Trivelle da dismettere, il piano si è arenato

Trentaquattro piattaforme petrolifere in disuso: il governo ha prima stabilito che dovessero essere subito indirizzate alla dismissione, poi ha chiuso in un cassetto la bozza del piano concordato tra ministero dello Sviluppo economico, dell’Ambiente e Assomineraria. A raccontarlo sono le carte rese pubbliche da Legambiente, Wwf e Greenpeace, in parte durante una manifestazione di protesta al Mise, in parte mostrate al Fatto. Si tratta di email scambiate tra le associazioni e la segreteria del sottosegretario del Mise, Davide Crippa, che dimostrano l’iniziale intenzione di spingere subito per smantellare le vecchie trivelle. Poi, è l’accusa, se ne sono dimenticati “con un innegabile vantaggio per le compagnie.

A fine 2018, con una serie di incontri tra i dicasteri e Assomineraria, viene redatta la bozza per avviare il decommissioning delle trivelle ‘esaurite’ in linea con una direttiva Ue e con un decreto che sarà poi approvato a febbraio 2019. Il programma identifica 22 piattaforme sul breve periodo, altre 12 nel medio-lungo. Nel testo, le parti “sin da subito si impegnano ad attivare le procedure per la dismissione” che “sarà realizzata nei prossimi anni”. Il “sin da subito” però si è arenato.

Nei giorni scorsi, al fattoquotidiano.it Crippa ha confermato l’esistenza del piano, spiegando che è in corso una ricognizione delle piattaforme dismesse, in attesa della pubblicazione dell’elenco completo che sarebbe dovuto essere sul sito del Mise entro il 30 giugno (ma ancora non c’è). “Nella bozza di memorandum si fa riferimento – dice il Mise – a 34 piattaforme da avviare a dismissione nei prossimi 10 anni” e che al momento “si sta procedendo con una ricognizione dei dati”.

Le associazioni hanno deciso di replicare rendendo pubbliche alcune mail scambiate con il Mise tra il 4 e il 12 dicembre 2018 che il Fatto ha potuto consultare. Sostengono che non è vero che il piano riguardava le dismissioni nei prossimi 10 anni e che è stato rimandato un procedimento che era pronto a partire. “A seguito di tale incontro – si legge in una mail che fa riferimento a una riunione del 25 ottobre, dopo la quale le associazioni chiedono se siano state consultate le aziende – si è condiviso di mandare avanti gli adempimenti necessari per firmare in tempi rapidi lo schema di decreto ministeriale in parola senza apportare allo stesso alcuna modifica. Inoltre è stata accolta positivamente dai presenti la proposta di sottoscrivere una dichiarazione pubblica congiunta… finalizzata a far attivare sin da subito le procedure per la dismissione delle 10 strutture offshore individuate”. Il Mise sottopone la bozza alle associazioni. Viene chiesto anche un riscontro agli altri ministeri. Poi, del memorandum si perdono le tracce.

Delle 34 strutture 25 fanno capo a Eni, le altre a Edison. Dismetterle ha un costo enorme. “Andranno valutati e promossi anche eventuali usi alternativi”, aveva detto Crippa a febbraio. Da allora però è anche stata approvata la moratoria che blocca tutte le nuove trivellazioni e i permessi. “È chiaro – dicono le associazioni – che per concludere le operazioni ci vogliono anni, ma non per avviare una procedura di dismissione mineraria”. Contestano poi che non ci sia necessità di effettuare altre ricognizioni. “L’elenco era stato stilato proprio sulla base di una ricognizione durata circa due anni – spiegano – e non è vero, che lo scenario cambi con il decreto di febbraio”.

Ilva, immunità a tappe Di Maio tratta con Mittal

La consegna per tutti è quella del silenzio. L’obiettivo è lavorare sotto traccia fino a settembre, lasciare decantare le polemiche per poi annunciare la novità a cose fatte. E così nessuno dei protagonisti parla dopo il vertice di ieri al ministero dello Sviluppo tra Luigi Di Maio e i vertici italiani ed europei di ArcelorMittal, tra cui il gran capo per l’Europa del colosso che ha rilevato l’Ilva di Taranto, Geert van Poelvoorde. Eppure qualcosa si è mosso. A quanto filtra, si sono iniziate a porre le basi per trattare, dopo lo scontro aperto dall’annuncio del gruppo franco-indiano che chiuderà il siderurgico tarantino il 6 settembre se non sarà ripristinato lo “scudo penale” voluto dal governo Renzi e tolto con il decreto Crescita. Con tanto di mega causa allo studio.

