Calcio inglese, pm e Camera: i mestieri di Lotti uno e trino

Il 29 maggio, un mercoledì di Montecitorio tra interrogazioni a risposta immediata e seguiti di discussioni sul servizio sanitario calabrese, il deputato Luca Lotti si sveglia presto. All’alba si imbarca sul volo Roma-Londra per ragioni di affari. All’ultimo sigaro di giornata, la sera del 28 maggio, registrato dal trojan inoculato nel telefono dell’indagato Luca Palamara e perciò trasformato in microfono dagli inquirenti, “il lampadina” Lotti annuncia una levataccia: “Domani mattina parto alle sei. Chiudo l’accordo della Premier League”.

Il deputato dem, tra i principali collaboratori di Matteo Renzi, stuzzica la curiosità del magistrato Palamara e del collega di partito Cosimo Ferri e allora li stupisce con una cifra: “Duecentomila sterline e ve lo metto in culo a tutti”. A quel punto, gli amici, sbalorditi, pretendono i particolari della missione londinese e “il lampadina”, cassata l’idea di Ferri che il mandato riguardi Infront, spiega che va per conto di “chi lo trasmette” e il riferimento logico – e dunque ipotetico – va ai diritti televisivi del campionato inglese, il più ricco del mondo.

Sviluppare un’esegesi sui testi di Lotti, peraltro conditi con vocaboli elementari, a volte triviali, usati in incontri conviviali su argomenti assai seri come le nomine dei procuratori della Repubblica, è un’ardua impresa, però resta un fatto, preciso: il 29 maggio, anziché prendere posto tra i banchi della Camera, il deputato Lotti si trova a Londra per un incarico. Una società inglese – questa è la versione che si può attribuire al politico – l’ha convocato nella City per un’offerta di lavoro con una ingente retribuzione, ma il deputato Lotti, per imprecisati motivi, ringrazia e declina. Rifiuta. E la notte insonne s’è rivelata un inutile sacrificio.

Oltre le supposizioni attorno a una chiacchiera tra amici, risulta plausibile il collegamento fra Premier League, diritti televisivi e l’evoluzione professionale di Lotti: non soltanto perché le parole, seppure a leggera distanza, siano pronunciate dal “lampadina” medesimo, ma perché il deputato dem s’è occupato di diritti televisivi del calcio durante l’anno e mezzo da ministro dello Sport.

Il primo marzo 2018, alla vigilia delle elezioni che annientano il centrosinistra, il ministro lascia ai posteri, per decreto, la riforma della legge Melandri, l’impianto di norme che disciplina la spartizione dei miliardi di euro che le televisioni pagano alle squadre della Serie A per ottenere la ripresa delle gare o per infilare le telecamere negli spogliatoi o per strappare le noiose interviste a bordo campo. Il nuovo modello, ha sempre rivendicato Lotti, avvicina la cugina sdentata Serie A alla splendida regina Premier League.

Lotti non è digiuno, quindi, del tema esposto a Palamara e Ferri. E su Londra, sibillino, precisa che va per chi “lo trasmette”. L’allusione è al massimo campionato inglese? In Italia è un’esclusiva del gruppo Sky, che un anno fa ha rinnovato il contratto per la finestra 2019/2022. L’azienda non commenta la notizia su Lotti e afferma di non conoscere la vicenda.

Sempre nel 2018, la Premier League ha venduto a Sky Uk e Bt Sport il torneo, per un triennio, a 5 miliardi di euro. Lotti non c’entra con la Premier League e i diritti televisivi, ma perché il deputato è così esplicito? Era un’iperbole? Chissà.

Di sicuro, l’iperattivo Lotti, tifoso milanista, è attento all’industria del pallone. Ancora a Palamara fa sapere che Renzi è andato in Qatar – la data è maggio – dagli emiri per presunte trattative sulla Roma, poi fa una disamina sullo stadio che il club di James Pallotta deve costruire, cita una riunione a Parigi con l’ex premier. Riservato in pubblico, loquace, anzi strabordante in privato nei colloqui sugli incastri al Consiglio superiore della magistratura per le poltrone più ambite, le procure di Roma (dov’è imputato per il caso Consip), Perugia, Firenze. Il deputato Lotti un giorno manda un sms di collera a David Ermini, il renziano vicepresidente del Csm, un altro si prepara allo sbarco di Londra, un altro raduna la corrente nel Pd. Una carriera al fianco di Renzi, seconda legislatura a Montecitorio, già sottosegretario a Chigi, ministro dello Sport, 37 anni lo scorso 20 giugno: Luca Lotti che mestiere fa?

