La ’ndrangheta al potere: “Abbiamo messo il sindaco”

“ALonate tutti calabresi siete?”. Risponde chi tra i tanti comanda: “È quella la fregatura. Noi per questo pagliaccio di sindaco siamo andati in galera. Prima l’abbiamo messo su e poi è andato a dire che qua c’era la ’ndrangheta”. Parla Cataldo Casoppero, presunto uomo di mafia e trait d’union con le istituzioni locali. Il riferimento è a Danilo Rivolta ex sindaco di Lonate Pozzolo (Varese), arrestato nel 2017 per corruzione. Dirà Casoppero: “Io gli ho fatto la campagna”. Davanti ai pm Rivolta svela i rapporti mafiosi e anche il potere politico di Nino Caianiello, il presunto “mullah” delle tangenti finito in galera il 7 maggio nell’indagine Mensa dei poveri. Citato in quell’inchiesta anche Peppino Falvo, già coordinatore regionale dei Cristiano democratici, ex presidente di Afol, l’agenzia provinciale per la formazione lavoro il cui dg Giuseppe Zingale è indagato per istigazione alla corruzione nei confronti del governatore Attilio Fontana (a sua volta indagato per abuso d’ufficio nell’indagine sulle tangenti). Falvo, ancora attivo in Afol e anche nel settore della sanità, nel 2012 organizzò un convegno al palazzo delle Stelline (facendo arrivare pullman di calabresi di Lonate) cui partecipò il governatore uscente Roberto Formigoni. Falvo oggi è indagato per aver veicolato i voti dei “calabresi” a Lonate.

Politica fino ai livelli regionali. Ma anche affari. Dal business dei parcheggi attorno all’aeroporto intercontinentale di Malpensa, fino alla torta per l’accoglienza dei migranti. Filone quest’ultimo a cui era interessata la famiglia Casoppero tanto da aver già individuato i terreni dove operare con una cooperativa. È il capitale sociale della ’ndrangheta che si avvale anche di un perito del tribunale di Busto Arsizio per avere informazioni su indagini in corso. Al compendio, svelato dagli arresti di ieri, non mancano la divisione delle zone, le estorsioni e una presenza che a Legnano, Lonate e Ferno è conosciuta anche dai cittadini che con la mafia nulla hanno a che fare ma che per risolvere i loro problemi scelgono i boss e non lo Stato. Era il 2009, quando l’operazione Bad Boys chiuse il cerchio attorno a questa locale di ’ndrangheta legata alla cosca Farao-Marincola di Cirò Marina. Nel 2010 il maxi-blitz Crimine-Infinito riaffermò la presenza. In galera finì il capo, Vincenzo Rispoli. Dieci anni dopo nulla pare mutato. Ottocento pagine di ordinanza, per mafia e altri reati, firmate ieri dal giudice di Milano lo confermano. Trentaquattro gli arresti, due milioni sequestrati, oltre ad armi da guerra e candelotti di esplosivo. Due anni d’indagine della Dda e del Nucleo investigativo dei carabinieri coordinato dal colonnello Michele Miulli. Nomi noti. Come Rispoli, scarcerato nel 2017, Emanuele De Castro, già titolare della “bacinella” (la cassa comune della locale), investitore, assieme al figlio, nei parcheggi di Malpensa. E Mario Filippelli. Il clan negli anni ha avuto diaspore interne. Sfociate, era il 2006, in tre omicidi, il cui movente viene così riassunto: “Quando uno ha molti capi, perché tu fai il capo, ma non è che qualsiasi cosa che dici è legge, ci sono gli altri che dicono: oh, ma che cazzo stai dicendo”. La storia si ripete. Tanto che dalla Calabria arriva Giuseppe Spagnolo per mettere pace. Risultato: “Ora è tranquillo (…). Facciamo un’unica banda (…). In ogni paese c’è una ’ndrangheta”. In futuro si vedrà: “Alla dimenticanza (…) chi può dire che siamo stati noi”. Nel frattempo gli affari volano. Spiegherà l’ex sindaco Rivolta: “Peppino Falvo” è “referente a Lonate della famiglia De Novara (coinvolta nell’inchiesta). Nel 2014, Falvo mi disse che i De Novara mi avrebbero appoggiato nella campagna elettorale. In cambio volevano che la figlia venisse nominata assessore”. Cosa che avviene. Queste dichiarazioni varranno a Falvo l’accusa di voto di scambio.

