulle spalle della tanto vituperata Unione Europea) che, racconta l’architetto Antonio Irlando, un uomo che a Pompei e alla sua tutela ha dedicato anni di vita, “ha permesso di avviare un piano per abbassare la pendenza dei fondi della zona non scavata, che, proprio perché soggetta a un forte dislivello, è a rischio idrogeologico”. La Soprintendenza nei mesi scorsi ha prodotto una mappa chiave, allegata proprio alla gara per la “Grande Pompei” relativa ai “Lavori di messa in sicurezza dei fronti di scavo interni alla città antica e mitigazione del rischio idrogeologico delle Regiones I-III-IV-V-IX”. Parliamo, quindi, soprattutto dell’area non scavata, quella che nella mappa è ancora grigia (a pagina 8-9, ndr). Sul documento della Soprintendenza sono censite, nella zona visitabile e aperta al pubblico, quasi cento bombe – 96, per la precisione – con la localizzazione dei punti di caduta: 96 bombe, su 165 sganciate in tutto dagli alleati, che colpirono e danneggiarono strade, ville, muri. Spiega De Simone: “Sono relative a esplosioni per cui è stata ritenuta necessaria un’attività di documentazione dei danni provocati con rilievi o fotografie. Parliamo, tra l’altro, della via dell’Abbondanza, della Casa di Trebio Valente, delle Officinae Tegentiae Graphici e della Schola Armaturarum”. Ma c’è, appunto, la grande “macchia” grigia dell’area ancora da scavare: dove sono caduti qui gli ordigni? Come e dove è possibile localizzarli? Su questa zona sono state sganciate circa 70 bombe: da 7 a 10, secondo le stime, ancora inesplose.

Non si può più fare finta che quegli ordigni non ci siano. Non si possono lasciare all’oblio. C’è da salvaguardare prima di tutto la vita di archeologi e operai. E poi, ovviamente, i reperti ancora sotterrati. Senza contare il timore, del tutto ingiustificato a detta degli esperti interpellati dal Fatto, che si potrebbe diffondere tra i turisti. Ma che cos’ha nascosto davvero la guerra sotto il suolo di Pompei?

“Sia risparmiata violenza cieca e brutale che minaccia di distruggere Pompei, monumento sacro dell’umanità civile”. Scriveva così il Soprintendente Amedeo Maiuri al ministero della Pubblica Istruzione, all’alba del 25 agosto 1943. Erano i giorni in cui il Paese andava in frantumi. Eppure a Pompei resisteva un Soprintendente. Quell’uomo capiva quanto le rovine romane fossero da salvare, a ogni costo: proprio nel momento in cui l’Italia sembrava sul punto di non esistere più bisognava salvarne almeno l’anima. La notte prima gli Alleati avevano sganciato su Pompei un uragano di bombe: per una fatale coincidenza, il 24 agosto, lo stesso giorno in cui era iniziata, nel 79 d.C., l’eruzione che nell’antichità avrebbe devastato Pompei e le altre città vesuviane. Così alle ore 22,30 del 24 agosto 1943, la distruzione si ripete. È il racconto, così vivo e caldo, di Maiuri: “La prima tragica incursione è avvenuta la sera del 24 agosto alle 22,30… una bomba di medio calibro ha colpito l’angolo nord orientale del Foro, dinanzi all’arco di Druso… altre hanno ridotto a un cumulo di macerie la zona di Porta Marina”. Furono tre le bombe che quella notte caddero sull’area archeologica. Ma era soltanto l’inizio: a quel bombardamento ne seguirono altri. Il Comando militare alleato era convinto che tra le rovine si accampasse un’intera divisione corazzata tedesca. In quelle settimane di confusione totale, come ha scritto l’archeologo e storico spagnolo Laurentino Garcia y Garcia, nel suo Danni di guerra a Pompei. Una dolorosa vicenda quasi dimenticata, ben 165 bombe caddero su Pompei – secondo la piantina “Pompei Bomb damage” compilata dagli stessi americani nel 1943 – distruggendo, tra l’altro, più di 1.300 reperti ritrovati in 200 anni di scavi, e persino il vecchio museo pompeiano ideato da Giuseppe Fiorelli.

