Clima, Sleepy Joe punta sull’amico dei petrolieri

L’uomo sbagliato al posto sbagliato: gli ambientalisti contestano la scelta di Biden di nominare Mitch Landrieu a responsabile delle infrastrutture. L’ex sindaco di New Orleans “non s’è mai schierato contro la logica delle trivelle”, sostengono i suoi detrattori. E la sua designazione allarga la scia di diffidenze e incomprensioni tra il presidente e l’ala verde della sua base. Da quel che diceva in campagna elettorale e da com’era partito, Joe Biden pareva forte del sostegno degli ambientalisti: cancellati per decreto i decreti di Donald Trump che autorizzavano fin nell’Artico prospezioni petrolifere e incoraggiavano consumi d’energia fossile; e riportati gli Usa negli Accordi di Parigi contro il riscaldamento globale, da cui Trump s’era chiamato fuori.

Ma poi qualcosa s’è incrinato nei meccanismi verdi dell’amministrazione Biden: giudici federali hanno eccepito sui decreti ambientalisti, come altri giudici avevano eccepito su quelli di Trump; e, a novembre, è stato chiaro che il ritorno degli Usa negli Accordi di Parigi non bastava a garantire risultati soddisfacenti alla Cop26 di Glasgow. Sono così cominciati mugugni e brontolii. Il segnale definitivo di un’inversione di atteggiamento, rispetto all’apertura di credito iniziale, l’ha dato Greta Thunberg in un’intervista al Washington Post il 28 dicembre: “È strano che la gente consideri Biden un leader sul clima, se si guarda a quel che sta facendo la sua amministrazione, che sta ora ampliando l’infrastruttura dei combustibili fossili”. La Thunberg, che dopo Glasgow sostiene che i governi sprecano gli anni facendo del “bla bla bla”, ritiene che l’attuale sistema non sia in grado di risolvere la crisi climatica, “a meno che non ci sia una forte pressione dall’esterno”, come fanno i giovani dei Fridays for Future. Il compito che Biden affida a Landrieu è di coordinare l’attuazione del piano da migliaia di miliardi di dollari per le infrastrutture varato dal Congresso, uno dei pilastri del rilancio dell’economia.

Il ruolo di Landrieu è simile a uno svolto da Biden quando era vice-presidente: Barack Obama gli lasciò la supervisione delle spese del Recovery Act 2009, che includeva 787 miliardi di dollari per stimolare l’economia. Landrieu, 61 anni, ex sindaco di New Orleans dal 2010 al 2018, è figura controversa sin dai tempi dell’uragano Katrina – estate 2005 –, quando provò una prima volta a farsi eleggere sindaco, perdendo contro il repubblicano in carica Ray Nagin, molto popolare nonostante il disastro subito dalla città anche per l’impreparazione e l’insipienza delle autorità locali, statali e federali. Di lui, The Intercept scrive: “Ha affermato che il clima sarà la sua priorità nell’ambito del potenziamento delle infrastrutture, ma gli attivisti dicono che questi auspici non si rispecchiano negli anni da sindaco, durante i quali ha avuto stretti legami con l’industria del petrolio e del gas”. Prima di essere sindaco, Landrieu, che viene da una famiglia influente, era stato vice-governatore della Louisiana dal 2004 al 2010: è figlio di un ex ministro federale e fratello di una ex senatrice. Nelle elezioni del 2010 e del 2014, vinse a valanga: ottenne i due terzi dei voti e la maggioranza sia fra i bianchi che fra i neri. Di sicuro, la sua scelta non pare rafforzare la coesione dell’amministrazione. L’ha presa male, infatti, la vice di Biden, Kamala Harris, già oggetto di critiche dentro e fuori la Casa Bianca. Chi la difende osserva che il presidente le affida dossier da cui è impossibile uscire bene, come i migranti, e le nega incarichi potenzialmente gratificanti, come la supervisione delle spese per 1.250 miliardi del piano per le infrastrutture. Chi la biasima sostiene che non basta essere donna o nera per essere all’altezza di certi ruoli.

