Il “Gugi”, i sommergibili russi e la guerra dei cavi sui fondali

Quali sono i nomi dei 14 marinai morti tra le fiamme dell’incendio scoppiato lunedì nel sottomarino nel mare di Barents? Quanti erano e quanti sono sopravvissuti? Perché le loro identità vengono ancora taciute dal ministero della Difesa russo? Di che sottomarino si tratta? La Russia chiede, il Cremlino non risponde, ma la stampa insiste. Non semplici marinai: sette delle vittime erano capitani di primo rango, due avevano ricevuto il massimo onore militare conseguibile dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Sono morti da “eroi della Russia”.

La tragedia è “una grande perdita per la Flotta del nord e per l’esercito intero” ha detto Putin, condoglianze sono state spedite dai governatori di Murmansk e Pietroburgo, dalla cui base militare i marinai erano partiti, ma null’altro: a tre giorni dal disastro nemmeno se si tratti del sottomarino a propulsione nucleare Losharik è stato confermato dal Cremlino, che risponde solo “top secret”.

Se qualche notizia è stata filtrata, qualche ipotesi paventata, è perché qualche analista russo ha azzardato confronti tra dettagli e minuzie tra i dati trapelati. Il sottomarino apparterrebbe al Gugi, dipartimento del Ministero della Difesa nato per missioni in mare profondo, ed era capace di distruggere il Sous, sistema di sorveglianza subacquea ancora attivo, che serviva ai marines durante la Guerra Fredda per monitorare i movimenti dei sovietici. Gli Stati Uniti hanno denunciato negli ultimi due anni la presenza di unità da ricognizione della marina russe a ridosso delle loro coste, citando il rischio che Mosca abbia sviluppato nuovi sistemi per intercettare o sabotare i cavi in fibra ottica sottomarini e intercettare comunicazioni. Una fonte del canale Rbc ha contraddetto le altre: non si tratterebbe del mezzo AS-12, detto Losharik, come riferito in precedenza, ma dell’AS-31, un’altra sekretnaya podlodka, sottomarino nucleare segreto. La Difesa norvegese ha riferito di un avvertimento ricevuto dai colleghi russi dopo un’esplosione di gas, ma è stata smentita dal ministro della Difesa Serghey Shoigu, immediatamente spedito a Severmorsk per ordine di Putin, dove ha detto che “un civile era presente a bordo”. Il ministro ha poi subito ordinato al Comando della flotta del Mar nero e ai rappresentanti dell’industria di lavorare insieme per una veloce riparazione del sottomarino. Nel corso della sua visita a Severomorsk, Shoigu ha incontrato anche rappresentanti dell’industria che ha prodotto il sottomarino.

Quella del Losharik è già diventata una saga, una storia dove le informazioni si possono ricevere solo come gocce che cadono da un tubo rotto. Più che una fuga di notizie, c’è stata un’emersione di informazioni dal web che la Difesa è stata costretta a confermare. Si tratta del primo nome scoperto dai giornalisti: è quello del capitano del vascello, Denis Dolonsky. La bolla del silenzio del Cremlino esplode bucata dai social. Il nome del secondo capitano è quello di Nikolay Filin. Il giornale Baza rintraccia altri due nomi: Andrey Voskresensky e Denis Oparin. Ci sono domande la cui risposta è sui fondali artici, dove ora i militari norvegesi stanno monitorando il livello di radiazioni. Perché le notizie sulle cause dell’incendio non sono note? Perché la notizia della tragedia è stata data dopo un giorno? Quello che davvero è successo nel ventre in fiamme del Losharik lo sanno ora solo i pesci, gli alti gradi russi, ma vogliono scoprirlo anche i giornalisti. Già morti tra le fiamme, i marinai della Flotta del Nord rischiano di morire di nuovo in un mare di silenzio. Con una mossa a tenaglia congiunta in conferenza stampa, ieri la stampa ha messo alle strette il portavoce di Putin, Dimitry Peskov. Si tratta del sottomarino AS-12?. “Segreto di Stato”. Cosa faceva il sottomarino? “Chieda al ministero della Difesa”. Il Cremlino crede che la società russa non debba conoscere le circostanze della tragedia? “È un segreto di Stato”. “Signor Peskov, che cos’è un segreto di Stato?”