La vicenda è complessa. Serve una soluzione che permetta al governo, specie ai 5Stelle, di non perdere la faccia con una marcia indietro e ai nuovi padroni dell’Ilva di ottenere garanzie. L’ipotesi allo studio, a quanto filtra, è quella di circoscrivere lo scudo penale solo alle operazioni di attuazione delle prescrizioni fissate dall’Autorizzazione integrata ambientale (Aia). La scadenza finale è il 2023, ma ogni reparto dell’area a caldo della fabbrica ha una sua data entro cui deve essere adeguata all’Aia. L’idea è di garantire l’immunità per eseguire i lavori nei limiti definiti dal cronoprogramma. Se si sforano le tempistiche decade lo scudo, così come se si compiono operazioni fuori dal perimetro fissato dal piano ambientale. Per dare l’idea, se l’Aia impone di mettere a norma entro il 2020 i parchi minerari, lo scudo per i vertici dell’azienda sarà valido fino a quella data. Non oltre. Insomma l’immunità verrebbe circoscritta e limitata. Tanto più che la norma originale del governo Renzi aveva un campo di applicazione assai vasto, garantendo l’azienda per le condotte non solo in materia strettamente “ambientale” ma anche “di tutela della salute, dell’incolumità pubblica e di sicurezza sul lavoro”. Difficile che si possa garantire l’immunità all’azienda in caso di incidenti che causano feriti o vittime tra i lavoratori. Sulla norma, peraltro, pende un ricorso per incostituzionalità avanzato a febbraio dal Gip di Taranto (la Consulta si esprimerà a ottobre),

La novità, se questa sarà la linea sui cui convergeranno Mittal e ministero, partirà proprio dal 6 settembre, data in cui – secondo la norma del decreto Crescita – lo scudo penale decadrebbe per i vertici dell’impianto, mentre rimarrebbe solo per i commissari governativi che si devono occupare delle bonifiche e solo per le operazioni previste dal piano ambientale (ma con la scadenza generica del 2023).

La nuova soluzione potrebbe arrivare con una norma interpretativa, magari nell’ambito del processo di revisione dell’Aia già avviato dal ministro dell’Ambiente Sergio Costa a fine maggio. Mittal potrebbe acconsentire anche ad anticipare alcune scadenze delle prescrizioni (per diversi lavori, peraltro, è in anticipo sui tempi), per dimostrare buona volontà. La trattativa dovrà anche trovare una soluzione per garantire i dirigenti del colosso dal rischio di dover essere chiamati a rispondere di condotte “omissive”, cioè per operazioni passate che però hanno un loro effetto sulla gestione attuale degli impianti.

Il nodo del contendere è tutto qui. Dal 2012 si è deciso che l’Ilva deve restare aperta anche se è fuorilegge, con l’obiettivo di migliorare gli standard ambientali senza fermare la produzione. Questo processo doveva chiudersi nel 2015, ma di proroga in proroga la scadenza è arrivata al 2023. Se questa è la linea, non resta che trovare una soluzione tecnica che limiti lo scudo penale ma garantisca un colosso mondiale che non avrebbe problemi a chiudere l’impianto. Una partita complicata anche dai 1400 operai messi in cassa integrazione da Mittal dal 1º luglio senza accordo con i sindacati, che ieri hanno dato vita a uno sciopero a Taranto.

La Costituzione e l’autonomia

Il tema del finanziamento degli enti territoriali, e con esso della compiuta attuazione dell’articolo 119 della Costituzione, e quello del disegno delle competenze, legislative e amministrative, riconosciute ai medesimi enti sono strettamente intrecciati. Un finanziamento adeguato è necessario per svolgere le funzioni assegnate. In un quadro ben definito delle competenze, il sistema di finanziamento dovrebbe riconoscere ampia autonomia a tutti i livelli di governo e al tempo stesso garantire l’esercizio, secondo standard uniformi e adeguati, dei diritti sociali e civili su tutto il territorio nazionale. Questi principi di base dovrebbero essere garantiti anche qualora, in attuazione dell’articolo 116 della Costituzione, si decidesse di riconoscere ad alcune Regioni “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”. Il tutto è complicato dal dualismo territoriale che caratterizza il nostro Paese, evidenziato non solo dalla forte differenza dei livelli di reddito pro capite, ma anche da un’offerta estremamente sperequata dei servizi pubblici e da un sensibile divario nelle infrastrutture. Queste difficoltà stanno emergendo anche nel percorso intrapreso dalle Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna.

Le Regioni più deboli temono che la differenziazione nelle funzioni e, quindi, nelle risorse assegnate, approfondisca i divari, in particolare in settori come l’istruzione e la sanità, e indebolisca gli elementi di solidarietà nazionale che dovrebbero essere sottesi alla definizione e al finanziamento integrale dei Lep (Livelli essenziali delle prestazioni). Dall’altro lato vi è la rivendicazione da parte delle Regioni più forti di un regionalismo differenziato che valorizzi la virtuosità del proprio territorio, in modo da rendere possibile lo sfruttamento della propria maggiore efficienza a vantaggio dei propri cittadini attraverso un’offerta più qualificata di servizi pubblici.