Parigi Chiusi 15 reattori nucleari, c’è il rischio di blackout energetico

“La Francia minacciata dal taglio della corrente elettrica”: con un titolo in evidenza in prima pagina, il quotidiano Le Figaro qualche giorno fa tirava il campanello d’allarme a inizio 2022. Per il giornale della destra, “la situazione è critica”. Titoli analoghi sul Les Echos, voce della finanza, e anche su Libération, voce della sinistra. La chiusura d’un quarto dei reattori nucleari che procurano ai francesi luce e riscaldamento, potrebbe presto lasciare la Francia “al freddo e al gelo”. Il tema dei blackout energetici lo affronta anche Europe 1, che spiega che lo stop di alcuni reattori è stato suggerito all’Edf, l’Enel francese, come “misura di precauzione”, causa alcuni non meglio precisati difetti tecnici emersi. I reattori fermi sono 15 su 56, più di un quarto: “Tanti per l’inverno: il parco nucleare francese non è mai stato così poco disponibile”, osserva una fonte citata da Europe 1. Sfangarla senza blackout dipenderà dalle condizioni meteo: “Se un’ondata di freddo si abbatte sulla Francia, la Rte, la società che gestisce la rete elettrica, la Terna francese, potrebbe sconnettere 16 siti industriali”. Il passo successivo sarebbe quello di chiedere ai francesi di abbassare i termostati, limitando i consumi. Se anche questo non bastasse, potrebbero scattare interruzioni dell’erogazione dell’elettricità di due ore a rotazione su tutto il territorio francese.

Manu, come sfruttare l’Europa per i suoi spot in vista delle elezioni

Sventola blu sopra il marmo grigio dell’Arco di Trionfo. A Parigi, per celebrare l’inizio del semestre francese al vertice della presidenza del Consiglio dell’Unione, la bandiera europea a dodici stelle ha momentaneamente sostituito il tricolore nazionale proprio su uno dei monumenti storici più simbolici del Paese. Un’onda indignata di profondo scontento, soprattutto affidato ai social, si è levata da un lato all’altro della destra francese. Per Marine Le Pen, candidata del Rassemblement national alle elezioni presidenziali di aprile prossimo, l’atto “è una provocazione”. Il candidato della destra radicale del partito Reconquête, il polemista Eric Zemmour, ha fatto ricorso a un gioco di parole per denunciare lo scandalo: “après le saccage, l’outrage”, “dopo il saccheggio, l’oltraggio”. Per il gollista Nicolas Dupont-Aignan, sovranista meno famoso degli altri, ma candidato proprio come loro alle urne presidenziali, il presidente è un “profanatore”.

Ad arginare, quasi da solo, questa pioggia di critiche è stato Clément Beaune, segretario di Stato per gli Affari Europei, costretto a ribadire che l’iniziativa simbolica “è temporanea” e “la bandiera francese sarà ovviamente reinstallata in seguito”. Macron ha tentato di “cancellare l’identità francese” anche per la repubblicana Valérie Pécresse, che però, già due settimane fa, lo aveva accusato di violare le regole della campagna elettorale, a cui, ufficialmente, non ha ancora detto di partecipare. La denuncia della Pécresse è arrivata al Csa, Consiglio superiore dell’audiovisivo, per la sovraesposizione di un presidente che non si distingue più dal candidato. Che Macron tenterà di farsi rieleggere per un altro mandato, ormai, in Francia lo dicono tutti, tranne lui. E che metta fine a questo “segreto di Pulcinella” lo ha chiesto anche la sinistra di Jean-Luc Mélenchon.

L’opposizione teme che quel drappo europeo posto nel cuore della capitale, (proprio dove Parigi ha celebrato il nuovo anno nonostante il record di contagi che superano i 230 mila casi al giorno), è uno spot elettorale per la sua futura rielezione. E questa presidenza europea, che non poteva arrivare per Macron in un momento migliore, è il perfetto piedistallo per promuovere la nuova corsa che ufficialmente, dicono gli esperti, dichiarerà aperta solo a febbraio.

Di blu e giallo, colori di Bruxelles, si è illuminata ieri anche la Torre Eiffel e la facciata dell’Eliseo. Blu come il simbolo dell’Unione erano anche giacca e cravatta del leader che, per 15 minuti, ha parlato con alle spalle i giardini dell’Eliseo per inaugurare il suo turno al vertice, una guida che sarà improntata su tre direttive riassunte nel suo motto: “Relance, puissance, appartenance” (Rilancio, potenza, appartenenza). L’Europa deve essere “più sovrana, capace di tenere i suoi confini sotto controllo”, ha chiosato il presidente strizzando l’occhio all’elettorato di destra, sperando di sottrarlo ai suoi avversari. Secondo gli ultimi sondaggi, Macron rimane comunque in vantaggio su ognuno di loro. Di tanta Europa e dei suoi valori collettivi abbondava già la sua campagna del 2017, quando, promettendo di rompere regole di sistemi che non ha mai scosso, fu eletto all’Eliseo. La differenza rispetto all’epoca è che ora si promuoverà da un doppio palco, sia quello di primo cittadino del suo Paese che quello di presidente dei 27 Stati europei.