Indagato per mafia è Enzo Misiano, coordinatore di Fratelli d’Italia per Lonate e Ferno. Scrive il giudice: “Misiano” è “il catalizzatore del pacchetto di voti mosso dalla locale”. E quando qualcuno gli fa notare che nella zona di Varese bisogna parlarne con Caianiello risponde: “Io gli dico: Nino quelli che porto io entrano. Sono certo dei voti che hanno”. Misiano, secondo i pm, aiuterà De Castro per i suoi investimenti a Malpensa. È qui che emerge per la prima volta in dieci anni la denuncia di un imprenditore che vuole aprire un parcheggio. Davanti alle minacce di De Castro, denuncerà. Ma è una mosca bianca, perché qui la ’ndrangheta è l’anti-Stato “riconosciuto” dai cittadini “per sanare un torto”. Come una figlia lasciata dal fidanzato. La mamma si rivolge a Filippelli che dice: “Lo faccio picchiare, qual è il problema”. I pestaggi rimarcano la presenza. Dice un affiliato: “Sono dovuto andare a picchiare un marocchino, che qua su prenotazione li devi picchiare i cristiani”.

Furbetti russi in coda: lite tra giornalisti dentro Palazzo Chigi

La visitadi Putin a Roma ha agitato anche la sala stampa di Palazzo Chigi, complice l’altissimo numero di cronisti presenti alla conferenza congiunta tra il premier russo e Giuseppe Conte. Prima dell’evento si è infatti scatenata una lite tra alcuni giornalisti italiani e russi, che si sono spintonati mentre erano in fila per entrare nel cortile della sede del governo. Colpa della confusione, ma anche di un equivoco sull’ordine di ingresso, stabilito da un numerino assegnato a ogni giornalista e operatore. Qualcuno, senza conoscere o senza rispettare l’ordine, ha dunque tentato di entrare prima di chi ne aveva diritto, provocandone la reazione. Per calmare i giornalisti sono dovute intervenire le forze dell’ordine, che hanno fatto uscire tutti gli operatori e i cronisti prima di regolare il nuovo ingresso. La sicurezza ha anche identificato uno dei giornalisti russi coinvolti nella lite. Il cronista, dopo essersi giustificato, è stato comunque ammesso alla conferenza dei presidenti, pur con la raccomandazione di collaborare con i colleghi.

Il vecchio amico B., che va a rincorrerlo fino a Fiumicino

Non potevanonon vedersi. E infatti si sono visti, all’ultimo, in zona Cesarini. Poco prima del rientro a Mosca del presidente russo. Nonostante l’agenda fittissima della sua giornata romana, l’amico Vladimir ha trovato il tempo per l’amico Silvio e si sono incontrati, ieri sera, all’interno dell’aeroporto di Fiumicino. In una sala ultrariservata. Forse hanno addirittura cenato insieme. Bei momenti, anche se non è più come una volta, quando i due leader trascorrevano addirittura le vacanze insieme, a Villa Certosa, in Sardegna, o nella dacia sul Mar Nero. Si scambiavano regali e lettoni. “Silvio è un politico di statura mondiale, un vero leader che propugna fermamente gli interessi del suo Paese nell’arena internazionale. E’ un peccato non riuscire a incontrarsi spesso…”, ha detto il leader russo al Corriere. Un omaggio, quasi romantico, al caro amico. Che in questi giorni è tornato in gran spolvero. L’esordio a Strasburgo con i neo eletti che gli chiedono i selfie. Il ritorno al partito, con la messa in riga di Giovanni Toti. Il Milan, che non è più suo, ma lui dispensa consigli. Chissà se Vladimir gli avrà chiesto un giudizio su Matteo Salvini. E, nel caso, chissà l’ex Cav cosa avrà risposto…

La battaglia contro le sanzioni è già persa: resteranno in vigore almeno fino al 2020