Haya principessa in fuga. La “Dynasty” geopolitica che sconvolge il Golfo

La Dinasty nel Golfo Persico inquieta diversi palazzi reali, rischia di far saltare precari equilibri diplomatici e sconvolgere alleanze faticosamente raggiunte. E la Giordania rischia di pagarne il prezzo. La principessa Haya Bin Hussein, sesta moglie del sovrano di Dubai – Sheik Mohammed bin Rashid al Maktoum – e sorella dell’attuale sovrano giordano Abdullah, è appena scappata da un matrimonio violento. Con lei in fuga da Dubai i due figli di 7 e 11 anni avuti dallo sceicco che esercita le funzioni di primo ministro degli Emirati Arabi Uniti. Nella fuga la principessa Haya si è portata dietro decine di milioni di dollari dalla cassa di casa, per affrontare le prime spese. Ma questo è solo il più piccolo dei mal di testa che affliggono il re hashemita, che sta cercando di prendere le distanze dalla sorellastra mentre le tensioni fra Amman e gli Stati del Golfo aumentano.

Mancano i dettagli della fuga dal Palazzo Reale di Dubai ma stando alle ricostruzioni dei media arabi, la principessa Haya sarebbe stata aiutata da un diplomatico tedesco amico di vecchia data. La Germania è stata infatti prima tappa della fuga reale, adesso i fuggitivi si troverebbero in Gran Bretagna, dove fra l’altro la principessa possiede diverse proprietà ed è di casa dai Windsor. L’amicizia della regina con entrambi i coniugi può finire per mettere la sovrana in mezzo al conflitto tra moglie e marito.

“Non mi importa se vivi o muori, non hai più nessun posto nella mia vita”, ha scritto lo Sheik sul suo profilo Instagram, dove l’ha accusata di essere infedele e bugiarda. Lei – in genere molto attiva sui social network – da maggio tace completamente. La coppia, lui 70 anni e lei 45 – che veniva “venduta” dalle riviste glamour come tra le più cool – era in crisi da tempo. Haya che è la sesta moglie di al Maktoum, raccontano i bene informati è stata molestata, insultata e boicottata dalle altre mogli, sbeffeggiata dalla numerosa prole avuta dalle altre consorti (23 figli). La principessa Haya, laurea a Oxford e capitana della nazionale olimpica di equitazione ai giochi olimpici del 2000 a Sidney, non è la prima donna che cerca di fuggire dalla “custodia” dello Sheik. Shamsa, la figlia avuta dalla prima moglie cercò di scappare dalla tenuta nel Surrey ma venne catturata dalla sicurezza dell’emiro e non più comparsa in pubblico. Un’altra figlia, Latifa riuscì a fuggire l’anno scorso con aiuto di un ex agente segreto francese ma venne catturata a bordo di uno yacht al largo della costa indiana e riportata a Dubai.

L’emiro di Dubai a giudicare da quello che ha scritto non ha intenzione di chiedere alla moglie di tornare a casa ma vuole la custodia dei figli. I parenti di re Abdullah sono già stati reclutati per trattare il divorzio.

Una vicenda degna di un serial tv, ma trattarla solo come pettegolezzi sui social media sarebbe un grave errore. Si tratta di un campo minato che rischia di influenzare i difficili legami tra la Giordania e gli Emirati Arabi Uniti, e con loro anche l’Arabia Saudita. Il sovrano hashemita sa che qualsiasi osservazione fuori luogo potrebbe danneggiare lo status dei 200 mila giordani che lavorano negli Eau, erodere gli aiuti finanziari che riceve dall’Emirato e scuotere i fragili legami con i Paesi del Golfo. Le tensioni fra i due Paesi potrebbero aumentare anche indipendentemente dai problemi coniugali della coppia reale. Solo un paio di mesi fa la Giordania ha annunciato che il direttore generale del Ministero degli Esteri sarà nominato ambasciatore in Qatar e spera di vedere quanto prima l’apertura di una ambasciata qatarina a Amman. Una mossa del genere è stata vista come una sfida contro l’Arabia Saudita che con il Bahrein e l’Egitto due anni fa impose sanzioni contro il Qatar e tagliato i legami diplomatici. La Giordania rifiutò di aderire al pieno boicottaggio. Da allora re Abdullah cerca di resistere alle pressioni saudite per tagliare completamente i legami con il Qatar.

