Consulenze, sprechi e missili: i guai di Ursula, la “Lady Ue”

La reputazione di Ursula von der Leyen è migliore all’estero che in patria, è un fatto. È molto amata nei paesi Baltici e nei paesi di Visegrad per il sostegno di questi anni come ministra della Difesa in chiave anti-russa ed è portata in palmo di mano dal presidente francese Emmanuel Macron per “il dna della comunità europea” e per il suo “essere perfettamente francofona”. Ma non è così che la vedono in patria, dove per il 56% dei tedeschi la candidata designata alla guida della Commissione Ue non è adatta al ruolo, secondo il sondaggio di oggi per Ard.

La spiegazione è facile: la ministra con il parterre più europeo che la Germania possa offrire lascia al ministero della Difesa una lunga scia di fallimenti e di inchieste aperte. Secondo la Corte dei Conti tedesca tra il 2015 e il 2018 sono stati aggiudicati dal ministero della Difesa in modo non corretto contratti con esterni per un valore di 200 milioni. Per questo a marzo si è aperta una commissione parlamentare di inchiesta ancora in corso che dovrà vagliare 1600 folder da 500 pagine l’una e dare udienza a 36 testimoni.

 

La super-nave da 10 a 135 milioni. Ancora ferma

Quando è arrivata al dicastero nel 2013 von der Leyen aveva obiettivi ambiziosi: modernizzare e risollevare le forze armate sempre più a secco di risorse, potenziare i sistemi di difesa, rivoluzionare le prestazioni con un nuovo sistema di digitalizzazione e il progetto di una cyber security. Per fare tutto questo c’era da invertire la rotta dei tagli ed è quanto è successo a partire dal 2015, quando per la prima volta dalla riunificazione delle due Germanie, il budget della Difesa ha ripreso a salire, complice la guerra in Ucraina e l’annessione russa della Crimea. Per razionalizzare le spese nel 2014 viene nominata la ex-McKinsey Katrin Suder come sottosegretaria alla Difesa. Ruder, che si porta dietro una scia di consulenti tutti rigorosamente ex McKinsey, resta fino al marzo 2018. Quando se ne va i progetti sulla carta sono aumentati, gli esborsi per le consulenze sono saliti ma i risultati languono. Le forze armate rimangono mal equipaggiate, mal armate e i progetti restano sulla carta.

La Corte dei Conti comincia a indagare e diversi programmi finiscono sotto la sua lente: la corazzata multiuso MKS180, il sistema tattico di difesa aerea (TLVS), il progetto di Product-Lyfecycle Management per la gestione delle informazioni nelle Forze armate (PLM@Bw), il progetto di informatizzazione chiamato CITquadrat. E infine la nave di addestramento Gorch Fock, che con il suo lievitare infinito dei costi di ristrutturazione ha assurto a simbolo delle spese incontrollate e incompiute del ministero.

Ristrutturare la nave avrebbe dovuto costare 10 milioni di euro, ne sono stati spesi più di 70 e si è poi fissato il tetto limite di 135 milioni di euro. Ma la nave è ancora in cantiere a Brema, e non si sa quando entrerà davvero in acqua. A destare il maggiore interesse dei revisori è stato lo sviluppo del progetto fiore all’occhiello della marina, la corazzata multiuso MKS 180.

Dai documenti riservati della Difesa, presentati in un’inchiesta di Spiegel, si legge come McKinsey abbia ottenuto dei ricchi contratti di subappalto senza gara. “L’acquisto delle quattro navi corazzata Mks 180 pesa nel bilancio federale per un totale di 5,3 miliardi di euro” ha detto a gennaio scorso il sottosegretario della Difesa Thomas Silberhorn, peccato che nel bilancio dell’anno precedente la previsione di spesa, secondo lo stesso sottosegretario, fosse di 4,2. Su 65 contratti di consulenza in 47 casi i revisori non hanno trovato giustificazioni che spiegassero la necessità della consulenza. Inoltre la Corte ha rilevato che la stragrande maggioranza dei funzionari di von der Leyen aveva firmato contratti con trattativa privata.

 

Il fattore-McKinsey e i 2 figli assunti

McKinsey è un tema delicato per von der Leyen dal momento che due dei suoi sette figli lavorano nella società, ma non è il suo unico problema. Nel progetto PLM@Bw le accuse di trattamento preferenziale hanno riguardato i rapporti tra la società di consulenze Accenture e il generale Erhard Bühler, allora responsabile del dipartimento di pianificazione. Nella maggior parte dei casi le accuse a von der Leyen non sono di essere stata personalmente coinvolta in casi di corruzione ma di non aver saputo tenere in mano la situazione. Il quotidiano conservatore Faz , nel ritrarre von der Leyen, la dipinge con le parole dell’ex ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble come “la ragazza dei debiti”, per il largheggiare con cui avrebbe voluto affrontare la crisi greca. Che questa suo “laissez faire” sia gradito ai suoi sostenitori a Bruxelles?