Il punto politico più delicato nei rapporti tra Italia e Russia riguarda le sanzioni europee contro Mosca in vigore dal 2014 dopo l’annessione della Crimea in Ucraina. La questione però è stata già risolta prima della visita di Vladimir Putin a Roma. ll 20 giugno, infatti, il Consiglio europeo che riunisce i governi dell’Ue ha stabilito di prorogare fino al 23 giugno 2020 le sanzioni che erano in scadenza il 31 luglio prossimo. La decisione è stata presa all’unanimità, quindi con parere favorevole anche del governo italiano (nonostante in patria sia Lega che M5S abbiano più volte criticato le sanzioni). Come osserva l’Ispi, Istituto studi per la politica internazionale, l’impatto nel primo anno di sanzioni è stato notevole: le esportazioni russe verso i Paesi Ue si sono ridotte notevolmente: del 7 per cento nei primi 12 mesi, e addirittura del 43 per cento nel corso dell’anno successivo. Ma si tratta in gran parte di un effetto statistico, perché la Russia esporta soprattutto petrolio e gas il cui prezzo è molto sceso. Di sicuro le sanzioni non hanno raggiunto il loro scopo principale, cioè ottenere il rispetto degli accordi di Minsk sul congelamento del conflitto in Ucraina. Secondo la missione Osce in Ucraina, continuano le violazioni del cessate il fuoco e il numero totale di vittime civili nel 2018 è stato 225 (43 morti e 182 feriti), soprattutto nella regione del Donbass.

“Vladimir sfida i valori del liberalismo, ma non offre una alternativa migliore”

“In un mondo in cui le distanze sono ridotte e i fenomeni si influenzano reciprocamente, i principi del liberalismo sono ancora i migliori per provare a gestire queste interdipendenze”. Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni internazionali alla Cattolica di Milano, autore di Titanic. Il naufragio dell’ordine liberale (Mulino) analizza l’ormai celebre sintesi fatta da Vladimir Putin al Financial Times : “il liberalismo è obsoleto”.

Professore, Putin ha torto?

Parto da un esempio: Putin critica la decisione di Angela Merkel di accogliere i profughi siriani, ma quelli sono stati creati dal regime di Assad, a cui lui, Putin, ha dato una mano, non certo dal liberalismo. Li ha creati il sovranismo russo. Quello del liberalismo è un modo imperfetto, ma il migliore a disposizione. Anche se bisogna correggere l’iperglobalismo degli ultimi 30 anni che ha travolto il mondo degli accordi di Bretton Woods in cui il commercio era al servizio delle nazioni, mentre adesso è il contrario. Il problema non sono i valori del liberalismo.

Putin ha visto il Papa, entrambi sono critici dell’ordine liberale da prospettive diverse. Due facce della stessa medaglia?

No: il mercato e il capitalismo si possono mettere in discussione per difendere e tutelare l’essere umano o viceversa, si può attaccare il liberalismo per rendere i cittadini sudditi, per distinguere tra esseri umani di serie A e di serie B. C’è una visione molto conservatrice nella posizione di Putin non rintracciabile in quella di Bergoglio. Il papa critica il mercato per essere fine a se stesso e non per il benessere dell’uomo. Ma lo dicono anche economisti come Thomas Piketty e Dani Rodrik. E poi il sovranista Putin ha negato la sovranità dell’Ucraina per annettersi la Crimea.

Putin è un interlocutore irrinunciabile?

Quella in Italia è una visita di Stato. E le visite di Stato si fanno con tutti i crismi. La Russia è un interlocutore, come la Cina. Ma vorrei notare che Putin da una parte si pone come critico dell’Occidente liberale, dall’altro come il paladino dell’autentico Occidente: tipica posizione russa che non è quella in cui noi possiamo identificarci.

Per l’Italia è meglio essere più vicini a Trump?

L’Italia deve tenere presenti gli aspetti strutturali della sua collocazione, che è con gli Usa e i Paesi europei. L’amicizia con i leader politici non si può scambiare con l’alleanza. Anche se venisse rieletto, Trump dura al massimo altri sei anni. Mentre distinguere la Russia da Putin è difficile.

Stiamo assistendo a un cambio di paradigma nel posizionamento dell’Italia, soprattutto con le posizioni di Matteo Salvini sui valori?

In politica, l’offerta definisce la domanda. La cultura politica dell’Italia repubblicana ha potuto svilupparsi perché l’Italia era ancorata al contesto internazionale. I valori del liberalismo sono meno in auge che in passato. Ma un mondo fatto di sovranisti, in cui vige la logica di “America first”, “Russia first”, “Italia first” è ingovernabile. Ed è più pericoloso, non meno.

L’ordine internazionale liberale che Putin critica sembra comunque in seria crisi.