La ferma posizione del sovrano ha però portato un bonus per la disastrata economia giordana: lo scorso agosto il Qatar ha fornito un generoso sostegno di 500 milioni di dollari e 10 mila nuovi posti di lavoro a Doha per gli immigrati giordani.

Il regno giordano ha bisogno di aiuti economici perché il deficit dello Stato è drammatico. La Banca Mondiale potrebbe sostenere il debito sovrano della Giordania – 12 miliardi di dollari – ma in cambio chiede riforme draconiane che scatenerebbero la piazza mettendo a rischio la stabilità del Regno. Ci sono poi i “fratelli arabi” – sauditi e Eau – pronti ad aprire i loro cospicui portafogli ma in cambio chiedono che Abdullah che tagli i legami col Qatar e avalli il Piano di pace della Casa Bianca.

Abdullah ha ben chiaro questo “dirty game” per questo ci ha messo così tanto per decidere se inviare una delegazione giordana alla Conferenza in Bahrein organizzata da Jared Kushner, il genero del presidente Donald Trump. Il re non si fida dell’iniziativa americana, non vuole rimanere intrappolato in una situazione in cui Stati Uniti e sauditi fanno pressione per cancellare la soluzione dei “Due Stati” con palestinesi e israeliani, e costringerlo ad assorbire quasi 1 milione di profughi palestinesi presenti nel regno. Una scelta che viste le proporzioni demografiche metterebbe in pericolo il delicato equilibrio in cui vive il regno e darebbe una nuova “arma” nelle mani di Israele che da sempre vede la Giordania come un’alternativa allo Stato palestinese.

Milano locomotiva d’Italia, ma ferma: colpa di Trenord

Nell’Italia che non può fare a meno di un tunnel ferroviario da 9,63 miliardi di euro per portare da Torino a Lione merci che non ci sono, non si trovano i soldi necessari per far viaggiare i pendolari che invece ci sono. E non nel Regno delle Due Sicilie, ma a Milano e in Lombardia, che la retorica imperante racconta come il migliore dei mondi possibili. Si vuole scavare un buco nella montagna in Valdisusa, con il risultato di innalzare le emissioni da qui al 2047, per far passare dai camion al treno un trasporto incerto. Ma non ci s’impegna per far lasciare a casa l’auto a chi si sposta nell’area più inquinata del Paese, la Pianura Padana, in cui ogni viaggio in treno (escluso il Frecciarossa) si trasforma in viaggio della speranza. I cittadini sono tutti uguali davanti alla legge, tranne i pendolari, che sono meno uguali degli altri.

Il problema si chiama Trenord. Fa viaggiare convogli che sono reperti da museo, alcuni con ben 35 anni di vita. Il servizio è così disastrato che il presidente della Regione Lombardia, il leghista Attilio Fontana, per il secondo anno consecutivo non se l’è sentita di aumentare il prezzo dei biglietti e neppure di far entrare in vigore gli adeguamenti Istat. Se Trenord fosse sotto il controllo di Virginia Raggi vedremmo ogni giorno articoli indignati e paginoni appuntiti, ma è invece, a metà, della Regione Lombardia e delle Ferrovie dello Stato, dunque merita soltanto qualche trafiletto nelle cronache locali. A metterli in fila uno dopo l’altro, quei trafiletti diventano un libro nero del trasporto pubblico nell’area più ricca del Paese. Solo qualche esempio e solo negli ultimi giorni.