L’articolo 116 della Costituzione richiede che il riconoscimento di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomie a una o più Regioni debba avvenire nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119, che regola il finanziamento degli enti decentrati. Secondo la Costituzione, quindi, è necessaria una coerenza fra i principi del finanziamento ordinario dell’insieme delle Regioni e quelli sul finanziamento degli spazi aggiuntivi di autonomia eventualmente riconosciuti a singole Regioni.

Questa previsione incontra un ostacolo nel fatto che il processo di attuazione dell’articolo 119 della Costituzione, iniziato con l’emanazione della legge delega 42 del 2009 sul federalismo fiscale è tutt’altro che compiuto. Manca quindi un sistema di finanziamento assestato in cui inquadrare il finanziamento specifico delle funzioni eventualmente devolute. Ciononostante, è indubbio che anche tale finanziamento debba rispondere ai principi individuati dalla citata legge delega. Il più importante richiede che esista un legame preciso fra natura delle competenze attribuite, da un lato, entità e modalità attraverso cui le stesse devono essere finanziate e attraverso cui deve essere attuata la perequazione, dall’altro. La distinzione fondamentale è fra spese relative ai Livelli essenziali delle prestazioni (Lep), che hanno il compito di garantire livelli adeguati e uniformi sul territorio nazionale di prestazioni che riguardano i diritti civili e sociali e altre spese (cosiddette “autonome”), definite residualmente.

La garanzia di finanziamento integrale prevista dal comma 4 dell’articolo 119 è riservata, nella normativa di attuazione, alle sole spese relative ai Lep, da finanziarsi attraverso tributi propri e compartecipazioni ai tributi erariali e un sistema di perequazione dei fabbisogni .Le spese autonome devono invece essere finanziate con tributi propri e assistite da una perequazione delle capacità fiscali, al solo scopo di integrare, parzialmente, i gettiti fiscali dei territori con basi imponibili per abitante più basse, e che quindi, pur applicando aliquote standard, non potrebbero ottenere un gettito standard.

A tutt’oggi queste previsioni non hanno trovato attuazione. In particolare, la distinzione stessa fra questi due tipi di spesa, che svolge un ruolo cruciale nell’impianto della legge 42 del 2009, non è mai stata effettuata e, soprattutto, i Lep, che secondo il dettato della legge 42 dovevano riguardare, oltre alla sanità, anche l’assistenza, l’istruzione, il trasporto pubblico locale con riferimento alle spese in conto capitale e altre materie da individuare, non sono stati sinora definiti. In assenza della definizione dei Lep, tutto l’impianto del cosiddetto federalismo fiscale viene privato di un elemento essenziale. La sua attuazione è stata quindi rimandata di anno in anno, da ultimo al 2020.

L’intreccio con la legislazione della crisi ha comportato tagli alle risorse delle Regioni che l’hanno accompagnata (nel periodo 2011-2017 7,2 miliardi di euro), un forte accentramento del coordinamento delle finanze pubbliche e una mutevolezza degli orientamenti a favore o contro l’autonomia degli enti decentrati, che lasciano un quadro istituzionale non ancora assestato. In questo quadro incerto è difficile procedere a un equo e ordinato finanziamento del regionalismo differenziato, nel rispetto dell’articolo 119 della Costituzione.

Guardando al regionalismo differenziato sotto il profilo delle problematiche relative al trasferimento di risorse finanziarie, che dovrebbe accompagnare il riconoscimento di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, come affrontate dal Titolo I delle bozze di intesa sottoscritte nel febbraio del 2019, sorgono dubbi di grande rilievo.

Le bozze di intesa, infatti, prescindendo in larga parte dal quadro normativo di attuazione dell’articolo 119 della Costituzione, prefigurano un quadro di finanziamento che è indeterminato nei suoi aspetti quantitativi. La definizione di tali aspetti viene rimandata a dpcm da emanarsi, in epoca successiva all’approvazione definitiva delle intese e pertanto ad atti normativi che sarebbero esclusi non solo dal vaglio parlamentare ma anche da quello del presidente della Repubblica e della Corte costituzionale.

L’individuazione delle modalità di finanziamento sembra animata dalla preoccupazione principale di garantire che le Regioni interessate alla devoluzione di materie non possano subire, al momento dell’assegnazione, alcuna diminuzione di risorse, e possano, al tempo stesso, plausibilmente, contare, nel medio periodo, in un loro incremento.

Riaffiora prepotentemente nelle previsioni contenute nelle bozze di intesa l’idea che alle Regioni con più alti residui fiscali debba essere riconosciuto il diritto a godere in misura maggiore delle risorse fiscali che maturano sul loro territorio. Il che, in presenza del vincolo in base al quale dall’applicazione delle intese non devono derivare maggiori oneri a carico della finanza pubblica, non può che tradursi in una redistribuzione di risorse dai territori più deboli a quelli più ricchi.