Su quali temi impronterà la sua battaglia in vista delle urne sembrano però già saperlo perfettamente i commentatori francesi: oltre ad arginare la pandemia (“sappiamo tutti che le prossime settimane saranno difficili”, ha detto l’ultimo giorno del 2021, “ma voglio credere che il 2022 possa essere l’anno d’uscita dall’emergenza”), Macron tenterà di costringere a compromessi fiscali e regolamentare definitivamente i colossi digitali e del tech, di attirare come un magnete fondi e investimenti, premerà per Carbon Tax, transizione ecologica e per riformare Schengen. Dovrà combattere la guerra per la poltrona presidenziale su tutti i fronti e contro tutti i candidati all’interno dei confini patrii, ma all’esterno, di alleati pronti a sostenerlo, sembra già averne. In Europa, più allineato ai suoi intenti della Merkel, potrebbe rivelarsi il nuovo cancelliere Olaf Scholz. A Roma resta Mario Draghi, che solo pochi giorni fa ha firmato con il presidente un editoriale pubblicato sulle pagine del Financial Times, per ribadire la necessità di riformare quelle ormai vetuste e troppo complesse regole di Maastricht che riguardano crescita e stabilità. Servono, anche quelle, ad “assicurare la sovranità”.

La truffa coi trasferelli e altre storie di Calisto, che venne giù a Natale

L’imbroglio milionario realizzato con i trasferelli, che tenne incredibilmente in scacco per un decennio autorità di controllo e banche internazionali, saltò il giorno di Santo Stefano del 2003, quando Calisto Tanzi fu arrestato. Ora se n’è andato, a 83 anni, il giorno di Capodanno 2022. Prima di quel Santo Stefano, era stato il condottiero invincibile di una multinazionale sbocciata nella provincia emiliana. Dopo quel giorno, il protagonista della più colossale bancarotta mai vista. Per capire questa traiettoria, bisogna viaggiare tra le due città in cui si è sviluppata la straordinaria avventura di Tanzi: Parma e Roma. A Parma, luogo dove salumi, formaggi e arte diventano eccellenza e ricchezza, il giovane Calisto comincia a creare il suo miracolo. A Roma incontra la politica e il sistema politico-finanziario che lo perderà.

Aveva 22 anni nel 1961, quando fonda la sua impresa, sviluppando l’aziendina del nonno: a Collecchio, il paesetto alle porte di Parma allora ancora immerso nelle brume della nebbia padana. Commercializza il latte, sviluppa la distribuzione mettendolo nel tetrapack, inventa di fatto il latte a lunga conservazione. Si espande nel mondo, con 130 stabilimenti. Poi si allarga ad altri settori, il turismo (Parmatour), la tv (Odeon), lo sport (dal Parma Calcio alla Formula 1). Nel 1973 il suo giro d’affari era di 20 miliardi di lire, dieci anni dopo sale a 550 miliardi. Se l’Italia del boom favorisce il suo decollo straordinario, gli anni Ottanta preparano il suo crollo rovinoso. A Roma regnano – e si combattono – Ciriaco De Mita (Dc) e Bettino Craxi (Psi). La politica diventa ménage a tre con banchieri di sistema e imprenditori di riferimento. Craxi ha, dalla sua, Silvio Berlusconi. De Mita conquista Tanzi. La sua Parmalat, cresciuta in fretta e a dismisura, già comincia a zoppicare, ma Calisto viene dissuaso a venderla ai francesi della Danone che gli offrono ben 700 miliardi di lire: Tanzi serve a far sistema per la politica “buona” contro i “cattivi” di Craxi e del Caf. È per questo che compra, svenandosi, Odeon Tv, che De Mita cerca (invano) di contrapporre a Canale 5. Si mette in moto un vortice di debiti che Tanzi affronta da giocatore di poker, alzando la posta, accrescendo il rischio con nuove acquisizioni e nuovi finanziamenti del debito.

