Il “Fight club” in salsa padana era quasi in diretta sulla pagina Istagram “Cremona.dissing”. Qui una trentina di ragazzi tra i 15 e 18 anni si chiamavano a raccolta per trasformare in ring vie e piazze della città, oppure per provocare altri giovani, attirarli in trappola e pestarli selvaggiamente. Il branco di “bulli social” è stato sgominato dai carabinieri della Compagnia di Cremona che hanno eseguito sette misure di custodia cautelare (quattro in carcere, tre ai domiciliari), mentre altri 18 ragazzi sono stati denunciati a piede libero. Contestati decine di episodi di violenza, ripresi, postati e commentati sulla pagina: danneggiamenti, vandalismi, atti persecutori, risse, lesioni e spaccio di sostanze stupefacenti raccolti in una sorta di “palcoscenico” digitale, sul quale i componenti del branco “vivevano”, pubblicizzando le loro imprese, anche come sfida aperta alle Autorità. Il “branco” era composto prevalentemente da minorenni. Come nel celebre film “Fight Club”, i ragazzi di Cremona, ma anche di Milano e Lodi si davano appuntamento su web per picchiarsi. Contrariamente al film, però, i giovanissimi, non si combattevano segretamente negli scantinati, ma nella centralissima piazza Marconi.
“Caianiello chiedeva i voti alla ’ndrangheta”
Non solo nomine e mazzette, Nino Caianiello, il presunto mullah del nuovo tangentificio lombardo arrestato il 7 maggio nell’inchiesta Mensa dei poveri, nella primavera del 2018 cercava i voti della famiglie calabresi legate alla ‘ndrangheta. Una novità che fino al 23 febbraio scorso gli è valsa un’iscrizione nel registro degli indagati per voto di scambio politico-mafioso (416 ter). Accusa che non gli sarà contestata nell’ordinanza di arresto e che al 23 febbraio Caianiello condivide con Peppino Falvo, il coordinatore provinciale dei Cristiano democratici coinvolto nell’indagine Krimisi sempre della Dda di Milano che due giorni fa ha portato a 34 arresti fotografando la radicata presenza dei clan calabresi nei comuni di Lonate Pozzolo, Ferno, Legnano, tra le province di Milano e Varese. Anche in questa ultima indagine Falvo è indagato per 416 ter e lo è in base alle dichiarazioni dell’ex sindaco di Lonate Danilo Rivolta messe agli atti del fascicolo sulle tangenti. Le due indagini si incrociano. Risultato: ieri negli uffici della Dda si è svolta una riunione per reindirizzare l’inchiesta delle tangenti (dove è indagato il governatore Attilio Fontana) sui legami tra Caianiello e le famiglie legate ai clan di Lonate, emanazione della potente cosca Farao-Marincola di Cirò Marina.
Torniamo al maggio 2018. A Lonate Pozzolo si preparano le elezioni. La giunta arriva al voto terremotata dall’arresto del sindaco Rivolta per corruzione. Gli investigatori già sanno che Rivolta, per sua ammissione, nel 2014 è stato eletto anche con i voti della ‘ndrangheta. Le intercettazioni dell’indagine Kremisi fanno il resto. Dirà l’indagato per mafia Cataldo Cassopero: “Noi per questo pagliaccio di sindaco siamo andati in galera. Prima l’abbiamo messo su e poi è andato a dire che qua c’era la ‘ndrangheta”. In una nota della Finanza di Busto del 14 maggio 2018 allegata al fascicolo Mensa dei poveri si legge: “Dalle ultime risultanze emerge la necessità di Caianiello di assicurarsi l’appoggio delle famiglie calabresi che controllano il territorio di Lonate e a sostegno della candidata sindaco Ausilia Angelino”. E ancora: “A tal scopo (…) Caianiello si rivolge all’intermediario Peppino Falvo”. Nei suoi verbali Rivolta definisce Falvo “referente a Lonate della famiglia De Novara”, famiglia coinvolta negli arresti di due giorni fa. Caianiello vuole assicurarsi “i voti determinanti delle famiglie calabresi (…) evitando (…) coinvolgimenti diretti di queste famiglie”. Si gioca tutto su Ausilia Angelino (non indagata) che perderà per poco. Su di lei punterà Enzo Misiano coordinatore locale di Fratelli d’Italia, arrestato due giorni fa perché ritenuto organico alla ‘ndrangheta. Misiano, secondo i pm, è un collettore di voti mafiosi. Nel maggio 2018, in Comune a Lonate partecipa con Caianiello e rappresentanti della giunta regionale ai tavoli per le nomine nelle partecipate. Dirà: “La riunione in Comune è venuto Caianiello, un macello”. Il 7 maggio Caianiello è nel suo bar-ambulatorio di Gallarate. Dice: “Sto aspettando Peppino (Falvo, ndr) mi deve dire del giro calabrese”. Arriva Falvo che spiega: “Ieri ero a Lonate e ho trovato pure a loro (i calabresi, ndr), vediamo di fare un bel lavoro”. Falvo il giorno prima ha incontrato anche Antonio De Novara, tra gli arrestati di giovedì. Prosegue: “Lì recuperiamo tutta la struttura (…). Ci siamo, la situazione è sotto controllo Nino”.