Come (e dove) tagliare le tasse: serve coraggio

Uno dei drammi del governare in Italia sono le continue elezioni. Andare al voto quasi ogni anno per consultazioni politiche, amministrative o europee è un bell’esercizio di democrazia, ma trasforma ogni legislatura in una campagna elettorale permanente. Anche per questo raramente vengono adottati provvedimenti nell’immediato impopolari, ma in grado di portare benefici in un periodo un po’ più lungo (due, tre o quattro anni). Partiti e movimenti hanno sempre dei cittadini da conquistare o blandire. Scontentarli per loro è impossibile. Dallo scorso giugno però lo scenario è cambiato. Dopo le Europee, che hanno spinto M5S e Lega a mesi di insopportabili litigi, per più di tre anni non ci saranno appuntamenti importanti. Le Amministrative sono diluite nel tempo. A novembre si voterà in Emilia Romagna. Roma e il Lazio andranno alle urne rispettivamente nel 2021 e nel 2023. Se, a dispetto di tutte le previsioni negative (e finora sempre sballate), l’esecutivo gialloverde vivrà sino alla sua scadenza naturale, la maggioranza avrà tempo per fare quanto previsto nel contratto di governo. A partire da una profonda revisione delle tax expenditure, cioè di quella giungla di 623 agevolazioni fiscali nessuno finora ha avuto il coraggio di disboscare nel timore delle reazioni di lobby ed elettori. In totale si tratta di 75 miliardi di introiti in meno per lo Stato. Una somma enorme da cui si possono ricavare i soldi necessari per evitare l’aumento dell’Iva, i 15 miliardi che servono per portare al 15 o al 20 per cento l’Irpef per il ceto medio e i 4 miliardi indispensabili per ridurre il cuneo fiscale, introducendo, senza aggravio per le imprese, il salario minimo per quei milioni di lavoratori che guadagnano 4 o 5 euro l’ora.

Il governo, nello scetticismo generale, ha più volte lasciato intendere che metterà ordine in questo tesoro. Realizzando così il progetto di Roberto Perotti, il commissario alla spending rewiew, uscito di scena nel 2015 quando l’allora presidente del Consiglio, Matteo Renzi, gli aveva detto no, perché a suo parere toccare le tax ependiture significava aumentare le tasse. Analisi corretta se la riforma non viene accompagnata da un nuovo patto fiscale. Sbagliata invece se il disboscamento delle esenzioni è seguito da leggi che rendono più semplici e meno gravosi gli adempimenti, abbassano le aliquote e puniscono gli evasori.

In assenza di elezioni, il governo ha quindi modo di intervenire. E se certamente non possono essere toccate riduzioni e deduzioni sulla prima casa, sui farmaci, l’assistenza, la Tasi, l’istruzione, le ristrutturazioni e il risparmio energetico, vi sono molte altre voci da esaminare. Avendone il coraggio si possono, per esempio, ridurre o eliminare i rimborsi sul gasolio per gli autotrasportatori (1,2 miliardi), incentivando anzi l’acquisto di mezzi nuovi più efficienti; l’esenzione delle accise per il trasporto aereo (1,5 miliardi) e quelle agevolate per le auto diesel (4,9 miliardi) che, nei prossimi anni, dovranno essere sostituite da modelli ibridi, a metano, a gas o elettrici. Ci sono poi i vantaggi per gli armatori (276 milioni), il bonus per i mobili, gli elettrodomestici e per giardini e terrazzi. Ma l’elenco è lunghissimo. Ovvio, i malumori e le proteste saranno tante. Saranno però alla lunga compensati dalla soddisfazione di milioni di cittadini con più soldi in tasca grazie alle tasse più basse e da quella delle imprese che grazie a clienti “più ricchi” vedranno ripartire i consumi. La strada da battere è questa. Vedremo se i governanti ne avranno il coraggio.

Ma i magistrati seguono solo la Costituzione

I fatti. Il 13 giugno la nave della Ong Sea-Watch3 battente bandiera olandese, comandata dalla capitana Carola Rackete (tedesca, 31 anni, 5 lingue, laurea in Scienze nautiche, due master in Scienze ambientali) al largo delle coste libiche intercetta e soccorre un gommone in evidente pericolo di naufragio con 53 emigranti che vengono presi a bordo. Una motovedetta della Guardia costiera libica, nel frattempo sopraggiunta, invita la Sea-Watch3 a riportare indietro, con rotta verso Tripoli, i 53 profughi.

La capitana rifiuta perché Tripoli non è un porto sicuro, come hanno avvertito le Agenzie dell’Onu per le migrazioni (Oim e Unhcr) per le quali i profughi riportati in Libia vengono privati della libertà e rinchiusi nei centri di detenzione in condizioni disumane. Il 27 giugno il ministro degli Esteri italiano Enzo Moavero Milanesi ha confermato: “La Libia non è un porto sicuro”.