Il Cazzaro Verde è un Cazzaro Verde

È ufficiale: da ieri si può dire che il vicepresidente del Consiglio, nonché ministro dell’Interno, nonché capo della Lega, al secolo Matteo Salvini, è un Cazzaro Verde. E il merito di questa storica acquisizione si deve, per quanto strano possa apparire, proprio a lui: al Cazzaro Verde. Era stato lui, infatti, a querelare il sottoscritto per diffamazione, contestando davanti al Tribunale di Milano un editoriale satirico del 6 maggio 2018 intitolato appunto “Il Cazzaro Verde”, in cui si dimostrava per tabulas la sua essenza di Cazzaro Verde che fa politica a suon di “supercazzole” anziché lavorare. L’articolo riscosse un certo successo fra i lettori, tant’è che produsse una rubrica pressoché quotidiana sul Fatto, in cui, anziché inseguire con commenti e cronache sdegnate la sua incessante attività cazzara e supercazzolara sui social, a cura dell’apposita struttura comunicativa denominata orgogliosamente La Bestia, raccogliamo il meglio del peggio delle sue sparate via Twitter e Facebook su tutto lo scibile subumano: dalle colazioni a base di pane e Nutella agli sbarchi dei migranti, dal festival di Sanremo ai vari dl Sicurezza, dagli insulti a chi lo critica alla Flat tax, dalle recensioni del Grande Fratello Vip e di simili programmi culturali agli altri punti programmatici della Lega (che momentaneamente ci sfuggono).

Le querele, si sa, sono armi a doppio taglio: si possono vincere, ma anche perdere; e chi le perde autorizza chi le vince a rivendicare come lecito ciò che chi perde riteneva diffamatorio. È proprio quel che è accaduto al Cazzaro Verde, che ieri s’è visto archiviare la sua denuncia dal gip Luigi Gargiulo, il quale ha accolto la richiesta della Procura di Milano e del mio difensore Caterina Malavenda e respinto il ricorso del suo difensore Claudia Eccher. La Procura riteneva che dare a Salvini del Cazzaro Verde esperto in supercazzole non fosse diffamazione, ma uso legittimo di “espressioni veicolate nella forma scherzosa e ironica propria della satira” che “consistono in un’argomentazione che esplicita le ragioni di un giudizio negativo collegato agli specifici fatti riferiti e non si risolve in un’aggressione gratuita alla sfera morale altrui”. Ora il gip va oltre e nota che il Cazzaro Verde, nella sua querela, “non nega mai i fatti oggetto dell’articolo”, anzi arriva ad ammettere che “nella vita politica la critica può assumere toni aspri di disapprovazione”, pur opinando che “cazzaro verde” e “supercazzola” superino il “requisito della continenza”. E invece no, il giudice Gargiulo ritiene che io non sia (ancora) incontinente.

Alla luce della giurisprudenza della Cassazione sul diritto di critica e di satira, quelle espressioni possono essere “ineleganti, pungenti, inadeguate”, ma non certo diffamatorie in un linguaggio politico ormai “greve e imbarbarito”. Anche grazie al Cazzaro Verde, che non è proprio lord Brummel, anche se ha la querela facile (con noi ne ha già perse otto). E qui il giudice piazza un colpo da maestro, citando una frase di Di Maio che accusa la Lega di avallare “la supercazzola” del Tav Torino-Lione; ma soprattutto due dichiarazioni di Salvini: “Il sindaco di Napoli… ha fatto tutta una supercazzola sulla prevenzione”; “Il piano B del governo per affrontare l’emergenza immigrazione mi sa tanto di supercazzola”.