Stazione Centrale, 4 giugno 2019, treno Milano-Mantova delle 18.20: fermo e inagibile, temperatura bollente; passa a controllare la situazione l’amministratore delegato di Fs, Gianfranco Battisti, che era in stazione per celebrare il decennale dei Frecciarossa, e viene sommerso dalle proteste dei (mancati) viaggiatori. Stazione Centrale, 24 giugno, treno Milano-Tirano: bloccato per 70 minuti e poi soppresso. Stazione Greco Pirelli, 24 giugno: il treno per Stradella delle 17.46 si ferma alla stazione di Pinarolo Po. Stazione Centrale, 25 giugno: il Milano-Mantova delle 17.15 non parte perché il macchinista si rifiuta di guidare, in cabina manca l’aria condizionata. Milano Porta Garibaldi, 25 giugno: il treno per Torino Lingotto delle 18.40 resta fermo fuori dalla stazione senza aria condizionata, i viaggiatori chiamano la polizia ferroviaria, il convoglio ritorna in stazione e viene cancellato. Stessa sorte per il Milano-Tirano delle 18.20: fermo per 50 minuti e poi soppresso. Stazione di Porta Garibaldi, treno per Porto Ceresio: bloccato per 20 minuti con le porte chiuse e senza aria condizionata. Intanto a Saronno cadono i fili elettrici della linea aerea. Forti ritardi al Malpensa Express per l’aeroporto. Giovedì 27: cancellato il Pavia-Milano Bovisa delle 14.09, il Codogno-Cremona delle 8.08, il Mantova-Milano delle 12.41 e delle 16.20. Venerdì 27, soppressi il Milano Bovisa-Pavia delle 17.55, il Milano Cadorna-Como delle 18 arriva fino alla stazione Milano-Domodossola e poi muore. L’Alessandria-Milano delle 19.11 si ferma per un guasto. Il 1° luglio, il treno Cremona-Brescia delle 7.24 arriva a destinazione con 154 minuti di ritardo.

Questa è la Lombardia locomotiva d’Italia, questa è la Milano orgogliosa ed ebbra di felicità per aver vinto le Olimpiadi invernali 2026.

twitter: @gbarbacetto

Il primo passo per riprenderci le autostrade

Dopo la tragedia di Genova, il ministro Toninelli ha incaricato sei giuristi di valutare un’eventuale revoca della concessione ad Autostrade per l’Italia (Aspi). Le loro conclusioni sono: 1) vi è stato da parte dell’Aspi un grave inadempimento agli obblighi di custodia e manutenzione dell’infrastruttura; 2) il ministero avrebbe il potere di risolvere unilateralmente la convenzione; 3) i rischi di oneri risarcitori per lo Stato potrebbero consigliare una diversa soluzione, volta a rinegoziare la Convenzione.

La Convenzione del 2007 prevede che in caso di revoca il concessionario abbia diritto a un risarcimento pari al valore attuale netto dei profitti attesi per gli anni residui, da oggi al 2038. Il Tribunale di Roma dovrebbe poi giudicare se il risarcimento sia dovuto anche a fronte di grave inadempimento e determinarne l’importo con possibili ulteriori richieste di danni dall’una e dall’altra parte: un incubo giudiziario.

La privatizzazione delle Autostrade fu fatta male. Nella formula originaria per la determinazione delle tariffe c’era un parametro X ambiguo, mediante il quale si sarebbero potuti limitare i profitti in relazione al capitale investito e agli incrementi di produttività. Ma alla scadenza del primo periodo regolatorio (1998-2002), anche se la società aveva realizzato ben pochi degli investimenti previsti, l’Anas interpretò quella formula in modo generoso per il concessionario, proponendo aumenti di tariffa giudicati dal Nars (esperti del ministero del Tesoro) troppo elevati per un 20-25%. Si profilò uno scontro tra Tremonti (Tesoro) e Lunardi (Lavori pubblici) che Berlusconi superò facendo approvare per legge, nel 2003, il IV atto aggiuntivo in base al quale tutti i costi per le nuove corsie, il grosso dei nuovi investimenti delle Autostrade, maggiorati di interessi elevati, dovevano essere interamente ripagati con aumenti dei pedaggi, senza tener conto alcuno dei maggiori introiti che la società avrebbe avuto per l’incremento del traffico.