 

IL DECRETO SALVINI La Sea-Watch3 si dirige verso Lampedusa che per la comandante Rackete, responsabile della salvezza dell’equipaggio e dei passeggeri, è l’unico porto sicuro tra la Libia e la Sicilia dove i profughi hanno il diritto di essere accolti in base alle leggi internazionali, cui corrisponde l’obbligo, per i comandanti delle navi e per gli stessi Stati, di assicurare tale accoglienza (Convenzione per la salvaguardia della Vita umana in mare del 1974, Convenzione sulla ricerca e il salvataggio marittimo del 1979, Convenzione Onu di Montego Bay del 1982 sul Diritto del mare). Poiché nella gerarchia delle fonti, i Trattati internazionali sono di rango superiore alle leggi nazionali (articolo 117/1 della Costituzione), il divieto di transito o di sosta nel mare territoriale imposto dal ministro dell’Interno Salvini per motivi di ordine e sicurezza pubblica ai sensi dell’articolo 11 comma 1 ter del decreto legge 53/2019 risulta privo di legittimità nei confronti dei 53 naufraghi salvati dalla Sea Watch.

 

L’ARRESTO. Nella notte di sabato 29 giugno la capitana Rackete, viste le peggiorate condizioni di salute dei profughi rimasti per 16 giorni sotto il sole a 40 gradi (“sono allo stremo, li porto in salvo”), forza il blocco ed entra nel porto di Lampedusa dove il 30 giugno i naufraghi sono stati fatti sbarcare.

Nel procedere verso il porto commerciale, la nave Ong entra in rotta di collisione con una motovedetta della Guardia di finanza che ha tentato di fermarla interponendosi tra essa e la banchina. La capitana afferma che l’urto, in cui la motovedetta è stata danneggiata, è avvenuto a causa della sua manovra sbagliata della quale si scusa con i militari. Viene quindi arrestata con l’accusa dei delitti ex articoli 1100 del Codice della navigazione per resistenza e violenza contro una nave da guerra nazionale (tali sono le motovedette delle Fiamme Gialle per la legge n. 1409/1956 articolo 6), e 337 codice penale per violenza a un pubblico ufficiale.

 

IL GIUDICE VELLA. Con queste imputazioni Carola Rackete il primo luglio è comparsa davanti al giudice per le indagini preliminari Alessandra Vella, che non ha convalidato l’arresto avendo la capitana agito nell’adempimento del dovere di salvare 53 vite umane, scriminante prevista dall’articolo 51 del codice penale. Ha vinto, dunque, la legge.

Il ministro Salvini ha reagito dicendo: “Sono schifato, mi vergogno dei magistrati”. Ma dovrà rassegnarsi, almeno fino a quando ci saranno “questa” Costituzione e “questi” magistrati che non si vergognano di eseguirne i comandi “con disciplina e onore”.

Salvare migranti non sospende la legge

Un esame approfondito delle ragioni giuridiche che militano contro l’ordinanza della gip agrigentina sul caso di Carola Rackete è stato già condotto nelle pagine della Verità e di Italia Oggi da due valenti magistrati in pensione. Gli argomenti addotti sono qui pienamente condivisi. Il profilo da considerare riguarda, semmai, un atteggiamento a monte di una vicenda che lascia l’amaro in bocca.

Tra i fatti e le conclusioni raggiunte dal Gip si registrano, infatti, ampi spazi di opinabilità, superati con proposizioni fideistiche delle quali la prima consiste nella lettura impropria dell’art. 10 della Costituzione, che prevede il conformarsi dell’ordinamento italiano alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, individuate, in quel contesto, nella Convenzione per la ricerca e il soccorso in mare. Il parametro costituzionale, coniugato con la Convenzione, costituirebbe chiave di volta per assegnare alla tutela di esseri umani salvati in mare una valenza superiore a quella delle norme vigenti nello Stato.

Semplificando: il salvataggio è condizione necessaria e sufficiente per superare qualsiasi sindacato di liceità. Una volta imbarcati quei poveracci, si possono ledere con assoluta serenità e impunità le regole imposte da uno Stato sovrano. Questo perché il principio costituzionale così declinato legittima l’esimente dell’articolo 51 del Codice penale (adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica). Quella affermazione non è solo erronea, ma configura anche una presa di posizione allarmante perché tende a frantumare la coerenza delle proposizioni giuridiche con la gerarchia delle fonti normative. In base a tale principio, una disposizione di rango legislativo, salvo talune previsioni dell’ordinamento comunitario, non può essere disapplicata, ma rimessa, per l’eventuale declaratoria di incostituzionalità, al giudice delle leggi. Soggetto sicuramente diverso dalla Gip autrice dell’ordinanza…

Proprio sul richiamo al diritto internazionale si apre la falla più ampia del discorso giustificativo. Basti pensare che un giudice internazionale nella vicenda Sea Watch è stato officiato e si è pronunciato. La Corte europea dei diritti dell’uomo, preposta al rispetto degli impegni assunti dagli Stati in materia di diritto alla vita, divieto di schiavitù, diritto alla libertà e alla sicurezza, divieto di discriminazione, ha infatti respinto il ricorso proposto dalla comandante della nave. In altre parole: il giudice internazionale legittimato a conoscere della tutela dei diritti dell’uomo, compresi, in parte qua, quelli assicurati dalla Convenzione ricerca e soccorso in mare, ha negato l’esistenza di condizioni che un giudice, abilitato solo all’applicazione della normativa nazionale, ha positivamente proclamato.