Falvo racconta che i De Novara hanno convinto la sorella a non candidarsi. “Le hanno detto: se ti candidi esci dalla famiglia!”. Caianiellopunta così sulla ‘ndrangheta per portare a casa il sindaco di Lonate Ausilia Angelino (sostenuta anche dalla Lega), già vicina all’eurodeputata Lara Comi (indagata a Milano per corruzione, finanziamento illecito). Caianiello: “E’ andata a Strasburgo con Lara che ha pagato tutto lei”. E che il legame tra le due sia stretto lo dimostrano le foto della campagna elettorale ai mercati di Lonate, con Lara Comi e l’ex ad del Milan, oggi senatore di Fi Adriano Galliani (non indagato) a tirare la volata alla candidata sostenuta dalla ‘ndrangheta.
Processo falsi Expo 2015, Sala condannato a 6 mesi
Due documenti retrodatati, un falso insomma, che riguardavano i commissari per la gara della Piastra di Expo, appalto da 232 milioni. Sette anni dopo quei fatti, il sindaco di Milano Giuseppe Sala è stato condannato ieri a sei mesi di carcere convertiti in pena pecuniaria di 45 mila euro. Nel processo, Sala era imputato per falso materiale e ideologico per la presunta retrodatazione di due verbali con cui, nel maggio del 2012, sono stati sostituiti due componenti della commissione di gara per l’assegnazione dell’appalto per la Piastra dei servizi dell’Esposizione Universale del 2015. Nonostante la condanna, Sala è andato all’incasso della compatta difesa del Pd. Su tutti il segretario Nicola Zingaretti: “Sono vicino a Sala. A lui va tutta la nostra fiducia, il nostro sostegno per continuare nell’opera di guida di Milano. Sala non si deve dimettere”.
L’allora addi Expo il 31 maggio 2012 ha firmato un documento datato 17 maggio. Assolti, invece, tutti gli altri imputati nel processo: l’ex manager Expo Angelo Paris, che era imputato per falso in concorso con Sala ma anche di tentato abuso d’ufficio, l’ex dg di Ilspa Antonio Rognoni, accusato di turbativa sul maxi appalto, e Piergiorgio Baita, ex presidente della Mantovani spa che vinse la gara, accusato di tentato abuso d’ufficio. La condanna di ieri non impatta con la legge Severino perché ben inferiore ai due anni. E dunque Sala può continuare a fare il sindaco. Tanto più che, sul processo scatterà la prescrizione tra quattro mesi. La difesa ha annunciato appello, ma ancora bisogna capire se il sindaco rinuncerà alla prescrizione. Il processo concluso ieri in primo grado è nato il 10 novembre 2016, quando la Procura generale decide di avocare il fascicolo in mano alla Procura. Il pg Felice Isnardi così iscrive Sala nel registro degli indagati il 15 giugno 2017. In sostanza viene bocciata la lettura data dai pm, ovvero una retrodatazione fatta per “finire i lavori entro aprile 2015” e quindi nessun rilievo penale ma una “deregulation dettata dall’emergenza”. E questo nonostante le annotazioni dell’epoca della Finanza fotografassero il falso e “la palesa retrodatazione”. Un’ipotesi che secondo gli investigatori sarebbe emersa da alcune intercettazioni del 31 maggio 2012. La Procura però rubrica quei fatti “a falso innocuo”. Il 15 aprile, sentito in aula, Sala ha dichiarato: “Ho firmato migliaia di atti, ancora oggi non lo ricordo come uno dei passaggi più rilevanti di Expo”.
Quella di ieri è la prima condanna per Sala, il quale per Expo è già stato processato e assolto in un altro filone dove era imputato per abuso d’ufficio perché al posto di una gara europee fece un affidamento diretto alla ditta Mantovani per la piantumazione di “essenze arboree” sulla Piastra. Il 25 gennaio l’assoluzione è stata confermata dalla Corte d’appello. Col dispositivo di ieri i giudici hanno dichiarato Sala “colpevole limitatamente alla retrodatazione del verbale di annullamento di nomina della commissione giudicatrice e del verbale di nomina della commissione giudicatrice” e gli hanno concesso “le circostanze attenuanti generiche” e anche un’altra attenuante: quella dell’aver “agito per motivi di particolare valore morale o sociale”. Sala ha commentato: “Una sentenza del genere, dopo sette anni, per un vizio di forma, allontanerà tanta gente per bene dall’occuparsi dalla cosa pubblica. È stato processato il mio lavoro”. L’accusa aveva ribadito la “consapevolezza di Sala” nella retrodatazione.
Molestie finte e morti vere: il “caso zero” dei bimbi rubati
Il 5 giugno del 1996, a Sagliano Micca, provincia di Biella, si suicidarono quattro persone. Insieme, dopo aver lasciato delle lettere d’addio, scesero nel garage di casa, entrarono in una Fiat Uno verde, mandarono giù qualche pasticca di sonnifero e respirarono il gas di scarico fino a morire. Erano Alba Rigolone (66 anni), suo marito Attilio Ferraro (68 anni), i loro figli Maria Cristina Ferraro (insegnante di 39 anni) e Guido Ferraro (commesso di 36 anni).