Certo. Ma c’è un punto che va sottolineato: l’ordine liberale è sotto attacco nello sbilanciamento tra democrazia e libertà da una parte e bulimia del mercato dall’altra. Noi dobbiamo non tornare indietro ma ricostruire il mondo post bellico su basi nuove. La proposta salviniana e putiniana è un ritorno all’Ottocento.

Per la Lega di governo conta soltanto Trump

La politica estera di un partito con il 34 per cento dei voti non può essere la stessa di uno con il 6 per cento. E la visita di Vladimir Putin a Roma ha reso evidente questa contraddizione. Il Matteo Salvini che Putin ha incontrato nel 2014 a Milano per discutere “le prospettive di sviluppo dei legami italo-russi” (come dice il presidente in una intervista al Corriere della Sera) guidava un partito al minimo storico, che lottava per sopravvivere e cercava sponde là dove gli altri non si spingevano, anche legandosi in modi mai del tutto chiariti con Mosca. Oggi la Lega è al governo e Salvini ha l’unico dilemma se gli conviene di più fare il premier ombra o cercare di diventare primo ministro davvero. E in questa nuova fase, i legami con la Russia sono una zavorra, quelli con gli Stati Uniti una necessità.

Mentre Putin incontrava il Papa, ieri mattina, il sottosegretario a Palazzo Chigi, Giancarlo Giorgetti, era a presentare il libro La visione di Trump (Salerno editore) del politologo Germano Dottori. Nella biblioteca della Marina militare, Giorgetti ha delineato in modo più esplicito del solito la strategia geopolitica della Lega, riscrivendo anche il passato. Lui e Salvini, ha spiegato, puntavano su Donald Trump ben prima che ottenesse la nomination del Partito Repubblicano e arrivasse alla Casa Bianca nel 2016. “I diplomatici italiani ci sconsigliavano di incontrarlo, ma noi lo abbiamo incontrato lo stesso”. Giorgetti argomenta le sintonie culturali e politiche tra la Lega di governo e l’Amministrazione Trump, che considera la Cina ma anche la Russia di Putin “rivali strategici”.

È negli interessi della Lega, e dell’Italia, costruire un “rapporto privilegiato” con gli Stati Uniti trumpiani. Perché – argomenta Giorgetti – “l’Italia è tagliata fuori dall’asse franco-tedesco” che governa oggi l’Unione europea, “noi siamo i Calimeri della situazione”, riconosce. Parole non banali nel momento in cui la narrazione prevalente dentro il governo è quella di un’Italia decisiva nel costruire gli equilibri dietro le nuove nomine europee.

Donald Trump è ben disposto verso l’Italia. Ma per carattere e storia personale, non si fida. Mai. Vuole quelle che Giorgetti chiama “prove d’amore”, cioè una “posizione chiara dell’Italia” sui temi che interessano di più agli Stati Uniti. E tra questi ci sono proprio i rapporti con la Cina e la Russia. Per queste ragioni la Lega ha cercato, in modo anche un po’ scomposto, di prendere le distanze dal governo di cui fa parte quando il presidente cinese Xi Jinping è venuto a Roma a marzo per celebrare l’adesione dell’Italia alla Belt and Road Initiative. Una scelta di campo che a Washington non è affatto piaciuta. E infatti nei due mesi successivi, prima Giorgetti e poi Salvini sono andati a tessere relazioni con l’Amministrazione Trump e i mondi contigui per rassicurare.

Se Putin si aspettava di essere rassicurato sull’affidabilità dei leghisti, ieri deve esser rimasto deluso (il silenzio di tutto lo stato maggiore del partito è eloquente). Perché Salvini non ha scrupolo alcuno a ribaltare le proprie posizioni in politica estera. Lo dimostra anche il suo recente attivismo nella gestione della crisi libica. Prima ha sostenuto la linea del premier Giuseppe Conte e della diplomazia italiana di dare credito al generale Haftar come interlocutore. Ora che è chiaro il fallimento di quell’approccio, Salvini non ha esitato un istante a schierarsi nel campo avverso rispetto al leader della Cirenaica appoggiato da Mosca e da Putin nel suo tentativo di spaccare il Paese.