Al di là dei singoli rilievi giuridici, emerge con forza il vero tema sotteso all’intera storia: la personalizzazione dell’ordinamento (da sistema normativo ad autoaffermazione del giudicante) in sintonia con il mito sofocleo di Antigone. Il contrasto tra nomos (legge dell’uomo) e fusis (intesa come legge naturale) vi rientra con prepotenza.

Solo che, quanto meno per fissare con obiettività la piena coerenza della legge naturale reclamata dalla gip come esposizione ed espansione del precetto costituzionale (il citato articolo 10 della Costituzione), occorre partire dai fatti. Il primo dei quali è la permanenza della nave Sea Watch per molti giorni fuori dalle acque territoriali in attesa di un permesso negato a più riprese. Attendere ciò che si è consapevoli non verrà concesso rende plasticamente la prava volontà di forzare la mano. Se non ci fosse stato dolo, la nave avrebbe potuto, in quell’ampio lasso di tempo, raggiungere porti non italiani: maltesi, tunisini e francesi. Finanche iberici.

Ancora più grave è la molto attenuata percezione dell’assolvimento del dovere da parte della Guardia di Finanza e il disconoscimento della natura di mezzo da guerra alla motovedetta. La struttura di un natante preordinato ad attività di pattugliamento delle acque territoriali e di tutela da pericoli provenienti dall’esterno non è paragonabile a quella di un mezzo (per esempio un elicottero della Guardia costiera) che svolge in via principale operazioni di salvataggio (e di polizia della pesca) e che non è armato. Una motovedetta armata è per struttura e funzione un mezzo bellico. Così, l’episodio di contatto tra le imbarcazioni scade, con la decisione del gip, a grottesca scenetta western, quando il prepotente di turno ingiunge al malcapitato di togliere le scarpe da sotto le punte dei suoi stivali… La parte del malcapitato, nell’ordinanza in questione, è appannaggio delle Fiamme Gialle. E questo, se si consente a chi, nell’esercizio della funzione giurisdizionale, ha potuto ammirare la sempre elevata qualità e professionalità di quel Corpo, fa proprio male.

Mail box

 

Grazie a Conte abbiamo evitato la procedura d’infrazione

Con buona pace di lorsignori delle opposizioni al governo gialloverde, sia il premier Conte, sia i conti presentati all’Ue dopo l’assestamento del bilancio, hanno evitato la procedura d’infrazione, la quale a quanto pare stava forse più a cuore all’Europa che al governo Conte, a sentire l’annuncio soddisfatto di Moscovici. Ora, il mantra di Zingaretti & C. è che l’Italia è rimasta isolata in Europa. Ma, come fa a dirlo dal momento che il nostro governo ha votato a favore delle proposte di Germania e Francia, e cioè per la Leyen alla guida della Commissione (alias governo europeo) e per la Lagarde come presidente della Bce; e dopo che l’Italia ha ottenuto che David Sassoli fosse eletto presidente dell’Europarlamento al posto di Tajani, e che probabilmente Fontana sarà eletto ministro degli affari europei, e Giorgetti commissario per la Concorrenza e vicepresidente della Commissione?

Evidentemente per Zingaretti & C. è stato troppo duro l’avere ingoiato il rospo della mancata apertura della procedura d’infrazione nei confronti del nostro Paese.

Luigi Ferlazzo Natoli

 

Lampedusa, dalla sinistra ci vorrebbe più decisione

Sono un paio di giorni che penso all’intervento di Pier Luigi Bersani alla trasmissione In Onda, su La7. Lui come spesso accade è bravo, a tratti convincente, certamente è un politico in grado di mantenere il suo stile in un periodo dove urlare sembra necessario. Con un grosso “però”. Quando il conduttore gli ha posto la domanda se era o meno a favore dello sbarco della Sea Watch, lui ha nicchiato. È stato obbligatorio insistere per ottenere una risposta chiara. Questo è il punto: Matteo Salvini vince anche per la sua narrazione netta, pochi “se” e niente “ma”, e in questo momento la sinistra dovrebbe trovare il coraggio di esprimersi con modi più netti, senza tante sfumature.