Forte di queste concessioni, la Schemaventotto (Benetton) fece nel 2003 un’Opa accollando ad Autostrade un debito d’importo vicino a quanto incassato dall’Iri per la vendita di tutta la società (debito che ripaghiamo coi pedaggi). Schemaventotto riuscì, in tre anni, a recuperare quanto pagato all’Iri e in più mantenere un 30% della società: un profitto straordinario.

Tutti questi “benefici” sono stati poi consolidati con la nuova convenzione del 2007, voluta da Di Pietro. Anche in questo caso vi fu un giudizio negativo da parte degli esperti del Tesoro (Nars) e Berlusconi fece approvare per legge, nel 2008, questa e le altre convenzioni stilate dall’Anas, anche se i parlamentari non avevano alcuna informazione sui contenuti: un obbrobrio! Il risarcimento miliardario in caso di revoca della concessione è stato introdotto proprio nel 2007.

Revocare o cambiare le convenzioni è difficile: viene fatta valere la tutela dei contratti, anche quando le concessioni sono state ottenute senza gara, senza corrispettivi e sono in sostanza regali elargiti dallo Stato sulla pelle dei pedaggiati. Esiste però un modo per riprendersi le autostrade come auspica Di Maio: applicare davvero i contratti di concessione che prevedono che al termine l’autostrada venga trasferita gratuitamente allo Stato. I pedaggi furono istituiti per ammortizzare l’investimento: perché allora rimettere a gara autostrade già ammortizzate? L’Ativa e la Torino-Piacenza, per esempio, sono scadute da tempo, sono ampiamente ammortizzate: invece di farle continuare a gestire in proroga, il ministro Toninelli potrebbe chiederne il trasferimento allo Stato, affidare la manutenzione all’Anas e abolire i pedaggi o ridurli, affidandone la riscossione a società scelta per gara. Sarebbe un segnale radicale di cambiamento, in attesa di una eventuale revisione della concessione di Autostrade.

Anche la Merkel molla Guaidó

La decisione del governo tedesco di ristabilire normali relazioni diplomatiche con il Venezuela di Maduro disconoscendo Guaidó e ponendo fine, perlomeno dal lato europeo, all’operazione cambio di regime iniziata alla fine dell’anno scorso, è clamorosa ma non inaspettata.

Occorreva uscire dal cul de sac in cui la maggior parte dei Paesi europei, con la rilevante eccezione dell’Italia, si era cacciata seguendo gli Stati Uniti in uno sconsiderato atto di aggressione mascherato da ingerenza umanitaria.

Il gruppetto di “psicopatici” che circondano Trump aveva fatto balenare davanti ai suoi occhi un quick fix di politica estera: una raffica di sanzioni feroci contro il governo Maduro che, unite agli effetti del crollo del prezzo del petrolio e al blocco delle transazioni finanziarie di ogni genere del Venezuela con il resto del mondo, lo avrebbero fatto cadere come un frutto maturo. Il tutto con la complicità degli ex alleati europei e dei media internazionali assetati di dittatori da abbattere tramite una valanga di notizie false, distorte o esagerate sulla crisi umanitaria, la violazione dei diritti umani, l’esodo biblico della popolazione, il narcotraffico e la corruzione dei governanti. Secondo questo modo di vedere, il malgoverno di Maduro aveva spinto la maggioranza dei venezuelani nonché le forze armate verso una situazione pre-insurrezionale che aveva bisogno soltanto di un pretesto e di una guida per trasformarsi in una vasta ribellione popolare che avrebbe spazzato via la tirannia. Ed è qui che entra in scena il giovane Guaidó, un insignificante esponente dell’opposizione che si accredita agli americani come l’uomo in grado di abbattere la dittatura grazie al suo carisma, le sue entrature ai vertici militari e uno strabordante consenso popolare.

Si è visto com’è finita. Le masse dietro Guaidó non c’erano. I militari gli hanno fatto credere di seguirlo allo scopo di dimostrare l’imbecillità dei suoi istigatori e sua personale. Il governo non lo ha arrestato solo perché era più utile da libero. Trump si è scagliato contro gli strateghi che lo avevano messo in una situazione al limite del ridicolo, e gli europei sono sulla strada di aggiungersi ai 140 Stati su 192 membri dell’Onu che avevano di fatto disapprovato tutta l’operazione.

