Morandi: decine di richieste danni dopo l’implosione

Una decina di richieste di risarcimento per crepe e danni a finestre e infissi dovute alle vibrazionì provocate dal crollo delle pile 10 e 11 di Ponte Morandi. Sei giorni dopo la spettacolare “implosione controllata” che ha polverizzato i monconi più evidenti di quello che resta del Morandi, alcuni cittadini lamentano danni alle proprie case, quasi tutti residenti nella zona del Campasso. Alla Omini, capofila dei demolitori, erano già arrivate tre richieste di risarcimento: tutti lamentano crepe e danni alle persiane e alle finestre. Gli edifici considerati a rischio, ovvero quelli che si trovavano nel raggio dei 250 metri dal cosiddetto “campo di esplosione” erano state sottoposte a verifiche di stabilità. D’altra parte 50 mila tonnellate di cemento armato che crollano a terra in tre secondi una qualche vibrazione al suolo deve pur averla provocata. A chiarire i fatti è stato Alberto Iacomussi, progettista generale della demolizione delle due pile. Le vibrazioni a terra create dalla demolizione delle pile 10 e 11 di Ponte Morandi “non potevano creare danno. Se danno c’è stato, e verificheremo, potrebbe essere attribuibile alla proiezione di detriti. Ma siamo tranquilli”.

Sicilia, l’ex ministro. Romano e l’assessore scaricano Arata

Sul faccendiere della Lega, Paolo Arata, per gli inquirenti socio occulto di Vito Nicastri, che sta scoperchiando il mercato delle mazzette per le autorizzazioni energetiche, continuano le prese di distanza da parte dei politici che l’hanno accreditato in assessorati vari. L’ex ministro Saverio Romano tira in ballo Gianni Letta: “Ho ricevuto – scrive in una nota – una telefonata dal dott. Gianni Letta che mi chiedeva di incontrare Paolo Arata, anticipandomi che avrebbe avuto bisogno di incontrare l’assessore Cordaro. Quindi lo incontrai e mi raccontò di essere il responsabile della Lega per il settore Energia e che aveva delle pratiche pendenti presso la Regione per sviluppare iniziative industriali. Mi disse inoltre che non riusciva a parlare con l’assessore Cordaro”. Quest’ultimo, responsabile di Territorio e Ambiente, ascoltato in Commissione Antimafia regionale, ha detto: “Arata era uno stalker, mi scriveva e non rispondevo. Mi chiese di due progetti che lo interessavano, non ho risposto e l’indomani mi ha scritto: ‘In quanto responsabile del centrodestra in materia ambientale avrei voluto istituire un rapporto personale con lei. Lei è l’unico assessore italiano con cui non riesco a comunicare e che non mi risponde’”.

Il pg di Cassazione lascia Via dal 20 novembre

E alla fine le dimissioni da tutti attese e richieste da giorni, sono arrivate: il procuratore generale di Cassazione Riccardo Fuzio lascerà la magistratura prima del tempo per il pressing esercitato ai massimi livelli delle istituzioni, dal Quirinale in giù. Passando dall’Associazione nazionale magistrati e della stessa corrente a cui appartiene, Unicost. E questo dopo che nei giorni scorsi erano state diffuse le intercettazioni del suo colloquio con Luca Palamara su fatti oggetto di contestazione al pm capitolino (sotto inchiesta a Perugia per corruzione) da parte della Procura generale di Cassazione, di cui lo stesso Fuzio è a capo: andrà dunque in pensione anticipata il prossimo 20 novembre, giusto a un anno dalla data in cui avrebbe lasciato la magistratura per raggiunti limiti di età.

La decisione è stata comunicata ieri mattina al Capo dello Stato da Fuzio poco dopo aver partecipato al Consiglio di presidenza del Csm con il vicepresidente David Ermini. E con il primo presidente della Cassazione Mammone, che come Fuzio è membro di diritto del Consiglio superiore della Magistratura. In ragione, nel suo caso della funzione di Procuratore generale di Cassazione, titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati. Proprio questa peculiarità dell’assetto ordinamentale, rischiava di mandare in frantumi il sistema, messo a dura prova da quanto rivelato dalle intercettazioni. E proprio per questo, da giorni si attendeva da Fuzio un gesto di responsabilità: il passo indietro che è arrivato e per il quale tutti, anche quelli che non vedevano l’ora che rotolasse la sua testa, ora sono pronti a tributargli gli onori delle armi che merita.