Il paradosso dell’India. Senz’acqua con 50 gradi e alluvioni dai Monsoni

Il secondo paese più popoloso al mondo è a corto di acqua: un’apocalisse asciutta, con 100 milioni di persone, in tutta l’India, coinvolte da una crisi idrica destinata ad aggravarsi. Secondo un rapporto del 2018 del think tank governativo Niti Aayog, infatti, 21 megalopoli indiane rimarranno senza acqua freatica l’anno prossimo.

Tra queste, il caso più evidente è quello di Chennai, città affacciata sulla baia del Bengala nell’India orientale, capoluogo dello stato di Tamil Nadu. Un anno fa l’area è stata devastata da una inondazione epocale, mentre oggi è flagellata da una siccità allarmante: BharatPunjabi, ricercatore del Global Cities Institute di Toronto, l’ha definito “il paradosso dell’acqua” indiana.

Il più grande bacino idrico che riforniva Chennai, la sesta città più grande d’India, si è lentamente rannicchiato su sé stesso, fino a scomparire. Ne hanno fatto le spese centinaia di migliaia di residenti, che attendono in fila ogni giorno per riempire le loro taniche colorate. Ospedali e scuole lottano per restare aperti, l’amministrazione ha interrotto l’aria condizionata sui nuovi treni della metropolitana per risparmiare acqua. “Tre laghi si sono completamente prosciugati, il quarto ha poca acqua e non può essere utilizzato”, riassume RajBhagat, del World Resource Institute India.

“L’acqua sotterranea potrebbe essere leggermente salita dopo le piogge della scorsa settimana, ma non sarà di aiuto a risolvere la crisi. Per ora, il governo e i cittadini si riforniscono di acqua da luoghi lontani per coprire il fabbisogno”. Il piano, ora, è di portare 10 milioni di litri d’acqua da Jolarpet, a circa 200 km di distanza: il primo carico del treno dovrebbe arrivare in città il 7 luglio.

Anche Bangalore e Delhi ottengono oggi parte del loro approvvigionamento idrico regolare da aree estremamente distanti, puntellate di villaggi che, di contro, ricevono l’approvvigionamento idrico governativo a singhiozzo, aggravando il loro stato di perenne siccità per mantenere attivi i rubinetti che scorrono nelle metropoli. Il paradosso indiano è anche vedere la megalopoli di Mumbai ora inondata d’acqua monsonica mentre, sulla costa orientale, Chennai è a secco: “L’espansione non pianificata nelle zone di pianura, nelle zone costiere e negli alvei fluviali si traduce in un’inondazione, come a Chennai e Mumbai. La migrazione dalla campagna alle città non fa che aggravare la crisi” riassume uno dei massimi esperti di geografia urbana indiana, il professor Rana P.B. Singh. “La semplice distruzione del sistema naturale per favorire l’urbanizzazione porta all’alluvione. E l’inquinamento delle acque (a livello di superficie e di suolo) riduce l’acqua potabile”.

Il professore, che vive e lavora a Varanasi, ricorda l’enorme impatto prodotto dall’inquinamento del principale corso d’acqua indiano: “Il programma di pulizia Ganga ha avuto ben poco successo. In termini percentuali, è stato ripulito appena il 15%, dal 1985 ad oggi. È un “elefante bianco”, un programma molto pubblicizzato, spettacolare, ma che ha attinto grandi quantità di denaro pubblico portando a scandali e abusi. Ma pochi risultati”.

In India il livello dei monsoni cala, la temperatura media aumenta, l’inquinamento esplode. I ghiacciai che alimentano i fiumi del sub-continente indiano si stanno ritirando rapidamente, mentre il rapido esaurimento delle falde acquifere pone una grande sfida esistenziale all’agricoltura. La verità è però che, pur essendo il settore sul quale l’impatto della siccità è enorme (e causa ogni anno un numero drammatico di suicidi, tra i contadini), il sistema agricolo indiano non è più sostenibile.

Regioni inclini alla siccità coltivano infatti prodotti ad alta intensità idrica come la canna da zucchero o (nel Punjab, dove si assiste ad un esaurimento delle falde acquifere) il riso.

“L’acqua è una componente importante di tutte le fasi dell’attività economica umana” ci spiega Vaibhavi Pingale, ricercatrice indipendente di Pune. “Mentre agricoltura, pesca, industria, salute, igiene e navigazione dipendono direttamente dalla qualità e dalla quantità di acqua disponibile, altri settori, come la produzione di energia idroelettrica, il turismo, l’edilizia, i servizi e il tempo libero, sono fortemente influenzati dalla disponibilità di acqua. Risolvere questa crisi sarà fondamentale per la crescita economica e lo sviluppo dell’India”.