I conti, quelli veri, sono brutti. Lui li aggiusta, assistito da una banda di contabili di provincia e sostenuto da una rete di relazioni nella politica, nell’informazione, nella finanza. I banchieri con lui sono generosi, anche perché i finanziamenti generano ricche commissioni. Nel 1990, Parmalat è in perdita da anni, ma non lo dice a nessuno e si salva quotandosi in Borsa: a pagare sono i risparmiatori ignari. Poi si finanzia con i bond, che moltiplicano il debito ma rendono benissimo alle banche che fanno a gara per emetterli: JpMorgan, Merrill Lynch, Bnp Paribas, Deutsche Bank, Morgan Stanley, Citigroup… Le autorità di controllo, Consob, Bankitalia, non vedono. Tanzi veleggia ormai in un mondo virtuale, dove i conti veri spariscono e crescono la finanza, le commissioni, le regalie, le tangenti. Paga, Calisto. Paga sponsorizzazioni e restauri che rendono bella Parma e gli conquistano la gratitudine dei concittadini. Paga le commissioni alle banche. Regala viaggi a tanti amici e anche a qualche magistrato. Paga, naturalmente, i politici. Dopo il crollo, il pm di Parma Vito Zincani li divide in tre gruppi: “A un primo gruppo appartengono coloro che hanno negato di aver ricevuto contributi (Stefani, Speroni, D’Alema, Dini, Fini, De Mita, Tabacci, Sanza, Scalfaro, Bersani, Lusetti, Gargani). A un secondo gruppo coloro che hanno ammesso di aver ricevuto finanziamenti nei limiti previsti dalla legge (Casini, Prodi, Buttiglione, Ubaldi, Castagnetti, Duce, Segni, Sanese). A un terzo gruppo coloro che hanno intrattenuto rapporti con Tanzi in epoche passate ben oltre il limite di prescrizione dei reati eventualmente commessi (Forlani, Colombo, Pomicino, Fabbri, Signorile, Mannino, Fracanzani). Nessuno, ovviamente, ha ammesso di aver ricevuto illeciti finanziamenti”.

Finisce per diventare un burattino nelle mani del sistema che lo tiene in piedi. Nel 1999 compra Eurolat dal gruppo Cirio di Sergio Cragnotti a un prezzo esagerato, oltre 700 miliardi di lire, per consentire a Cragnotti di rientrare dei debiti con la Banca di Roma di Cesare Geronzi. Il gioco si ripete nel 2002, quando Tanzi, sempre spinto da Geronzi, compra le acque minerali Ciappazzi da Giuseppe Ciarrapico, anche lui indebitato con Banca di Roma.

Così la sua Parmalat diventa “la più grande fabbrica di debiti della storia del capitalismo europeo”: lo scrivono i magistrati dopo che il re appare nudo. Nel dicembre 2003 Tanzi salta, dopo l’ultimo bluff: non può rimborsare il bond di 150 milioni di euro in scadenza; e i 4 miliardi di liquidità parcheggiati, secondo i bilanci Parmalat, nella Bonlat delle Cayman sono un miraggio, una falsità, la Bonlat è una scatola desolatamente vuota.

È un crac da 14 miliardi di euro. Coinvolge 80 mila investitori e piccoli risparmiatori (per le associazioni dei consumatori quasi il doppio). Calisto e il fido ragionier Fausto Tonna avevano per anni tenuto in piedi un castello di carte false e di documenti fatti in casa con i trasferelli.

Tanzi accumula condanne per 39 anni. Per un decennio è costretto ad assumere il ruolo del colletto bianco severamente punito dietro le sbarre, lavando così la cattiva coscienza del sistema – politici, banchieri, autorità di controllo, giornalisti, agenzie di rating – che lo ha per decenni sostenuto, esaltato, celebrato, difeso, usato, spremuto.

Ikea, prezzi in aumento del 9% “Materiali più cari per il Covid”

Il Covidsta infettando anche l’economia. I costi alle stelle di materie prime e logistica sono diventati un peso anche per Ikea, il gigante svedese dell’arredamento fai da te, simbolo dello shopping alla portata di tutte le tasche. Il rincaro è diventato inevitabile e con l’inizio del 2022 il colosso ha annunciato un aumento dei prezzi in media del 9% in tutti i suoi punti vendita. “Purtroppo per la prima volta da quando l’aumento dei costi ha iniziato a influenzare l’economia globale, dovremo trasferire alcuni aumenti sui costi ai nostri clienti”, ha fatto sapere il gruppo.