Il presidente Sergio Mattarella “ha preso atto della decisione del dottor Fuzio di presentare domanda di collocamento a riposo anticipato, decisione assunta con senso di responsabilità a conclusione di un brillante percorso professionale al servizio delle istituzioni” è il contenuto della nota del Quirinale. Che sottolinea come Mattarella gli ha “espresso apprezzamento per il rigore istituzionale con cui ha assicurato il tempestivo esercizio dell’azione disciplinare in una contingenza particolarmente delicata per la magistratura”.

Chiedendo il collocamento anticipato “Fuzio ha compiuto un gesto importante per le istituzioni, dimostrando grande senso di responsabilità” ha fatto trapelare il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che lo aveva incontrato l’altro ieri. Uno snodo per l’epilogo della vicenda: Fuzio già orientato a dimettersi ha convenuto con il Guardasigilli che fosse opportuno lasciare anche alla luce della reazione compatta delle istituzioni di fronte a un caso così delicato. Gli stessi vertici di Palazzo dei Marescialli, per bocca del vicepresidente Ermini, plaudono alla sua decisione. Che toglie tutti d’impiccio e allo stesso tempo lo rilegittima nelle sue funzioni che potrà continuare a esercitare fino al 20 novembre quando sarà stato individuato il suo successore: ieri Fuzio ha deciso di agire nei confronti di Cosimo Maria Ferri leader incontrastato di Magistratura Indipendente e deputato del Pd. Anche lui sulla graticola per aver partecipato al dopocena costato il seggio al Csm a quattro membri togati (un altro rimane ancora autosospeso).

Dopocena che aveva ad oggetto la successione alla Procura di Roma a cui, oltre che Palamara, aveva preso parte pure l’altro esponente dem Luca Lotti. Quanto a Palamara, a rappresentare il 9 luglio la Procura generale di fronte alla sezione disciplinare del Csm, saranno probabilmente gli stessi Avvocati generali che hanno presenziato all’udienza di martedì scorso. Perché tutto si compia.

I silenzi-assensi di Legnini con l’amico Palamara

Ascolta con attenzione e parla poco, l’ex vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, nelle conversazioni intercettate con l’amico Luca Palamara. Eppure, Palamara indugia su dettagli dell’inchiesta perugina che lo riguarda. Che non dovrebbe conoscere. Ma mai Legnini ferma la conversazione o ribatte che lui, Palamara, di tutto questo non dovrebbe saper nulla. La cena è del 23 maggio scorso. Legnini arriva intorno alle 22. I commensali non sanno di essere intercettati dal trojan che ha infettato il telefono del magistrato romano. Palamara gli racconta – “riferendosi verosimilmente a Pignatone (Giuseppe, ex procuratore capo di Roma, annotano gli investigatori)” – che “questi era convinto di fare l’operazione Lo Voi (Francesco ndr) e Prestipino (Michele, ndr)”. Secondo gli inquirenti, il riferimento è al trasferimento del procuratore capo di Palermo Lo Voi a Roma.

Terminata la cena, intorno alle 23:40, Palamara torna “a parlare con Legnini” fuori dal ristorante. Gli riferisce il contenuto di una telefonata ricevuta. “Ascoltami bene, novembre 2017, pieno potere nostro – inizia il suo racconto – quando me ne sto ad andà… (incomprensibile) stasera (incomprensibile) la lascio in sede, lui mi chiama e mi fa… ‘senti, ma tu sei stato a un posto che … (incomprensibile) con una persona?’. Dico ‘sì, perché?”. Palamara riporta la frase del suo “informatore”: “ha detto ‘ma chi ha pagato lì?’”.Palamara racconate di essersi infastidito perché in quell’occasione era con una donna che non è sua moglie. E Legnini gli dice: “Certo”. “Ma come mai mi fai ste domande?”, ho detto – continua Palamara, che aggiunge la risposta ricevuta: “No, perché ci sarebbe per te e tua moglie il pagamento fatto da Centofanti. L’imprenditore Fabrizio Centofanti, secondo la procura di Perugia, avrebbe corrotto Palamara. E il magistrato romano mostra di sapere delicati contenuti dell’inchiesta. Il suo “informatore”, racconta Palamara a Legnini, l’avrebbe tranquillizzato dicendogli: “Non ti preoccupare perché tanto quelli della Finanza, c’è Di Gesù (il generale della Gdf Cosimo, ndr) e Mastrodomenico (Gerardo, colonnello della Gdf, ndr) sai che sono controllati da me tengo io tutto sotto controllo”.