Il primo ministro Narendra Modi ha recentemente creato il ministero di JalShakti (Energia idroelettrica) per sovrintendere alla gestione delle risorse idriche e ha ribadito la promessa elettorale di fornire acqua potabile a tutte le case rurali entro il 2024. “La mancanza di acqua potabile porterebbe enormi problemi per la sicurezza e la salute pubblica, aumentando i tassi di mortalità infantile” ricorda Pingale. “La sicurezza nazionale oggi deve comprendere la sicurezza idrica, poiché l’acqua è il bisogno fondamentale di ogni essere umano e garantire che questa sicurezza dovrà, d’ora in poi, essere la priorità di ogni governo. Le questioni idriche interne e transfrontaliere stanno rappresentando la più grave minaccia per l’India moderna”.

Mail Box

 

In Italia le tasse sono vergognosamente alte

Leggendo la tabella delle differenti aliquote Irpef fra Italia, Francia, Germania e Usa pubblicata sul Fatto, credo che pochi siano riusciti a evitare un salto sulla sedia per lo sdegno. La enormità del differenziale di tassazione Usa al 12% fino a 52.000 dollari contro il 27% italiano per 28.000 euro, cioè la metà di tassazione per chi guadagna però il doppio, credo che abbia indignato più di uno, anche per come in Italia spendiamo poi le nostre tasse e tenendo conto che in Usa il welfare è inferiore. E pure volendo tenere conto che gli americani hanno spese stratosferiche per il loro apparato militare, atomico, e sprechi energetici che neppure ci sogniamo, c’è da chiedersi come facciano a non crollare. La risposta può essere che sì, il deficit federale Usa è enorme, ma è tenuto ben al sicuro dalla sovranità monetaria della Fed, che loro conservano e noi no, avendola ceduta alla Bce, e anche l’apparato militare dà una buona mano, contro chi volesse insinuare qualche dubbio sulla loro sostenibilità e il loro spread. Gli Usa posseggono argomenti molto “solidi” per così dire. Resta il fatto che in Italia le tasse sono vergognosamente alte, e anche se da 30 anni si alternano politici che dicono di volerle abbassare, forse essere dentro al Ue coi suoi parametri assurdi, non ci aiuta molto.

Enrico Costantini

 

Noi pendolari, umiliati, offesi e senza più speranze

Ho letto l’articolo di Barbacetto “Milano locomotiva d’Italia, ma ferma: colpa di Trenord”, un resoconto sulla situazione disastrosa del servizio ferroviario lombardo. Si citano casi di treni soppressi, si lamenta la vetustà dei convogli, addirittura su qualche treno non funziona l’aria condizionata. Il tutto nell’indifferenza dei media. Leggendo dei disagi dei pendolari lombardi pensavo: beati loro! Sono un pendolare della tratta Roma-Civitavecchia-Viterbo (gestore Atac) e non ho mai visto un treno che mostrasse di essere più giovane di 35 anni, la maggior parte di essi supera i 60. Le soppressioni delle corse sono giornaliere e numerose (il 1° luglio ben 22) e spesso a esse si aggiungono i guasti. L’aria condizionata non ha problemi di funzionamento perché assente. Chi ha la fortuna di viaggiare su un treno che ne è provvisto, racconta l’episodio agli amici increduli. La cosa che mi fa più male, però, è quando vedo qualche turista in stazione con l’aria smarrita o, è capitato, gli asiatici che fotografano un treno particolarmente “sgarrupato”. Siamo umiliati, offesi e senza speranza.

Alessandro Guarnieri

 

La magistratura non può farsi condizionare dalla politica

Le considerazioni di Filoreto D’Agostino sulla questione della “Capitana” Rackete sono chiarissime e mettono il sigillo al giudizio sull’opera di un magistrato. Negli ultimi 30-40 anni di storia di questo benedetto Paese, molti dubbi sono sorti sull’operato della magistratura che è sembrata, in certe circostanze, particolarmente condizionata da pregiudizi di ordine politico. Avere un’idea è un diritto, ma è un dovere rispettare le leggi dello Stato fino a che queste sono vigenti. Chi gestisce l’applicazione della legge dall’alto di un tribunale deve fungere da supremo garante. Purtroppo così non sembra. Forse le recenti vicende che hanno travolto il Csm non devono essere considerate casuali ma strutturali.

Marcello Scalzo

 

La tentazione di Salvini di limitare la libertà di stampa

Salvini che aveva denunciato il Fatto per l’epiteto di “cazzaro verde” perde la causa: i fanfaroni quando vanno al potere diventano intolleranti e non sopportano le critiche e tantomeno la satira. Per il momento è stato messo in condizione di non nuocere, ma, se malauguratamente dovesse vincere le prossime elezioni politiche, non potrebbe essere tentato di modificare la Costituzione per limitare la libertà di stampa? Del resto si è già espresso auspicando il ripristino della legge bavaglio sulle intercettazioni.

Inoltre, Salvini potrà contare sul sostegno di Forza Italia e di “Forza Pd” per introdurre nell’ordinamento la separazione delle carriere dei magistrati. Il partito del Pil, infine, corroborerà il suo potere confortandolo tutte le volte che vorrà realizzare le grandi e inutili opere con i soldi del contribuente. Non c’è due senza tre nel Paese dei gattopardi: dopo Berlusconi e il bomba, è in arrivo la mina vagante del “restauratore travestito da rivoluzionario” ( definizione di Marco Travaglio).

