Il killer “Teddiboi” della provincia “Granda”

Negli anni ormai leggendari di Cuore, il settimanale di “resistenza umana”, era diventato una delle colonne portanti del periodico satirico con le sue cronache da Cuneo. E sempre nella città piemontese, la più francese d’Italia, dove nei caffè si beve pastis come nei bistrot di Georges Simenon e di Léo Malet, è stato tra i fondatori dell’associazione degli “Uomini di mondo”. Un’allegra brigata, quest’ultima, fondata sul sillogismo che “se Totò era un uomo di mondo perché aveva fatto il militare a Cuneo, allora tutti coloro che hanno fatto il militare a Cuneo sono uomini di mondo”.

Adesso Piero Dadone, giornalista e scrittore, ha voluto rievocare in un libro un omicidio feroce del 1960 avvenuto a Vinadio, in una delle valli cuneesi, all’epoca in cui il futuro “uomo di mondo” frequentava il convitto dei salesiani della sua città, dove stava per iniziare il triennio della scuola media. Nel suo Il teddiboi, il già corrispondente di Cuore dalla cosiddetta “Provincia Granda” non si limita a ricostruire il delitto, la fuga, l’arresto e la condanna dell’assassino, e poi la sua evasione, il nuovo arresto, la pena e la grazia (concessa del presidente della Repubblica Francesco Cossiga) dopo quasi trent’anni di cella. Con gli occhi di un ragazzo, e la levità di un Simenon adolescente, Dadone ripercorre la vita di allievo dei salesiani, nello scorcio degli anni Sessanta tra Papa Giovanni e John Kennedy, e le vicende fosche del delitto del giovane Livio Giordano. Era lui, il Giordano, infatti, il “teddiboi”, come lo chiamavano i ragazzi della provincia, che aveva massacrato e rapinato l’amico Giovanni Armando, titolare dell’ufficio postale di Vinadio, per potere comprarsi una Giulietta Alfa Romeo più potente e andare a fare il “viveur” sulla Costa Azzurra.

Il piccolo Dadone e i suoi compagni, rinchiusi nel convitto, possono seguire solo saltuariamente le cronache del delitto. I preti della scuola invitano a pregare per vittima e carnefice. Qualcuno, alunni esterni o semiconvittori, porta notizie; altri riescono ad avere le pagina dei giornali, La Stampa e la vecchia Gazzetta del Popolo, che raccontano le gesta di Giordano. In realtà il “male” è più vicino di quanto si pensi, visto che l’assassino, a un certo punto, è detenuto nel carcere di Cuneo che è a pochi metri dal convitto. E da quella cella, un giorno, Giordano evade come un Pierrot le Fou, anche se lo riprenderanno subito. Intanto scorrono i mesi e gli anni di quell’Italia, di quel mondo: il boom, le innovazioni del Concilio Vaticano sotto Papa Giovanni XXIII, Gagarin, la guerra d’Algeria, il Giro d’Italia, la Juventus con l’ultima partita di Giampiero Boniperti. Poi tutto cambia. Prima della nascita di Cuore e degli “uomini di mondo”, nel 1987 Giordano, quarantasettenne, ottiene la grazia. Vivrà fino a 78 anni da cittadino esemplare. Solo chi cade può risorgere. Anche un “teddiboi”.

“Tu mi sfuggi”. “Io non ti amo”

Perché mi fate piangere, Guido, perché mi fate rimpiangere quel poco che v’ho dato di me? Non dovevo venire con Voi quel giorno per soffrirne dopo, così, per vedermi tolta anche la piccola dolcezza di sentirvi qualche volta vicino. È così poca cosa la vita e così breve per negarci qualche poco della sua bellezza per tormentarci volontariamente anche quella piccola parte di bene che ci concede? Voi vi dite corazzato anzi insensibile a ogni ferita. Io no, mio dolce Amico, io vi voglio bene e soffro crudelmente di sentirvi tanto lontano… No, noi non abbiamo ancora sepolto nulla di noi stessi. Io sono per te come il primo giorno che ti vidi, non sazia, né stanca, né oppressa dalla più piccola parte di te… È un senso strano ch’io non so dire, ma che non ho mai sentito per altri, una malia, quasi, che è credo, una occulta profonda fraternità, un oscuro legame spirituale che ci unisce anche nostro malgrado. Ma tu mi allontani con un gesto che mi pare un urto di disdegno… Nessuno, ti giuro, mi ha mai veduta così spoglia d’orgoglio, così vestita di pura tenerezza. Tu solo che non mi ami, tu solo che mi sfuggi.

Amalia Guglielminetti, 24.03.1908

 

Sento in fondo all’anima una specie di fiera tristezza, per aver saputo essere crudele con me e forse – perdonami – anche un po’ con te… Io provo una soddisfazione speciale quando rifiuto qualche bella felicità che m’offre il Destino. E quale felicità, Amica mia! Il nostro amore che sarebbe fiorito con tutti i fiori della primavera torinese! (così dolce per l’esule che ritorna!) anche la stagione sarebbe stata propizia alla nostra follia! E quanti mesi di serenità, di sole, di profumo! E quanti sogni!… Io li ho già sognati tutti e t’ho già vista in tutti… Io non vedrò le tue vesti nuove. Sarò lontano, solo, con la mia ambizione taciturna: una compagna ben più crudele della tua malinconia… Ah! Se io potessi darti una parte soltanto di questo mio orgoglio latente, anche il dolore che tu dici di avere in te impallidirebbe e l’amore ti apparirebbe qual è: un inganno della giovinezza e un episodio trascurabile in un destino come il mio e come il tuo…. Amalia, quante di queste cose t’avrei detto e ti vorrei dire se tu non fossi giovine e bella! Ma hai degli occhi luminosi ed una bocca tentatrice ed è impossibile starti vicino senza diventare irriverenti con te come con una crestaia od una cortigiana qualunque… Parlo, parlo, e, sopra tutto, ragiono: quanto devo farti soffrire! E anche sdegnare. Perdonami! Perdonami. Ragiono, perché non amo: questa è la grande verità. Io non t’ho amata mai.

Guido Gozzano, 30.03.1908

La landa di nessuno trova la “luce” grazie a Mimmo Calopresti

Nell’ottobre del 1951 un’alluvione distrusse Africo. Piovve sul bagnato: nel paesino alle pendici dell’Aspromonte, al più, si sopravviveva. Le condizioni – due terremoti a inizio Novecento aiutarono – erano disperate, senza essere allarmanti, perché non vi era alcuno che recepisse: le case pericolanti, il medico assente, l’unica aula scolastica ricavata nella stanza da letto della maestra.

L’occhio sull’abisso lo gettò tra le due guerre il meridionalista Umberto Zanotti Bianco: Africo era isolamento, desolazione, malattia e gabelle inique. Aggrappato al “monte lucente” dei Greci e lasciato a se stesso, nondimeno è per il Poeta interpretato da Marcello Fonte “la terra degli ultimi, la terra di quelli che ancora rispettano i padri… La terra dei poeti, la terra della civiltà. Qui ancora c’è la civiltà”. Residuale o sommersa, poco importa, in questa terra di mezzo, forse terra di nessuno, Mimmo Calopresti piazza la sua camera, che ha una già neorealista posizione morale: Aspromonte la terra degli ultimi viene al cinema per discernere, per separare il grano dal loglio, le strade dai muri, l’affrancamento dal servaggio. In anteprima al 65° Taormina Film Fest e dal 17 ottobre nelle nostre sale, trae ispirazione da Via dall’Aspromonte di Pietro Criaco, trasformato in sceneggiatura dallo stesso Calopresti con Monica Zapelli e la collaborazione di Fulvio Lucisano, che produce e distribuisce con Italian International Film (IIF).

La fotografia ha le focali lunghe della Storia: ieri è già domani, e ancor prima oggi. Le strade s’oppongono ai muri, le donne sono – e hanno la – meglio, l’istruzione e la cultura ostano a criminalità e abbrutimento, le istituzioni sono inadempienti, le leggi insufficienti: “Il film – dice Calopresti – è insieme un racconto neorealistico ed epico, il realismo di un mondo povero, anzi poverissimo, e l’epicità della battaglia per riscattare la propria condizione di canaglia pezzente”. Sì, la Storia informa: c’è la maestra Giulia (Valeria Bruni Tedeschi) che evoca animo e indirizzo Zanotti Bianco; c’è l’assalto alla locale caserma dei carabinieri del 20 gennaio del 1945; c’è un giornalista che ritrova Tommaso Besozzi, il cui reportage del marzo 1948 per L’Europeo mise su carta – fotografie di Tino Petrelli – l’abbandono dello Stato e altri disastri. Non resta che andarsene? Prima bisogna provare a restare, dunque, a collegare Africo alla Marina, spezzando l’impossibilità di quell’isola abbarbicata all’Appennino calabro: la strada, serve la strada, affinché altre donne non muoiano di parto nell’attesa di un medico che non verrà.

Dal Nord arriva la maestra, che darà più di una lezione, ma gli africoti non stanno a guardare: il dopolavoro è ancora lavoro, guidati dal manovale Peppe (Francesco Colella) la strada si costruisce dall’alto, da monte a valle, ma viene dal basso, perché lo Stato non c’è – e se c’è, il prefetto (Francesco Siciliano), è infingardo – e tocca autogestirsi. Faticano tutti, grandi e piccini, affinché il sole avito – Africo viene dal latino apricus, “soleggiato” – diventi dell’avvenire, ma Peppe e compaesani si troveranno presto tra due fuochi: il prefetto, che non tollera l’autodeterminazione, e il malavitoso don Totò (Sergio Rubini), che vuole inibire quella via di salvezza.

Gli spari sopra il riscatto collettivo non mancheranno, né gli arresti (lo spaccapietre Marco Leonardi), però Calopresti per interposto Poeta non smobilita: “I sogni sono quelle cose che ti fanno pensare che sei libero, e che ti fanno essere quello che sei”. Seppure qualche didascalismo appesantisca l’impianto metaforico e parabolico, Aspromonte, la terra degli ultimi riesce a preservare il realismo nell’esemplarità, e non è guadagno di poco conto: Calopresti il mestiere lo conosce almeno quanto la sua Calabria – natali a Polistena – e qui ci rimanda a memoria un cinema antico senza essere vecchio, buono senza farsi edificante, civile senza essere ideologico. Bravi gli interpreti, da Fonte – dopo il battesimo di Dogman, migliore attore a Cannes 2018, non si ferma più: comparirà al fianco di Mark Ruffalo e Melissa Leo nella serie I Know This Much Is True di Derek Cianfrance – a Colella e Leonardi, si fanno notare le musiche solidali di Nicola Piovani e il montaggio lirico-popolare di Esmeralda Calabria. Nel finale, Fulvio Lucisano, 91 anni il prossimo 1° agosto, entra in campo per rileggere il Poeta tra le rovine di Africo Vecchio: il cinema non può salvare la realtà, ma sublimarla sì.

@fpontiggia1

Quell’amore “di-verso” tra Gozzano e Amalia

L’amore, un’invenzione dei poeti: “Io non sono innamorato che di me stesso”, dice lui. E lei risponde per le rime: “Chiamatemi Amalia – con un m solo, ahimè!”. Tra comuni mortali la relazione sarebbe iniziata e finita lì, ma tra anime belle e laureate questo scherzetto sentimentale è durato tre anni e più, dal 1907 al 1910, con una piccola “resurrezione” nel 1912: protagonisti sono Guido Gozzano (1883-1916), “considerato a sua insaputa crepuscolare”, e Amalia Guglielminetti (1881-1941), alias “Lady Medusa”. Maledetti poeti innamorati.

Quodlibet ripubblica le Lettere d’amore tra i due – di cui anticipiamo sotto uno stralcio –, con la curatela di Franco Contorbia e sulla scorta dell’edizione Garzanti del 1951 poiché gli scritti originali sono andati perduti. Gozzano e Guglielminetti si conoscono nel 1906 – lui 23enne, lei 25enne – e iniziano a flirtare nel 1907, dopo essersi scambiati le reciproche raccolte di versi: La via del rifugio lui e Le vergini folli lei, due titoli profetici rileggendo ora il loro tormentato carteggio. Dopo la bruciante infatuazione, l’uomo scappa a piè veloce dalle grazie della giovane collega, ritirandosi in questo o quel “rifugio”, sempre più lontano, e fino in India. Lei, viceversa, è fresca di Seduzioni, sulla carta più che nella vita: la raccolta è salutata con toni enfatici dallo stesso amico-amante (“L’Italia ha una nuova grande poetessa”, scrive in un articolo), che prima la corteggia e poi l’abbandona.

È bravissimo Guido a titillare la sensibilità e l’intelligenza di Amalia: “Le giuro, cara Signorina, che non conosco nella letteratura muliebre italiana, presente e passata, opera di poesia paragonabile alla sua… Come fare per dirle che di molti suoi sonetti sono innamorato?”. La donna ci casca, proprio come una “vergine folle”, salvo poi lamentarsi delle “cose belle e perfide di cui noi poeti si vive e ci s’avvelena”.

Mammone (“Non mi concederò il piacere di scriverle. Perché è qui la mia Mamma”, maiuscolo!); egocentrico (“Io non sono innamorato che di me stesso”); lamentoso (“Sono amaro con tutti; non vogliatemi tanto bene, non me lo merito!”); seduttore (“Prima di tutto siete bella”); freddo (“Ho un profondo disprezzo per la mia e per la vostra anima”): Gozzano è l’amante perfetto. Da scaricare. Ma Amalia non riesce a resistergli; se lo terrà per almeno tre anni, anche solo per corrispondenza di amorosi e odiosi sensi, anche solo su carta, come amico di penna, e di letto chissà: “Voi rimpiangete ch’io non sia un uomo. E lo rimpiango anch’io intensamente. Non sono che un essere ibrido male adatta a vivere fra gli schermi anche leggiadri della pura femminilità”.

Nel giro di qualche mese passano dal “lei” al “tu” e dalle chiacchiere ai fatti: si incontrano tête-à-tête nel salotto di casa Guglielminetti, a Torino; dopodiché la passione si infiacchisce. Ma solo per Guido: “Lasciando Torino ho avuto come un senso di liberazione. Per tante cose. E principalmente per Voi. Era tempo di frapporre tra noi due molti mesi e molti chilometri”. Amalia, suo malgrado, si ritrova più innamorata di prima. E in preda alla fregola vagheggia spasimanti toy boy: “M’avvedo che invecchio. Una volta non potevo soffrire gli uomini al disotto dei trentacinque, ora mi piacciono anche gli adolescenti”.

Il poeta, viceversa, è allergico al sentimentalismo e refrattario a qualsiasi emozione, crepuscolare com’è: “La passione è un ingombro… Mi sento nelle ossa un languore, e nel cervello una nebulosità sentimentale che mi umiliano… L’idea di accoppiare una voluttà acre e disperata alla bellezza spirituale di una intelligenza superiore come la vostra mi riesce mostruosa, intollerabile… Risento sulla mia bocca la crudeltà dei vostri canini. Non ti amo”.

La scrittrice per un po’ resiste, poi cede anch’ella al sarcasmo, al disamore, all’oblio: “Fate bene a non mettervi anche Voi ad amoreggiare in versi e in rime con la solita classica antipatica noiosa donna bella che tutti i poeti hanno posseduto o detto di possedere come una cortigiana qualunque”. Poi esce di scena, non prima però di aver vergato dolcissime parole d’amore: “Ti bacio su gli occhi lungamente e su la bocca in fretta, per non morire”. Ma questa è poesia, non prosaica cronaca rosa.

Finito il farmaco anti-cancro: “Cercheremo all’estero”

Esaurite le scorte di mitomicina, farmaco per il trattamento del tumore alla vescica, all’ospedale fiorentino di Careggi. La Regione Toscana “si è mossa per cercare la molecola anche all’estero”, ha annunciato ieri il governatore Enrico Rossi. Perché 25 pazienti intanto sarebbero rimasti senza trattamento. “Abbiamo rapporti con una struttura del Servizio sanitario nazionale che potrebbe aiutarci”, ha continuato Rossi. Nelle settimane scorse, sempre a Firenze, a suscitare la protesta di pazienti e medici era stata la carenza del farmaco per il Parkinson, che poi è stata risolta.

Geronzi e Arpe condannati in Cassazione per il fallimento

È stata confermata dalla Cassazione la condanna a 4 anni e 6 mesi di reclusione per l’ex banchiere Cesare Geronzi e a 3 anni e 6 mesi per Matteo Arpe, nell’ambito del processo sul crac delle acque minerali Ciappazzi, filone dell’inchiesta Parmalat. Sono stati condannati anche Roberto Monza e Antonio Muto a 3 anni e due mesi ciascuno, Riccardo Tristano a 3 anni e Eugenio Favale a 2 anni e 2 mesi. Sulle pene accessorie sarà la Corte di appello di Bologna, e sarà la terza volta, a doversi pronunciare. I giudici dell’appello tris dovranno stabilire per quanto tempo gli imputati saranno inibiti dal ricoprire incarichi societari e pubblici uffici.

Tabaccaio aggredito in metro muore dopo un mese di agonia

È morto in ospedale dopo quasi un mese di agonia Ulderico Esposito, il tabaccaio di 52 anni aggredito da un nigeriano lo scorso 9 giugno all’interno della stazione di Chiaiano, della linea 1 della metropolitana di Napoli. Il pugno sferrato dal nigeriano gli aveva causato una emorragia cerebrale. Ricoverato all’ospedale Cardarelli, è deceduto durante la scorsa notte. Il nigeriano era stato arrestato dalla Polizia la sera stessa. La brutale aggressione fu l’ultimo atto di una tensione che andava avanti da tempo tra l’uomo e alcune persone che erano solite chiedere l’elemosina all’interno della stazione Chiaiano della metropolitana di Napoli. Più volte era stato intimato loro di non infastidire la clientela e di andarsene, ed era stato anche esposto un cartello con il quale il gestore dell’esercizio commerciale invitava i clienti a non dare l’elemosina agli “accattoni davanti e nei pressi del negozio”, paragonando il guadagno giornaliero degli extracomunitari a quello di “un operaio specializzato italiano”. Anche il 9 giugno, secondo quanto ricostruito dagli investigatori, Esposito aveva intimato al 32enne nigeriano di allontanarsi, ma quest’ultimo a freddo gli ha sferrato un violentissimo pugno al volto.

Stromboli, l’amico della vittima: “Correvamo tra lapilli e pietre poi è caduto… perché sono vivo?”

In questi giorni Stromboli è più che un porto: chi va, chi torna. Con due facce contrapposte: quella esterna, con turisti al mare, e quella interna, con i suoi condotti magmatici che restano attivi. Normalità e allerta. Così l’isola dell’Eolie all’indomani della violenta esplosione, quella di maggiore energia registrata dal 1985 a oggi, che ha provocato la morte di un 35enne appassionato di mare, vulcano e foto, Massimo Imbesi, sul sentiero di Punta del Corvo a Ginostra. Con lui c’era un suo amico e coetaneo brasiliano, Thiago Takeuti, che rivive la tragedia dicendosi “miracolato” e chiedendosi “perché sono rimasto vivo io?”. Ha negli occhi ancora quei momenti terribili: “Dopo l’eruzione – ricostruisce – abbiamo cercato riparo in una zona dove il fuoco era già passato e pensavamo non tornasse. Ma correndo tra pietre e lapilli siamo caduti a terra. Respirava sempre più affannosamente. Ho provato a rianimarlo ma niente…”.

Intanto Stromboli cerca di tornare alla normalità. C’è gente che fa il bagno nella spiaggia di Petrazze, e ci sono due Canadair che fanno il pieno di acqua in mare per lanciarla sui focolai rimasti accesi sul costone dell’isola, lontani dal centro abitato. Chi vive sotto un vulcano attivo è abituato a convivere con Iddu (“Lui”), come lo chiamano da queste parti. A fronte delle circa 100 persone che hanno lasciato di corsa Stromboli, oltre 20 hanno già fatto rientro. Il vulcano si estende sotto il livello del mare per circa 3.000 metri ed “è ancora in disequilibrio”, ricorda Eugenio Privitera dell’Ingv di Catania. Inoltre i “tremori registrati nei condotti magmatici interni da ieri sera sono saliti a livelli alti” e per precauzione il sindaco di Lipari, Marco Giorgianni, ha disposto il divieto di escursioni. Ci sono state altre esplosioni nella notte. Segnali che hanno indotto il dipartimento della Protezione civile ad alzare il livello di allerta a giallo. “Il vulcano resta un sorvegliato speciale”, conferma Privitera. Una linea condivisa dalla Prefettura di Messina: “Al momento non abbiamo situazioni che possono indurre a far evacuare l’isola. Ma il vulcano è imprevedibile dobbiamo tenere conto di questo”. Per precauzione nel porto è già arrivata la motonave Helga della Caronte.

L’email dell’azienda ai fornitori: “Basta fattorini di colore, oppure rescindiamo i contratti”

“Chiediamo tassativamente, pena interruzione di rapporto di fornitura con la vs Società, che non vengano più effettuate consegne utilizzando trasportatori di colore e/o pakistani, indiani o simili”: è l’incredibile testo della email inviata da un’azienda di lavorazione di metalli del bresciano, la Chino Color Srl di Lumezzane, il 21 giugno scorso, a tutti i suoi fornitori, come riporta ieri da Il giornale di Brescia.

E non basta: l’email, che ha per oggetto “comunicazione importante”, continua specificando che “gli unici di nazionalità estera che saranno accettati saranno quelli dei Paesi dell’est, gli altri non saranno fatti entrare nella nostra azienda né tantomeno saranno scaricati”. La foto della email arrivata a una ditta di consegne è stata postata su Facebook anche dall’avvocato esperta in tematiche anti-discriminazione Cathy La Torre e dai Sentinelli di Milano. Tra i commenti anche la risposta che una delle ditte a cui è arrivata la email di Chino Color srl ha inviato all’azienda: “Non riusciamo a capire le motivazioni. Garantiamo la corretta assunzione dei nostri collaboratori e la loro regolarità di soggiorno nel nostro Paese”.

Scontri al “G7 della Scienza”. Arresti domiciliari per quattro leader di Askatasuna

Si erano dati appuntamento a Torino contro il G7 dell’Industria, Scienza e Lavoro e poi si erano scontrati con le forze dell’ordine. Sette antagonisti sono finiti ieri ai domiciliari e altri dieci dovranno presentarsi tutti i giorni alla polizia giudiziaria. Sono le misure cautelari stabilite dal Tribunale di Torino contro alcuni manifestanti che hanno preso parte agli scontri del 29 e del 30 settembre 2017 a Venaria Reale. Sono accusati di violenza aggravata a pubblico ufficiale, lesioni ed esplosione di ordigni e materiale esplodenti.

Si tratta soprattutto, come spesso accade, di militanti del centro sociale Askatasuna, tra cui spiccano i leader storici Giorgio Rossetto e Andrea Bonadonna che insieme a Mattia Marzuoli e Umberto Raviola sarebbero stati alla “regia delle azioni criminali”, come sostiene la Digos della questura di Torino.

In città erano arrivati anche antagonisti da Firenze, Modena, Venezia, Roma e Bari e il 29 settembre avevano manifestato con l’obiettivo di raggiungere l’Nh Hotel Carlina, in centro città, dove alloggiavano le delegazioni degli Stati. Nel pomeriggio erano stati rovesciati e incendiati alcuni cassonetti e durante la serata i manifestanti avevano lanciato bombe carta e altri petardi contro le forze dell’ordine.

Il giorno dopo vicino alla Reggia di Venaria circa duecento antagonisti avevano tentato di sfondare il blocco di forze dell’ordine con carrelli della spesa, bombe carta e razzetti esplosi verso gli agenti. Per Dana Lauriola, portavoce di Askatasuna, si tratta di “una vendetta contro i movimenti a pochi giorni da un momento importante per i No Tav come il festival dell’Alta Felicità” a Venaus, di cui Bonadonna è il direttore artistico. Esulta il ministro dell’Interno Matteo Salvini che attacca “gli estremisti rossi, troppo spesso coccolati da certa sinistra. Anche per loro è finita la pacchia”.