“Certo”, risponde Legnini. È probabile che Palamara stia millantando. Non possiamo neanche escludere che, immaginando di avere il telefono infettato da un trojan, stia dicendo apposta frasi che potrebbero mettere in difficoltà chi lo sta indagando, come i due finanzieri citati. Sarà la procura di Perugia a valutare il reale significato delle parole di Palamara. Nel frattempo possiamo solo prendere atto di quel che dice. E delle risposte di Legnini che – non è indagato per questa vicenda – è un uomo delle istituzioni, sia per la carica di senatore attualmente rivestita, sia per il suo da vice presidente del Csm. Palamara continua il suo racconto aggiungendo che Centofanti viene arrestato, e che l’imprenditore era “era solito uscire” con il suo informatore. “Si? – risponde Legnini – eh… eh… Roberto”.

Abbiamo chiesto a Legnini chi fosse questo Roberto, se Palamara gli abbia fatto il nome del suo informatore e perché non abbia troncato questa conversazione. “Partecipai a questa cena – risponde Legnini al Fatto – con due amici estranei al mondo della magistratura. Mi limitai ad ascoltare il suo sfogo riservato. Mi sembrava un uomo impaurito e non ero nelle condizioni di valutare l’attendibilità di quello che mi diceva. Le mie parole erano soprattutto intercalari. Sono estraneo a qualunque discussione che riguardava le nomine. Quando menziono Roberto non ricordo a chi mi riferissi. Non ricordo se Palamara mi disse chi lo aveva informato. Ho conosciuto un Palamara diverso da quello che emerge dai fatti gravissimi e inaccettabili che stanno emergendo in queste settimane”. In un altro passaggio Palamara spiega di poter mostrare le ricevute del “pagamento” di un altro viaggio. A riferirgli di questa vacanza del 2011 è stato sempre il suo informatore che gli ha detto: “… risulterebbe una cosa del 2011…”. E sempre riferito all’anonimo informatore Legnini maliziosamente commenta: “Lui la propaga”.

Pure il collaboratore del Viminale nella rete delle nomine del Csm

C’era anche un collaboratore del Viminale nella fitta agenda di Luca Palamara, il pm indagato a Perugia per corruzione. Si tratta di Filippo Paradiso, che in passato ha prestato servizio negli uffici di diretta collaborazione dei vari sottosegretari alla Presidenza del Consiglio, con Prodi come con Berlusconi. Oggi risulta al ministero dell’Interno, come collaboratore della segreteria di Matteo Piantedosi, capo di gabinetto di Matteo Salvini. Era già noto che Paradiso fosse indagato a Roma per traffico di influenze. Adesso Il Fatto ha scoperto che l’inchiesta in cui è coinvolto riguarda presunte influenze su un membro del Consiglio Superiore della Magistratura (Csm) ma della vecchia consiliatura. Il ‘trafficato’ quindi è un magistrato (non indagato come prevede il reato), ma non si tratta dello stesso Palamara. Alcuni atti dell’indagine romana su Paradiso intanto sono stati trasmessi – per conoscenza – a Perugia. Così i pm umbri, durante l’interrogatorio, hanno chiesto a Palamara anche dei suoi rapporti con Paradiso.