Ma chi ci pensava allora a Pompei, alle case degli antichi Romani, quando quelle dei napoletani finivano in polvere? Erano i mesi in cui a Napoli ogni giorno suonava l’allarme anti-aereo e la città era la seconda in Italia più colpita dagli ordigni. Del resto il piano di Franklyn Delano Roosvelt era chiaro, come scrisse in una lettera a Winston Churchill: “Noi dobbiamo sottoporre la Germania e l’Italia a un incessante e sempre crescente bombardamento aereo. Queste misure possono da sole provocare un rivolgimento interno o un crollo”. E così fu a Napoli: 181 raid tra il 1942 e il 1943. Tra 20 e 25mila morti, ma nemmeno le Fortezze Volanti americane piegarono la vitalità dei napoletani: la sirena e si correva nella ‘sotterranea’, come veniva chiamata la metropolitana. Poi di nuovo fuori, tra macerie, ma anche ristoranti e cinema rimasti ostinatamente aperti.

E chi ci pensava alle rovine romane! E a Pompei, che ha protetto gelosamente per secoli la città distrutta dall’eruzione del Vesuvio, e altrettanto ha fatto per quel bombardamento? Del resto in quel periodo c’era un Paese da ricostruire. E da liberare dalle bombe non esplose. Secondo gli studi di quegli anni, sulla penisola caddero un milione di bombe. Era il 1947 quando gli americani consegnarono uno studio (“The United State strategic bombing survey”) alle autorità dei Paesi europei con i dati e le tabelle ricavate dai rapporti delle loro truppe. Ecco cos’è stata anche la guerra: 378.891 tonnellate di bombe piovute sulla Penisola. Ma non tutte per fortuna esplosero: secondo un studio dell’Ordine degli Ingegneri di Mantova del 2018, sono l’8-10 per cento gli ordigni inesplosi. Quindi circa 37.900 tonnellate – significa 80-100mila bombe – rimasero lì, nella pancia dell’Italia. A volte introvabili, altre pronte a emergere e fare altri morti. Le campagne di risanamento cominciate nel 1946 non bastarono. Valutazioni ufficiali è impossibile averne, ma secondo le stime ufficiose, condivise dal Genio militare, circa il 60 per cento delle bombe sganciate sono state rinvenute. Come dire che sotto i nostri piedi restano – e magari resteranno per sempre – 15mila tonnellate di bombe d’aereo inesplose. Del resto, secondo gli ultimi dati disponibili del ministero della Difesa, nel 2012 in Italia sono stati rinvenuti 9.177 ordigni, di cui 81 bombe d’aereo.

Ma il destino di Pompei è anche di venire alla luce, di essere scavata. Nel 1944 è un pilota inglese che scopre una bomba inesplosa sotto il selciato stradale, vicino alla Casa degli Epigrammi. Poi altri ritrovamenti, nel 1952 accanto a Porta Capua, nel 1954, nel 1959 un colosso da quattro quintali vicino al Tempio di Venere, poi nel 1961 e tre anni dopo vicino alla torre di Mercurio. Gli ultimi ritrovamenti sono del 2017. Così la storia torna in superficie, insieme con le bombe. “Non c’è alcun pericolo per i visitatori, bisogna essere chiarissimi per evitare qualsiasi allarmismo”, premette un archeologo che non vuole essere citato ed è impegnato a realizzare uno studio, “perché le bombe di cui parliamo sono concentrate nell’area non aperta al pubblico”. Già, quel tesoro che l’Italia finora, anche per mancanza di fondi, ha lasciato che fosse protetto dalla terra. Ma di quante bombe si tratta? Rapporti ufficiali non ce ne sono ancora. Bisogna affidarsi alle stime degli studiosi: su 165 bombe lanciate sulla città, è lecito pensare che tra 12 e 16 siano rimaste nella terra. Escludendo gli ordigni scoperti e disinnescati nel corso degli anni, la zona non scavata – e non censita – dovrebbe tenerne in pancia, sottoterra, da sette a dieci.