Salvini due anni fa dichiarava: “Finalmente se ne accorge anche l’Arabia Saudita che il Qatar finanzia e fomenta il terrorismo”. Ma in questi mesi, grazie alla sponda dell’ambasciatore italiano a Doha, Pasquale Salzano, ha coltivato un’intensa relazione con l’emiro di Doha, Tamim bin Hamad al-Thani, che non è certo il leader mediorientale più amato dalla Russia, visto che in Libia il Qatar sostiene Serraj contro Haftar. Ma per Salvini, Putin è il passato, Donald Trump e Washington il presente e, forse, il futuro.

Libia, Putin offre una mano e cerca aiuto sulle sanzioni

Vladimir Putin cerca una sponda da parte dell’Italia, in un’Unione europea mediamente ostile e l’Italia lo tratta come un interlocutore. Arriva a Roma su invito di Sergio Mattarella il presidente russo. In tutto 10 ore programmate, con i tempi che però si allungano, visto che il ritardo si accumula di ora in ora. Vede prima Papa Bergoglio in Vaticano, poi va al Quirinale: doveva essere un pranzo, diventa una merenda, visto che arriva alle 16 e 15. E a Palazzo Chigi, l’incontro previsto per le 16 e 20 inizia alle 18. I dossier sul tavolo in tutti gli incontri istituzionali sono soprattutto Libia, Siria, Ucraina e Venezuela. Oltre alle questioni dell’energia e del clima.

A Palazzo Chigi, Giuseppe Conte lo riceve ribadendo più volte la “cordialità” dell’incontro. La conferenza stampa si svolge nel cortile: sulle finestre, le bandiere russa e italiana. Accanto al palco, a queste due si aggiunge quella europea.

L’Italia, in particolare, ci tiene a capire se Putin sosterrà il cessate il fuoco in Libia o se cederà alla tentazione di occupare uno spazio. Lui, durante l’incontro, ribadisce: “Ci basta la Siria”. Ma fa anche capire che la situazione potrebbe cambiare se gli attori coinvolti continuano ad andare in ordine sparso. “Noi appoggiamo sia i rapporti con Sarraj sia quelli con Haftar”, assicura, accusando però la Nato di essere la prima responsabile del caos libico. A Conte, però, assicura di lavorare per il cessate il fuoco.

Dall’altra parte, il dossier sul quale Putin mostra più interesse è quello dell’Ucraina: tradizionalmente, l’Italia è il paese che – almeno a parole – è stato più possibilista sulla necessità di togliere le sanzioni, che pure sono appena state rinnovate. Matteo Salvini (che Putin elogia in un’intervista al Corriere uscita ieri mattina) in una prima fase si era spinto quasi fino alla promessa di toglierle, poi ha corretto il tiro. Animatamente, il russo scarica tutta la responsabilità sul neo presidente ucraino, Volodymyr Zelensky: sta a lui rispettare le promesse elettorali, dunque riprendere i rapporti economici con il Donbass. E tira in mezzo l’Italia: “Siamo grati all’Italia per la sua posizione”, dice, spiegando di “comprendere che Roma è legata agli impegni europei: non abbiamo nessuna pretesa rispetto agli amici italiani ma speriamo che sulle sanzioni portino avanti la posizione di un ritorno dei rapporti a 360 gradi con la Russia”. Conte si trova nella complicata posizione di rassicurarlo senza avallarlo: “Il presidente Putin è molto modesto. Crediamo che possa fare molto per migliorare la situazione” annuisce e spiega la posizione dell’Italia. “Lavoriamo – dice – perché si creino le premesse per un superamento di questo stato di rapporti tra l’Ue e la Russia che non fa bene alla Russia, all’Ue e nemmeno all’Italia, che potrebbe aumentare le relazioni commerciali. Per raggiungere questo obiettivo, cui siamo devoti, occorre che maturino le circostanze e noi lavoreremo per questo”. Nessun impegno, ma nello stesso tempo ribadisce l’apertura dell’Italia.

D’altra parte, proprio ieri per promuovere la cooperazione economica fra Italia e Russia, attraverso co-investimenti e co-finanziamenti per il supporto alle imprese italiane, è stato firmato il Cooperation Agreement tra Cassa Depositi e Prestiti e Russian Direct Investment Fund.