Come previsto, per Bruxelles il nucleare e il gas sono fonti green. Col sì dell’Italia

Nessuna sorpresa, ma la cosa va registrata. La prima bozza della nuova “tassonomia Ue” sulle fonti energetiche green contiene anche il nucleare e il gas, che “si ritiene possano avere un ruolo come mezzi per facilitare la transizione verso un futuro prevalentemente basato sulle rinnovabili”. L’orizzonte del documento pare essere il 2035. Così fosse – ma il testo dovrà ottenere l’appoggio della maggioranza degli Stati membri prima di entrare in vigore – sarebbe una grande vittoria della Francia, appoggiata dall’Italia, che potrà così sovvenzionare l’allungamento della vita dei suoi molti e vecchi reattori nucleari (anche) con fondi europei: probabilmente ora la trattativa – visto che la Germania è contraria – sarà sui tempi, ovvero su quanto a lungo considerare “verde” il nucleare. Il nostro governo ci guadagna l’appoggio al gas, voluto peraltro da tutti, che è il vero protagonista della strategia di Cingolani sulla transizione. Matteo Salvini, dal canto suo, si mette in scia e annuncia una raccolta di firme per un referendum per “un futuro energetico indipendente, sicuro e pulito”: si presume a favore del nucleare.

E chi lavora muore: nel 2021 c’è un decesso ogni sette ore

I morti sul lavoro, nelle cronache, vanno e vengono: a volte per qualche motivo finiscono in prima pagina, altre volte in un trafiletto nelle pagine interne o sulla stampa locale, altre ancora non hanno, per così dire, dignità di pubblicazione. Il fatto che non finiscano sui media, però, non vuol dire che lo stillicidio si interrompa mai.

Se dalle cronache passiamo infatti alle denunce dell’Inail la faccenda cambia: secondo i numeri diffusi dall’istituto assicurativo pubblico, dal 1° gennaio al 20 novembre 2021 si sono verificati almeno (e vedremo perché) 1.116 morti sul lavoro, vale a dire oltre tre al giorno, in media uno ogni 7,2 ore. Significa che l’anno appena trascorso dovrebbe essersi chiuso con ben oltre 1.200 decessi sul lavoro.

È vero che rispetto ai primi 11 mesi del 2020 si registra un calo del 3% (35 incidenti mortali in meno), ma sono dati da prendere con cautela per due ragioni: la prima è l’alto tasso di morti da Covid del 2020, specie tra i sanitari, la seconda – dice Inail – è che “alcune tardive denunce mortali da contagio” potrebbero essere finite fuori dal conteggio odierno.

Per capirci sull’enormità di quello che accade bisogna dunque allargare il campo visivo. Nel quinquennio prepandemia la media di decessi sul lavoro per ogni anno era di circa 1.070 persone, cioè assai meno di quanti il 2021 ne abbia fatti conteggiare da gennaio a novembre e questo nonostante le ore effettivamente lavorate quest’anno siano molte meno rispetto al periodo pre-Covid (il 2019, per dare un’idea, si chiuse con 1.023 morti sul lavoro e miliardi di ore lavorate in più).

Non va meglio se dai decessi passiamo a esaminare gli infortuni sul lavoro in generale. Le denunce presentate all’Inail nei primi 11 mesi del 2021 sono state 502.458, oltre 10 mila in più (+2,1%) rispetto allo stesso periodo del 2020 con una ovvia esplosione di quelli avvenuti nel tragitto di andata e ritorno tra l’abitazione e il posto di lavoro (+25,5%, da 56.745 a 71.243 casi), mentre sono in leggero calo (da 435.405 a 431.215) quelli avvenuti durante il lavoro, ma anche questo dato dovrà essere rivisto alla luce delle “tardive denunce di contagio” già incontrate.

L’azienda in utile chiude: viaggio alla Caterpillar

La fabbrica andava a pieno ritmo. Turni straordinari, alcuni macchinari freschi d’acquisto, qualche assunzione da negoziare. Questo era lo stabilimento Caterpillar di Jesi (Ancona) fino al 10 dicembre. Proprio quel giorno, i delegati sindacali avrebbero dovuto discutere con l’azienda la stabilizzazione di alcuni interinali. Ma ad attenderli hanno trovato soltanto il nuovo direttore, Jean Mathieu Chatain, che ha annunciato loro la chiusura del sito.