Maurizio Burattini

 

I NOSTRI ERRORI

Prima che non lo faccia l’interessato, rettifico un mio errore, meramente di calcolo, ma pur sempre errore, nella risposta a un lettore in ordine al dott. Cristiano Chiarot, ex soprintendente della Fenice di Venezia e oggi del Maggio Musicale Fiorentino. Nella qualità di soprintendente veneziano, egli fece acquisire alla Fondazione 100 azioni della Banca Popolare di Vicenza. L’ammontare della cifra non è 2,4 milioni di euro ma di soli euro 6.000.

Permane la scelta di tale banca, della quale non ricorderò le vicende, per le movimentazioni di cassa e la fiducia accordatale da parte di una Fondazione sostenuta dalla mano pubblica. Impregiudicata la questione bilancio della Fenice, sulla quale si potrebbe, se del caso, analiticamente intervenire.

Paolo Isotta

Formula Uno. La crisi della Ferrari è la stessa del Paese: un’eccellenza senza strategie

 

La crisi della Ferrari non è solo sportiva ma anche politica. Senza il carisma di Sergio Marchionne a Maranello il peso politico è marginale tra decisioni contro e ricorsi falliti. Finora tre pole e zero vittorie. E tanti errori di imprecisione.

Gabriele Salini

 

Gentile Gabriele, la sua è una sintesi cruda e crudele. Trasuda delusione. La Ferrari è mito, leggenda, è un’icona italiana. È la scuderia più popolare della Formula Uno. Ci rappresenta. Siamo infatti un Paese schizofrenico, capace di eccellenze formidabili ma anche di smarrirsi in problemi di organizzazione e strategie: che è poi quel che sta succedendo al Cavallino. Dal 2008 – l’anno dell’ultimo titolo, quello dei costruttori – la Ferrari promette che la nuova sarà la stagione della svolta e della vittoria. Invece… la Ferrari perde, ed è lutto nazionale. Negli epici duelli – prima con le scuderie britanniche poi con la francese Renault, infine con la colossale Mercedes – la Ferrari ha impersonato l’eterna lotta di Davide contro Golia. Una narrazione patriottica e forzata, visto che aveva alle spalle la Fiat e ora il gruppo Fca.

L’attuale “team principal”, ossia il direttore tecnico della Scuderia, è Mattia Binotto, 49 anni, occhialuto ingegnere che vagamente assomiglia a Gramsci. Dal 1995 è in Ferrari. Inizi strepitosi con la squadra Test, quella che posò le basi dei 5 titoli iridati di Schumacher dal 1997 al 2003 (e 6 titoli costruttori). Sergio Marchionne lo stima, e Binotto diventa responsabile tecnico nel luglio del 2016. Valorizza le risorse interne, predilige l’organizzazione orizzontale: nomina Enrico Cardile e Corrado Jotti responsabili di aerodinamica e motori. I tre sono gli artefici del recupero tecnico nei confronti delle egemoni Mercedes. Ma col team principal Maurizio Arrivabene ci sono divergenze. Marchionne pensa che Binotto sia il futuro della Scuderia. Scompare un anno fa, ma John Elkann e Louis Camilleri ne raccolgono il consiglio e liquidano Arrivabene. Peccato che Binotto non abbia il carisma politico del suo mentore. Si rimpiangono i tempi di Mauro Forghieri e Jean Todt, loro sì capaci di farsi valere nei controversi casi Vettel (Gp Canada) e Leclerc (Gp Austria). O nella disputa sul battistrada Pirelli: “Gli altri team hanno dimostrato ancora una volta di guardare al proprio interesse”, si è lamentato Binotto. Manco fosse capo di una scuderia qualsiasi, che quando tagliano il traguardo fanno festa. Dimentica che la F1 non è la Caritas.

Leonardo Coen

Premio Strega, il giusto riconoscimento al libro migliore

Qualcosa si muove al Ninfeo di Villa Giulia. Cos’è, la maledizione dell’Etrusco? Ma no, il Premio Strega è stato vinto dal favorito Antonio Scurati. Fin qui, tutto regolare. Ma stavolta il favorito era l’autore del titolo più venduto, più discusso in chiave critica e storica: M-Il figlio del secolo è stato senz’altro il libro dell’anno. La cinquina rappresentava decorosamente le tendenze della narrativa contemporanea (l’autofiction, l’insostenibile leggerezza dei sentimenti, il neopolpettone…), ma il romanzo-saggio M, che attraverso l’ascesa del giovane Mussolini affronta il rapporto tra masse e potere, l’ossessione edipica dell’Italia, l’eredità del secolo scorso, era di gran lunga l’opera più originale. Nonostante questo, secondo la logica editoriale da anni padrona assoluta dello Strega, Scurati non avrebbe avuto scampo, perché pubblicato da Bompiani (ormai il Gruppo Mondadori fa quello che vuole); ma forse si va facendo strada l’idea che un po’ di meritocrazia fa bene a tutti, soprattutto ai raccomandati. Qualcosa si muove nella telecronaca dei premi letterari, dove se ne sono viste di tutti i colori (indimenticabile lo scazzo tra lo stesso Scurati e Bruno Vespa, Campiello 2005). Invece Pino Strabioli se l’è cavata con deferente sobrietà e un tocco vintage (giusto omaggiare i vincitori del passato ma con misura, altrimenti si nota la differenza). Potrebbe essere lo Strega del cambiamento: ha vinto il migliore anche se non era il più potente. Dobbiamo preoccuparci?

