Colpevole “a fin di bene”, “toghe impazzite”, “Solidarietà da Lega e FI”. Sembra il calvario di un martire, invece sono i titoli dei giornali sulla sentenza a carico di Beppe Sala, condannato a sei mesi per falso. Epilogo di una copertura opposta a quella riservata a Virginia Raggi, le cui vicende giudiziarie – terminate con un’assoluzione – hanno a lungo occupato le cronache. Per accorgersene bastava guardare i titoli sulle richieste delle Procure. Il 10 novembre 2018 i 10 mesi chiesti per la Raggi sono l’apertura del Corriere: “Di Maio, l’avviso a Raggi. Il pm chiede 10 mesi”. Così anche il taglio alto di Repubblica: “Il pm: condannate Raggi a 10 mesi”. Eppure il 14 maggio, giorno in cui raccontare i 13 mesi chiesti per Sala, la cronaca giudiziaria scompare. Sul Corriere si parla di striscioni anti-Salvini e alluvioni, ma non del sindaco. Idem su Rep, dove vengono preferite un’intervista a Di Maio e una a Carlo Messina. Si capisce allora il lutto di due giorni fa. Il Qn sancisce: “Colpevole a fin di bene”; la Stampa non riporta la notizia il prima; Repubblica la dà in un taglio basso e col cuore distrutto: “Expo, condannato Sala. ‘Un’ingiustizia, resterò sindaco’”, riportando la “solidarietà di Lega e FI”. Il Corriere, ben lungi da farne apertura del giornale, ci va coi guanti: “Sei mesi a Sala. ‘Un processo al mio lavoro’”, per poi riportare la versione del sindaco: “Vittima di uno scontro tra pm”. D’altra parte, come titola il Giornale, trattasi solo di “Toghe impazzite”.
Altro che “vizio di forma”: così Sala ha falsato gli atti
Condannato. Ma per un reato commesso “a fin di bene”. A onore e gloria di Milano e dell’Expo. È questa la reazione prevalente alla sentenza che ha comminato 6 mesi di reclusione (convertiti in una pena pecuniaria di 45 mila euro) a Giuseppe Sala, commissario dell’esposizione universale 2015 e poi sindaco di Milano. Per falso ideologico: per aver firmato il 31 maggio 2012, nella sua casa di Brera, due atti che cambiavano due commissari della più importante gara d’appalto Expo, quella della “piastra”, valore 272 milioni di euro. Ma la data scritta sui due documenti era antecedente e falsa: 17 maggio 2012. I due commissari, sostituiti da due supplenti grazie ai documenti con la data falsa, erano stati indicati dai manager attorno a Sala come probabilmente incompatibili. Avrebbero dovuto essere cambiati ricominciando da capo la procedura, ma questo avrebbe allungato i tempi e messo a rischio l’apertura di Expo, il cui cronoprogramma era in grave ritardo. Sala temeva di non riuscire ad aprire i cancelli della grande fiera nel giorno previsto, il 1° maggio 2015. Ecco dunque che furono forzate le procedure – in questo come in altri casi – e falsificati i due atti che ora costano a Sala la prima condanna mai inflitta a un sindaco di Milano in carica.
Si può commettere un reato “a fin di bene”? La Procura di Milano, allora guidata da Edmondo Bruti Liberati, decise di non indagare Sala, considerando la retrodatazione dei due atti “un falso innocuo”. Erano i mesi in cui Bruti (in contrasto con il suo aggiunto Alfredo Robledo), considerava necessario trattare Expo con la “sensibilità istituzionale” per cui fu poi ringraziato dall’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi. Fu la Procura generale, per iniziativa di Felice Isnardi, a giudicare “inerte” la Procura e ad avocare le indagini sull’esposizione universale. Fu sconfitta nel 2018, quando Sala fu prosciolto dal reato di abuso d’ufficio per aver affidato senza gara alla Mantovani spa la fornitura degli alberi di Expo, che furono poi pagati il triplo del loro valore. Ha vinto questa volta, con i sostituti procuratori generali Massimo Gaballo e Vincenzo Calia che sono riusciti a veder convalidate le loro ipotesi d’accusa. I giudici Paolo Guidi, Angela Minerva e Chiara Valori hanno riconosciuto a Sala, oltre alle attenuanti generiche, la ben più rara attenuante di aver agito “per motivi di particolare valore sociale”. La condanna è mite (6 mesi) e non fa rischiare l’intervento della legge Severino, che per questo reato fa scattare la decadenza da sindaco, ma solo per condanne definitive sopra i 2 anni. Tra quattro mesi, del resto, a mettere una pietra sulla vicenda arriverà la prescrizione (peraltro rinunciabile). Ma davvero si possono commettere reati “a fin di bene”? Bastassero le buone intenzioni, sarebbero del tutto inutili i codici, i giudici e il diritto. Gli psicologi e i preti si sostituirebbero ai tribunali. E chiunque, anche il peggiore dei criminali, potrebbe attribuirsi ottime motivazioni per i suoi comportamenti. Invece è certo che Sala abbia mentito, quando ha dichiarato di non essersi accorto di aver firmato due atti falsi, o almeno è certo che abbia agito con leggerezza non degna di un manager considerato meritevole di essere premiato con la candidatura a sindaco di Milano. “Faremmo un grave torto al dottor Sala”, ha detto in aula il Pg Gaballo, “se gli attribuissimo una tale negligenza e superficialità”.