Giulia Sanmarco

 

Tutte le ipocrisie intorno alla tragedia degli sbarchi

Un fiume d’inchiostro è stato consumato per descrivere il caso Sea Watch, e un mare di ipocrisia come contorno. Padellaro nel diario del salvimaio si chiede: perché Salvini è molto più popolare della linea del Pd ? (Aggiungere anche tutte le altre linee) la risposta sarà anche politicamente scorretta ma combaciante con i fatti. Ebbene, se ancora ce ne fosse bisogno, il caso Sea Watch per l’ennesima volta ci racconta che gli africani nullatenenti non li vuole nessuno, né gli italiani né gli europei e dal resto del mondo non ho sentito il grido “venite da noi che siete i benvenuti”. Questa è la cruda realtà dei fatti. Siate certi che se sulla Sea Watch ci fossero stati campioni di squadre di calcio, fuggiti da Nigeria, Kenya o Ghana, che avrebbero potuto rinforzare gratuitamente le nostre amate squadre, avremmo assistito alla gara del soccorso, con in testa il “Capitano” che tra applausi e ola portava campioni al Milan. L’Ue contraria al “ratto dei neri” pretendeva una equa distribuzione, sulla base numerica degli abitanti di ogni stato membro, e infine come nelle fiabe vissero tutti felici e contenti fino al prossimo barcone di disperati.

Ivan Garini

 

DIRITTO DI REPLICA

Signor direttore, soltanto una voluta malignità può avere indotto Il Fatto Quotidiano ad associare una mia fotografia alle vicende dei minori della Val d’Enza, prendendo a pretesto una presunta mia partecipazione a un dibattito a cui in realtà non ho preso parte. Da giornalista trovo questo metodo davvero infelice. Lo trovo triste da esponente politico che si è molto dedicata all’infanzia. Vicende così gravi e delicate non andrebbero mai strumentalizzate.

Sandra Zampa

 

Non vogliamo strumentalizzare nulla. L’impegno di Sandra Zampa a favore dei minori è noto e l’articolo lo ricorda. Per questo ci ha colpito che alla Festa del Pd di Bologna fosse invitata, insieme a Zampa, un’amministratrice poi coinvolta in un’inchiesta su metodi che, secondo l’accusa, prevedevano il maltrattamento di minori ritenuti vittime di abusi.

Abbiamo cercato Sandra Zampa, abbiamo parlato con il suo ufficio stampa che non ci ha detto che l’allora deputata non aveva preso parte a quel convegno (anzi ha sollevato perplessità – naturalmente legittime – sull’impianto accusatorio della Procura e del Gip di Reggio Emilia).

Sa. Bu.

Nell’articolo sul Mater Olbia pubblicato ieri (“‘Stop ai fondi per l’ospedale qatariota’ Un’inchiesta può far saltare l’operazione”) abbiamo scritto che il giudice di Tempio Pausania ha ordinato l’imputazione coatta nei confronti di Angelo Merlini, il referente della società proprietaria indagato per falso. In realtà il giudice ha ritenuto al momento di non poter accogliere la richiesta di archiviazione della Procura e ha fissato l’udienza sull’opposizione presentata dalla controparte Alessandro Marini, ma deciderà solo dopo l’udienza. Ce ne scusiamo con gli interessati e con i lettori.

FQ

 

I NOSTRI ERRORI

Il titolo “Rimborsi chilometrici anche a nome di un ‘Mago Silvan’. Arrestato presidente della Fiera” dell’articolo pubblicato ieri a pagina 21 contiene un errore. L’arresto riguarda Stefano Cristini, che della Fiera di Bergamo è direttore e non Ivan Rodeschini, il presidente, del tutto estraneo alla vicenda. Ce ne scusiamo con i lettori e con gli interessati.

FQ

Chiarot ha lasciato 28 milioni di debito su un bilancio di 35

Quale anziano spettatore della Fenice, teatro che frequento ininterrottamente da 78 anni, mi corre obbligo di rettificare le erronee valutazioni del satirico Paolo Isotta (di cui ho letto i libri) sul nostro ex soprintendente Cristiano Chiarot.

Chiarot non ha affatto “abbassato la programmazione oltre ogni dire”, anzi l’ha portata a livelli di eccellenza, non è un catto-comunistello, non è della provincia veneta, ma veneziano della Giudecca e il suo stile, lo conosciamo da più di trent’anni, è sempre stato accorto e misurato non imponendo mai a nessuno i suoi “diktat”, tanto meno ai direttori di orchestra e ai registi. Se a Firenze si è svolta una rappresentazione della Carmen con un finale incongruo non è certo opera di Chiarot, che ricordiamolo, doveva rendere conto del suo operato a molti.

Va bene la critica, la apprezziamo, ma che almeno sia focalizzata, precisa e non scioccamente livida.

La Gr. Uff. rag. Purchia e il dott. (prossimo senatore a vita) Cristiano Chiarot mandano avanti apologeti zelatori. Se volessi fare una Purchieide e una Chiarotteide andremmo lontano. Ma ne sono nauseato. Per quanto concerne il secondo, nulla ritratto dei miei precedenti articoli e aggiungo. L’“esemplare amministratore” ha lasciato alla Fenice un indebitamento di circa 28 milioni su un bilancio di 35, laddove l’Arena di Verona (pre-commissariamento) aveva un debito di 26 su 50. Come giudicare, in tale contesto, la scelta fatta dal Chiarot della tristemente nota Banca Popolare di Vicenza (dico Vicenza) per le movimentazioni di cassa della Fondazione la Fenice, cui s’aggiunge nel 2014 l’acquisto di n. 100 azioni per un controvalore di 2.400.000 euro? Nel momento che la Banca stava “scoppiando”, come tutti sanno, con i risvolti penali che ognuno conosce. Questi è colui che Nastasi, Renzi e Nardella hanno chiamato a “risanare” il Maggio Musicale Fiorentino, il teatro più indebitato del mondo. E poi ci si meraviglia se i cittadini, persa ogni fiducia nelle istituzioni, votano 5 Stelle e Salvini.