Chatain, dopo l’incontro con i delegati, ha provato a spiegare le motivazioni della multinazionale direttamente agli operai, davanti allo stabilimento. “Ragioni di mercato”, ha detto. La rabbia dei lavoratori è esplosa, spingendo il manager francese a svignarsela in tutta fretta.

Secondo Chatain, i cilindri oggi realizzati a Jesi costerebbero il 20% in meno se prodotti in un altro stabilimento Caterpillar e il 25% in meno se esternalizzati. Ma Davide Fiordelmondo, delegato Fiom della fabbrica, ha spiegato al Fatto che “non è una questione di costi. La vera ragione della chiusura è che la Caterpillar si sta disimpegnando dal mercato europeo, che non è grande, per puntare su altri mercati: Sud America e Asia”.

La fabbrica di Jesi, infatti, in sé è sana. “Il problema dei costi non ci è stato mai posto al tavolo della discussione – afferma Fiordelmondo – Quest’anno abbiamo addirittura raddoppiato gli utili”. A testimonianza del fatto che lo stabilimento aveva resistito bene ai colpi della crisi, c’è anche il bilancio del 2020. In un anno in cui la pandemia aveva mandato in rosso o fatto fallire moltissime aziende, l’utile era sceso, ma si era comunque mantenuto positivo (circa 1,7 milioni di euro).

Anche per questo l’annuncio dell’addio è stato un fulmine a ciel sereno. I lavoratori interessati direttamente dalla chiusura sono circa 270 (di cui 67 interinali). Con cuochi e addetti alle pulizie si arriva a circa 300. La fabbrica, inoltre, opera su pezzi semilavorati che spesso vengono da aziende della zona, alcune delle quali lavorano soltanto per la Caterpillar.

La vicinanza del territorio si è fatta sentire il 23 dicembre al corteo di solidarietà in città. In quell’occasione i lavoratori hanno preso forza. L’obiettivo è aprire un tavolo al Mise: “La vertenza ha carattere nazionale – dice Fiordelmondo – e una doppia valenza. Politica, perché l’Italia non si può permettere un precedente del genere: le multinazionali da noi hanno un’enorme influenza. Occupazionale, perché nel nostro Paese la Caterpillar impiega in totale circa mille dipendenti”.

Il problema è che il tempo scarseggia. Secondo alcuni, l’azienda avrebbe deciso di chiudere poco prima di Natale per una ragione precisa: lasciare agli operai meno tempo di organizzarsi. Ora rimangono solo 55 giorni alla fine della procedura.

A Jesi – capitale italiana della scherma, città natale del ct della nazionale Roberto Mancini e sito produttivo che si era guadagnato il soprannome di “piccola Milano delle Marche” – sanno che il danno della chiusura non sarebbe solo economico. Quella fabbrica è un simbolo del territorio, dove è considerata l’industria per l’eccellenza. Con la chiusura, l’area perderebbe una delle sue ultime grandi aziende. Il doloroso processo di desertificazione industriale continuerebbe a ritmo accelerato.

Il problema, in poche parole, è di politica industriale. “L’economia marchigiana si è specializzata troppo in produzioni tradizionali. Non c’è stata spesa in ricerca e sviluppo – ha spiegato al Fatto Mauro Gallegati, ordinario di economia all’Università di Ancona – Quando è arrivata la globalizzazione, le imprese hanno fatto sempre più fatica a esportare. Oggi il modello marchigiano non esiste più. E senza un intervento statale le Marche rischiano di non riprendersi”.

I lavoratori Caterpillar lo sanno. E sanno anche che, dopo Gkn, sono il nuovo fronte della lotta contro le delocalizzazioni selvagge. “Per noi l’emendamento presentato dal governo non serve a nulla – ci dice ancora Fiordelmondo – Nel nostro caso farebbe soltanto allungare l’agonia di 15 giorni e non obbligherebbe l’azienda a parlare a un tavolo. Il testo dei lavoratori Gkn, invece, toccava i punti cruciali”. Da Firenze a Jesi, una nuova consapevolezza cresce tra i lavoratori, ma per ora non pare trovare una sponda politica degna di questo nome.