E qui si sono cominciati a diffondere i timori. Finora rimasti coperti sotto uno strato di terra, come le bombe e i reperti: “Le ispezioni archeologiche e la bonifica delle bombe seguono tecniche diverse – descrive De Simone – chi cerca e disinnesca gli ordigni procede con ‘splateamenti’, cioè scassi del terreno, un procedimento molto più invasivo di quello che usiamo noi archeologi”. Che fare? Ora che l’Italia dal 2012 si è dotata di una disciplina che prevede nuove e maggiori tutele in materia di scavi in presenza di ordigni bellici,
e la storia delle bombe a Pompei sta riaffiorando in superficie, come agire?

Paolo Orabona è un ingegnere che da quarant’anni gira l’Italia, e il mondo, per liberare i cantieri e gli scavi dalle bombe: “All’epoca in cui nel nostro Paese si realizzavano grandi opere, in media si trovavano 100mila ordigni all’anno (di cui 700 circa, le bombe di aereo). Soltanto scavando sull’Appennino, all’epoca dei lavori per il tratto autostradale Firenze-Bologna, abbiamo rinvenuto decine
e decine di casse di munizioni”. Ma Pompei?

“Non esistono studi esaustivi. Non abbiamo idea di cosa veramente ci sia là sotto. Potrebbero esserci bombe di aereo, ma anche altri tipi di ordigni, come proiettili di cannone. E questi non sono nemmeno censiti nella carte dell’esercito americano”. È un rebus perché, come racconta Orabona, “capitava che aerei a fine missione si liberassero del loro carico, per tornare alla base più ‘leggeri’, sganciando bombe non innescate al di fuori della zona operativa”. E non ci si può permettere di rischiare perché “alcune provocano devastazioni nel raggio di centinaia di metri. Per non parlare del fatto che nelle Guerre mondiali ci fu chi lanciò bombe a innesco chimico, come quelle che nel porto di Bari causarono centinaia di morti”. E dunque, che fare: lasciare un terzo di Pompei all’oblio per evitare rischi, oppure bonificare rischiando di distruggere le rovine non ancora emerse? “È vero, le tecniche di bonifica bellica sono potenzialmente distruttive. Si può però procedere salvaguardando la sicurezza, prima di tutto, e i tesori. Ormai i metal detector permettono di individuare anche un chiodo fino a un metro di profondità. Noi procediamo così, metro per metro: prima l’analisi, poi la perforazione. Solo così potremo salvare i resti romani ed eliminare le bombe. Senza rischi”.

Non la troverete sulle guide, non ce n’è traccia su Wikipedia. Oltre 3,6 milioni di persone ogni anno visitano la città dei morti, ma quasi nessuno conosce quella dei vivi. La Pompei che non esiste.

È un confine, un simbolo, il cancello di Porta Marina: di là, la grandezza della Roma di ieri; di qui, l’eterno affanno del nostro Meridione. Chiedete ai turisti di mostrarvi le loro fotografie, non rimane nemmeno uno scatto da questa parte delle sbarre. Al massimo un click, niente più, davanti al suq di bancarelle senza ordine, senza gusto: statue di fauni – una volta almeno opera dei fabbri della zona, oggi pure loro made in China – accanto a riproduzioni di Cristiano Ronaldo; ma soprattutto falli di legno di ogni grandezza, grembiuli da cucina con il torace del David e un membro dalle dimensioni non proprio michelangiolesche, perché questa, strilla Antonio dal suo scranno, “era la città dell’amore”. E chissà se quei souvenir siano la caricatura di opere d’arte di ieri o la rappresentazione involontariamente fedele dell’oggi.