Assemblea capitolina, si dimette anche il presidente vicario

Enrico Stefàno, consigliere M5S, si è dimesso dal ruolo di vicepresidente vicario. Lo ha annunciato egli stesso su facebook. Stefàno era subentrato a Marcello De Vito, in carcere dopo essere stato arrestato per corruzione nell’ambito di un’indagine nata da quella sullo stadio della Roma, senza però poter nominare un proprio staff o avere le mani libere e senza poter accedere allo stipendio del suo predecessore, nonostante il moltiplicarsi degli impegni e delle responsabilità. Senza le dimissioni volontarie di De Vito, infatti, o la sua revoca, atto per cui servono le firme di almeno 24 consiglieri, Stefàno non è mai stato nominato ufficialmente presidente dell’aula Giulio Cesare. Da mesi vicepresidente vicario, ha dovuto lasciare anche la guida della commissione Mobilità, ruolo a cui teneva in particolar modo. Su Facebook, dopo aver ringraziato il suo staff e i dipendenti comunali che lo seguono da tre anni, il consigliere promette di spiegare i motivi delle sue dimissioni in un secondo momento, “a mente fredda”. In attesa di un voto per risistemare l’ufficio di presidenza del consiglio comunale, a governare l’Assemblea capitolina sarà Francesco Figliomeni di Fratelli d’Italia.

Rifiuti, volano stracci tra Zingaretti e Raggi

È scontro aperto tra Virginia Raggi e Nicola Zingaretti, con toni verbali mai raggiunti finora, sulla gestione della crisi rifiuti che ha investito Roma da alcune settimane. Ieri la giornata è stata scandita dalle accuse della sindaca M5S di lentezza nei confronti della Regione nell’emanare l’ordinanza – concordata mercoledì con il ministro dell’Ambiente Sergio Costa – che dovrebbe aiutare la Capitale a smaltire negli altri impianti del Lazio le 600 tonnellate di rifiuti che attualmente la città non riesce a lavorare.

La sindaca che attacca: “A metà pomeriggio siamo ancora in attesa che la Regione firmi un’ordinanza, che consente ad Ama di trovare degli impianti dove portare i rifiuti. È evidente che i sacchetti in terra non sono una priorità per loro”.

E il governatore del Lazio replica annunciando che il testo verrà firmato oggi e la Raggi dovrebbe “vergognarsi”. Per il segretario Pd la Raggi ha “ridotto la città più bella del mondo in un disastro e su ogni problema fa lo scaricabarile non assumendosi mai le sue responsabilità”. Quindi la prima cittadina ha ribattuto: “Zingaretti come sempre scappa, aspetto l’ordinanza sperando di non trovare trappole da vecchia politica”.

Il provvedimento della Regione conterrà la certezza che tutti gli impianti Tmb, i termovalorizzatori e i siti di smaltimento del Lazio vengano utilizzati al massima della loro potenza, mentre oggi questo non sempre accade. Le strutture indicate saranno quelle di Aprilia, Frosinone, Castelforte, Pomezia e Viterbo. Il testo dovrebbe garantire ad Ama di riuscire a dirottate nelle altre strutture regionali i sacchetti di indifferenziata che ora restano ad accatastarsi. La società comunale poi dovrà fare accordi con i singoli operatori dei vari impianti prima di iniziare i conferimenti. Con l’ordinanza la Regione chiederà anche ad Ama un impegno per dotarsi di mezzi di trasporto e strutture – come siti di trasferenza e trasbordo, e impianti Tmb mobili – in modo da disporre di strumenti adeguati per fronteggiare le crisi.

Alla base delle difficoltà di raccolta e smaltimento di queste settimane quel ciclo dei rifiuti fragile e non autosufficiente ben noto da anni. Roma tratta le circa 3.000 tonnellate giornaliere di indifferenziato in appena 3 impianti Tmb. Da inizio giugno fino a metà settembre, però, i 2 Tmb di Malagrotta – di proprietà del Consorzio che fa capo dallo storico Re della ‘mondezza’ romana Manlio Cerroni, oggi gestito da un commissario – saranno oggetto di manutenzione, accogliendo così circa 500 tonnellate in meno al giorno rispetto alla consueta media di 1.250. A complicare la situazione anche la fine, il prossimo 31 luglio dell’accordo tra Lazio e Abruzzo per il conferimento fuori Regione di parte dell’indifferenziato romano.