Di certo il sindaco ha ripetuto la scena in voga ai tempi dei politici della Prima Repubblica, quando davanti ai giudici, il 15 aprile 2019, ha ripetuto per dieci volte “non ricordo”. Ha dichiarato di non essersi accorto “della retrodatazione dei verbali”: “Ho firmato migliaia di atti, non lo ricordo come uno dei passaggi più rilevanti della storia di Expo”. “Non ricordo quando e dove ho messo la firma”. “Non ricordo (la data sugli atti, ndr), per me l’importante era la parte sui sostituti commissari, non ho guardato la data”. Ha firmato due volte? “Non lo ricordo”. Chi portò i documenti da firmare? “Non lo ricordo”.
“Si è sacrificato per il bene di Milano”, dicono i suoi sostenitori. È inciampato in “un vizio di forma che non ha prodotto alcun effetto”: ma la retrodatazione è sostanza, non forma. Quanto agli effetti, ci sono eccome. E sono clamorosi: l’insuccesso di Expo avrebbe determinato la fine della sua carriera; il (parziale) successo gli è valso invece la poltrona di sindaco di Milano (e domani, chissà, l’ingresso a Palazzo Chigi).
Salamelecchi
Ieri chi ha avuto la sventura di leggere un qualunque quotidiano che non fosse il nostro s’è fatto l’idea che Giuseppe Sala, sindaco Pd di Milano, abbia subìto un vile attentato o un grave lutto. L’intera stampa si è stretta intorno a lui e ai suoi famigliari insieme al Pd, alla Lega e a FI per tributare alla vittima i sensi della più profonda commozione e della più sentita solidarietà, con incitamenti a resistere, a non mollare, a non darla vinta ai birbaccioni. Invece Sala è stato semplicemente condannato dal Tribunale di Milano a 6 mesi di reclusione (commutati in multa) per falso in atto pubblico. Motivo: il 31 maggio 2012, quand’era amministratore delegato di Expo2015, firmò un verbale (retro)datato 17 maggio: cioè il secondo atto di nomina della commissione aggiudicatrice del più grande appalto di Expo (quello della “Piastra” da 272 milioni), finalizzato a sanare il primo, quello che infilava in quell’organismo due commissari incompatibili. Un verbale falso per ripulirne uno illegittimo, evitare di rifare tutto daccapo e garantire il mega-business a chi doveva aggiudicarselo, ovviamente senza gara: il gruppo Mantovani, già coinvolto in Tangentopoli e ribeccato nelle mazzette del Mose. Un groviglio di illegalità giustificate con la solita fretta per i soliti ritardi nella realizzazione delle opere di un evento assegnato a Milano il 1° aprile 2008.
Di chi era la colpa dei ritardi? Sempre di Sala, Ad di Expo dal giugno 2010. Ma su quelle illegalità la Procura di Milano chiuse un occhio, anzi due, fino alla revoca delle indagini sulla Piastra al titolare, il procuratore aggiunto Robledo, da parte del suo capo Bruti Liberati, poi ringraziato per cotanta “sensibilità istituzionale” da Napolitano e da Renzi. Così Sala la scampò, mentre tutti i suoi principali collaboratori finivano in galera o sotto inchiesta, senza contare le retate per le infiltrazioni della ‘ndrangheta. L’Expo partì con un terzo dei padiglioni incompleti (7 anni e mezzo dopo l’aggiudicazione) e si chiuse con un buco di 2 miliardi: un trionfo. Nel 2016 la Procura generale notò l’inerzia della Procura e avocò l’inchiesta sulla Piastra, indagando Sala e ottenendone il rinvio a giudizio. E, l’altroieri, la condanna. Dunque, per il Tribunale, Sala è un falsario. E pure un bugiardo, per le balle che ha rifilato ai giudici, ai giornali e ai cittadini per difendersi: tipo che firmò i due verbali retrodatati “senza esserne consapevole”, per colpa di “avvocati incapaci” che ovviamente si era scelto lui). Come se il casino dei due commissari incompatibili da rinominare senza ripartire da zero non fosse il principale ostacolo al mega-appalto della Piastra.
E come se un manager potesse firmare atti il 31 maggio senza domandarsi come mai sono datati 17 maggio. Che farebbe, in un paese serio, un politico che falsifica verbali d’appalto, mente per evitarne le conseguenze e viene condannato? Si dimetterebbe ipso facto. È quel che si era impegnata a fare la sindaca di Roma Virginia Raggi, in base allo Statuto 5Stelle, in caso di condanna nel suo processo, anch’esso per falso, sia pure per fatti molto più veniali (una dichiarazione sulla nomina di Renato Marra alla direzione Turismo, in cui escludeva interferenze del fratello Raffaele, capo del Personale). Tutti i quotidiani le davano della falsaria e della bugiarda ben prima del processo e della sentenza, che attendevano con la bava alla bocca per levarsela di torno. Poi purtroppo la Raggi fu assolta, ma si trovò comunque il modo di darle della bugiarda, anche se il Tribunale ha accertato che disse la verità a lei nota, perchè le interferenze avvennero alle sue spalle, in una riunione senza di lei. Nessuno, dicesi nessuno, aveva mai ipotizzato che la Raggi potesse restare al suo posto in caso di condanna anche a un solo giorno. Ora invece il quadro si ribalta: il sindaco di un’altra metropoli – detta umoristicamente “capitale morale d’Italia” – viene condannato per falso e tutti lo implorano di non dimettersi (cosa che peraltro il falsario non ha alcuna intenzione di fare), sperticandosi in elogi, baci e salamelecchi. Da Zingaretti a Salvini a Toti (sono soddisfazioni). E i giornali (tutti) a ruota.
La condanna di Sala, sulle prime pagine, non è degna dell’apertura neppure in una giornata priva di notizie. Gli spazi sono addirittura inferiori alla richiesta di condanna per la Raggi. E il falso che ha portato alla condanna spariscono dai titoli, tutti occupati dalle dolenti lamentazioni di Sala e dagli alti lai dei suoi compari di partito e di casta. Il Corriere ha un titolino in basso a destra: “Sei mesi a Sala: ‘Un processo al mio lavoro’” (come se il suo lavoro fosse taroccare verbali d’appalto), sormontato dal rassicurante occhiello: “Il sindaco: ‘Vado avanti’” e corredato dall’editoriale strappalacrime di un affranto Venanzio Postiglione: “Nel labirinto italiano (aspettando i Giochi)”. La tesi è quella di Sala “un po’ condannato” (6 mesi sembrano pochi: si aspettavano l’ergastolo?) e del delitto a fin di bene: “meno male che ha sbagliato” perchè col falso “i lavori sono finiti in tempo” (balle: Expo partì largamente incompiuto). E poi le solite geremiadi sul Pg che “sconfessa i pm” (come se le Procure non fossero soggette alle Procure generali) e sulla “Bisanzio” dell’“intreccio di norme” in cui rischia di incappare il povero manager che “agisce”, mentre solo chi “resta immobile e impaurito non finisce indagato” (panzane: per non finire indagato, bastava che Sala non firmasse i verbali farlocchi). Il Venanzio piangente ora teme di perderlo: come faremo senza il condannato che “congela il mandato bis da sindaco e le ipotesi di leadership nazionale”? Fortuna che “la prescrizione, a novembre, renderà inutile l’appello” (fandonie: se Sala vuole appellare la condanna, non ha che da rinunciare alla prescrizione). Mirabile la chiusa postiglioniana: “A Milano fa caldo e si dorme poco”. Il che spiega le succitate corbellerie, ma anche gli altri titoli: “Il sindaco: io vittima di uno scontro tra pm” (lo statista non sa nemmeno distinguere fra Pg e pm, e nessuno gli spiega che l’hanno condannato 3 giudici di tribunale), “Una sentenza del genere, per un vizio di forma (vuole abolire pure il reato di falso?, ndr), allontanerà tanta gente onesta e perbene dalla cosa pubblica (almeno gli onesti che taroccano i verbali d’appalto, ndr)”. Repubblica, in prima, ha ben di meglio da raccontare: Gentiloni contro Salvini sui migranti (sorpresona) e la “nostra intervista esclusiva” a Carola (intervistata, sempre in esclusiva, anche da Spiegel e Guardian). Però uno spazietto per Sala a fondo pagina lo trova. Anche lì la sentenza è un’opinione (di Sala): “Expo, condannato Sala: ‘Un’ingiustizia, resterò sindaco’”. All’interno, anziché del reato, si dà conto della “solidarietà anche da Lega e FI” (tra condannati ci s’intende) e si intervista l’ex sindaco Albertini (“Sto con lui”: e meno male, si stava in pensiero).
Il Massaggero ha una caccolina in prima, mentre all’interno spiega che “retrodatò i verbali per far ripartire lavori” (falso più del falso di Sala) e intervista il capogruppo leghista Molinari, un altro che ha capito tutto: “Così amministrare è impossibile, bisogna abolire l’abuso ufficio” (infatti Sala è condannato per falso). Poi, per la serie Oggi le comiche, c’è La Stampa: mezza paginetta su Sala a pagina 8 e nemmeno una riga in prima, occupata da ben altri notizioni: “L’estate calda dei treni”, “Pernigotti, niente intesa: il passo indietro del re del gelato”, “Il mago-artista che crea manichini e maschere di mostri”, “Il baby batterista tra scola elementare e concerti in Germania”, “Feticcio o status symbol: così la scarpa svela la nostra personalità”. Molto meglio degli house organ di FI e Lega che, con quel che digeriscono ogni giorno, hanno stomaci fortissimi. Il Giornale: “Toghe impazzite. Indagano su Sala per un successo” (in realtà lo condannano, ma fa lo stesso). Il Foglio: “Sala condannato in base a un ‘ragionamento’. La singolare motivazione della sentenza” (sarebbe un verbale retrodatato e la motivazione sarà nota fra due mesi, ma che sarà mai). Libero: “Sala condannato per il successo Expo” (sarebbe per falso, ma fa niente). Del resto è lo stesso Sala a confidare a Repubblica, restando serio: “Ho ricevuto più sms positivi oggi che quando abbiamo portato a casa l’Olimpiade”. Non è meraviglioso? Per i Giochi bisognerà purtroppo attendere l’inverno del 2026, ma lui ha già vinto la medaglia d’oro. In falso con l’asta, falso in alto e falso in lungo.
L’Ultimo dei giovani cantautori che ancora riempiono gli stadi
Quattro generazioni. Un bambino, che ha diritto di credere nelle favole. Un ragazzo, che confessa di “voler bruciare le tappe”, perché il sogno non svanisca a un passo da lui. Un fratello maggiore, che ha l’anima livida a forza di colpi, ma è riuscito ad andare avanti. E uno zio sapiente, nume tutelare depositario di memorie e illusioni di un tempo perduto.
Il bambino si chiama Andrea: Ultimo lo ha scoperto a ricantare le sue cose sui social, e lo ha tirato su sul palco, di fronte ai 60mila dell’Olimpico, per il coro infantile di Poesia senza veli. Il fratello di San Basilio è Fabrizio Moro, che due anni fa regalò l’opening del suo show al Palalottomatica allo sconosciuto fan Ultimo, e l’altra notte era allo stadio per duettare su Portami via e L’Eternità. Lo zio è Venditti: e la cerimonia di incoronazione dell’erede inizia con una sorpresa, quando Ultimo mostra all’idolo il filmato del suo primo saggio, a 13 anni, con una cover di Roma Capoccia, la gemma che Antonello aveva scritto a quella stessa età. Inevitabile riproporla insieme dal vivo, e inoltrarsi nell’innologica “Notte degli esami” prima del discorso di investitura di Venditti che vede nel collega “una persona speciale” come anche lui era stato da giovane.
Quattro generazioni si sono saldate nel rito di osservanza capitolina con cui Ultimo è stato designato portavoce dei ventenni assetati di appartenenze: quelli che hanno voglia di credere in qualcosa (senza sapere bene cosa, se non forse l’amore) e di non farsi abbindolare dai trombettieri dell’odio o della depressione ostentata sui social, né tantomeno dagli effimeri divi del pop e del post-indie allineati e coperti dietro il cliché grottesco dei tormentoni Latin-balneari in chiave reggaeton.
No, il bellissimo concerto con cui Ultimo ha concluso a Roma una trionfale tournée nei palazzetti, annunciando una stringa di altre esibizioni negli stadi tra dodici mesi, è un punto di non ritorno per tutti. Per lui, che ha mostrato grinta, incoscienza ma anche un repertorio già solido, frutto di uno studio cominciato a otto anni a Santa Cecilia che gli ha permesso di dominare l’Olimpico come se avesse il doppio dei suo 23 anni. E soprattutto per gli artisti suoi coetanei, che hanno già assunto la fastidiosa posa del “che palle il successo, io sono qui per caso, non è colpa mia se mi adorano”: occhio, ragazzi. Calcutta non fa i pienoni nei live, e la vendita dei biglietti per i Thegiornalisti al Circo Massimo va a rilento.
Ultimo ha dimostrato che devi farti sempre un mazzo così, se vuoi arrivare al cuore della tua gente: l’altra sera ha ricordato che l’8 luglio 2017 suonava a Testaccio davanti a dieci spettatori. Giovedì il sold-out all’Olimpico era reale, non gonfiato come in certi tristi casi, e di momenti evocativi ce ne sono stati più d’uno: alla fine di Pianeti, i telefonini illuminati hanno trasformato prato e gradinate in un campo di stelle, con tutti a cantare le strofe all’unisono. Ed è parsa sincera la commozione del Nostro sul bis di Sogni appesi, quando si è reso davvero conto di cosa gli stava accadendo attorno, e ha gridato: “Abbiamo vinto noi, gli ultimi!”. Potrebbe essere così.
È il più giovane italiano a conquistarsi uno stadio, con quel carisma da nuovo-vecchio cantautorato colorato da un fiero tocco vernacolare. Lo ha dimostrato declamando l’inedita Poesia per Roma, scritta a Capodanno su una spiaggia esotica, davanti a una imprevedibile bandierina giallorossa vista sulla battigia. Una poesia in cui Ultimo ti racconta che la sua città non è solo Colosseo, ma anche “’sta panchina rotta che da’ sogni a quer pischello”. E per scrivere di Roma, spiega, bisogna mettersi “du’ guanti”, perché merita rispetto. E figli che sappiano cantarla, non mortificarla.
Addio Gregoretti, maestro del “bozzetto” televisivo
Se n’è andato a 88 anni uno dei registi più garbati e meno pacificati del nostro audiovisivo, Ugo Gregoretti. Natali a Roma il 28 settembre del 1930, battesimo televisivo con il documentario La Sicilia del Gattopardo nel 1960, e poi il cinema, il teatro (diresse anche lo Stabile di Torino), la lirica, la letteratura e la politica, dall’adesione al partito Comunista alla presidenza dell’Anac, l’associazione degli autori cinematografici.
Destino beffardo, in fondo, perché la transizione dal piccolo al grande schermo gli fu tutt’altro che indolore: nel 1964 Le belle famiglie venne stroncato dalla critica, perché – ricordò nel 2006 al Napoli Film Festival – “la mia provenienza televisiva era un marchio di illegittimità, non mi veniva perdonata”, e per i successivi cinque anni avrebbe abbracciato solo la telecamera. Del suo cinema, peraltro, molto si dovrebbe dire: Gregoretti aveva lo sguardo lungo, nonostante prediligesse il formato corto, ovvero quella struttura episodica che ne esaltava la capacità di sintesi e la visione d’insieme. A episodi è Le belle famiglie, che si fa beffe dell’istituzione familiare, analogamente l’esordio di due anni precedente, I nuovi angeli, in cui piazza la macchina da presa tra i giovani e fotografa lo stato dell’arte da Trieste in giù, dagli operai milanesi ai borghesi napoletani, dall’involuzione dei siciliani all’evoluzione sessuale femminile. L’esprit è de finesse, Ugo ha il dono del tratteggio, il gusto epigrammatico, il talento bozzettistico, e della libertà nutre un desiderio non negoziabile: in televisione ebbe più agio, giacché – dichiarò sempre a Napoli – “il cinema obbligava a compromessi mortificanti, il padrone era il mercato; in tv ero invece libero di usare gli attori che volevo, purché costassero poco, e non mostrassi tette e posteriori scoperti”.
Il suo film da non dimenticare è Omicron, in cui satira sociale e fantascienza vanno a braccetto: un alieno veste la tuta blu, recepisce l’alienazione della fabbrica, incita allo sciopero e… finisce per veicolare il pessimismo engagé di Gregoretti. Ma il titolo più icastico, e forse più esemplare del suo percorso artistico, è Ro.Go.Pa.G., altro lungometraggio a episodi: al cospetto di Roberto Rossellini (Illibatezza), Jean-Luc Godard (Il nuovo mondo), Pier Paolo Pasolini (La ricotta, di gran lunga il capitolo migliore e il più celebre), Gregoretti deve cedere una lettera, limitarsi a una G puntata, ma sempre puntuta. Perché Ugo non molla la presa sul reale, ovvero sull’influenza perniciosa della pubblicità e della persuasione al consum(ism)o, con Il pollo ruspante.
Lo era anche il cinema italiano, ruspante, ma – rimbrottò nel 2006 – “oggi i nostri governanti sostengono che il film è merce, gli negano il valore di prodotto culturale, commerciandolo come fossero bottoni o salumi”. Viceversa, dovrebbe “riconquistare quel peso, quell’importanza e quella capacità di attrazione che aveva negli anni Sessanta”. Richiamava alla pugna, Gregoretti, alle difficoltà che aguzzano l’ingegno e affinano lo schermo: “La censura ci aveva fatto diventare dei combattenti, oggi non c’è più quello slancio, non succede più come a De Sica di essere scoperto a barattare parole con un produttore, a suon di ‘d’accordo, io ci levo stronza, ma lascio puttana’”.
Forse anche Gregoretti barattò, ma senza svendersi mai, che si trattasse di osservare il costume in tv, da Controfagotto del 1961 al Circolo Pickwick del ’68, o di portare le lotte operaie sul grande schermo, con il dittico documentario Apollon. Una fabbrica occupata (1969) e Contratto (1970). Fu progressivamente quello del reale il suo cinema, dove travasare la propria militanza a voltaggio umanitario: da Vietnam scene del dopoguerra (1976) a Un altro mondo possibile, instant-doc collettivo sul G8 di Genova realizzato nel 2001.
Attore, tra gli altri, per Ettore Scola (La terrazza), Daniele Luchetti (Domani accadrà) e Gianni Di Gregorio (Buoni a nulla, 2014), scrittore (Pinocchio (mal) visto dal Gatto e la Volpe, con Andrea Camilleri) e drammaturgo (Purgatorio 98), ha saputo – come recita la motivazione del Premio giornalistico Ilaria Alpi ricevuto nel 2009 – essere “sempre uomo d’alto impegno intellettuale e civile”. Non resta ora che augurargli di realizzare appieno la sua autobiografia, edita nel 2006: Finale aperto.
Caduta pigne, la monnezza e le ciabatte: che Strega di M
Ninfeo di Villa Giulia, serata di celebrazione del Premio Strega numero 73; tra i tavoli si fa un gran vociare, dibattere, accapigliarsi: sì, ma sui rifiuti di Roma. Oltre a puzza e monnezza, l’argomento più gettonato è il ritorno di Gigi Buffon alla Juve; seguono pettegolezzi sulla famosa scrittrice senza reggiseno. E senza più l’età.
Caldo, vino scadente, vino scadente rovesciato sui vestiti, lungaggini (quasi cinque ore di cerimonia), una competizione loffia, una vittoria scontata: è proprio lo Strega di M.
Diamo i numeri. M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati – neo cinquantenne: aveva gli oroscopi dalla sua parte – stravince con 228 voti su 556 (votanti dei 660 totali). Seconda Benedetta Cibrario con Il rumore del mondo (127 voti; Mondadori); terzo Marco Missiroli con Fedeltà (91 voti; Einaudi); quarta Claudia Durastanti con La straniera (63 voti; La nave di Teseo); quinta Nadia Terranova con Addio fantasmi (47 voti; Einaudi). “Antonio, Antonio!”, si grida al tavolo del premiato: Antonio sta per Franchini, non Scurati, l’editor del gruppo Giunti-Bompiani considerato tra i più potenti d’Italia nonché mente dell’operazione su Mussolini e dintorni, quindi vincitore occulto di questa edizione.
Ma come ti vesti. Più ciabatte che tacchi, più paccottiglia che gioielli, più Autan che Chanel: il dress code è lo stesso del concerto di Ultimo, l’altro super evento del giovedì sera romano. La più in tema è una signora di (pizzo) nero vestita, stile “sposa cadavere” di Tim Burton: il romanzo è morto, dice. E lei è la “critica dark (sic) più importante del Paese”. Dei balocchi.
Impiattamento. Il menù è diversamente estivo: gnocchi alla romana e parmigiana di melanzane. Serviti freddi. “Possibile che qui non ci sia un buffet?”. “Ma questo, signori, è proprio un imbroglio…”: l’ha scritto Dostoevskij, già Amico della domenica in tempi non sospetti. Putin in visita nella Capitale non c’entra; al massimo gli si può imputare la sparizione dei taxi da mezzanotte in poi: deve averli prenotati tutti lui.
Beviamoci su. Beneventum, Fiesta, Garden, Tonica: i nomi dei cocktail, a base di liquore Strega, sono meno invitanti delle caramelle dagli sconosciuti. E pure più dolci. Vini e prosecchi sono i classici da mal-di-testa-del-giorno-dopo (coi trattini che sbattono tra i neuroni) e “l’acqua Nepi smacchia meglio della San Pellegrino”, sussurra un cameriere gentile alla ragazza che si è appena rovesciata l’Aglianico addosso. Ma non è quella la mossa più cafona della serata, bensì il trito e ritrito rito – ogni anno benedetto – di scolarsi lo Strega direttamente dalla bottiglia, come fosse sciroppo. Non a caso, il colore è lo stesso della famosa soluzione depurativa. O forse è la soluzione depurativa stessa.
Aggiungi un posto a tavola. Tra i fortunati possessori di posto a sedere (e quindi desco per mangiare) c’è Andy dei Bluvertigo: sguardo stralunato e giacca lilla, è attovagliato accanto a Dacia Maraini, e più spaesato di Morgan in casa Sgarbi. Viceversa sciantosi e garruli, decisamente a proprio agio, gli altri ospiti vip: Francesco Rutelli e Barbara Palombelli, Caterina Balivo e Guido Maria Brera, Remo Girone, Piera Degli Esposti, Fausto Bertinotti, Clemente Mastella, Corrado Augias, Claudio Lotito… Lotito?
È uno sporco lavoro. Quello dell’operatore Rai, ma qualcuno deve pur farlo. A fine serata, i tecnici della rete – che ha trasmesso la finale in diretta – sono più arrabbiati di Missiroli, il vincitore annunciato a febbraio, ma solo a febbraio. In finale ha persino rischiato di finire penultimo. Quelli della Rai, intanto, hanno dovuto stravolgere la scaletta più e più volte: un ospite non si trovava, un’altra non era proprio pervenuta, un terzo aveva poco da dire, un quarto aveva troppo da ridire.
Cherchez la femme. Qualche intellettuale si aggira per il Ninfeo. Pochi, ma buoni, si riconoscono dalle accompagnatrici: giovani, carine e chiaramente disoccupate.
Che paura. Tra uno sbadiglio e l’altro, l’unico momento adrenalico della serata è sulla via della toilette, dove un cartello minaccioso avverte: “A causa della probabile caduta di pigne i visitatori sono invitati a seguire i percorsi segnalati”. Per sicurezza, è meglio non andarci proprio, al bagno. E tenersela fino a casa: mancano solo quattro ore e mezza.
Neanche May si fidava di Johnson: era all’oscuro dei file top secret
Sulla corsa alla successione a Theresa May piomba una notizia bomba: i vertici dei servizi segreti di Sua Maestà avrebbero tenuto Boris Johnson, oggi il candidato favorito, all’oscuro dei dossier più riservati quando era Ministro degli Esteri. Lo scoop è del tabloid The Sun, ma è confermato anche dalla più austera Bbc. E l’ordine sarebbe arrivato direttamente dalla May, preoccupata per l’inaffidabilità di Johnson.
Una diffidenza nata anni fa, quando Theresa May era Ministro degli Interni e Johnson, allora sindaco di Londra, si sarebbe fatto scappare informazioni confidenziali.
E continuata in seguito, con incontri fra la May e i vertici della sicurezza a cui, anche nel ruolo cruciale di Ministro degli Esteri, lui non era invitato a partecipare. Una rivelazione molto imbarazzante, ora che Johnson sembra destinato a diventare capo del governo e proprio di quei servizi di sicurezza che, se questo scenario dovesse rivelarsi reale, lo considerano inaffidabile. Per fonti vicine a Boris, il problema non era tanto la “bocca larga” di Boris, ma la paranoia di Theresa May, maniaca del controllo e politicamente ostile a Johnson.
La replica tiepida di un portavoce di Downing Street: “non discutiamo di questioni di intelligence, ma Theresa May aveva fiducia nell’allora Ministro degli Esteri”.
In fondo, lo aveva scelto lei.
“L’ha detto la tv”: gli italiani credono ancora al Tg (o ai social network)
Qual è il rapporto fra pubblico e media? Come vengono consumate le notizie? Qual è il livello di fiducia dei lettori nei mezzi d’informazione? L’impatto dei social? Le tendenze? Da otto anni l’analisi più completa e aggiornata è nel Digital Report del Reuters Institute for the Study of Journalism, autorevole centro di studi sul giornalismo dell’Università di Oxford.
L’edizione 2019 è il risultato di 75mila interviste in 38 paesi. E fotografa una tendenza inarrestabile: in tutto il mondo, la carta stampata è in declino, le notizie vengono lette online, sempre più sui telefonini, e sempre più attraverso i social. Interessante il caso italiano, dove c’è un massiccio utilizzo dei social da parte di forze politiche come i 5Stelle e Lega e Matteo Salvini è in assoluto il politico europeo con più followers su Facebook. Con il 78 per cento di utenti, la televisione è ancora la principale fonte di notizie, ma è tallonata dall’online con il 76 per cento. I social sono la principale porta d’accesso alle notizie online soprattutto per i giovani (18-24 anni) mentre in soli sei anni, dal 2013, la quota di consumo della carta stampata è scesa dal 59 al 25 per cento. Cresce però l’interesse per i podcast, al 30 per cento. E la fiducia? È associata al brand: su scala nazionale in Italia vince l’Ansa, Il Fatto quotidiano è al nono posto. Ma in generale, è un tasto dolentissimo. Solo 40 italiani su cento si fidano dei mezzi di informazione, un calo del 2 per cento in un anno: fra le ragioni, l’eccessiva partigianeria e dipendenza dalla politica. Che il giornalismo faccia in modo efficace da cane da guardia del potere lo credono solo 33 italiani su cento, percentuale da fondo classifica. In Francia sono 47, nel Regno Unito 42, e in tutta Europa cresce il numero di chi evita attivamente le notizie. Le ragioni? Per il Regno Unito la nausea da Brexit, per la Francia quella da saturazione di notizie sui Gilet gialli.
Non funzionano gli esperimenti di paywall. Quella di abbonamenti, donazioni o sottoscrizioni è una strada tentata dagli editori per rimediare al calo di vendite e alla migrazione degli investimenti pubblicitari su piattaforme come Facebook e Google. Ma per ora non salverà l’industria. La nazione più forte è la Norvegia, con solo il 37 per cento di abbonamenti. In Italia non si supera il 9 per cento, negli Stati Uniti, grande laboratorio di innovazione giornalistica, le sottoscrizioni sono stabili intorno al 16 per cento ma monopolizzati da testate come il New York Times e il Washington Post. E si pone un problema di uguaglianza nell’accesso all’informazione di qualità, che non tutti si possono permettere.
E poi, gli effetti del populismo sulle notizie, un tema così rilevante che il Rapporto gli dedica una capitolo a parte. I lettori con tendenze populiste sono in crescita in particolare nell’Europa orientale e meridionale e fra i gruppi di lettori più anziani, con redditi e istruzione più bassi, che si informano sui canali tv commerciali e i giornali scandalistici. Il rischio? La scomparsa dell’informazione di qualità, schiacciata da modelli di business insostenibili e dalla concorrenza di Big Tech. L’impatto sulla democrazia? Il dibattito è aperto.
“Abbiamo colpito la classe media: eravamo in guerra”
Arriva con trucco pesante “sono appena uscita da uno studio televisivo”. Theano Fotiou, 72 anni, è la ministra degli Affari sociali. Apre lei stessa il grande ufficio di Exarchia, il quartiere simbolo dell’anarchia ateniese. “Questo è il mio studio d’architettura – parla e sposta disegni e modellini in cartone – lavoravo qui e insegnavo al Politecnico prima dell’impegno nel governo”. La ministra è il volto delle grandi battaglie sociali di Syriza: le carte prepagate per i generi alimentari, l’elettricità gratis per chi non può pagare le bollette, il sostegno all’affitto per 100 mila famiglie a rischio sfratto.
I sondaggi vi danno molto indietro. Vincerà Mitsotakis?
Il grande successo di Nea Demokatria, di Mitsotakis, è avere cancellato dalla memoria di tanti greci il periodo dal 2009 al 2015. La corruzione portò allo stallo economico e da lì alla più grande crisi umanitaria europea. A una parte della popolazione sembra che i problemi siano iniziati con Tsipras, con Syriza.
Quando nel 2015 è entrata al Ministero cosa ha trovato?
C’erano 54 impiegati. Troppo pochi per far fronte alla situazione. Il paese aveva perso il 25 percento dei posti di lavoro. La gente moriva di freddo, non aveva da mangiare. 400 mila imprese hanno chiuso. Decine di migliaia di famiglie erano senza elettricità. Condizioni da un paese in guerra. Abbiamo deciso di togliere alla classe media, ai più ricchi, per far sopravvivere i più deboli.
La situazione è cambiata?
Durante la crisi abbiamo perso 1,3 milioni di posti di lavoro. Syriza ne ha ricreati 400 mila. Ma c’è una parte della popolazione che non vuole ricordarsi quale era la situazione quando siamo arrivati al governo.
Qual è stata la ricetta di Syriza?
Abbiamo fatto una sintesi delle necessità del paese. Alcune azioni sono di destra in uno Stato e in determinate condizioni, ma possono essere di sinistra in un altro posto, in altro momento. In alcuni casi misure contro la povertà sono populiste altre volte necessarie. Nel nostro governo, abbiamo avuto dei capisaldi. Siamo un partito di sinistra radicale con dei principi marxisti.
Cioè le carte di sostegno al reddito del suo Ministero sono molto diverse dal Reddito di cittadinanza italiano?
Il mio staff collabora con il vostro governo. Conosco bene questa misura. Si può dire che l’abbiamo fatta assieme. In Grecia siamo diventati esperti in povertà, è il campo dove, negli ultimi anni, abbiamo sviluppato maggiori competenze. Le misure che abbiamo adottato qui non possono essere riutilizzate altrove. Sono cucite addosso al nostro paese. Non sono replicabili altrove, devono essere ripensate. Oggi l’Italia ha un altro problema, non è la povertà. Voi dovete affrontare la questione dei rifugiati, quello è il vostro problema, una vergogna per tutta l’Europa.
Se Tsipras ha fatto tutto bene, tutto per il bene del popolo, perché andrà all’opposizione?
La struttura del sistema politico greco, l’informazione spinge a votare ancora e ancora le stesse persone, gli stessi gruppi di potere. Nella famiglia Mitsotakis tutti sono in politica e come se si tramandassero il potere. La grande sconfitta di Syriza è stata non saper comunicare con i greci. I media sono tutti in mano alle grandi famiglie, agli oligarchi e sono tutti contro Syriza.
Ma una delle prime azioni del governo è stata la riapertura i Ert, la tv pubblica.
Quella è la televisione di Stato, non è un organo di stampa del governo, né la tv di Syriza. Inoltre non può molto contro la tv commerciale. Ert è un’emittente seria, non crea sottocultura. Non ammorba il telespettatore con i reality e le serie. Nella struttura sociale attuale, dove tutto passa in fretta, questa scelta di approfondimento ha un’audience bassa, circa il 6 per cento.
Qual è l’eredità dei governi Tsipras?