Si parla pure di Venezuela a Palazzo Chigi. E anche qui, Putin sottolinea i “buoni rapporti con il presidente Maduro”, a cui abbiamo “fornito armamenti” e con il quale vi sono “cooperazione sull’energia e investimenti per miliardi”. Dice di “salutare” il processo di dialogo fra Maduro e l’opposizione in corso in Norvegia ma evita accuratamente di citare il nome dell’autoproclamato presidente Juan Guaidò – “Qualcuno è venuto in piazza e si è dichiarato presidente davanti a Dio” – anche se preferisce attestarsi sulla posizione della comunità internazionale: “Dobbiamo tornare sulla terra e ispirarci alle regole democratiche, che sono dialogo ed elezioni”.

C’è il tempo di una cena a Villa Madama con il premier Conte, il ministro degli Esteri, Moavero, il consigliere diplomatico di Palazzo Chigi, Benassi, Luigi Di Maio, Matteo Salvini e anche Michele Geraci, l’uomo che ha aperto le intese con la Cina. Presenza interessante in una fase di trasformazioni commerciali. Poi, prima di partire, lo aspetta l’amico di sempre, Silvio Berlusconi.

Pressioni per la casa popolare dei genitori, indagata Bragantini

L’ipotesi di reato è induzione indebita a dare o promettere denaro o altre utilità. “In qualità di deputato della Repubblica italiana, abusando della sua qualità”, nell’ottobre 2016 l’allora deputata Pd di Torino Paola Bragantini, insieme a suo padre Diego, avrebbe indotto Marcello Mazzù, presidente dell’Agenzia territoriale per la casa (Atc) ed ex sindaco Pd di Grugliasco, il vicepresidente Elvi Rossi e il legale dell’ente Luca Cattalano a vendere la casa popolare assegnata ai genitori per evitare lo sfratto. Lo sostiene la Procura di Torino che ha notificato a loro cinque l’avviso di chiusura dell’inchiesta. Atc aveva scoperto che la madre della deputata possedeva un rudere in provincia di Biella. Per quanto valesse poco, però, faceva cadere il diritto dei genitori ad avere una casa e dovevano essere sfrattati. Bragantini aveva quindi incontrato il compagno di partito, scritto la richiesta di acquisto dell’appartamento e poi sollecitato la decisione. I vertici di Atc hanno dato seguito alla richiesta e i Bragantini hanno potuto rilevare la casa “al prezzo agevolato di 59 mila euro” sebbene il possesso di un altro immobile avrebbe dovuto impedirlo, sostiene la Procura.

Rom, bacioni e Salvini: la leghista affonda

Si era fatta pure il selfie d’ordinanza con Matteo Salvini. E pure con Marine Le Pen e Silvio Berlusconi (è milanista sfegatata). Sembrava fatta per Mara Bizzotto, europarlamentare leghista candidata alla vicepresidenza del Parlamento europeo, e invece niente da fare. Ha ottenuto solo 17 voti, quando la Lega ne conta 29 e il gruppo Identità e democrazia (Salvini, Le Pen e sovranisti vari) ben 73.

La spiegazione però c’è: il suo gruppo al momento del voto era uscito dall’aula per protesta contro un sistema che, a loro dire, non avrebbe tutelato le minoranze. “I 17 voti per Mara, quindi, non sono nemmeno nostri, ma di europarlamentari di altri gruppi, che evidentemente la stimano”, spiega la neoeletta Cinzia Bonfrisco.

Sta di fatto, però, che la débâcle per il partito di Salvini è stata plateale, soprattutto se paragonata ai 248 voti con cui è stato eletto il pentastellato Fabio Massimo Castaldo. Tanto più che il M5S (con i suoi 14 eletti) in Europa non fa parte di nessun gruppo, quindi l’elezione di Castaldo è arrivata con la sponda di altri tra cui, si dice, il Pd e i socialisti. In cambio i 5 Stelle avrebbero votato David Sassoli alla presidenza, anche se ufficialmente il Movimento ha lasciato libertà di coscienza. Tutti giochi da cui i sovranisti sono stati tagliati fuori. Sulle nomine, finora, la Lega non ha toccato palla.

“Il cordone sanitario messo su per evitare la mia elezione è uno schiaffo alla democrazia e un vergognoso affronto ai 9 milioni che hanno votato Lega”, dice Bizzotto.

E dire che Bizzotto aveva tutte le carte in regola. Leghista della prima ora, con l’imprimatur della Liga Veneta, di professione commercialista, a Strasburgo è una veterana: dopo alcuni anni da consigliere regionale in Veneto (è di Bassano del Grappa, provincia di Vicenza), nel 2009 viene eletta per la prima volta in Europa, riconfermata nel 2014 e rieletta il 26 maggio con 94.812 voti. Nel frattempo diventa salviniana doc. “Più Bizzotto e Salvini, meno rom e clandestini”, è lo slogan sul suo profilo Fb.