Cos’abbia indotto il Cazzaro Verde a querelare un giornalista perché gli imputa delle supercazzole, quando è lui stesso a imputare delle supercazzole ad altri, resta un mistero. Spiegabile solo con la sua essenza di Cazzaro Verde. Anche perché – ricorda il gip – “il termine ‘supercazzola’ nel 2015 è persino entrato a far parte del dizionario Zingarelli” (senza offesa per il nostro fiero nemico dei rom). In più, le mie accuse di supercazzolismo sono formulate “a corredo di un ragionamento logico di critica politica”, dunque non ho “mai inutilmente e gratuitamente offeso la sfera morale” del Cazzaro Verde, “impiegando invero termini privi di idoneità lesiva, utilizzati in maniera ironica”. Tantopiù che, con un altro memorabile autogol, è il Cazzaro Verde medesimo a riconoscere nella sua querela che “cazzaro” è “in uso nel linguaggio giovanile per indicare un millantatore di presunte capacità, virtù e successi, di fatto un fanfarone”. Un autoritratto che più somigliante non si poteva, infatti proviene da uno che si conosce bene: “esattamente il profilo tracciato dall’indagato (il sottoscritto, ndr) quando ricordava l’irrealizzabilità delle promesse fatte dal querelante”. Conclusione: “Tale definizione non può certo essere considerata lesiva dell’onore e della reputazione” del Cazzaro Verde, “soprattutto in quanto si tratta di un uomo politico che, per sua natura, è sottoposto non solo alla più feroce critica, ma anche alla satira”. Ergo “la condotta dell’indagato (sempre io, ndr) risulta scriminata dal legittimo esercizio di critica politica” e “si ritiene di dover aderire alla richiesta di archiviazione avanzata dal pm, rilevata l’infondatezza della notitia criminis”. A noi non rimane che ringraziare il Cazzaro Verde per averci querelati: se non l’avesse fatto, non avremmo mai saputo che dargli del Cazzaro Verde e del supercazzolaro è legittimo e avremmo continuato a chiamarlo così col timore di esagerare. Ora invece lo faremo senza più remore. Anche tutti i giorni, prima e dopo i pasti. E siamo lieti di comunicarlo coram populo, affinché chiunque voglia provare la stessa liberatoria ebbrezza segua il nostro esempio sui social, a cena con gli amici, al bar, sui mezzi pubblici, nelle piazze, negli striscioni da balcone che accolgono il Cazzaro Verde nel suo frenetico giro d’Italia per non lavorare. Da oggi dire che il Cazzaro Verde è un Cazzaro Verde si può: grazie al Cazzaro Verde.

Operazione ‘M’. L’imperfetto programmato per il successo

L’argenteria è pronta sui tavoli rotondi del Ninfeo, il catering lavora alacremente per non far mancare finger food e prosecco e, mentre tutti si chiedono “quanto si mangerà?”, nei corridoi delle case editrici la temperatura è pari a quella esterna. Chi vincerà stasera lo Strega? Le modifiche al regolamento introdotte dal direttore della Fondazione Bellonci, Petrocchi, saranno servite a spazzare via i sospetti di un riconoscimento “pilotato”?

La risposta – con la speranza di essere smentiti – è: non del tutto. La cinquina ha riservato delle sorprese: Durastanti entrata per la Nave al posto del più quotato Covacich, Terranova votata per contrastare il compagno di cordata Missiroli (il papa che esce cardinale) e la “sorpresa” Cibrario, su cui Mondadori sperava ma non puntava (e che invece è al secondo posto in cinquina). Su un nome non si avevano dubbi: Scurati, o quella che fonti avversarie hanno definito “operazione Scurati”. Il suo M. è stato concepito tempo fa, ma fatto uscire a settembre, quando le analogie con l’uomo forte Salvini trovavano consensi. È il primo romanzo (sulla cui aderenza storica c’è da ridire) di una trilogia, ha venduto oltre 160 mila copie, anche grazie a un battage potentissimo, che ha visto Scurati ospite di chiunque. Da M. verrà tratta una serie tv. Non ultimo: per due volte lo Strega gli è stato negato per un pugno di voti. Vuoi che lui abbia partecipato per perdere di nuovo? Poco credibile. Cosa può, però, ostacolarlo? Bompiani è gruppo Giunti, Missiroli e Terranova (Einaudi) sono gruppo Mondadori, marchio di Cibrario. Chissà quanto si mangerà quest’anno…

Il secondo Einaudi in gara ha soffiato voti al collega

La scrittrice siciliana ci avverte già dal titolo che il romanzo è una lunga lettera d’addio. A scriverla è Ida che, dopo anni di lontananza, torna nella sua Messina a svuotare la casa dell’infanzia che la madre vuole vendere, la stessa da cui ventitré anni prima ha visto suo padre, Giacomo Laquidara, andare via per sempre. Tra le opprimenti pareti della sua stanza e quasi annegata nel mare magnum dei feticci del passato, Ida ricostruisce i frammenti di quel padre scomparso: il nome, il corpo, la voce, per tentare di dire addio ai fantasmi, e cioè curare le ferite mai rimarginate di quell’abbandono. Tralasciando il finale forse troppo diluito, con una scrittura diretta, che non attenua il dolore dell’actio narrativa, Nadia Terranova dà una nuova definizione della nostalgia e sa renderla così pulsante e familiare, così crudele e toccante. Chissà se all’Einaudi si aspettavano rubasse così tanti voti al collega Missiroli.

Solo “La straniera” parla del sentimento del tempo

Presentato da Furio Colombo, il romanzo di Claudia Durastanti – nata a Brooklyn nel 1984 – è il più contemporaneo e originale dei cinque: in primis, perché scandaglia il sentimento del tempo, l’estraneità, oltretutto vissuta sulla propria pelle da una giovane donna figlia di migranti lucani in America e a sua volta emigrata in Inghilterra. Tra colto mémoire (e citazionismo spinto) e tragicomico racconto, La straniera rifugge le comuni gabbie narrative e corre a briglia sciolta nel mondo di oggi: più che ”liquido”, esploso, frantumato, non assimilabile né addomesticabile. Proprio come si sente lei, “la straniera”, che invidia la nonna fuggita a New York negli anni Sessanta perché l’anziana si è “adattata meglio di quanto abbia fatto io a Londra nei primi anni Dieci, e lei non parlava neanche inglese”. Nell’ultima votazione Durastanti è arrivata quarta: peccato.

“Fedeltà” ha tradito le attese Gli resta il Premio Ragazzi

Nonostante il titolo Fedeltà ha tradito le promesse: dato per vincitore a febbraio – quando è uscito in libreria – è finito a metà classifica a giugno (nella votazione della cinquina), molto più vicino al fondo (di 30 voti) che alla testa (123). Per raccontarlo – questo tiepido intreccio di corna – abbiamo scomodato la PsicoBanalisi di Crozza che imita Recalcati, con lo svantaggio che Missiroli non fa ridere e neanche vendere un granché, 40 mila copie più o meno. Quasi quasi rischia di essere surclassato anche dalla collega e rivale in casa: Terranova, anche lei autrice Einaudi, ma nella meno prestigiosa collana Stile libero (mentre lui ha pubblicato nei Supercoralli). In compenso, il riminese ha fatto la fortuna della critica, che si è sbizzarrita incensandolo o demolendolo; tertium non datur. E come consolazione si godrà il Premio Strega Ragazzi, assegnatoli nottetempo.

Il Risorgimento può fare la pelle a Mussolini

Stando ai voti per entrare in cinquina, è la vera rivelazione di questa edizione del Premio. A ben guardare le scansie delle librerie, oltre che i gialli e i noir, oggi ad andare per la maggiore è l’autofiction (il cui valore letterario è sempre variabile). Stupisce, allora, che a insidiare una vittoria quasi annunciata sia la pura fiction di un ottimo romanzo storico di stampo classico (focalizzazione esterna e tempo al passato), alla Anna Banti o, per dargli un respiro più internazionale, alla Antonia Byatt. Un’opera letteraria che, a suo modo, ha qualcosa da insegnare poiché utilizza un ben documentato impianto storico – la vicenda in pieno Risorgimento di Anne, una donna indipendente dal coraggio quieto, portavoce con la sua parabola esistenziale non rocambolesca di una ribellione gentile – per indagare la realtà.

Sarà la volta buona per “Il figlio del secolo”?

Il Premio Strega (con gettone di 5 mila euro) sarà assegnato questa notte a Roma, e in diretta su Rai 3 dalle 23. A parte la Durastanti della nave di Teseo, i finalisti rappresentano i grandi gruppi editoriali: Mondadori-Einaudi-Rizzoli e Bompiani-Giunti.

Non c’è due senza tre, ma Antonio Scurati potrebbe essere un valido controesempio allo sciagurato proverbio: dopo dieci anni e due sconfitte di misura, una ogni lustro – nel 2009 per un voto; nel 2014 per cinque –, lo scrittore è il favorito di questa 73esima edizione. La precedente votazione per eleggere la cinquina l’ha visto infatti staccare di oltre 100 punti la seconda classificata, Benedetta Cibrario, che presenta sempre un romanzo storico e corposo (850 pagine lui, 750 lei) . Nonostante la critica si sia divisa sull’opera monstre su Mussolini e il fascismo, nonostante l’eco (un poco furba) che si allunga fin nel presente, nonostante i refusi e gli errori marchiani, M. Il figlio del secolo ha conquistato i lettori, e non è poco: in libreria, dallo scorso novembre, ha già venduto oltre 160 mila copie, quattro volte di più di Fedeltà dell’ex favorito Missiroli.

La Longari non è mai caduta sull’uccello

Pubblichiamo parte dell’introduzione e stralci del libro di Stefano Lorenzetto, “Chi (non) l’ha detto”, in libreria con Marsilio.

Si fa presto a dire. Ma chi l’ha detto? E siamo sicuri che l’abbia detto davvero? Non sarà invece che a dirlo al posto suo è stato un altro? (…) Una raccolta di spigolature. Però controverse. Sì, perché si fa anche presto a fare d’ogni erba un fascio. (…) In questo libro non v’è niente di sicuro. Perlomeno non al 100 per cento. Non è colpa di nessuno. È la smisurata materia a presentarsi così. (…) Non c’è altro che questo: un onesto, scrupoloso, faticoso tentativo di ricostruire la genesi di alcuni aforismi, locuzioni, motti, proverbi, modi di dire, battute, paradossi, frasi celebri che nel tempo sono diventati autentici. (…) Ogni frase replicata all’infinito entra nell’uso, viene tramandata, si storicizza e diventa più vera dell’ipse dixit aristotelico, in realtà derivante da Pitagora. (…)

 

GIULIO ANDREOTTI
“A pensar male si fa peccato, ma spesso s’indovina”

Era la battuta più celebre del Divo, insieme con “Il potere logora chi non ce l’ha”. Ma mentre la seconda la coniò lo statista democristiano, la prima non era sua, come lo stesso Andreotti ebbe a riconoscere. Il giovane Giulio, studente di Giurisprudenza, disse di averla sentita pronunciare nel 1939 all’Università Lateranense dal cardinale Francesco Marchetti Selvaggiani. (…) La frase apparve per la prima volta in ben altro contesto sul Corriere della Sera, il 3 agosto 1939, in apertura di una cronaca pruriginosa intitolata La dolorosa avventura di una donna onesta, in cui si narrava di “un marito il quale, mentre si trovava a passeggio con la moglie, e se la teneva sotto braccio, si è visto fare una scenata di gelosia da uno sconosciuto”. Commedia degli equivoci culminata “con queste sbalorditive parole: ‘È inutile che tu faccia tanto la stupida con lui perché io ti veda’”, pronunciate dall’ignoto pretendente e seguite da un sonoro ceffone mollatogli dal coniuge della signora. (…) A darle dignità politica fu Giovanni Malagodi, presidente del Partito liberale, che, il 15 ottobre 1977, in un’intervista, dipinse Andreotti come politico capace di dare “un giudizio sugli uomini sostanzialmente esatto, anche se incline ad applicare a esso un po’ sovente il detto toscano che ‘a pensar male si fa peccato ma spesso s’indovina’”.

 

MIKE BONGIORNO
“Ahi ahi, signora Longari, mi è caduta sull’uccello!”

Questa frase non fu mai pronunciata dal presentatore durante Rischiatutto, il telequiz della Rai. Se a distanza di tanto tempo permane nell’immaginario collettivo, lo si deve probabilmente al fatto che coinvolge il concorrente che vinse il maggior numero di puntate, ben 10. Il mito della battuta a doppio senso si consolidò dopo la gara del 17 maggio 1973, quando Bongiorno in effetti pose ad altri concorrenti alcune domande sull’ornitologia. Rintracciai la super campionessa Giuliana Longari nel 1998, scoprendo che in realtà si chiama Maria Giuliana Toro. Il cognome lo aveva ereditato dal marito, dal quale si sarebbe separata. (…) “Per gli italiani io sono ancora Lalongari, con l’articolo determinativo incorporato”. (…) “Mai pronunciata quella frase”, mi disse. “Mica per niente: io stavo lì, no? Ha sempre smentito anche Bongiorno. Ho rivisto le registrazioni di tutte le puntate, me le ha regalate un dirigente della Rai. Niente di niente. È buffo che io sia ricordata per un falso”. (…) In un dialogo sui 50 anni della Rai,, Paolo Limiti, che fu coautore di Rischiatutto, interpellato da Marino Bartoletti (…) rispose: “Posso svelarti la verità: (…) non c’entra la Longari”.

 

ARTHUR CONAN DOYLE
“Elementare, Watson!”

L’inventore di Sherlock Holmes non ha mai scritto questa frase che l’investigatore pronuncerebbe rivolgendosi al dottor John Watson, suo aiutante. L’equivoco nasce da citazioni giornalistiche fantasiose, rafforzato da una pagina del racconto Il caso dell’uomo deforme di Doyle in cui Watson, commentando una delle deduzioni del suo maestro, dice: “Semplice”, e Holmes risponde: “Elementare”. (…) Al malinteso pose un sigillo definitivo, nel 1929, Il ritorno di Sherlock Holmes, prima trasposizione cinematografica delle avventure che hanno per protagonista l’investigatore.

 

GESÙ CRISTO
“Lazzaro, alzati e cammina!”

Lazzaro di Betania, fratello di Marta e di Maria, venerato come santo da cattolici, ortodossi e copti, era un amico fraterno di Gesù. È l’unica persona descritta nei Vangeli per la quale il Nazareno piange (la seconda e ultima volta in cui Cristo versa lacrime è alla vista di Gerusalemme). A provocare l’intensa commozione del Maestro fu la morte di Lazzaro, malato da tempo. (…) Quando giunsero a Betania, Lazzaro era già morto da quattro giorni. Il Signore ordinò che fosse rimossa la pietra del sepolcro e “gridò a gran voce: ‘Lazzaro, vieni fuori!’ Il morto uscì, con i piedi e le mani avvolti in bende, e il volto coperto da un sudario. Gesù disse loro: ‘Scioglietelo e lasciatelo andare’” (Giovanni, 11, 43-44).

(…) La frase “Lazzaro, alzati e cammina!” non fu mai pronunciata da Gesù. Quella che da due millenni continua a essere ripetuta è solo una crasi.

Il 4 luglio secondo Trump: una parata militare

Donald Trump non sta più nella pelle: è come un bambino, che ha un giocattolo nuovo e non vede l’ora di provarlo. “Sarà lo show di una vita”, twitta il magnate presidente alla vigilia del 4 luglio, l’Independence Day. Sarà una festa diversa: ci saranno i fuochi d’artificio sul Mall di Washington e in migliaia di località dell’Unione; e milioni di barbecue nei giardini e sulle terrazze delle case e anche nei parchi e sui parcheggi; ma ci sarà pure, per la prima volta, una imponente parata militare, “Salute to America”, che vedrà schierati i carri armati lungo il National Mall e jet acrobatici in volo sui cieli della capitale, oltre che i passaggi d’un velivolo della flotta degli AirForceOne e del nuovo Marine One, l’elicottero presidenziale. Chi paga? Di sicuro, i contribuenti; e il National Park Service, che s’è visto sfilare 2,5 milioni di dollari, dirottati dalle casse dell’agenzia federale che si occupa dei parchi nazionali e dei monumenti storici ai preparativi della festa militar-popolare.

Sono due anni che Trump ci pensa. Da quando, il 14 Luglio 2017, Emmanuel Macron, da poco eletto e insediatosi presidente, lo invitò a Parigi il giorno della festa nazionale francese, solleticandogli l’invidia con la parata militare sui Campi Elisi, dove la Legione Straniera dà sempre spettacolo. Anche se la pietra di paragone per tutti resta la parata del 9 Maggio sulla Piazza Rossa, con i reduci della vittoria del Comunismo sul Nazismo che, ogni anno di meno, testimoniano, carichi di medaglie, la gloria della Grande Madre Russia.

E l’America? Nulla. Al più, bande di pifferi che, nel giardino della Casa Bianca, rendono gli onori agli ospiti e alla bandiera, nelle uniforme rosse e bianche settecentesche, con le anacronistiche parrucche bianche sotto i tricorni. Bisognava colmare la lacuna: Trump avrebbe voluto farlo già l’anno scorso, ma il tentativo d’organizzare una parata lungo Pennsylvania Avenue il Veteran Day naufragò per i costi stellari, stimati a 92 milioni di dollari, e perché i militari non mostrarono entusiasmo per l’idea. Quest’anno, invece, il presidente non s’è lasciato distogliere. E il Washington Post ha già anticipato ai suoi lettori dettagli dell’evento, che sarà concluso, a sera ormai calata, da due spettacoli di fuochi d’artificio: disegneranno nel cielo una grande bandiera americana. A suggellare l’evento patriottico, un discorso alla nazione del presidente dal Lincoln Memorial. I democratici difendono una festa tradizionalmente apartitica e temono che il discorso di Trump si riveli un mega spot elettorale in una campagna presidenziale già accesa; i repubblicani, attenti al rigore nella spesa pubblica, lamentano lo spreco di soldi; molti cittadini, più prosaicamente, temono i danni del passaggio dei tank, che pesano oltre 60 tonnellate. Non tutti andranno sul Mall per ascoltare Trump: c’è chi pianifica proteste.