L’interrogatorio: “L’ho visto con Fabrizio Centofanti”

A Perugia il pm deve difendersi dall’accusa di corruzione: avrebbe ricevuto utilità, come viaggi e soggiorni all’estero, dall’imprenditore Fabrizio Centofanti. Su Paradiso, però, il 31 maggio dice: “L’ho visto più volte sia con Centofanti che con altri consiglieri del Csm con cui si accompagnava, nel senso che usciva regolarmente con alcuni componenti anche di rilievo del Csm”. “Sa che tipo di legame ci fosse tra Centofanti e Paradiso?”, chiedono i pm Gemma Miliani e Mario Formisano. E Palamara: “Li ho visti insieme, ma non mi sono mai interessato del tipo di rapporto che avessero, e ho avuto incontri saltuari con lui; ricordo un convegno organizzato da Paradiso sulla corruzione, diverso tempo fa. (…) Non avevo un rapporto di frequentazione con lui”.

A Palamara l’accusa contesta anche di aver ricevuto dagli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore e dall’ex pm Longo, 40 mila euro per orientare la nomina (non avvenuta) di quest’ultimo alla Procura di Gela. Proprio ieri Longo ieri è stato arrestato a Fiumicino: è divenuta definitiva la sentenza in cui ha patteggiato la condanna a 5 anni per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione.

Longo a Perugia il 26 aprile aveva raccontato ai pm dei 40 mila euro a Palamara ma, dice, per averlo saputo da Calafiore. Circostanza smentita da Palamara: “Non ho mai avuto alcun contatto con Amara e Calafiore – dice il 31 maggio –. (…) Non ho mai parlato con nessuno della nomina del Procuratore di Gela (…) e mai mi sono rivolto ad alcuno dei componenti della commissione per perorare la sua nomina. (…) Il rapporto con Centofanti era con lui e mai mi sono voluto interessare della sua rete di relazione con Amara e Calafiore. (…) Mai ho ricevuto 40 mila da nessuno”.

L’ex magistrato in cella: “Tramite lui incontrai la Casellati”

Come detto, Longo è stato sentito a Perugia il 26 aprile. Pure l’ex pm, ora in carcere, fa il nome di Paradiso (indagato a Roma, ma resta estraneo all’inchiesta umbra). Paradiso peraltro – come ha già raccontato L’Espresso – ha avuto in passato una collaborazione con lo staff del presidente del Senato, Maria Elisabetta Casellati.

Ai pm quindi Longo racconta anche di aver interloquito per la sua candidatura a Gela “mi pare a dicembre (2015, ndr) o gennaio 2016 con la Casellati”. Poi aggiunge: “Questo incontro mi è stato, diciamo, organizzato da Paradiso (…) che conosco tramite Calafiore”. Con la Casellati (all’epoca membro del Csm) “è stato un incontro cordiale avvenuto fuori dal Csm (…). Ho semplicemente portato il mio curriculum alla Casellati, la quale è stata molto attenta all’esposizione del contenuto del mio curriculum e della domanda che avevo fatto”. Il Fatto ha chiesto allo staff della Casellati chiarimenti: “Il presidente del Senato – fanno sapere dall’ufficio stampa – durante il suo mandato al Csm, nell’esercizio delle sue funzioni, ha incontrato centinaia di magistrati, così come tutti gli altri componenti dell’organo di autogoverno della magistratura. Nel caso di Longo, così come in tutti gli altri casi, si è determinata esclusivamente sulla base della lettura degli atti allegati alle domande dei concorrenti, come si desume dalle stesse parole dell’ex magistrato. Quanto al posto di procuratore di Gela, è doveroso sottolineare che la Commissione e poi il Plenum hanno votato all’unanimità Fernando Asaro”.

Davanti ai pm di Perugia, Longo dice pure di aver parlato “sempre per Gela anche con Giovanni Legnini” all’epoca vicepresidente del Csm. Circostanza negata giorni fa da Legnini al Fatto, salvo ritrovare improvvisamente la memoria, dopo le rivelazioni de L’Espresso, in una nota in cui conferma l’incontro con Longo, aggiungendo: “Mi limitai ad ascoltarlo”.

Hacker, troll e fascisti: il Pd in Procura contro Fn e fake news sul web

Il sito del Partito democratico ieri è stato irraggiungibile per diverse ore. Colpa, stando ai dem, di un attacco hacker definito “inquietante” perché ritenuto in collegamento a un’iniziativa anti-fake news presentata proprio dal Pd. Nelle stesse ore, infatti, l’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando e il responsabile per l’iniziativa politica della segreteria Marco Miccoli avevano annunciato l’imminente denuncia contro una “macchinazione” a base di diffamazioni sui social partita nei giorni scorsi. A far muovere il Pd è stato soprattutto un hashtag diffuso su Twitter (“#PDofili”) e relativo allo scandalo di Bibbiano (Comune a guida Pd) sui minori sottratti ai genitori e affidati con metodi illeciti. Ma sempre ieri il Pd ha denunciato anche un tentativo di irruzione nella sede del Nazareno ad opera di due esponenti di Forza Nuova. Lo stesso Miccoli ha raccontato come il servizio di sicurezza abbia bloccato i due, che probabilmente “volevano attaccare i loro volantini come hanno fatto in altre sedi nei giorni scorsi”. Gli attivisti di Fn sarebbero poi scappati prima dell’arrivo della Digos.

Rai, doppio incarico di Foa: oggi il voto decisivo del consiglio

Giornatacruciale per la Rai. Nel Cda di oggi, infatti, verrà affrontato, forse con un voto, il nodo del doppio incarico di Marcello Foa, nominato anche alla presidenza di RaiCom. Dopo il voto della Vigilanza, che ha invitato il presidente a lasciare il doppio incarico, la questione ora irrompe in Cda con i consiglieri Borioni e Laganà intenzionati a chiedere un voto. Dalla presidenza, come auspicato da molti, compreso l’ad Fabrizio Salini, al momento non arrivano segnali su un eventuale passo indietro dell’ex giornalista. Ma non è escluso che il dietrofront arrivi oggi “per motivi di opportunità e non creare conflitti col Parlamento”. In cambio, si sussurra, il presidente avrebbe chiesto una contropartita sulle nomine ancora da farsi, come lo sblocco delle vicedirezioni a Raiuno. Ma aperte ci sono altre due strade. La prima prevede le dimissioni di tutti i consiglieri nominati nelle controllate: De Biasio dal Cda di RaiCom, Coletti e Rossi da quello di Rai Pubblicità. Oppure niente dimissioni e voto in consiglio. Le ultime voci dicono che pure Salini e Coletti (oltre a Borioni e Laganà) sarebbe orientati a votare contro Foa proprio alla luce dell’indicazione della Vigilanza.

Il duro “lavoro” della sinistra

Diciamocelo chiaramente: il gruppo che attorno a Matteo Renzi era riuscito a conquistare il vertice del Partito democratico, e grazie a questo, il governo del Paese, si presentava come un “dream team” che avrebbe rivoltato il Paese.

Da quel che si legge nelle intercettazioni, e considerato che parliamo di una classe politica che si ritiene di sinistra, è il Paese che avrebbe mille motivi per rivoltarsi.

Da quando quel gruppo non è più al potere la sua vera natura emerge con sempre maggiore nitidezza, tanto da rendere lecita la domanda: di che si occupa veramente? Di politica o di lobby? Sono i mediatori con le istituzioni o i sensali degli affari?

Quello che si legge tutto sembra, ma non certo una politica basata sulla gratuità dell’impegno, sullo spirito di servizio, sulla lotta per delle idee. Ancor meno, una politica di sinistra basata su valori di eguaglianza, libertà, solidarietà. Altro che Rivoluzione francese, qui non è di casa nemmeno l’oratorio.

Eppure, sono gli stessi che rivendicano il diritto di guidare una corrente di partito: Lotti oggi aprirà i lavori di Base Riformista (ma come si fa a utilizzare l’acronimo Br?), corrente del Pd che vuole dimostrare a Nicola Zingaretti che senza di loro non può gestire il partito. Ma come fa un partito di sinistra a tenersi in casa certa gente, soprattutto dopo che certe parole diventano di pubblico dominio? Cosa spiegherà ai suoi elettori alla prossima campagna elettorale?

Nella frase che il parlamentare fiorentino dice a Palamara e raccolta nelle intercettazioni di questi giorni – “Domattina parto alle sei per Londra. Chiudo l’accordo della Premier League… Duecentomila sterline e ve lo metto in culo a tutti… Vado per conto di chi li trasmette i diritti” – c’è tutta l’immagine di una politica al servizio di ambizioni più ampie, desideri più alti e redditi ancor più alti. Lotti fa capire ai suoi interlocutori che potrebbe lavorare con Infront (non se ne ha conferma, ma quelli capiscono questo) e comunque fa capire che si mette in tasca una cifra consistente. Renzi, dal canto suo, fa capire a tutti che i suoi redditi sono diventati finalmente importanti, senza i lacci di Palazzo Chigi. E infatti gira il mondo tenendo consulenze imprecisate, se ne sta dentro l’Algebris Policy&Research Forum del suo amico Davide Serra, insieme ad altri ex ministri (la danese Helle Thorning-Schmmidt, il tedesco Sigmar Gabriel, l’inglese Nicholas Clegg) tutti a imitare le gesta di Tony Blair o di Gerhard Schroeder che dopo aver detenuto il potere ai massimi livelli lo hanno messo a reddito andando a fare i consulenti per grandi agglomerati dell’energia o della finanza. Ve li immaginate Aldo Moro o Sandro Pertini a fare i consulenti finanziari? È questo il futuro migliore che sogna Zingaretti, con questa farina vuole fare il pane di una nuova sinistra?

Lotti fa molti lavori, si è visto in questi giorni, ma quello che fa meno è il parlamentare. Da quando si è insediata la legislatura di suo pugno c’è una sola proposta di legge e, non a caso, riguarda il “finanziamento della realizzazione di grandi eventi nazionali e internazionali” . Chissà a che serve. Ma, soprattutto, chissà a chi serve.

Dire “cazzaro” a Salvini si può. Ormai lo dice anche il giudice

Dire cazzaro verde a Salvini è consentito. E accusare di voler dire, o fare, una “supercazzola” a un politico, anche. Il gip di Milano, Luigi Gargiulo, ha rigettato la querela che Matteo Salvini ha opposto al Fatto e al suo direttore, Marco Travaglio, ritenendo diffamatorio il titolo di un editoriale, “Il cazzaro verde”, appunto, e la paternità di una “supercazzola” riferita all’intenzione di creare un governo di scopo.

Il giudice, avvalendosi di un’ampia giurisprudenza, ha motivato la decisione riconoscendo il carattere di satira basata su iperboli e coloriture anche aspre del linguaggio, “modalità espressive funzionali e proporzionate all’opinione” espressa e dunque non punibili. Del resto, precisa il giudice, i fatti oggetto dell’articolo “non sono stati mai negati dal querelante” che ha anche ammesso che nella vita politica la critica, soprattutto se proviene da un “giornalista di avversa linea ideologica”, può “assumere toni aspri di disapprovazione”.

Gli articoli di satira, se rispettano il criterio della continenza, si basano su un linguaggio “essenzialmente simbolico e paradossale” fermo restando “il limite del rispetto dei valori fondamentali”, limite che non è stato superato.

La sentenza ricorda anche “il complessivo contesto dialettico”, cioè il linguaggio della politica “contrassegnato da espressioni forti, aspre, pungenti ed anche suggestive”. Si ricordano le frasi di Luigi Di Maio sull’ipotesi di un Tav ridimensionato: “Parliamo di una supercazzola”. Oppure lo stesso Salvini: “Il piano B del governo per affrontare l’emergenza immigrazione mi sa tanto di supercazzola”. Ma è lo stesso Salvini a ricordare che “cazzaro”, nel linguaggio giovanile, “indica un millantatore di presunte capacità, virtù e successi, di fatto un fanfarone”. Esattamente il profilo che si proponeva di tracciare l’articolo.

Condannato Renzi: assunse 4 direttori al posto di uno solo

Lo statuto prevede la nomina di un solo direttore generale della Provincia di Firenze? E lui ne nominò quattro. Provocando un danno erariale pari a 125 mila euro. “Un aumento di spesa”, sono le tre parole con cui i giudici della Corte dei Conti della Toscana motivano la condanna di mercoledì nei confronti di Matteo Renzi per un danno erariale pari a 15 mila euro. Il caso riguarda quattro nomine risalenti al 2006, quando l’ex premier era presidente della Provincia di Firenze già da due anni: dopo le dimissioni dell’allora direttore generale, la giunta Renzi decise di nominare non un suo sostituto, ma ben quattro direttori centrali, riuniti in un collegio provinciale, nonostante lo statuto dell’ente prevedesse una figura unica.

I quattro ex dirigenti della Provincia sono stati condannati mercoledì insieme a Renzi a pagare somme dai 10 mila ai 37 mila euro e oggi ricoprono ruoli apicali tra il Comune e la Provincia del capoluogo toscano: sono Lucia Bartoli, Luigi Ulivieri, Liuba Ghidotti e Giacomo Parenti, oggi direttore generale di Palazzo Vecchio. Insieme a loro mercoledì i giudici contabili hanno condannato anche l’allora assessore al Bilancio, Tiziano Lepri. Secondo la Procura di Firenze – che aveva chiesto l’archiviazione – il danno erariale per queste nomine ammontava a 800.000 euro ma i giudici contabili poi hanno derubricato la somma a 125.000. Ma mercoledì per l’ex premier e oggi senatore di Scandicci, è arrivata una nuova doccia fredda: negli ultimi giorni sempre la Corte dei Conti toscana gli ha notificato un “invito a dedurre” per un nuovo presunto danno erariale pari a 69 mila euro, stavolta relativo al 2009 quando Renzi era stato eletto sindaco di Firenze spinto dal vento della “rottamazione”. In quel caso l’allora primo cittadino aveva assunto con contratto articolo 90 due collaboratori per la comunicazione – il capo ufficio stampa e portavoce Marco Agnoletti e Bruno Cavini – nonostante entrambi fossero privi di laurea. Questa nuova indagine è nata grazie all’esposto del consigliere comunale di Sel, Tommaso Grassi, noto anche per la battaglia sugli scontrini di Renzi durante il mandato a Palazzo Vecchio. Se il senatore dem oggi preferisce chiudersi in un insolito mutismo e non commentare la vicenda, a parlare per lui è il suo storico avvocato Alberto Bianchi che ha già annunciato il ricorso in appello per la condanna da 15 mila euro mentre parla di accuse “inspiegabili” rispetto ai due uomini dello staff della comunicazione. “Già in passato è stato stabilito che non c’è bisogno di laurea per lavorare nello staff del sindaco”, ha spiegato ieri: “Siamo fiduciosi e come già avvenuto in altri casi, in primo grado c’è una grancassa mediatica per poi ignorare l’assoluzione o l’archiviazione”.

Bianchi fa riferimento a un altro caso in cui Renzi, in qualità di presidente della Provincia di Firenze, era finito coinvolto in un’indagine della Corte dei Conti per altre quattro assunzioni di persone esterne all’amministrazione ma prive di diploma di laurea. Tra queste proprio quello che sarebbe diventato in futuro il suo “uomo ombra” Marco Carrai, all’epoca assunto nella segreteria del presidente. In due sentenze – la 282 del 4 agosto 2011 e la 227 del 9 maggio 2012 – i giudici contabili avevano condannato l’allora sindaco di Firenze per un danno erariale pari a 14 mila euro. Poi, tre anni dopo è arrivata l’assoluzione mentre Renzi sedeva già a Palazzo Chigi. “La Corte mi aveva condannato a pagare 14 mila euro per un atto amministrativo della Provincia di Firenze – aveva twìttato il premier –. Oggi condivido una piccola soddisfazione: l’appello ha annullato la condanna”. Eppure, dalle motivazioni della sentenza dei giudici del Lazio, Renzi non ne usciva molto bene: “Gli eventuali vizi appaiono di difficile percezione per un ‘non addetto ai lavori’” si legge a pagina 11 di quella sentenza. Ovvero: Renzi fu assolto perché non in grado di percepire l’illegittimità del proprio operato.