Le nomine Ue vanno bocciate in Parlamento

Il Consiglio europeo ha scelto i nomi che dovrebbero guidare l’Unione europea per i prossimi cinque anni. Il metodo che ha portato a queste nomine è così inaccettabile da rappresentare un’opportunità storica. Il disagio è diffuso. Quali che possano essere i meriti dei candidati, e ce ne sono veramente pochi, il processo di selezione rischia di marcare un forte arretramento democratico dell’Unione. Il Consiglio europeo – l’organo che racchiude i governi nazionali, ciascuno più interessato a fare i propri interessi di breve termine che l’interesse comune – si è fatto beffe del voto dei cittadini e della posizione dei principali partiti transnazionali, riaffermando invece la propria prerogativa nella scelta dei candidati.

Si tratta dello stesso modello intergovernativo che getta l’Europa nello stallo in tutti gli ambiti: dalle migrazioni ai paradisi fiscali. Questa ricetta fallita viene ora usata per definire la direzione dell’Unione per i prossimi cinque anni. Al Parlamento europeo si da invece una pacca sulle spalle e ci si aspetta che apponga ubbidiente un timbro su decisioni già prese.

Tutto questo è pericoloso. Se la Commissione europea si riduce a un segretariato incaricato di ricercare il minimo comune denominatore tra gli Stati allora l’Europa andrà verso la paralisi, rischiando di essere dirottata dai governi più oscurantisti. Se ai cittadini verrà confermato che indipendentemente dal loro voto le decisioni vengono prese in una stanza buia e inaccessibile, allora il disincanto e l’apatia continueranno a crescere.

Ma là dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva. La storia della democrazia è una storia di conflitto. Già Niccolò Machiavelli racconta di come la plebe romana usava togliere il consenso al Senato accampandosi fuori dalla città fino a quando non gli fosse stato riconosciuto un maggiore protagonismo. Fu così che venne istituito il Tribuno della Plebe. Solo il conflitto, ci racconta Machiavelli, è garanzia della promozione della libertà.

Più recentemente, l’istituzione della piena democrazia parlamentare nell’Europa monarchica ha significato strappare al sovrano il diritto di nominare il primo ministro, trasformando un capriccio reale in una scelta fatta in pubblico, basata sull’equilibrio delle forze parlamentari e su iniziativa del parlamento stesso.

Oggi come ieri, non possiamo aspettarci che la democrazia arrivi per grazia ricevuta. Il 14 luglio il Parlamento europeo avrà l’occasione di bocciare in seduta plenaria la nomina di Ursula von der Leyen a presidente della Commissione Europea. È un potere che va utilizzato. Formulando, subito dopo, una proposta alternativa capace di ottenere il sostegno della maggioranza degli europarlamentari.

Al Parlamento europeo viene offerta un’opportunità senza precedenti di affermare la centralità del voto dei cittadini, inaugurando una crisi costituzionale capace di porre chiari limiti al ruolo del Consiglio – proprio come gli antichi Parlamenti ribelli hanno fatto per limitare i capricci del Re. Si tratterebbe di un passo importante nella costruzione di una vera democrazia parlamentare continentale.

Sarebbe una lotta capace di infondere il continente di passione e partecipazione. Da un lato, l’unica istituzione direttamente eletta dell’Unione europea e la richiesta di maggiore democrazia e trasparenza. Dall’altro, i resti del Congresso di Vienna e il governo delle stanze chiuse. Gli europarlamentari italiani, il 10 per cento del Parlamento, da che parte staranno?

Non bisogna avere paura di scatenare una crisi istituzionale bloccando le nomine. Al contrario, è proprio una crisi di questo tipo che marcherà ogni passaggio verso la democratizzazione dell’Unione. Saranno crisi di questo tipo a salvare l’Europa da sé stessa, trasformandola. Perché è l’ubbidienza, in questi casi, ad essere irresponsabile.

La rete e i social come un nuovo Far West mediatico

 

“C’è troppa tensione nel cuore degli uomini, troppa animosità, troppa sete di vendetta”.

(da Le braci di Sándor Márai Adelphi, 1998 – pag. 148)

 

Quanto c’entra Internet, quanto c’entrano i social network, nell’impazzimento generale del mondo? È arduo in questo caso stabilire una percentuale aritmetica; misurare una responsabilità mediatica; distinguere i benefici dai danni. Ma sappiamo tutti per esperienza diretta che la rete e i social contribuiscono certamente a questa follia collettiva, l’innescano e l’alimentano come un rogo estivo.

Internet dispensa sul piano globale la possibilità o l’illusione di sapere tutto, capire tutto, giudicare tutto. I social abituano a esprimersi e a intervenire in qualsiasi campo o materia; a interagire non tanto per discutere o confrontarsi, ma piuttosto per contrapporsi, dividersi e litigare. In questa bulimia comunicativa, la rete stimola il protagonismo e il fanatismo in ognuno di noi. E tutto ciò produce un’influenza nefasta sugli atteggiamenti e sui comportamenti individuali.

Che cosa possiamo fare, allora? Come difendersi? Quali precauzioni adottare per sottrarsi a questa dipendenza psicologica o quantomeno per ridurla? Certo, occorrono regole e limiti, contro gli abusi e le deviazioni; contro le fake news; in difesa dei minori e dei soggetti più esposti o vulnerabili; a tutela della dignità delle persone e della privacy. Internet non può diventare un nuovo Far West; i social network non devono trasformarsi in un territorio di scorribande, di aggressioni verbali o morali.

All’interno di queste regole da applicare e condividere a livello collettivo, anche l’esercizio online della libertà di opinione trova – al pari di ogni libertà, a cominciare da quella di stampa – un limite naturale nel rispetto della libertà altrui. E dunque, bisogna affidarsi innanzitutto all’autocontrollo e all’autodisciplina, cioè al senso di responsabilità che presiede alla convivenza civile.

Se vogliamo evitare l’imbarbarimento mediatico, dobbiamo – per così dire – mettere una rete alla rete. Altrimenti, la profezia biblica della Torre di Babele rischierà prima o poi di avverarsi attraverso il web. Una confusione generale di idee, pensieri, parole, come in un colossale talk show planetario. Un caos di lingue e di esternazioni che può degenerare in un caos sociale, di cui si percepiscono già le prime preoccupanti avvisaglie: intolleranza, prepotenza, aggressività diffusa.

A chi tocca provvedere? In primo luogo, alla politica. Ai Grandi del mondo; ai legittimi rappresentanti del popolo, senza distinzione fra destra e sinistra; ai governanti, ai rispettivi consiglieri e portavoce. Piuttosto che arringare le folle mediatiche, a mezzo Twitter o Facebook, spetta a loro riportare il dibattito pubblico entro i confini della compostezza e della responsabilità.

Una parte rilevante siamo chiamati però a svolgerla anche noi, comunicatori di professione, senza tradire naturalmente le nostre funzioni di critica e di denuncia. E sia consentito rilevarlo sulle pagine di un giornale come questo che di tali funzioni rappresenta fin dal primo numero una testimonianza. Dai quotidiani ai settimanali, dalla radio alla televisione, oggi il “modello d’informazione” deve tenere conto delle tensioni e delle inquietudini che agitano la società contemporanea: come fa un buon guidatore nel traffico congestionato di un’autostrada durante l’esodo o il controesodo di Ferragosto, moderando la velocità per ridurre e prevenire i pericoli. Qui si rischia un maxi-tamponamento a catena, da cui nessuno può essere sicuro di uscire indenne.

Militanti, soldi, idee: cosa serve al M5S

Caro direttore, il risultato delle elezioni europee è stato una doccia fredda per il Movimento Cinque Stelle, ma può essere trasformato in un’opportunità per rafforzare un soggetto politico centrale per il rinnovamento sociale del nostro Paese.

Con il governo abbiamo realizzato riforme importantissime, in particolare sul lavoro, la giustizia, la lotta alle disuguaglianze, la ricerca e l’innovazione. Abbiamo rilanciato l’occupazione, con tassi che non si vedevano da 40 anni, ed abbiamo messo al centro la dignità del lavoro. Al tempo stesso, abbiamo pagato il prezzo dell’inesperienza e del compromesso, che ci ha indebolito nella percezione del nostro elettorato.

Il percorso di riorganizzazione lanciato da Luigi Di Maio può aiutarci a fare un salto di qualità, rilanciando il Movimento come grande forza popolare di opinione e, al tempo stesso, di governo. Dopo mesi di confronto con centinaia di attivisti, simpatizzanti e colleghi parlamentari, consiglieri regionali e membri del governo, riporto di seguito una serie di punti che ritengo cruciali per centrare l’obiettivo.

Il primo punto ha a che vedere con la struttura organizzativa. La natura liquida del M5S è stata un punto di forza nella fase di avviamento e di opposizione, ma può essere una debolezza nell’azione di governo. C’è bisogno di coniugare partecipazione diffusa con un struttura territoriale forte e ben radicata. Servono uffici a livello locale, sedi per ritrovarsi e discutere e, soprattutto, serve sostenere i tanti volontari e attivisti che si sbattono dalla mattina alla sera per portare avanti immagine e valori del M5S sui territori.