Giusto il tempo di attraversare la strada e correre veloci verso il pullman che aspetta a motore acceso. Di infilarsi nella stazione ferroviaria. Eccolo il biglietto da visita di Pompei: binari invasi da erbacce, cavalletti di lavori in corso. Un atrio che ti inzuppa i sensi di colori, strilli, odori, dove, zaino in spalla, si incrociano la scolaresca tedesca e il sikh con il turbante. Ad assediarli sedicenti esperti di storia che propongono visite guidate e si contendono la preda con venditori non ufficiali di biglietti (costo dell’ingresso, 15 euro).

Il passato, non c’è altro che il passato. Dal presente bisogna fuggire, al massimo ci si può concedere un panino seduti sul marciapiedi lambito dai rifiuti. Si può arraffare un menu non esattamente ‘vesuviano’ a base di hamburger e patatine fritte. Le due città si toccano per un istante al confine del cancello di metallo: poi via di corsa verso Napoli, la Costiera Amalfitana o l’aeroporto. E addio. Sarà per questo, poi, che quando è arrivato un imprenditore tedesco e ha proposto di costruire una ruota panoramica alta sessanta metri con vista sugli scavi in tanti hanno detto sì. E c’è voluto il ministro della Cultura, Alberto Bonisoli, per fermare l’effetto luna park: “Non se ne parla proprio”. Stop.

Davvero stenti a trovarla la Pompei dei vivi. Pare soltanto l’abbaglio d’asfalto della statale Tirrena, il groviglio dei cavalcavia e lo stridere della ferrovia. E poi case che stanno vicine, ma non ti sembrano un paese; strade che paiono non avere direzione, ma semplicemente proseguono dove trovano spazio tra orti, capannoni e abusi.

Ma aspettate, non è ancora questa l’“altra Pompei”. C’è molto altro. Seguite il campanile del Santuario, lì troverete il paese di oggi. Dimenticate le rovine, le Ville dei Patrizi. Le due città stanno accanto, quasi abbracciate, ma senza amore. Sono due mondi diversi. Tanto in una la vita emerge dall’assenza, dal silenzio delle stanze, quanto nell’altra brulica, spinge, rumoreggia.

Confluisce come un fiume verso il centro: il Santuario della Beata Vergine del Rosario di Pompei, che ogni anno richiama qui due milioni di persone (83 per cento sono italiani, e poi ci sono tanti polacchi). Un altro mondo rispetto a quello che visita la città romana. È nato tutto qui, non dalle rovine, questo comune che esiste soltanto dal 1928. E non c’entrano gli dei, ma soltanto la Madonna. Perché forse Dio non esiste più, ma ha pur sempre una madre. Poi vennero le vie, le case che riconosci non per lo stile, ma per quei colori chiari, mangiati dal caldo. Il Sud.

Un secolo, poco più. Prima erano solo terra nera, campi. Ma la storia da questa parte del confine non te la raccontano gli storici, gli archeologi. Devi andarla a raccogliere tra le bancarelle – rosari, crocifissi e, anche qui, statue di santi e calciatori – e i bar della via Sacra. “Pompei è nata da Bartolo Longo, quest’uomo oggi beato che nell’Ottocento a Napoli amministrava i beni della contessa Marianna De Fusco”, ti spiega davanti a un caffè Giancarlo Pascale, pensionato, che del passato di professore ha conservato il gusto del racconto, i gesti ampi delle mani. Bartolo, oggi beato, con la sua devozione per la Madonna, e forse anche per la contessa. Qui dove erano miseria – quella vera – e malattie, lui sognò un Santuario. Poi edifici immensi per gli orfani, arrivati da tutta la campagna vesuviana. Cresciuti e poi mandati per il mondo. “Bartolo – raccontano in paese, che sia storia o leggenda poco importa – nel magazzino di un rigattiere napoletano scovò il dipinto della Madonna del Rosario e lo portò qui una mattina su un carretto pieno di letame. E intorno a quella tela, liberata dai tarli e con i tratti ingentiliti con il ritocco di un pittore partenopeo, nacque una città.