E anche il lessico si è adattato a quello del Capitano. “Bacioni a tutti dal mio nuovo ufficio al Parlamento europeo!”, posta appena risbarcata in Europa. Ora la Lega dovrà rientrare in partita e indicare un commissario europeo. I segnali da Bruxelles lasciano intendere che ci si aspetta “un moderato”.

Il sindaco si presenta: sedie nuove e aumenti alla giunta

Prima i biellesi? Certo, soprattutto quelli che fanno parte della giunta comunale. Il neo sindaco del Comune piemontese, il leghista Claudio Corradino, ha infatti deciso di battezzare il proprio mandato con una delibera tutta auto-referenziale che ha aumentato gli stipendi del primo cittadino, del suo vice e dei sette assessori.

Un bel regalo di inizio consiliatura che alzerà i compensi di circa il 30 per cento: Corradino guadagnerà adesso 3.718 euro lordi al mese, mentre la sua squadra avrà in dote 2.231 euro (2.788 andranno invece al vicesindaco). D’altra parte il comune era rimasto indietro e qualcuno doveva pur rimediare: “Nel passato c’è stata una giunta che ha tagliato i compensi in ragione dell’allargamento della squadra – si è difeso Corradino – ma oggi gli assessori sono solo sette”. In effetti l’ex sindaco Donato Gentile, centrodestra pure lui, aveva ridotto i suoi emolumenti da circa 4.000 euro a 2.700, cifra che Corradino ritiene però “non proporzionata” all’attività sua e della giunta, oltreché inferiore a quella percepita dai colleghi dei Comuni limitrofi.

Ottimi argomenti per sfidare l’austerity – fedele in fondo al programma leghista – e concedersi qualche sfizio, se non altro per ripagare tutte le fatiche della campagna elettorale. Già, perché prima di trionfare al ballottaggio del 10 giugno, Corradino ne aveva passate parecchie. Lo scorso aprile, per esempio, si era parlato di lui per come aveva omaggiato Matteo Salvini durante la tappa biellese del tour elettorale del Capitano: inchino ossequioso e bacio sulla sacra mano del leader, che tanto generoso era stato nell’onorare la città con la sua visita. “Un gesto goliardico”, si era giustificato Corradino, intento a scusarsi con Salvini dopo aver dichiarato sul palco la propria fede interista.

Ma goliardia o meno, quella del sindaco per il Capitano resta un’ammirazione devota, tanto da provare a replicarne di continuo i tratti di successo, pur in assenza di un Luca Morisi o di cotanto staff comunicativo a dettare l’agenda.

Si pensi all’ultima campagna elettorale, quando Corradino – questa volta affascinato dall’immagine del leader con il rosario in mano – aveva promesso una camminata a piedi al santuario di Oropa dedicato alla Madonna (3 ore e 22 minuti da Biella, 12 chilometri di curve impervie fino ai 1.200 metri di altezza) per ringraziare la Vergine in caso di successo alle urne. Arrivata la vittoria, è arrivata pure la scarpinata, come testimoniato da una foto sul profilo Facebook del sindaco.

Anche se, a dirla tutta, i più maligni conservano qualche dubbio: “Sei più sudato oggi di quando sei arrivato su, – gli hanno urlato dai banchi dell’opposizione durante il primo consiglio comunale – non è che per caso qualche Carroccio ti ha trainato fino in cima?”. Chi può dirlo. Di certo, oltre all’attività fisica, al neo-sindaco sta a cuore anche la comodità in ufficio. Non pago della delibera sugli aumenti degli stipendi, nelle sue prime settimane di lavoro Corradino si è infatti adoperato per risolvere altre impellenti questioni, mostrando sui social le foto delle poltrone del municipio: “Come un jeans usurato, ecco come si presentano i 10 coprisedia nell’ufficio del sindaco. Bucati, strappati, impresentabili.”

La prosa ideale, accompagnata alla faccia più triste, per enfatizzare il ricambio degli scranni, che però questa volta – giura Corradino, così attento alle casse del suo Comune – sarà a carico di sindaco e assessori.

Che adesso magari, visto l’esborso imprevisto, potranno valutare un nuovo piccolo aumento.