Inizia un nuovo anno di crisi industriali

Meno lavoratori, più precari. Nuove crisi d’impresa che spuntano da un giorno all’altro. Il 2022 del lavoro inizia con un’emergenza occupazionale ancora in corso, a fatica tamponata da una ripresa incerta. Il numero di persone che in Italia hanno un posto è ancora inferiore di 215 mila unità rispetto a quello precedente al Covid, dice l’Istat, ma nel frattempo gli addetti a termine hanno già abbondantemente superato i livelli pre-pandemici, sfondando il tetto dei 3 milioni. Nel frattempo sono ancora molte le aziende che stanno ristrutturando, con la Campania che guida l’infausta classifica delle fabbriche a rischio.

Solo i lavoratori coinvolti nelle vertenze censite dai radar ministeriali sono circa 91 mila, ma per capire in quanti davvero stanno rischiando di essere messi alla porta bisognerebbe aggiungere la massa – impossibile da quantificare – sparsa nelle piccole imprese, quelle che quando chiudono non danno vita a tavoli nazionali (e a volte nemmeno regionali). Il 2022 porta quindi con sé la certezza che le difficoltà non sono ancora finite, solo che ora non esiste più lo scudo formato dalla combinazione di blocco dei licenziamenti, rimosso a novembre, e Cassa integrazione Covid, terminata il 31 dicembre. Al loro posto farà il suo esordio una mini-riforma degli ammortizzatori sociali che sarà molto più debole di quella sperata, specialmente nei settori più fragili.

Una piccola consolazione, per il momento, viene dai dati sui tavoli ministeriali aperti, che risultano comunque in calo da un anno e mezzo. Circa un mese fa la viceministra Alessandra Todde (M5S) – che li segue personalmente – aveva parlato di 88 dossier aperti. Secondo l’ultimo report sono passati a 69, e di questi, 14 sono tavoli “di monitoraggio”. La discesa ripida dura da un anno e mezzo – erano 150 a dicembre 2019 – ed è dovuta a molti fattori, probabilmente anche al blocco dei licenziamenti che durante il pieno dell’emergenza sanitaria ha congelato le scelte delle multinazionali. Bisogna comunque prestare attenzione nel trarre conclusioni da questi numeri, perché rappresentano i tavoli aperti al ministero, non la totalità delle crisi. Secondo la Fim Cisl, per esempio, solo il settore metalmeccanico conta 107 tavoli aperti: 51 nazionali e 56 regionali. Ce ne sono 22 in Campania, 17 in Lombardia, 13 in Lazio e 11 in Puglia.

Da quando il governo ha rimosso il divieto di licenziamento per l’industria – il 30 giugno 2021 – una serie di aziende hanno iniziato ad aprire procedure a raffica, ignorando un accordo (comunque volontario) tra Confindustria e sindacati, teso a “raccomandare” l’uso degli ammortizzatori sociali prima di tagliare personale. Sono apparsi nomi che mai prima di allora erano associati a tavoli di crisi: la Gianetti Ruote in Brianza, la Gkn in Toscana, Timken a Brescia, poi ancora la Caterpillar a Jesi (Ancona), la Speedline a Santa Maria di Sala (Venezia), la Saga Coffee a Gaggio Montano (Bologna). Tutte situazioni che si uniscono a quelle “storiche” e che ora costringono il governo a una complessa ricerca di nuovi investitori per salvare le fabbriche.

Alla Gkn, che produce componenti per l’automotive, dopo che l’advisor Francesco Borgomeo ha acquisito il 100% delle quote dello stabilimento di Campi Bisenzio, ci sono tre soggetti interessati a subentrare, due industriali e uno finanziario. Il crono-programma prevede l’offerta vincolante a marzo, il closing a giugno e la cessione del ramo d’azienda ad agosto.

La Whirlpool, dopo una trattativa estenuante durata due anni e mezzo, ha licenziato a novembre gli operai di Napoli e ora la viceministra Todde è al lavoro per far nascere un hub della mobilità attraverso un consorzio di aziende. Il 10 gennaio tornerà a riunirsi il tavolo dell’ex Embraco a Riva di Chieri (Torino) per la quale il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti – praticamente come primo atto del suo mandato – ha fermato il progetto di rilancio previsto dal governo Conte 2, che prevedeva la nascita di una società dei compressori a prevalenza pubblica.