Sono accusati di aver sottoposto a raccapriccianti pratiche sessuali due bambini, i figli di Guido e Maria Cristina, quel giorno erano attesi in tribunale per il processo appena iniziato. L’impianto accusatorio si fondava sulle perizie di due consulenti: Cristina Roccia, una delle psicologhe coinvolte nella vicenda “Veleno” (accuse infondate di pedofilia e satanismo nel modenese) e colui che all’epoca era suo marito, quel Claudio Foti del Centro Studi di Moncalieri Hansel e Gretel, oggi agli arresti domiciliari per l’inchiesta di Reggio Emilia Angeli e demoni (i pm accusano psicologi e assistenti sociali di aver sottratto bambini alle famiglie per lucrare sugli affidi).
Il caso Sagliano, nella catena che lega l’associazione Hansel e Gretel a storie controverse di abusi su minori, è il “caso zero”. E il più dimenticato, nonostante il clamore che suscitò all’epoca, tra videocassette sulla storia allegate a quotidiani e l’accorata difesa degli imputati di Vittorio Sgarbi. Un’intera famiglia si tolse la vita lasciando un biglietto sul cruscotto: “Quattro innocenti sono costretti a uccidersi perché il tribunale di Biella non ha dato la possibilità di dimostrare la loro innocenza”. Forse, oggi, si può restituire dignità a quei morti la cui vicenda fu ricostruita nel 2007, con appassionato rigore, dallo scrittore ed ex assessore di Biella Diego Siragusa in un libro, La botola sotto il letto, ritirato per minacce di querele.
Nel 1995 Guido e sua moglie Daniela si stanno separando. Daniela nutre un profondo astio nei confronti della famiglia dell’ex marito, detesta soprattutto sua suocera Alba e la bella sorella del marito Maria Cristina. A un mese dall’udienza di separazione Daniela porta il loro bambino Angelo, 9 anni, al Servizio di Neuropsichiatria Infantile di Vercelli che fa una segnalazione al Tribunale dei minori di Torino. Il bambino accusa suo padre Guido, sua nonna paterna Alba e sua zia paterna Maria Cristina di avere rapporti incestuosi in sua presenza e di abusare di lui oltre e della cuginetta Linda, figlia di Maria Cristina. Il Tribunale sospende subito gli incontri tra Guido e suo figlio Angelo.
In seguito Daniela presenta una querela contro il marito e la sua famiglia in cui racconta fatti raccapriccianti. Da quando ha circa tre anni, a casa dei nonni, Angelo assiste a scene di sesso incestuoso: Maria Cristina lecca il pisellone al fratello Guido in salotto finché lui non le fa pipì sulla mano, sua nonna Alba, 66 anni, fa lo stesso sempre col pisellone di suo figlio Guido ma in camera. Maria Cristina, la piccola Linda e sua nonna Alba leccano tutte insieme Guido e vanno a letto nudi. La nonna nuda chiede a lui, Angelo, di toccarla ma il bambino si rifiuta. Un’altra volta Guido sbatte il pisellone sulla patata della piccola Linda oppure Guido lecca il deretano della madre anziana o suo padre prova a infilargli nel sederino il suo pisello ma lui scappa e gli altri dicono “Devi farlo!” Ti prego!”. Un famiglia apparentemente rispettabile nasconde l’orrore.
La bambina viene prelevata a scuola e tolta alla madre per finire in un centro per minori, il pm Alessandro Chionna della procura di Biella dà il via alle indagini con perquisizioni a casa di nonna Alba e nonno Attilio e di Maria Cristina. Cercano materiale pornografico, videocassette, prove degli abusi. Non trovano nulla. Il 3 giugno il pm Chionna li fa arrestare tutti e tre con tanto di sirene e manette. L’accusa è abusi sessuali su minori. Breve parentesi: il pm Chionna fu anche il grande accusatore di Gigi Sabani e Valerio Merola nel caso “Varietopoli” che portò all’arresto di Gigi Sabani nel 1996, proprio dopo due settimane dal suicidio della famiglia Ferraro, con le accuse di truffa a fini sessuali e induzione alla prostituzione. Lo aveva accusato una minorenne. Chionna fu rimosso dall’incarico perché si innamorò della ex fidanzata di Sabani (con cui convolò a nozze), conosciuta durante l’inchiesta (poi archiviata). Gigi Sabani rimase marchiato da questa vicenda e nel 2007 morì di infarto.
Torniamo a Sagliano. I detenuti vengono interrogati da Chionna e dal Gip Paolo Bernardini. Guido afferma che la sua ex moglie aveva detto spesso che gliel’avrebbe fatta pagare, che era gelosa di sua sorella Maria Cristina, che dal ’94 aveva proibito ai nonni Alba e Attilio di vedere il nipote, convinta che la nonna volesse avvelenare Angelo con lo sciroppo. Nonna Alba dice di aver sempre trattato i nipoti con amore, Maria Cristina conferma l’odio della cognata. Nonno Attilio, l’unico rimasto libero, spiega di non avere rapporti sessuali con la moglie da 10 anni, altro che sesso e promiscuità.