Il secondo punto è relativo alle competenze. Un movimento di opinione e di governo deve saper mettere a frutto le conoscenze ed abilità tecniche che ha al suo interno, ma anche quelle che già esistono all’esterno. Questo significa prevedere laboratori di nuove idee, anche in collaborazione con il mondo della società civile, fondazioni e think tank, che da anni elaborano progetti politici ed economici innovativi. Il M5S può così diventare cassa di risonanza della migliore innovazione del Paese, utilizzando tali competenze per sostenere la propria azione trasformativa a livello politico.

Il terzo elemento è la accountability, cioè la capacità unica che il Movimento ha di essere un canale di partecipazione per qualunque cittadino che vuole dedicarsi – per un periodo di tempo limitato – alla cosa pubblica. Bisogna rafforzare i momenti di confronto, non in modo occasionale, ma regolare e strutturato. C’è bisogno di più assemblee e momenti deliberativi, con una struttura agile ma al tempo stesso selezionata sulla base di criteri trasparenti e dal basso.

L’ultimo punto è come finanziare tutto questo. Il M5S ha giustamente rifiutato finanziamenti pubblici, perché la politica deve costare di meno ai contribuenti. Ma il M5S non è povero di risorse. Abbiamo il più grande gruppo parlamentare del Paese e centinaia di consiglieri regionali, che oggi restituiscono oltre 20 milioni di euro l’anno. Possiamo utilizzare una parte di queste risorse per sostenere la struttura del Movimento, a partire dai referenti e le sedi locali, fino alla rete di attivisti sul territorio che oggi devono autotassarsi per organizzare anche solo dei banchetti o degli infopoint. Per garantire maggiore efficienza e impatto, il resto dei proventi dovrebbero essere gestiti da una ‘fondazione’ il cui consiglio direttivo sia composto da personalità del Movimento, ma anche della società civile e del mondo dell’innovazione. Una fondazione che investa queste risorse in progetti sul territorio, sostegno alle nuove imprese, borse di studio e che lo faccia in modo trasparente, con tanto di revisori di conti e rapporto annuale, così da dissipare ogni critica pretestuosa su come oggi vengono gestite le restituzioni.

Tutti devono restituire: non soltanto parlamentari e consiglieri regionali, ma anche ministri, sottosegretari e coloro che, in quota M5S, fanno oggi parte della pubblica amministrazione con incarichi politici. È giusto diminuire il numero dei parlamentari, ma sarebbe utile anche ridurre gli stipendi dei tanti capi di gabinetto, amministratori e consulenti che oggi ricoprono cariche di vertice per nomina diretta del M5S.

Con queste semplici ma importanti innovazioni, il nostro Movimento si rafforzerebbe come principale attore di sviluppo del Paese, unendo l’azione politica a quella operativa sul territorio.

*Vice ministro al ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca

A giudizio Bidognetti per minacce a Saviano e Rosaria Capacchione

Il boss del clan dei Casalesi, Francesco Bidognetti e gli avvocati Michele Santonastaso e Carmine D’Aniello, sono stati rinviati a giudizio dal gup di Roma Livio Sabatini per le minacce rivolte allo scrittore Roberto Saviano e alla giornalista Rosaria Capacchione in aula a Napoli nel 2008 durante un processo. L’accusa è minacce aggravate dal metodo mafioso e il processo inizierà il 12 novembre. Come parte civile, oltre a Capacchione e Saviano, si sono costituiti anche la Federazione nazionale della stampa, rappresentata dall’avvocato Giulio Vasaturo, e l’Ordine dei giornalisti della Campania. Due anni fa era stata dichiarata nulla la sentenza di primo grado dalla Corte di Appello di Napoli per incompetenza territoriale e il procedimento è stato trasferito a Roma. La pericolosità ancora attuale dei Casalesi è dimostrata anche dall’arresto di ieri: con l’accusa di concorso esterno è finito in manetta a Villa Literno, Michele Patrizio Sagliocchi, imprenditore di 70 anni. L’imprenditore, operante da anni nel settore immobiliare e del commercio dei carburanti, avrebbe contribuito al rafforzamento del clan, in particolare della fazione di Michele Zagaria.

Confisca Capitale: Diotallevi e il Nero restano a mani vuote

Ernesto Diotallevi è un signore di 75 anni che dovrà lasciare la sua casa romana di 14 vani e mezzo, due piani, terzo e quarto dello stabile, con affaccio sulla Fontana di Trevi, in “piena periferia” direbbe il Jep Gambardella de La grande bellezza, perché confiscata definitivamente dallo Stato dopo la pronuncia di ieri della Cassazione in quanto ritenuta “provento diretto o indiretto delle attività illecite”. L’abitazione, piena di opere d’arte, ha un valore sul mercato che si aggira intorno ai cinque milioni di euro. Oltre alla dimora, dove Diotallevi passa ancora le sue giornate, finisce in capo allo Stato gran parte del resto del patrimonio anche di familiari e prestanome, comprese proprietà a Olbia e una sontuosa villa nell’isola francese di Cavallo, tra Corsica e Sardegna, esattamente affacciata sulla Baia di Palma, una spiaggia tra le più belle del Mediterraneo.

Ma chi è Ernesto Diotallevi? Considerato da molti magistrati e “sbirri” l’anello di congiunzione tra Cosa nostra e la criminalità romana, che si chiamasse Banda della Magliana o, successivamente, Mafia Capitale, la sua storia, racconta di un personaggio più volte coinvolto in vicende oscure della Repubblica, come l’omicidio del banchiere Roberto Calvi a Londra nel 1982, che è sempre però riuscito ad uscire assolto dai processi, superando in questa speciale classifica anche Massimo Carminati ora in carcere al 41bis da condannato per associazione mafiosa. È libero, infatti, Diotallevi: è stato indagato per concorso esterno anche nell’inchiesta di Mafia Capitale ma la sua posizione è stata presto archiviata per mancanza di prove sufficienti a portarlo alla sbarra. È libero, ma dovrà cercarsi un’altra casa. I soldi per comprarla arrivarono nientemeno che da Pippò Calò, lo storico cassiere di Cosa nostra, oggi 87enne all’ergastolo. Almeno così raccontò “il traditore” Tommaso Buscetta nel 1993: “Ricordo che, all’epoca, per i discorsi che facevano tra Calò e Diotallevi, quest’ultimo era in trattative per l’acquisto di una villa al centro di Roma, nella zona dove c’è la grande scalinata. Il problema del Diotallevi, ricordo, era quello di giustificare la provenienza del denaro necessario all’acquisto della villa, valutata circa novecento milioni di lire”. Già negli anni Settanta Diotallevi era noto come usuraio e fu poi la mente finanziaria del gruppo dei Testaccini. In Romanzo criminale, fortunato libro di Giancarlo De Cataldo del 2002, si contende il ruolo del “Secco” con Enrico Nicoletti, anche egli usuraio, truffatore e addetto ai soldi dei Testaccini; Nicoletti condivide con Diotallevi anche la sorte riguardo le confische di case e beni, oggi 81enne nel 2014 finì ai domiciliari da un parente ad Amelia, in Umbria. Nel film di Michele Placido del 2005 il “Secco” è stato interpretato dall’attore Stefano Fresi e nella serie tv di Stefano Sollima del 2008/2010 da Vincenzo Tanassi.

Conferma delle confische, negli scorsi giorni, anche per i condannati in secondo grado per le vicende di Mafia Capitale: beni per oltre 30 milioni di euro. È lunga la lista della roba sottratta dallo Stato a Massimo Carminati, condannato a 14 anni e attualmente al 41bis, dalla famosa katana a dipinti firmati Mario Schifano, a opere di Manzù. Il “Nero” in Romanzo criminale ha avuto il volto di Riccardo Scamarcio nel film e di Emiliano Coltorti nella serie, ma non è finita perché è anche il “Samurai” di Suburra (dal romanzo del 2013 dello stesso Di Cataldo e di Carlo Bonini), interpretato da Claudio Amendola nel film di Stefano Sollima del 2015 e da Francesco Acquaroli nella serie tv Rai-Netflix iniziata nel 2017.

Che fine hanno fatto gli altri personaggi di Romanzo criminale e a chi corrispondevano nella realtà? I protagonisti principali di quella storia legata alle vite di Diotallevi e Carminati sono quasi tutti morti. Così Franco Giuseppucci, ammazzato a Trastevere nel 1980 dai nemici del clan Proietti, detti i “pesciaroli”. Al cinema è stato Pierfrancesco Favino e nella serie Francesco Montanari, tra gli attori più importanti del panorama italiano attuale. Come Claudio Santamaria e Alessandro Roja che hanno interpretato “Renatino” Enrico De Pedis, anche detto “il Dandi”, ucciso nel 1990 in Campo de’ Fiori. Ha fatto parlare di sè anche da morto per la sepoltura nella Basilica di Sant’Apollinare grazie a un articolo di Antonella Stocco uscito sul Messaggero nel 1997. Seguirono interrogazioni parlamentari fino al trasferimento della salma in un cimitero di periferia, prima che le ceneri fossero disperse in mare. È vivo, invece, e compirà 65 anni fra pochi giorni Maurizio Abbatino, pentito dopo l’omicidio del fratello Roberto nel 1990 e la sua cattura in Venezuela nel 1991; è il “Freddo” di Romanzo criminale, interpretato da Kim Rossi Stuart e Vinicio Marchioni. Fu arrestato tre anni dopo Antonio Mancini, oggi 71enne, e anch’egli decise di collaborare con la giustizia. Il vero soprannome era “Accattone”, trasformato da De Cataldo in “er Ricotta” con i volti di Andrea Ricciardi e Giorgio Caputo.