All’interno del partito ci lasciamo qualcosa in eredità. Abbiamo imparato, siamo più saggi. Ora sappiamo che la retorica della sinistra non è abbastanza, non sapevamo come governare. Per imparare ci siamo chiusi nei nostri uffici e così abbiamo perso la connessione con le piazze. Io ho capito che essere radicale, e lo ripeto, Syriza è un partito radicale, vuol dire fare il meglio per la maggioranza.
Perché i greci non l’hanno capito?
Syriza è un fenomeno internazionale. Abbiamo governato quattro anni e mezzo senza l’appoggio dei media, con i sindacati contro, senza sindaci, senza soldi, senza connessioni nelle grandi istituzioni pubbliche e in quelle finanziarie. Penso che gli storici avranno molto da studiare sul nostro lavoro, sul nostro governo. Siamo riusciti a portate al potere le richieste del popolo, di chi in questo sistema non ha mai avuto voce.
Tsipras: “Mitsotakis userà il tesoretto lasciato da noi”
A giudicare dalla poca gente accorsa ai comizi degli ultimi giorni di campagna elettorale ad Atene, il partito dell’astensionismo potrebbe rivelarsi il vero ago della bilancia delle elezioni di domenica in Grecia. Il premier Alexis Tsipras ieri sera avrebbe dovuto tenere il suo discorso alle 20 nella piazza del Parlamento ma, a causa del pubblico scarso, ha iniziato dopo quasi due ore. Gli organizzatori di Syriza hanno assiepato i militanti sotto il palco a favore di telecamere, come aveva fatto l’altro ieri il servizio d’ordine di Nea Demokratia, per non parlare del comizio di Varoufakis andato praticamente deserto. “Mitsotakis non diminuirà le tasse come promette, sta prendendo in giro gli elettori. Se lo farà sarà solo perché userà il surplus economico che siamo riusciti a mettere da parte con tanti sacrifici”, esordisce il premier sul palco. “Inoltre – aggiunge – vuole aumentare le pensioni e se lo farà creerà un buco enorme nel bilancio. Ma la cosa più grave – avvisa Tsipras – è che con Nea Demokratia al potere il servizio sanitario alla fine sarà privatizzato così i poveri non potranno più curarsi”, chiosa.
Ma secondo lo scrittore ed editorialista del quotidiano Ekathimerini, Takis Theodoropulos, uno dei più autorevoli intellettuali e classicisti greci, perseguitato al tempo della dittatura dei colonnelli, “Syriza ha messa in pericolo l’identità europea scommettendo – dal 2015 quando andò al governo – sullo spirito anti-europeo che deflagrò a partire dall’inizio della crisi dieci anni fa”. Secondo il saggista, “Alexis Tsipras, prima di vincere le elezioni nel 2015 aveva preso di mira Angela Merkel in quanto protagonista dell’Unione europea accusandola di trattare i greci come fecero i nazisti durante l’occupazione. In questo senso ha cercato di avvicinarsi alla Russia e alla Cina come alternativa. Di conseguenza fece il referendum del 2015 per orientare il volere del popolo greco contro l’Ue, riuscendoci grazie al risultato emerso dalla urne del 60 per cento”. Però lo stesso Tsipras poi non tenne conto di questo risultato contro la Ue facendo la cosiddetta kolotumba, ovvero trasformando il No in Sì. Perchè ha capito che era più facile per lui consolidare il proprio ‘regno’ con l’aiuto dell’Europa, come infatti è accaduto, trasformandosi in un cortigiano di Bruxelles invece di diventarne un partner. Così facendo ha dichiarato guerra alla classe media mostrando un vero disprezzo verso la piccola borghesia come gli hanno riferito teorizzasse Lenin”. Le conseguenze? “La sanità è collassata e nello stesso tempo Tsipras ha tentato di stabilire un regime controllando i media e la magistratura”. E se gli chiediamo come a suo parere l’opinione pubblica veda Tsipras e perché voterà in maggioranza Nea Demokratia, lo scrittore risponde che “l’arroganza è molto importante per noi greci. Non dimentichiamoci che la civiltà greca fin dalle origini è fondata sul sentimento della vergogna. Tsipras e la sua cricca se ne sono dimenticati per mancanza di cultura”. Per il saggista “i greci sono stanchi dell’inerzia che Syriza ha elevato a sistema di governo e ne ha fatto un modello di società. E sulla scelta di Nea Demokratia pur essendo questa responsabile dell’arrivo della Troika, Theodoropulos ricorda che “nel dicembre 2014 con Nea Demokratia al potere, i creditori hanno chiesto di aumentare le misure di austerity di 1 milardo di euro. Nell’agosto 2015 Tsipras ha firmato un nuovo memorandum da 80 miliardi di euro. Inoltre il governo Syriza assieme al partner di coalizione di estrema destra nazionalista di Kammenos ha dimostrato, suo malgrado, che i 3 memorandum erano indispensabili per la sopravvivenza della Grecia nell’Unione, come diceva fin dall’inizio Nea Demokratia”. Come dire: meglio l’originale di una replica ipocrita. Per lo scrittore “che sia quello dei docenti scolastici, dei dirigenti dei ministeri ai quali Syriza ha aumentato il potere di ricatto nei confronti della società, le tasse perverse imposte da questo governo sono state messe appunto dai burocrati del ministero delle Finanze”. È la tesi di Varoufakis, l’ex ministro delle Finanze cacciato persino da Tsipras che pare abbia una chance con il suo neo partito Mera 25 di superare la soglia di sbarramento ed entrare in Parlamento. “Varoufakis è un pagliaccio narcistista e i provincialisti amano questo tipo di intrattenimento”, chiosa Theodoropulos.