Il 5 giugno del 1995 Chionna e il maresciallo Santimone interrogano il piccolo accusatore Angelo. Il bambino conferma la versione orgiastica della storia, ma poi, quando gli si fa notare che è inverosimile, ritratta tutto. La prima di una serie di ritrattazioni. “Tutto quello che ho raccontato è frutto della mia fantasia. Io ho voluto in questo modo far andare in prigione mio padre, i miei nonni, mia zia perché hanno trattato male me e mia madre. È stata una mia montatura in quanto vedo film in cui fanno porcate”, dice. Il bambino va via con la madre, ma dopo un po’ i due tornano in Tribunale. Angelo si era solo spaventato, vuole confermare gli abusi, dice la madre. E invece Angelo ribadisce di essersi inventato tutto e che nella casa degli abusi ci sono botole sotto il letto dei nonni e passaggi segreti. Solo fantasia, di nuovo.
Il 7 giugno il gip Paolo Bernardini ordina la scarcerazione dei tre indagati e in un’ordinanza, prudente ma rigorosa, afferma che la situazione è poco chiara, che la querelante manifesta ostilità nei confronti della famiglia Ferraro, che ai bambini sono state fatte domande suggestive, che Angelo ha dei disturbi psichici mai approfonditi. Chionna nomina come consulente tecnico Cristina Roccia del Centro Hansel e Gretel, la stessa che interrogherà alcuni bambini di Massa Finalese nel caso “Veleno” un paio d’anni dopo. La consulente deve stabilire se Angelo e Linda sono attendibili. Linda sarà sottoposta a un vero interrogatorio, ma parlerà sempre con amore della mamma e della nonna, negando ogni abuso. Angelo, nonostante le proteste dei legali di Guido, resta a vivere con Daniela. Guido invia lettere al figlio che non vede più da tempo: “Vorrei farti avere dei doni ma non so come, ho ancora l’uovo di Pasqua che non mi hanno lasciato consegnarti!”.
Il 6 giugno Chionna chiede al consulente tecnico Maria Rosa Giolito (che ha collaborato con Foti di Hansel e Gretel anche nella stesura di un libro) di verificare se la bimba abbia subito abusi. L’esito: “L’imene con bordi sottili è compatibile con la penetrazione di un dito di una persona adulta, non posso escludere né provare la penetrazione col pene”. Che non vuol dire nulla, tanto più che il perito della difesa parlerà di normale conformazione dell’imene. La visita della Giolito al bambino Angelo darà esito negativo, tuttavia la dottoressa specificherà: “I segni ritrovati non sono specifici per abuso sessuale pur compatibili con tale diagnosi, va considerato però che un oggetto delle dimensioni di un dito può essere introdotto nell’ano senza troppo disagio”. Insomma, l’esito è negativo, ma si lascia una finestra aperta. Peccato che in seguito Angelo dirà di essere stato penetrato dal padre, cosa che la perizia smentisce. La perizia tecnica di Cristina Roccia costa al tribunale 6.417.450 lire.
Quando ormai la scadenza delle indagini è imminente Chionna affida una nuova audizione del bambino Angelo a Claudio Foti. Aveva ritrattato troppe volte, l’accusa era molto indebolita. Con Foti accanto, il bambino afferma di aver ritrattato gli abusi perché minacciato dal maresciallo e conferma le violenze. Non solo. Accusa per la prima volta anche suo nonno Attilio e anticipa l’inizio delle violenze a quando aveva un anno. Come potesse ricordarsene non è chiaro. Aggiunge pure che la cuginetta non ha il coraggio di dire la verità, quindi se dovesse essere risentita lui vorrebbe essere presente, “così la aiuta a parlare”.
Chionna chiede il rinvio a giudizio, il gip Bernardini fissa il giudizio immediato, ma estromette le consulenze tecniche-psicologiche affermando che non si limitano a fornire un apporto scientifico, ma esprimono giudizi sulla veridicità di quanto affermato dai bambini. Chionna, che senza perizie ha pochi elementi, non si arrende. Chiede un’audizione protetta per i due bambini che, come chiesto da Angelo, saranno sentiti insieme dalla psicologa Paola Piola, già teste dell’accusa. Alba, Attilio, Maria Cristina e Guido capiscono che se la bambina confermerà le accuse sono spacciati. Così accade.
La mattina del 5 giugno 1996, fuori dal tribunale, la sorella di Alba, Maria Rigolone e gli avvocati della difesa attendono i Ferraro per un po’, poi allarmati dalla loro assenza chiamano i carabinieri. In casa trovano i biglietti di addio. In uno, firmato da tutti e quattro, indirizzato al senatore Claudio Regis che li aveva sempre sostenuti c’era scritto: “Violando il codice, dei bambini sono stati ascoltati come pretendeva il pm Chionna, dalla stessa psicologa chiamata dall’accusa come teste che da un anno prepara Angelo a condannare il padre e tutta la sua famiglia. La sentenza che ci aspetta è ovvia, siamo innocenti, non vale la pena continuare a esistere”. Maria Cristina aveva scritto un’altra lettera in cui si augurava di incontrare di nuovo sua figlia nell’aldilà. Nonna Alba aveva lasciato un biglietto: “Non ho mai fatto porcherie con i figli e i nipoti che adoravo. Ho insegnato loro le cose belle e giuste della vita, chiedo perdono ai miei cari”. E poi quel biglietto sul cruscotto: “Siamo innocenti”. Sono morti insieme, respirando monossido, nella Fiat Uno verde di Maria Cristina.
Ai funerali parteciparono più di 1000 persone, a Sagliano in tanti credettero alla loro innocenza. La sentenza di improcedibilità mise fine alla vicenda. Chionna disse di aver lavorato con correttezza, lo psicologo Paolo Crepet sentenziò che “il suicidio è un’ammissione di colpa”, il senatore Regis disse: “Queste persone sono state uccise per un patto scellerato fra procura e tribunale dei minori”. (e per questa dichiarazione fu processato e condannato). “Ora il dolore è solo mio”, dichiarò Daniela, la grande accusatrice, ai giornali. Ma a rimbombare ancora sono le parole della psicologa Paola Piola, una delle sostenitrici dell’accusa: “In fondo le vittime sono ancora i bambini. Ora sono anche senza genitori. La vicenda giudiziaria è stata archiviata col decesso degli imputati, e forse è meglio così”.
Quattro morti, una verità mai accertata e ombre antiche, che dopo 23 anni, spuntano fuori da una vecchia botola. L’unica che è davvero esistita, in questa orribile vicenda. No, non è stato meglio così.
Di Battista: “Che noia le Ong, oggi accogliere non è un valore”
Secondo Alessandro Di Battista, “l’accoglienza oggi non è un valore” e “le tematiche delle Ong annoiano”. Parole, quelle dell’esponente M5s, pronunciate giovedì sera durante la presentazione del libro Politicamente scorretto a Polignano a Mare (Bari) e che sembrano in contraddizione con la storia personale di Di Battista. Che però nega ogni incoerenza: “Prima di fare il parlamentare ho fatto il cooperante in Congo. Forse più che dare di più all’Africa, dovremmo toglierle di meno. Oggi non si fa con gli slogan degli accogliamoli tutti o aiutiamoli a casa loro. L’accoglienza oggi come oggi non è un valore. Non credo che i flussi migratori siano cose positive, questa frase magari viene additata come razzista. Fino a che non si affronteranno le cause non ne usciremo mai”. L’ex parlamentare ha anche aggiunto di essere “annoiato” dal dibattito sulle Ong: “È giusto proteggere i confini, il business dell’immigrazione va bloccato, non mi sta bene il comportamento delle Ong, ma è sbagliato credere che il problema degli immigrati sia il principale in Italia. I problemi sono le organizzazioni criminali, l’accentramento di potere, il liberismo galoppante e la corruzione”.
Rackete denuncia il ministro: “È razzista e viola i diritti umani”
Matteo Salvini è “un razzista” e le sue azioni “violano i diritti umani”. La Capitana della Sea Watch Carola Rackete attacca ancora il ministro dell’Interno, ipotizzando anche una querela nei suoi confronti attraverso l’avvocato Alessandro Gamberini: “Le sue parole la stanno esponendo ad eventuali aggressioni: una vera e propria istigazione a delinquere che arriva da un ministro della Repubblica”. Secondo la Rackete, intervistata oggi su Spiegel e Repubblica, la politica di Salvini avrebbe “violato i diritti umani”, dal momento che l’equipaggio “aveva inviato rapporti medici giornalieri sulle condizioni dei soccorsi, anche al Centro di soccorso italiano a Roma ma nessuno ha ascoltato, nessuno ha risposto”. Rispondendo poi alla domanda su una eventuale visita di Salvini sulla nave, la Capitana fa sapere che “la politica della Sea Watch è niente razzisti a bordo”, esplicitando così il No al leader leghista. Ma oltre al governo italiano, le responsabilità della cattiva gestione della Sea Watch sono da imputare – ancora secondo la Rackete – anche al’esecutivo tedesco: “Si sono sempre passati la patata bollente, mentre avevamo ancora 40 sopravvissuti a bordo”.
Da Madrid multe fino a 900 mila euro. In Francia anni di carcere per “solidarietà”
In Spagna la questione Open Arms continua a mettere in crisi il governo socialista in carica. La nave della Ong catalana fermata a gennaio nel porto di Barcellona dal governo Sánchez, infatti, sfida la minaccia del direttore generale della Marina Mercantile, Benito Núñez Quintanilla, sotto il ministero dello Sviluppo, e va incontro a una sanzione fino a 900 mila euro per aver forzato il blocco del governo “recandosi nelle acque internazionali di fronte alla Libia”. “Continuiamo a difendere i diritti umanitari”, è la risposta della Ong. Parole che ricordano quelle con cui lo stesso Sánchez accolse a luglio scorso la nave Aquarius con più di 600 migranti a bordo, rifiutata dall’Italia e da Malta. “È nostro dovere, in base ai trattati internazionali sui diritti umanitari offrire loro un porto sicuro” aveva detto il premier. “Un caso eccezionale”, l’aveva definito solo qualche settimana dopo.
A un anno di distanza ne sono passate di navi: il 2018 si è chiuso con la Spagna in cima alla lista europea dei porti di attracco per i migranti irregolari, secondo la Commissione spagnola di Aiuto ai rifugiati. In tutto, sono arrivate sulle sue coste 56 mila persone, la cifra più alta dal 2006, di queste, 20 mila via Mediterraneo. E qui viene il punto: nella lettera della Marina alla Open Arms il riferimento è chiaro: non si possono portare a termine salvataggi “o altre attività che derivino da tali operazioni” (leggi sbarchi), se la nave non dispone “dei permessi delle autorità predisposte” cioè quelle dell’Italia o di Malta. Proprio i due Paesi che hanno chiuso i porti. Al contrario la Open Arms avrebbe il permesso di salvare vite nella zona Sar spagnola. Anche perché Madrid ha bisogno dell’aiuto delle Ong, visto il disastroso stato in cui versa l’equipaggio di Salvamento Maritimo. Il reparto di salvataggio in mare della Guardia Civil, infatti, è in grossa difficoltà per i gravi attacchi ai gommoni dei migranti nella zona Sar spagnola da parte della guardia costiera marocchina, proprio mentre si vede ridotto all’osso il personale già precario, come denuncia il sindacato Cgt che ha sollevato la questione davanti al Parlamento solo poche settimane fa.
Dalla Francia torna il caso di Francesca Peirotti, l’attivista di Cuneo arrestata a Mentone nel novembre 2016 con otto migranti nascosti nel furgone. La Corte d’Appello di Aix-en-Provence allora l’aveva condannata nell’agosto scorso per favoreggiamento dell’immigrazione a 8 mesi di carcere e 5 anni di interdizione dalla regione Alpi Marittime. I giudici avevano applicato l’articolo 662-1 del Ceseda, il codice francese per l’ingresso e il soggiorno degli stranieri, per il quale “chiunque favorisca o tenti di favorire l’ingresso, la circolazione o il soggiorno irregolare degli stranieri” rischia fino a 5 anni di reclusione e 30mila euro di multa. Per i suoi sostenitori, invece, Francesca, era stata ritenuta colpevole di “delitto di solidarietà”, espressione francese che denuncia le sentenze anche molto dure contro chi aiuta i migranti. All’epoca dei fatti Francesca aveva 29 anni e militava nell’associazione Habitat et Citoyenneté e aveva contributo a far prendere coscienza della situazione al confine. Il 6 luglio 2018 il Consiglio costituzionale, in una decisione storica, ha riconosciuto che non può essere reato aiutare in modo disinteressato i migranti in nome del “principio di fratellanza”, iscritto nel motto della Francia. La Cassazione ha allora annullato alcune condanne, tra cui quella di Cédric Herrou, l’agricoltore simbolo dell’aiuto ai migranti. Francesca ora è libera, in attesa del processo in Cassazione. L’hanno soprannominata la “Carola Rakete francese”. Come Francesca, anche Carola, oltre al reato di resistenza a pubblico ufficiale escluso dal giudice che l’ha liberata ma tuttora ipotizzato a suo carico dalla Procura, risponde di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare.
Renzi-Giuda rinnega Minniti sui migranti per fregare Zingaretti
Nel gran Carosello che è il Pd succede che Matteo Renzi aspiri al ruolo di “anti-Salvini” sparando sul Pd di due anni fa. Quello di cui era segretario, tanto per capirci.
L’iniziativa l’ha presa con una lettera a la Repubblica in cui rinnega Marco Minniti ministro dell’Interno, che aveva definito “una minaccia per la democrazia” l’arrivo di poche barche dal Mediterraneo: “Il successo di Salvini inizia lì”. L’accusa all’ex ministro dell’Interno è tanto secca quanto contraddittoria, visto che fu proprio Renzi a definirlo il miglior candidato alla segreteria del Pd.
Dopo Minniti Renzi attacca Paolo Gentiloni per non aver posto la fiducia sul tema dello ius soli, la cittadinanza concessa per nascita agli immigrati e che vide allora una forte opposizione dell’alleato Angelino Alfano e di parte del Pd. Su questo è la ex senatrice Pd, oggi Articolo 1, Cecilia Guerra a ricordare i fatti: “Il provvedimento sullo ius soli, approvato alla Camera nell’ottobre 2015, è stato incardinato al Senato il 21 ottobre 2015. Gli emendamenti vengono presentati il 27 aprile 2016. Quello era il momento di prendere la decisione sulla fiducia. E al governo, fino al 31 dicembre 2016, c’era Matteo Renzi”. Ma questi per Renzi sono dettagli. La lettera a Repubblica serve a rivendicare i principi di accoglienza, a rispolverare il mito di Antigone e quello dell’Italia “terra di migranti”. Trova anche il tempo per incensarsi come capo di governo e per ricordare che il 12 luglio terrà un convengo a Milano “per la lotta alle fake news”.
L’iniziativa vuole scompaginare gli equilibri interni, ricompattare i fedelissimi e recuperare anche vecchi nemici. Sembra però ridare fiato a una lotta sorda, dettata, pensano in molti nel Pd, dall’impossibilità di restare in seconda fila, dal bisogno di voler avere un ruolo di primo piano. Non a caso Zingaretti risponde stizzito, dicendo di leggere nella lettera semplicemente “una severa autocritica”. Carlo Calenda sembra sorpreso e invita a non rivangare il passato, Matteo Orfini invece rivendica le stesse posizioni, ma avverte: “Io ce l’avevo già due anni fa”.
Ma l’iniziativa serve soprattutto a mettere sotto pressione Nicola Zingaretti che nella stessa giornata concede un’intervista al Foglio e, al contrario di Renzi, difende a spada tratta Minniti sull’immigrazione, risponde imbarazzato alle domande sul voto del Pd relativo alla missione in Libia – inaugurata da Gentiloni e Minniti e su cui ora il Pd ha deciso di astenersi – e rispolvera, addirittura, la politica del “pop-corn”, cioè una idea che basta sedersi a guardare il film populista e quello, per le sue contraddizioni interne, svanirà: “Sono convinto che il consenso a Salvini come è arrivato se ne andrà via”.
Marco Minniti, invece, preferisce il silenzio, ma chi lo conosce sa che nel leggere la lettera di Renzi gli sono cadute le braccia. Non era proprio Renzi che vantava le politiche di fermezza sul fenomeno migranti ? Andando a ripescare in archivio le frasi sono evidenti.
Tweet del 12 febbraio 2018: “Bisogna bloccare le partenze e Marco Minniti lo ha fatto. Sono orgoglioso di aver salvato persone che rischiavano di morire in mare. La Bossi-Fini ha regolarizzato 648 mila clandestini irregolari, non li ha mandati indietro”.
Tweet del 2 marzo 2018: “Non ci facciamo i selfie ai cancelli, ma risolviamo crisi aziendali, non siamo criminologhi, ma abbiamo bloccato gli sbarchi dei clandestini”. In quel tempo Renzi indicava come “straordinario” il lavoro di Minniti e Gentiloni, a cominciare dal contrasto alle partenze e dagli accordi. “Non si può negare la realtà e cioè che se gli sbarchi sono venuti meno in questo periodo è perché c’è stata un’azione intelligente di contrasto. Non c’è contraddizione tra l’aver salvato le persone che abbiamo salvato e il desiderio di non farle partire, perchè il mare è il posto più pericoloso dove salvare le persone”. Salvini è certamente “cattivo”, ma queste parole non si discostano poi molto dai ragionamenti che si sentono in bocca al leader leghista.
Che, infatti, intervenendo alla festa dell’Unità di Modena, nel settembre 2017, rivendicava “l’aiutamoli a casa loro” perché l’Italia non può accoglierli tutti”. Su questa linea, poi, vincolava la promozione del suo libro con uno slogan inequivocabile che riproduciamo in pagina. “Aiutamoli a casa loro”, del resto, è forse lo slogan più direttamente riconducibile alla destra, perché chi sa di cose internazionali, eventualmente parla di investimenti, non di generici aiuti.
Ancora il 12 febbraio 2018 in un appuntamento a Firenze: “Se oggi gli sbarchi sono quelli che sono, il Pd non ha alcune remora a dire ‘grazie’ al ministro dell’Interno e al governo per il lavoro straordinario che hanno fatto in questo settore”. Minniti applaudiva in prima fila. Meno di una settimana dopo, il 18 febbraio 2018, Renzi e Minniti sono ospiti di Lucia Annunziata in tv: “Io, Paolo e Marco non litigheremo mai”, dice, prima di alzarsi e salutare Minniti con tanto di bacio. Il bacio di Giuda.
L’imbarcazione: due alberi, 20 metri
Alex è una barca a vela, realizzata dalla Cantieri Benetti, storica azienda viareggina fondata nel 1873, specializzata in yacht e imbarcazioni di lusso. Modello Benetti Ms20: lunga 20 metri, larga 5,64 metri con un pescaggio di 2,80 metri. Gli interni sono rivestiti in legno e oltre ad avere un piccolo angolo cottura, in coperta ci sono 10 cuccette. Un bialbero con un motore da 2 x 150 HP, 2700 litri di carburante, vele avvolgibili, pilota automatico, tv e frigoriferi.
La missione della barca è quella di monitorare le acque internazionali, vista l’assenza della Mare Ionio, che appartiene alla stessa ong Mediterranea ed è sotto sequestro nl porto di Licata per le indagini della Procura di Agrigento. A bordo un equipaggio di dieci persone cui si è aggiunto un giornalista.
La barca è stata affittata dalla Azzurro Charter, azienda di Gioiosa Jonica (Reggio Calabria) che noleggia yacht, monoscafi e catamarani. Da listino il costo d’affitto settimanale (Iva inclusa) è di 8 mila e 650 euro, con una cauzione di 4 mila euro. Mediterranea ha raccolto oltre 800 mila euro di sottoscrizioni ma potrebbe aver pagato meno.
I 41 del veliero verso Malta. Braccio di ferro con Salvini
L’ennesimo braccio di ferro di un’emergenza che non c’è si gioca sulla pelle di 41 naufraghi, ammassati sotto il sole cocente sulla prua di una barca a vela lunga 20 metri. Si chiama Alex, era la barca appoggio della Mare Ionio della ong Mediterranea, ora sequestrata nel porto di Licata (Agrigento). Doveva fare solo monitoraggio in mare ma giovedì ha preso a bordo 54 persone a una settantina di miglia dalle coste libiche e poi ha fatto rotta verso nord. Tredici sono stati trasportati a Lampedusa: sono minori, donne incinte, persone in condizioni di salute precarie.
Fino a ieri sera la Alex era al limite delle acque territoriali italiane, cioè a poco più di 12 miglia da Lampedusa, col divieto di avvicinarsi ordinato da Matteo Salvini in base al suo decreto Sicurezza bis. Il governo italiano ha fatto un accordo con Malta, vuole mandarli lì anche se Malta dista oltre 100 miglia. È pronto a muovere due motovedette perché è evidente anche a Salvini che la barca a vela non può fare la traversata con quel carico umano a bordo. Ma il capo della Lega pretende che a La Valletta, insieme alle motovedette, vada anche il veliero umanitario, che per le sue caratteristiche anche con un carico normale ci mette almeno dodici ore. E i responsabili di Mediterranea, la ong dei centri sociali e di Sinistra italiana, chiedono invece di evitare “atti coercitivi”.
Insomma, è un braccio di ferro sul nulla. Il “porto sicuro” stavolta c’è, Salvini però non ammette – spiegano i suoi – che le motovedette italiane tornino a fare “i taxi come in epoca pre-Minniti” e probabilmente vuole anche che la Alex si sottoponga ai controlli maltesi. O magari vuole solo una foto della barca dei centri sociali a La Valletta, per la serie “porti chiusi”. Mediterranea non ha accettato questa condizione: sembrava disposta ad arrivare fino al limite delle acque maltesi insieme alle motovedette italiane e lì, eventualmente, consegnare i naufraghi alle motovedette maltesi. La situazione a bordo è tutt’altro che semplice: manca lo spazio per 41 ospiti più gli undici membri dell’equipaggio, non c’è riparo, i bagni pensati per un’imbarcazione con dieci posti letto non possono bastare per tutti. Per il titolare del Viminale “il rifiuto a entrare in porto (e quindi ad assoggettarsi ai controlli e alla legge maltese)” è “una provocazione assurda e una scorciatoia per dribblare le norme di un altro Paese membro dell’Unione europea”. Mediterranea replica: “In queste condizioni è impossibile affrontare 15 ore di navigazione. Siamo in attesa di assetti navali italiane o maltesi che prendano a bordo queste persone”, ha detto Alessandra Sciurba, portavoce dell’ong.
Intanto potrebbe avvicinarsi all’Italia un’altra nave, chiamata Alan Kurdi in ricordo del bambino curdo-siriano di tre anni che morì sulle coste turche nel 2015. Ha soccorso 65 naufraghi ieri a 30 miglia dalla Libia. È una nave dell’ong tedesca Sea-Eye e quindi è subito iniziata una sceneggiata diplomatica tra Roma e Berlino, a pochi giorni dall’ultimo caso Sea Watch e dalla scarcerazione della comandante Carola Rackete. Perché Sea Eye, naturalmente, ha rifiutato il porto libico offerto da quel che resta del governo di accordo nazionale di Tripoli. “Non è un porto sicuro”, dicono. Salvini ha scritto a Horst Seehofer, il ministro dell’Interno della Repubblica federale: “L’Italia non intende più essere l’unico hotspot dell’Europa”. E poi ha fatto twittare: “Vadano in Tunisia o in Germania”, come se non sapesse che i porti tedeschi sono molto lontani e che la Tunisia non accetta migranti e in ogni caso non offre adeguate garanzie.
Da Berlino una portavoce del governo, Martina Fiez, ha ribadito che “salvare vite in mare è un compito europeo” e ha auspicato “una soluzione veloce: si tratta di trovare – ha detto – un porto sicuro e di chiarire la questione della redistribuzione” in ambito Ue. La stessa Fiez però ha ricordato che non è arrivata formale richiesta per i 42 della Sea Watch che Berlino, con altri quattro governi Ue, si era detta pronta a ricollocare. Ad ogni modo la Alan Kurdi fino a ieri sera era lontana da Lampedusa e dall’Italia.
Nel Mediterraneo centrale c’è anche la Open arms della ong catalana Proactiva Open Arm, che batte bandiera spagnola ed è già stata protagonista di salvataggi e polemiche: “Vista la totale assenza di organizzazioni che possano documentare quello che sta accadendo e garantire un intervento rapido in caso di necessità, la nostra missione è proteggere con la nostra presenza le persone in pericolo di vita, fin quando le autorità preposte non ci sostituiranno”.