Negli ultimi giorni sono arrivate cattive notizie da Bari: la Bosch – ancora legata alle motorizzazioni diesel e pressata dalla necessità di investire per la transizione – ha dichiarato 620 esuberi. Tre settimane fa è invece stato risolto il caso Elica: l’azienda delle cappe aspiratrici aveva avviato a marzo il taglio di 400 lavoratori con l’intento di delocalizzare; le trattative hanno bloccato lo spostamento della produzione e gli esuberi si sono ridotti a 150, che saranno affrontati attraverso le uscite volontarie. Da maggio 2020 esiste anche un nuovo strumento per affrontare le crisi, voluto dal governo Conte 2: il Fondo di salvaguardia d’impresa. Al momento sono otto le aziende che l’hanno utilizzato: Corneliani, Sicamb, Canepa, Slim Fusina, Walcor, Salp e Jabil.

Continua a tenere banco il futuro – o meglio, il presente – dell’acciaio, all’ex Ilva oltre 10 mila lavoratori sparsi tra Taranto e gli altri stabilimenti del gruppo in attesa di definire più chiaramente il piano industriale e il percorso dei prossimi dieci anni; lo stesso vale per quelli di Piombino, appesi al piano industriale di Jindal che tarda ad arrivare e a una trattativa tra proprietà e Invitalia.

C’è poi tutto un mondo al di fuori delle fabbriche. Sul fronte del trasporto aereo, per esempio, Alitalia è ripartita con un nuovo nome e con molti meno lavoratori (poco più di 2 mila a fronte dei 10 mila dell’ex compagnia di bandiera); AirItaly, ex Meridiana, è sul punto di lasciare a terra 1.300 lavoratori. Nel settore della grande distribuzione c’è Carrefour che si sta liberando di 769 persone. Queste sono le crisi più esposte, ma non bastano a scattare la fotografia del mondo del lavoro, fatto anche di ditte molto piccole che non finiscono sui giornali quando tagliano. Dopo lo sblocco dei licenziamenti di luglio – come detto riservato a industria e costruzioni – c’è stato un aumento, ma ancora sotto i livelli pre-Covid. È in atto però un fenomeno strano: continuano a volare i licenziamenti disciplinari (mai vietati), tanto che nel 2021, in soli nove mesi, hanno già raggiunto il record annuale (123 mila). Nei primi mesi del 2022 scopriremo anche l’effetto dello sblocco totale, quello che dal 1 novembre permette di licenziare in qualsiasi settore, anche nei servizi, nel commercio e nel turismo.

Convivere col virus senza cambiar vita

Il tormentonedi fine anno si è ripetuto. Elenchi di tutte le cose buone e le cattive che sono accadute nei trascorsi 12 mesi e si auspica, con rinnovato periodico entusiasmo, che cominci presto l’anno per nuovo. Lo scorso dicembre, sebbene con misure di contenimento più restrittive, la speranza di poter presto cambiare scena era palpabile. Eravamo sicuri che nel 2021 la pandemia ci avrebbe finalmente abbandonati, che i vaccini sarebbero stati determinanti, ci avrebbero salvati definitivamente, che i bambini non avrebbero più rischiato di rimanere a casa, ancora vittime di un’odiosa Dad. Il 2021 ci ha portato qualche miglioramento della situazione, ma anche tante delusioni. Aleggia ormai un diffuso senso di rassegnazione. La speranza di sconfiggere la pandemia si è trasformata in consapevolezza di dover accettare la convivenza con il virus; i vaccini ci hanno permesso di “respirare”, ma ci hanno anche mostrato la loro fragilità. Dobbiamo assolutamente cambiare rotta comportamentale. La pandemia ci ha tolto la possibilità di programmare la nostra vita. Dobbiamo rassegnarci su ogni fronte? È meglio non viaggiare, non frequentarsi, non festeggiare, non uscire di casa, prendere l’ascensore da soli, evitando i presunti untori, lavorare da casa, nella solitudine di una stanza? È meglio morire socialmente e psicologicamente per paura di morire di Covid? Quando capiremo che i morti di Covid sono (dopo la campagna vaccinale) assai meno di quelli per cancro e per cause cardiovascolari? Le misure di contenimento sono dettate dalla contagiosità della malattia, ma la prevenzione dovrebbe esser adottata adeguatamente per ogni malattia. Per tali gravissime patologie, causa di migliaia di morti in numero di gran lunga maggiore a quelli per Covid, non arrivano messaggi tv o dei rappresentanti istituzionali. Dopo quasi due anni esiste ancora solo il Covid. Quanto tempo dovrà durare questa lenta agonia sociale? Per favore, viviamo. È ciò che auguro a tutti con un ringraziamento particolare a chi continua a seguire la mia rubrica. Buon 2022! Che porti saggezza nel vivere la nostra vita!

*Direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano