Indagine sui veleni del termocombustore di Acea

Un gigante da 397.200 tonnellate di combustibile da rifiuti bruciate l’anno producendo energia elettrica. Ci lavorano 86 persone e le emissioni, secondo le tabelle pubblicate sul sito dell’Acea, multinazionale proprietaria dell’impianto, sarebbero ampiamente al di sotto del consentito dalle norme. Ma c’è una denuncia già da qualche giorno sulle scrivanie della procura presentata dall’associazione ambientalista Fare Verde onlus di Cassino. E c’è un’attività d’indagine avviata dal Nucleo operativo ecologico dei carabinieri di Roma. Perché sul termocombustore di San Vittore, provincia di Frosinone, emergerebbero “gravi irregolarità inerenti l’iter autorizzativo”, si legge nella querela, oltre a sforamenti dei limiti di legge rispetto alle emissioni.

Cominciamo dall’ambiente. Acqua e aria a forte rischio e lo dicono i numeri delle relazioni dell’Arpa (Agenzia regionale per l’ambiente): almeno dal 2011 il ciclo di termocombustione dell’impianto di San Vittore “sta comportando il riversamento di sostanze nocive come ferro, alluminio, arsenico, cloro, cromo, manganese, ossidi di azoto” e altri agenti tutti “molto pericolosi: in grado di poter deteriorare e compromettere in maniera significativa l’aria, l’acqua e il sottosuolo posti nei dintorni dell’inceneritore in esame”. Qual è il raggio d’influenza di un impianto di questa portata (appena più piccolo di quello di Acerra, 81 km più a sud)? Venti chilometri. Un’infinità. Tanto che in questi anni si sono già associati alle azioni di Fare Verde onlus, oltre alla stessa San Vittore, anche i comuni di Cassino e Cervaro della provincia di Frosinone, Rocca d’Evandro, Mignano Monte Lungo e San Pietro Infine della provincia di Caserta. C’è anche una relazione dell’Ispra sul biennio 2014-2015: anni in cui l’inceneritore di San Vittore non ha bruciato soltanto rsu (rifiuti solidi urbani) ma anche materiali “altri” che hanno prodotto ceneri pericolose finite anche su Ferentino e Patrica, a oltre 70 chilometri di distanza. Secondo la denuncia di Fare Verde onlus “la consistente diffusione di neoplasie nella zona del Cassinate potrebbe essere ricondotta a queste emissioni nocive e incontrollate: da uno studio realizzato dai medici dell’ospedale di Roma Regina Elena risulterebbe”, inoltre, “tra la popolazione che vive nell’area ove è ubicato l’impianto in esame, un alto indice di incidenza tumorale alle vie respiratorie e al sistema digerente”.

A tutto questo si accompagna quello che Fare Verde onlus definisce “numerose e gravi irregolarità inerenti l’iter autorizzativo”. Senza cadere in tecnicismi burocratici e per fare un esempio l’associazione ambientalista ritiene “palese la violazione della legge 152/2006 e degli articoli 9 e 32 della Costituzione per omessa acquisizione del parere favorevole dell’Arpa Lazio e dunque per omessa valutazione coerente e corretta dell’impatto del termocombustore di San Vittore sulla salubrità ambientale delle popolazioni allocate nei siti adiacenti e vicini”. Quindi Fare Verde lamenta l’illegittimità dell’Autorizzazione integrata ambientale (Aia), che andrebbe rinnovata ogni 5 anni, e che per l’impianto di San Vittore è stata concessa nel 2007 e rinnovata solo nel 2016 dalla Regione Lazio al termine di un “procedimento pieno di illegittimità e irregolarità”: senza ottenere, appunto, un parere dell’Arpa Lazio, ma con “carenze documentali attribuibili” anche “alla condotta di Acea Ambiente”.

Trump e Kim: sembrava amore, era solo una foto

Con Donald Trump, ci siamo abituati: un giorno sorrisi e pacche sulle spalle; il giorno dopo, minacce e sanzioni. I suoi interlocutori si adeguano: pare lo imiti pure Kim Jong-un, il dittatore nord-coreano che domenica lo aveva incontrato sul confine della penisola coreana. Un dibattito all’Onu per inasprire le sanzioni contro la Corea del Nord è l’occasione d’uno scambio d’accuse tra Pyongyang e Washington: i nord-coreani accusano gli Usa d’essere “determinati ad atti ostili”. La delegazione di Pyongyang dice che gli Usa sono “ossessionati dalle sanzioni” e che Washington tenta di “minare l’atmosfera pacifica” nella penisola – dove le due Coree non hanno mai fatto la pace, dal conflitto dal 1950 al ’53 –.

La scaramuccia diplomatica, innescata da una denuncia di Usa, Gran Bretagna, Francia e Germania – la Corea del Nord avrebbe importato nel 2017 petrolio raffinato superiore al convenuto –, testimonia l’imprevedibilità dei rapporti tra Pyongyang e Washington, così come quelli tra Kim e Trump. Lo screzio non ha rovinato la festa del 4 luglio che il magnate presidente ha costruito a sua immagine e somiglianza: magniloquente e un po’ pacchiana, centrata sulla sua figura, con una parata militare senza precedenti. E la Corte Suprema ha preso decisioni sgradite a Trump sul muro anti-migranti e sull’aborto, mentre l’annegamento nel Rio Grande di una bambina haitiana rinfocola le polemiche.

Grecia, arriva Mitsotakis Tsipras si aggrappa ai giovani

La statua di Alessandro il Macedone a cavallo che svetta da tre mesi e mezzo nel centro di Atene, a poche centinaia di metri dall’Acropoli, secondo Stavros e Xenia è il segnale plastico, più dei sondaggi, della imminente disfatta del premier Alexis Tsipras. La coppia di fidanzati, 17 anni lei e 20 lui, seduta al bar a pochi metri dal monumento, ritiene la decisione di far installare la statua equestre del mitico condottiero – idolo dei nazionalisti greci, specialmente di estrema destra – dopo la recente concessione del nome di Macedonia del Nord all’ex Repubblica jugoslava confinante con la regione macedone greca, l’ennesimo estremo tentativo fatto dal primo ministro per provare a rimanere in sella al Paese. Ma la maggior parte della gente sembra aver considerato l’iniziativa una presa in giro dopo il “grande tradimento”, nonostante tutti sappiano che Tsipras è stato costretto a fare l’accordo dall’Unione europea e dalla Nato.

“Tsipras sa che verrà disarcionato – dice con un sorriso ironico Xenia, studentessa all’ultimo anno di liceo – e per non perdere rovinosamente vorrebbe far dimenticare quello che la maggior parte dei greci considera un oltraggioso tradimento alla identità nazionale. Ergere adesso questo pezzo di ferro nel cuore della città però a me suona patetico”. Anche lei domenica potrebbe votare grazie alla nuova norma che permette di andare alle urne a partire dai 17 anni. “Ma non sappiamo ancora per chi votare perché nessuno ci sembra affidabile: né i populisti di Syriza né il figlio di papà Kyriakos Mitsotakis, dice sconsolato Stavros, universitario a Scienze politiche. Mitsotakis è l’erede dell’ex premier Kostantinos Mitsotakis, leader di Nea Demokratia (il partito di centrodestra dato per vincente, ndr) e questo giovane aspirante politologo non vede come il leader cinquantenne, zio del neo sindaco di Atene, possa mettersi nei panni della massa di poveri che ancora non riesce a sbarcare il lunario. “Nonostante la Troika non ci sia più ufficialmente, rimaniamo sorvegliati speciali e le misure di austerity potrebbero essere riportate a galla se Mitsotakis non farà quello che promette, tipo abbassare le tasse. Mi chiedo dove troverà i soldi”, sottolinea. Anche lui vorrebbe poter studiare economia ad Harvard, come ha potuto fare lo “yankee” Kyriakos ma non appartiene a una delle famiglie politiche più potenti e ricche della Grecia. Gli amici coetanei che vengono a sedersi con la coppia, invece, voteranno per i socialisti di Kinal, ex Pasok – il partito guidato per anni dai Papandreou, l’altro clan familiare politico del Paese responsabile del camouflage dei conti pubblici che ha permesso alla Grecia di entrare nell’Unione Europea ma anche di farla piombare nella crisi più nera dieci anni fa. Per questo il Pasok perse le elezioni riportando al potere nel 2012, dopo una decade, Nea Demokratia allora guidata da Antonis Samaras, rampollo del terzo clan politico della Grecia. “Io voterò per loro perché voglio che diventi il terzo partito al posto dei fascisti di Alba Dorata. So che in passato sono stati disonesti ma i vecchi del Pasok non ci sono più, molti sono confluiti in Syriza e personaggi disgustosi come Venizelos sono stati messi da parte” spiegano Stefanos e Maria.

A determinare il risultato sarà il mezzo milione di giovani che voteranno per la prima volta; gli indecisi dati all’11 per cento e, soprattutto “i bagnanti” visto il caldo torrido. I sondaggi danno oltre la soglia del 3 per cento anche i neonazisti filo-Putin di Soluzione Ellenica. Dovrebbe debuttare nel Parlamento anche il Mera25, il neo partito dell’ex ministro Varoufakis. Ma sul voto di domenica incombe già un nuovo voto il 15 agosto, come ha ammonito Mitsotakis se gli elettori gli daranno una maggioranza risicata di 2 o 3 seggi.

Maxi sequestro di cocaina proveniente dalla Colombia

Era nascosto a bordo della nave portacontainer Bomar Juliana, proveniente da Cartagena in Colombia, il maxi carico di cocaina da 538 chili scoperto nel porto di Genova Sampierdarena e nell’ambito dell’operazione “Nevischio”, risalente allo scorso 1 maggio. Nascosta all’interno di 19 borsoni e divisa in 493 panetti, la sostanza era occultata all’interno di un container che trasportava caffè, nel tentativo di sviare possibili controlli. L’hanno trovata durante lo scalo della nave a Genova da dove il carico sarebbe dovuto ripartire su un’altra nave diretto a Napoli, presumibilmente destinato ai traffici della Camorra. I panetti sono stati ritrovati con un “marchio” singolare operato dai narcotrafficanti: nella parte superiore riportavano una fotocopia su carta di una banconota da 500 euro, a fasciare il contenuto. Da analisi chimiche la cocaina è risultata avere un grado di purezza tra l’85 e il 90%: una volta tagliato il quantitativo sarebbe stato di circa 2.150 chili, corrispondenti a circa 2 milioni e 200 mila dosi al dettaglio, che immesse sul mercato avrebbero fruttato circa 200 milioni di euro. Da quanto emerso dalle indagini della Guardia di Finanza di Genova la droga apparteneva a cartelli colombiani.

“Lasciate i migranti ai libici”. Ma la “Alex” disobbedisce

“Adesso serve un porto sicuro”. È il tweet dell’equipaggio della Alex, barca della Ong Mediterranea, due ore dopo il salvataggio di 54 migranti trovati in mare, tra cui 11 donne (tre incinte) e 4 bambini. La decisione dell’equipaggio di salvare i migranti a bordo di un gommone, individuati durante una missione di osservazione nella Sar libica, trasgredisce però l’indicazione della Guardia costiera di Roma, che aveva avvisato la Mediterranea Alex dell’arrivo di una motovedetta libica pronta a riportare i migranti indietro. Nonostante l’avviso e le condizioni dell’imbarcazione, una barca a vela di 18 metri non compatibile per accogliere a bordo così tante persone, l’equipaggio ha deciso invece di evitare ai migranti il ritorno in Libia, dove nei giorni scorsi un centro per detenuti è stato bombardato. La motovedetta libica pronta a soccorrere il gommone è invece costretta, dopo aver intimato l’alt più volte e aver inseguito la barca a vela della Ong per diverse miglia, a dover tornare indietro.

Non ancora archiviato quindi il caso della Sea Watch3, con Carola Rackete che il 9 luglio dovrà comparire nel tribunale di Agrigento, un altro salvataggio riaccende di nuovo la polemica sull’accoglienza, scatenando l’immediata reazione del ministro dell’Interno Matteo Salvini che, dopo l’annuncio della Mediterranea Alex, risponde nel giro di pochi minuti con un tweet: “Se la Mediterranea ha davvero a cuore la salvezza degli immigrati, faccia rotta nel porto sicuro più vicino, in Tunisia che è più vicina rispetto a Lampedusa, e dunque che vada lì con i migranti che ha soccorso in mare. Altrimenti – conclude – sappia che attiveremo tutte le procedure per evitare che il traffico di esseri umani abbia l’Italia come punto di arrivo”.

Per la Mediterranea però quello di Tunisi non rappresenta un porto sicuro, e come già accaduto nella vicenda di Carola Rackete, che durante il suo interrogatorio ha precisato di come il territorio tunisino non fosse un luogo protetto (“Da informazioni – si legge nell’ordinanza del Gip – riferitele da Amnesty International”), sembra che possa aprirsi di nuovo un braccio di ferro per un possibile sbarco a Lampedusa. Ad avvalorare la tesi di una Tunisia non sicura, si aggiunge l’episodio, descritto dalla capitana durante gli interrogatori, di “un mercantile con a bordo rifugiati che stavano da 14 giorni davanti il porto della Tunisia senza poter entrare”. Queste parole hanno poi convinto il gip Alessandra Vella, la cui decisione di non convalidare l’arresto per la capitana della Sea Watch 3 potrebbe essere usata come scudo dalla stessa Mediterranea per entrare in Italia.

Il ricatto di Sarraj: “Chiudiamo i centri, via 8 mila persone”

La catastrofe umanitaria che si sta consumando in Libia rischia di aggravarsi sempre di più se il governo di Fayez al Sarraj, come ha promesso, aprirà i centri di detenzione e lascerà che i migranti in fuga dal mattatoio libico cerchino rifugio in Europa. E il signore della guerra della Cirenaica, il generale Kalifa Haftar ha comunicato, con un messaggio su Facebook dal suo portavoce, il generale Ahmed Al Mismari, di essere per una volta d’accordo con il premier riconosciuto dall’Onu ma senza grandi poteri sul terreno: “Benissimo – ha chiosato – collaboreremo per chiudere i campi di detenzione e per trovare una soluzione al problema migranti”.

Quale soluzione è facile intuirlo: stivarli sui barconi per la Sicilia. A meno che non si applichi l’unico sistema intelligente che l’Onu, inascoltato, propone da mesi: apertura di corridoi umanitari per trasferire i migranti, circa 7000 al di là del canale.

Ufficialmente il motivo dell’annunciato rilascio è umanitario, “garantire la loro sicurezza”, in realtà la massa umana di disperati rischia di venire utilizzata come arma impropria. L’annuncio di Sarraj infatti arriva dopo il bombardamento contro il campo di detenzione di Tajoura, dove sono morti una cinquantina di migranti, 53 (di cui 6 bambini) secondo fonti delle Nazioni Unite e 60 secondo la governativa Mezzaluna Rossa.

Nella “Guerra di propaganda” che si combatte sul web tra i siti schierati con il governo Sarraj e i notiziari che sostengono Haftar, le responsabilità del disumano attacco, che ha colpito poveracci inermi, vengono attribuite da una parte al generale “rinnegato”, dall’altra al governo “inetto e corrotto”.

La minaccia di far saltare il “tappo migranti” viene inteso come una richiesta di aiuto di Sarraj. Una sorta di ricatto che suona così: “O vi schierate al mio fianco, oppure apro i rubinetti”. La risposta di Haftar sembra al contrario un monito: “Se aiutate il governo, il rubinetto lo apro io e per voi sono guai”. L’Onu ha chiesto l’apertura di un’indagine ufficiale per capire chi ha cinicamente attaccato il centro di detenzione. Fonti dell’Onu hanno rivelato un particolare agghiacciante: “I soldati governativi che provvedevano alla sicurezza degli ospiti, hanno sparato per impedire ai migranti di sfuggire alle bombe”. Un racconto che mostra la complessità dello scenario libico.

Una ricostruzione di un funzionario dell’Onu che vuole restare anonimo suona così: “Un missile lanciato dalle forze dell’Esercito Nazionale Libico, fedele al generale Haftar, è caduto nel campo militare legato al presidente Sarraj. Da qui sono partiti colpi di contraerea che sono finiti per errore nel campo di detenzione”. Ma Ocha (Office for the Coordination of Humanitarian Affairs, agenzia Onu che si occupa di affari umanitari) va oltre. “Quel campo militare – c’è scritto in una nota – è troppo vicino a una base militare. È insicuro e avevamo chiesto di spostarlo. Ciononostante – si legge nel documento – le autorità hanno continuato a trasferire nel centro migranti e rifugiati… Al momento dell’attacco all’interno della struttura c’erano 600 ospiti tra cui molte donne e bambini, trattenuti nel campo contro la loro volontà”.

Una missione dell’Onu ha visitato il centro ieri mattina: i feriti sono stati evacuati e portati negli ospedali, ma “non sono state individuate altre strutture dove trasferire coloro che ancora sono sistemati lì, più o meno 500 persone in stato di estrema vulnerabilità”. L’Onu ha quindi chiesto lo spostamento di tutti gli ospiti in campi sicuri. La risposta del ministro degli Interni libico, Fathi Bashagha, “Forse chiuderemo tutti i centri di detenzione e li libereremo tutti”, a questo punto risulta un po’ beffarda. Forse è il caso di prendere in considerazione seriamente la dichiarazione del segretario generale dell’Onu Guterres: “Nessuno può affermare che la Libia sia un porto sicuro”.

 

“Bene la mini flat tax, ma è un disincentivo a crescere”

“È indiscutibile il risparmio fiscale che ricompensa principalmente chi ha ricavi vicini ai 65 mila euro: un altro elemento positivo è la semplificazione”. Daniele Virgillito, presidente dell’Associazione dei giovani dottori commercialisti, difende a spada tratta la mini-flat tax per i professionisti introdotta dal primo gennaio scorso. Anche se un difetto lo trova: “La flat tax rischia di disincentivare gli studi professionali. Per esempio, se due commercialisti hanno costi effettivi uguali a quelli forfettari (22% dei compensi) e esercitano la professione in forma associata, conricavidi 50 mila euro per uno (100 mila euro complessivi dello studio associato), nel regime ordinario pagano 9.913 euro di imposte ciascuno. Se gli stessi professionisti lavorano invece in maniera individuale, godendo quindi del regime forfettario, pagano solo 5.148 euro ovvero circa la metà. È ovvio che tutto ciò produca un forte incentivo per gli studi a non aggregarsi.

Per gli esperti favorirà anche l’evasione…

La flat tax tecnicamente non dovrebbe avere alcun impatto sull’evasione fiscale, ma è chiaro che se questo regime viene declinato attraverso un sistema forfettario che riduce significativamente le detrazioni e le deduzioni, il rischio, anche se indiretto, potrebbe palesarsi.

Vi sentite sul banco degli imputati?

No, perché l’evasione coinvolge marginalmente i professionisti mentre impatta in modo molto più significativo sui comportamenti delle multinazionali. Gli ultimi dati sugli studi di settore dicono che i professionisti sono i contribuenti che di gran lunga dichiarano i redditi più elevati

Quali potrebbero essere i rimedi?

Ridurre le tasse a lavoratori autonomi e dipendenti e rendere la vita dura a chi evade. Un sistema fiscale schizofrenico come questo penalizza gli onesti, gravati da adempimenti costosi e inutili. Andrebbe portato a rango costituzionale lo Statuto del contribuente. Occorre definire una linea di demarcazione netta tra chi occulta gli imponibili e chi invece, pur dichiarandoli, non riesce a versare le imposte per carenza di liquidità, con sanzioni distinte.

La rivolta dei professionisti: “Non siamo tutti evasori”

“Non siamo evasori fiscali! Abbiamo chiesto sburocratizzazione, semplificazione, diminuzione del cuneo fiscale, proprio perché desideriamo trasparenza”. E ancora: “Esercito la professione da quasi 40 anni, dichiaro i redditi che produco (superiori alle medie, come è giusto che sia) e ringrazio tutti i giorni non so ancora bene chi, perché godo di una salute accettabile che mi consente di lavorare e dare lavoro, senza dover ricorrere a quegli istituti di welfare che per i professionisti sono piuttosto ‘scarni’”. Sono alcune delle reazioni che sono giunte al Fatto dopola nostra inchiesta per individuare le categorie dove si concentra l’evasione fiscale.

Il più esposto è risultato il mondo delle professioni. Ma avvocati e commercialisti, quelli che le tasse le pagano tutte e regolarmente, non ci stanno a essere etichettati come evasori al pari dei “colleghi” che si arricchiscono a danno dell’Erario. Dalle loro precisazioni emerge uno spaccato delle tante realtà lavorative e le grandi disparità di trattamento che tracciano un solco profondo tra lo status economico, lavorativo e fiscale di un grande studio del nord e di un giovane professionista del sud. “Abbiamo denunciato che le istituzioni fanno troppo poco per i giovani, segnalato distorsioni e contraddizioni delle ultime riforme che di certo non guardano al futuro delle nuove generazioni di professionisti, con le quali sembra non si voglia aprire alcun dialogo. Respiriamo aria cattiva, ci sentiamo sotto assedio”, ci scrivono l’Unione giovani dottori commercialisti (Ungdcec) e l’associazione italiana giovani avvocati (Aiga).

“Vediamo che non viene più mostrato rispetto per merito e competenze, mentre potremmo dare un notevole contributo ai piani strategici a cui le istituzioni dovrebbero mirare, piuttosto che concentrarsi nella disintermediazione delle professioni ordinistiche” attaccano le due associazioni, che si chiedono invece perché “nessuna autorità si faccia viva quando le pubbliche amministrazioni propongono indegni incarichi con onorari in violazione della norma sull’equo compenso o quando la Corte di Giustizia è portata a dover ribadire che non esistono appalti di servizi legali (o professionali) che debbano sottostare alle stringenti regole del codice appalti, vista la natura fiduciaria dell’incarico”. Ciò però che è più ingiusto e fuorviante nel nostro articolo, ci scrive l’avvocato Claudio Massa di Cuneo, “è che nella roboante presentazione e nel testo si omette di precisare che la resa economica nell’esercizio delle professioni intellettuali è ancorata a tutta una serie di fattori, indipendenti dalla maggiore o minore ‘fedeltà’ fiscale”.

Massa segnala che “vi sono notevoli differenze di reddito tra avvocati che esercitano al Nord e al Sud, tra uomini e donne e tra giovani e meno giovani, differenze che sono riscontrabili anche nelle altre professioni intellettuali ordinistiche”. L’avvocato cita uno studio del Censis da cui si evince che “un avvocato maschio ultra-60enne nel 2015 ha prodotto un reddito medio di 83.377 euro mentre un’avvocatessa sotto i 30 anni dichiara nel medesimo periodo un reddito medio di 9.399 euro”. Per il professionista cuneese è “un effetto naturale”. Per la giovane professionista del meridione “l’equo compenso” è un miraggio. L’avvocato Massa si indigna perché articoli come il nostro inducono “all’invidia sociale” e alla “indifferenziata criminalizzazione di interi gruppi di operatori economici”.

Molto più modestamente la nostra inchiesta ha cercato di accertare se vi era una base statistica alle numerose denunce che pervengono dai cittadini da anni, stanchi di vedersi proporre il solito scambio “niente fattura per uno sconto” pari all’ammontare dell’Iva da versare allo Stato. La logica aritmetica ci dice che se noi sottraiamo dall’universo dei potenziali contribuenti lavoratori dipendenti e pensionati, tecnicamente obbligati a denunciare e pagare per intero imposte e contributi con la ritenuta alla fonte (al neto dei lavoratori in nero) si deve concludere che i 107 miliardi di evasione annuale (dati del Tesoro) arrivigno in gran parte dal lavoro autonomo, dalle imprese e dai titolari di redditi da capitale. Anche le statistiche dell’Agenzia delle Entrate e della Guardia di Finanza ci dicono che i pochi controlli effettuati, quando si concentrano su alcune categorie di professionisti hanno un riscontro positivo vicino al 100%. I redditi denunciati dai lavoratori autonomi ai fini degli studi di settore sono spesso al di sotto della media riscontrabile nel lavoro dipendente, anche se provenienti da categorie economicamente agiate. Questo vuol dire che tutti i lavoratori autonomi e i professionisti sono evasori? Ovviamente no, ma adesso sappiamo dove il legislatore e l’amministrazione finanziaria devono mettere mano per recuperare in pochi anni almeno la metà dell’evasione fiscale che si accumula ogni anno sulle spalle di chi le tasse le paga, volente o nolente, fino all’ultimo centesimo.

Banche, ok al decreto per i truffati. Spread basso fa volare i titoli

Giornata assai positiva, quella di ieri, per la Borsa italiana e specialmente per le banche. Il giorno dopo avere evitato la procedura d’infrazione, lo spread chiuso a 207 punti (ai minimi da un anno) ha fatto volare le banche, insieme alla nomina di Christine Lagarde alla Bce. Milano è stata la migliore tra le piazze europee, che hanno terminato piatte la seduta. Brilla Mps (+17,5%), con Ubi (+5,6%), Unicredit (+4,9%), Banco Bpm (+3,2%), Fineco (+3,1%), Bper (+2,9%), Intesa (+2,2%), in linea con il settore in Europa. Il calo dei rendimenti dei BTp – di cui le banche italiane sono piene – ne fa salire il valore e questo migliora il patrimonio di vigilanza degli istituti.

Ieri intanto il ministro dell’Economia Giovanni Tria, ha firmato il decreto che istituisce la commissione tecnica, formata da 9 membri, che avrà il compito di esaminare e poi autorizzare l’erogazione degli indennizzi a chi ne avrà fatto domanda nell’ambito del Fondo per risarcire i cosiddetti “truffati” delle banche, circa 300 mila ex piccoli investitori di Etruria e delle altre banche fallite, per i quali il governo ha stanziato 1,5 miliardi.

Inps, “5mila nuovi assunti”. Ma 3mila sono già stati reclutati

Ieri il ministro del Lavoro Luigi Di Maio ha annunciato una nuova infornata in arrivo all’Inps, parlando di oltre “5 mila assunzioni” in arrivo. In realtà, come chiarito poco dopo dal presidente dell’istituto Pasquale Tridico, il vice-premier ha conteggiato anche i 3.500 appena entrati in organico, quelli reclutati dalla selezione dello scorso anno. A questi se ne aggiungeranno 1.689 da assumere con un nuovo concorso il prossimo anno, per sostituire quelli che andranno in pensione. Le forze fresche, dunque, saranno 5.400, per due terzi sono già state arruolate. Comunque si tratta di ossigeno per l’Inps che negli ultimi dieci anni era passato da 40 mila a 26 mila dipendenti. Ora si arriverà a circa 30 mila. “Buona parte – spiega Guglielmo Loy, presidente del comitato di indirizzo e vigilanza – servirà per lavorare le pratiche dei cittadini, ma pure il tema della vigilanza sarà importante”. L’evasione contributiva del 2018, infatti, ha superato il miliardo di euro. Tramite 17 mila ispezioni sono state scoperte 14 mila aziende irregolari e 5 mila addetti “in nero”.

Tridico ha anche fornito i numeri sulle misure sociali. Su Quota 100 ha detto che finora le domande presentate sono 150 mila: “Osserviamo un rallentamento e se rimane questo trend, penso si arriverà a fine anno ia 200 mila e a un risparmio di circa 100 mila domande rispetto alle 290 mila previste”. La stima del presidente Inps sembra ancora di manica larga, perché se anche arrivassimo davvero entro fine anno a 200 mila richiedenti, buona parte andrebbe in pensione nel 2020 per il meccanismo delle finestre. Sul reddito di cittadinanza, invece, sono state accolte quasi 840 mila domande su 1 milione e 334 mila: dato che ogni istanza si riferisce a un’intera famiglia, il numero totale dei beneficiari dovrebbe aggirarsi attorno ai 2,3 milioni. Dal minore utilizzo di reddito e Quota 100 si aspettano risparmi per 1,5 miliardi nel 2019 e 3-5 nel 2020.