Strano destino: famosa per un passato che non riesce a conciliarsi con il presente. Immersa nella periferia senza fine di Napoli, ma come se ci galleggiasse senza sprofondare. Qui la camorra, sarà forse per via della Madonna, non infila gli artigli con la stessa violenza che altrove (il Comune di Pompei fu sciolto per infiltrazioni nel 2001, nel 2005 toccò a Boscoreale e nel 2017 alla vicina Scafati).

“Pompei è una piccola Roma”, disse Vittorio Sgarbi che qui si candidò sindaco in una delle sue molteplici reincarnazioni politiche. Ma non soltanto per le rovine, “perché anche qui ci si divide tra soprintendenza, Vaticano e Comune”.

L’ha tenuta insieme la fede questa Pompei, come i rintocchi del campanile che scivolano sui tetti.

Era fatta di fede e mattoni Pompei. Ma mentre parli ai tavolini del Caffè Amato, senti ripetere le stesse domande: cosa è rimasto dietro le facciate dei collegi dove una volta crescevano centinaia di bambini? È frate Giuseppe Barbaglia che ti accompagna oltre il grande portone di legno dove la luce della strada diventa ombra e silenzio. È lui che ti precede negli interminabili corridoi dove senti risuonare i tuoi passi e ti pare di sentire ancora l’eco di conversazioni, giochi. Oggi nell’antico collegio non c’è più nessuno, interi piani lasciati alla polvere. Migliaia e migliaia di metri quadrati. E non è il solo caso, in questa città dove la città di Dio occupava più spazio di quella degli uomini. Proprio come a Roma, la Chiesa che arretra, da pastore di anime si fa anche pastore di turisti. Prendete l’Albergo del Rosario, nei pressi del Santuario: ci andavano i pellegrini, le gru stanno lavorando per trasformarlo in un hotel quattro stelle S, con tutti i comfort. Un investimento di 14,4 milioni del gruppo Diomira, sostenuto ampiamente da finanziamenti pubblici di Invitalia. Per non dire del seminario, una città nella città: palazzi, una chiesa, perfino una piscina lunga decine di metri per alleviare le fatiche dei religiosi.

Ma ora invece dell’acqua c’è terra. Nessuno sembra farci nemmeno caso, pare normale. E anche qui ecco fiorire progetti di recupero e trasformazioni in alberghi. Certo, potrebbe essere la svolta, finalmente l’abbraccio tra la Pompei dei turisti e quella degli abitanti. Ma potrebbero anche essere nuovi sprechi, proprio come lo scheletro dell’albergo costruito per i mondiali di Italia ’90.

I palazzi disabitati non si contano. Eppure a nessuno viene in mente l’idea, come suggerisce ancora Irlando, “di realizzare una scuola di restauro di reperti romani, un istituto di archeologia capace di attirare i ragazzi della zona creando competenze per garantire un avvenire”.

Non come i giovani disfatti dalla fatica e dal caldo che ti si parano davanti alla stazione promettendoti tour. Come i camerieri che si affacciano dalle porte di chioschi e ristoranti cercando di attirare i turisti mordi e fuggi.

Perché a Pompei i soldi non sono mancati. Di denaro ne è piovuto, ma è finito perso come l’acqua della Fonte Salutare – la fontana in pieno centro dove d’estate le famiglie allungavano la mano per bere l’acqua ferrosa – chiusa per l’inquinamento.

Così vedi i ragazzini giocare a pallone nelle piazze, nelle strade, in ogni angolo di cemento lasciato libero dalle auto. E pensare che di campi ce ne sarebbero eccome, vedi quello di Fossatello, uno dei tanti monumenti allo spreco della Campania: c’era il terreno di gioco, pure parte delle tribune e la cabina elettrica. Abbastanza, negli anni Ottanta, per organizzare un’inaugurazione, ricordano le cronache, alla presenza dell’onnipotente – all’epoca – Antonio Gava. Ma finì tutto lì, si giocarono solo alcune partite dei fantomatici giochi della gioventù. Oggi è soltanto abbandono ed erbacce.

Soldi e ancora soldi. Oggi tocca al progetto da 68 milioni di euro per eliminare quattro passaggi a livello, lungo la Circumvesuviana, e creare dei sottopassi. Ma la città è divisa, pesano i dubbi sull’utilità del progetto: a mancare è soprattutto la fiducia. E non bastano più le promesse, l’eterna occasione della nuova Pompei che vive accanto a un tesoro, ma se lo vede sfuggire tra le dita della mano.

Te lo dice anche Pietro Amitrano, commercialista che da due anni è sindaco della cittadina: “Abbiamo duemila posti letto tra hotel e bed&breakfast, molti alberghi si sono riqualificati e altri apriranno”. Eppure… “Eppure anche se abbiamo più di tre milioni di visitatori sono turisti mordi e fuggi. Gente che arriva con il sacchetto del pranzo fornito dagli stessi alberghi di Napoli”. Senza contare il Santuario.

Si sfiorano le due città, non si abbracciano. Lasciate che Irlando vi accompagni a vedere Villa Regina, proprio al confine con Boscoreale: al di là della rete le rovine della domus romana, i turisti francesi con la guida in mano. Di qua auto abbandonate, bambini che giocano a pallone in un prato spelacchiato. La vita si guarda dalla finestra, si raccoglie nel minuscolo bar nato spontaneamente in una stanza dei condomini; si cerca nei cerchi di sedie di plastica sistemate ai lati della strada come in un vicolo che invece non c’è. E non bastano gli assurdi tricolori appesi da chissà quale autorità ovunque lungo le strade; qui più che alle bandiere ci si affida alle statue di padre Pio messe a ogni angolo, in ogni giardino. Anche questa è Pompei. Il passato che emerge da sottoterra e il presente che si affaccia dai balconi: resta a guardare. Basta scendere una rampa di scale, arrivare tra le colonne della villa di Poppea, la moglie di Nerone, camminare lungo i bordi della piscina dove immagini l’Imperatrice fare i suoi bagni. Ma se alzi lo sguardo ecco il grattacielo che incombe, i motorini che sferragliano. Le vedette della camorra che annunciano la tua presenza, se superi il confine. È tutto lì, questione di sbagliare un incrocio, di svoltare a destra invece che a sinistra. Dalle stanze dipinte con i pavoni duemila anni fa, passi a strade che ti verrebbe da dire “sono in Africa”, e invece è Torre Annunziata. Italia.

Pompei della Villa dei Misteri, ma anche della Las Vegas fiorita proprio di fronte agli scavi. Appena fuggono i turisti ecco accendersi le luci sgargianti delle sale giochi: “Slot”, “bingo”, lampeggiano i neon. Il nuovo business della camorra che stringe sempre più il cerchio e da una macchinetta ricava migliaia di euro ogni giorno (fino a 14mila, dicono le inchieste). Non c’è più neanche bisogno della droga. Uomini e donne come ombre scendono dalle auto e si infilano nelle sale dove camminano camerieri con la cravatta troppo stretta e la camicia spiegazzata dal caldo. Si ritrovano qui le famiglie: Antonia, una madre secca secca con i due figli ormai uomini, tutti insieme a promettersi “questa è l’ultima” a ogni giocata. A ogni cartellina di bingo acquistata. Dai, è la volta buona, manca solo una crocetta, ma alla fine il numero non arriva mai e in venti minuti se ne vanno cento euro, un decimo dello stipendio da commessa. Le slot, come gli hamburger con le patatine davanti al cancello. “Basterebbe offrire quello che abbiamo, quello che siamo”, scrolla la testa Mario Falanga, mentre dal suo ristorante affacciato sugli scavi ti offre un piatto di pomodori più rossi e scintillanti di una Ferrari. E una mozzarella che ad affondarci il coltello zampilla latte. Già, basterebbe, e invece proprio accanto sventolano grembiuli con l’uccello del David.

Soltanto da lassù le vedi insieme, le due città e le due Italie, dagli ottantadue metri del campanile che domina la macchia degli scavi e la distesa senza forma, senza fine, dei condomini. A unirle, sullo sfondo, è soltanto il Vesuvio.

1 – Continua