Che non è ancora terminata, perché gli americani usano perseverare nei propri errori, ma che ha finito col rafforzare il governo Maduro dimostrandone il forte radicamento popolare, cioè il fattore mancante nelle analisi dei grandi strateghi di Washington e nelle valutazioni dei governi europei che li hanno seguiti. Non era poi così difficile accorgersene, visto che anche i poveri, dopotutto, votano e da venti anni i chavisti prevalgono in regolari elezioni. Inclusa quella del “dittatore” Nicolas Maduro.

Perché vincono i chavisti e perché non sarà così facile sbarazzarsi di Maduro senza invadere il Venezuela, con la sola guerra ibrida?

Perché Chavez e i suoi, invece di depositare i profitti del petrolio nelle fauci delle banche di Miami come l’oligarchia compradora che li aveva preceduti, li hanno usati per costruire uno Stato sociale integrale a beneficio dei poveri, cioè la maggioranza della popolazione del Venezuela. Stato sociale pieno di difetti, di qualità non paragonabile agli esempi scandinavi. Ma un cittadino povero venezuelano non si aspetta di vivere come un cittadino svedese. Gli basta disporre gratuitamente, per la prima volta in un secolo, di tutti i servizi pubblici essenziali (sanità, istruzione, alloggio, trasporti, energia, carburante, assistenza speciale per disabili, pensioni sociali, sussidi vari) più una dotazione alimentare regolare di beni alimentari che gli garantisca la sopravvivenza. Il Claps è il programma-chiave al riguardo, e distribuisce due volte al mese gli alimenti fondamentali più i prodotti igienici a 8 milioni di famiglie, pari a oltre 25 milioni di persone, il 75% della popolazione totale. Il tutto a un prezzo simbolico, e per una spesa che impegna una parte significativa del 75% del bilancio totale dello Stato destinato alla spesa sociale.

Si può formulare l’ardita ipotesi che esista una connessione tra questi dati e i risultati elettorali di Chavez-Maduro?

Certo, il Claps e gli altri programmi sociali sono pieni di difetti – corruzione, inefficienza, mercato nero, qualità dei servizi – ma lo standard cui paragonarli è quello vigente negli altri Stati dell’America Latina da un lato, e dall’altro è quello che potrebbe essere instaurato da un governo ritornato nelle mani dell’oligarchia e degli interessi petroliferi statunitensi.

Mail box

 

La difesa dei confini è un’arma di propaganda scarica

Io credo che si potrebbe fare a meno dei tanti fenomeni da baraccone che, sul web, si lanciano in interpretazioni giurisprudenziali dell’ordinanza (che tanti si ostinano a chiamare sentenza) e valutare il provvedimento per quello che è: un’ordinanza che non convalida l’arresto. Non è né una sentenza né tantomeno la prova dell’innocenza del capitano Rackete, che dovrà essere determinata da un Gup. Il processo esiste e continua, tenendo in considerazione che la motivazione avverso la convalida di arresto e la richiesta di misure cautelari è supportata da quella che ritengo la regina delle scriminanti: l’aver agito nell’adempimento di un dovere. L’ordinanza contiene uno spunto molto importante, nel punto in cui il gip ritene che quello che viene previsto dal decreto (ovvero la possibilità per il ministro degli Interni di emettere provvedimenti di divieto di ingresso) non può superare norme nazionali e internazionali. Dunque ritengo e ribadisco che ormai la difesa dei confini sia un’arma di propaganda scarica, primo perché gli sbarchi sono pochissimi e secondo perché come è evidente, la difesa dei confini trova il suo limite nella Costituzione. Ora possiamo tornare a parlare di coperture, finanziaria e lavoro? Sempre che anche Di Maio non sia troppo occupato a inseguire la propaganda di Salvini, con uscite infelici come quella di ieri. Un uomo di stato non può dispiacersi per una decisione della magistratura.

Valentina Felici

 

Panzironi: l’elisir di lunga vita continua a far discutere

Gianni Agnelli diceva che lui amava parlare con le donne e non delle donne. Tommaso Rodano, invece, preferisce parlare di Panzironi e non con lui, etichettandolo come guru-curatore. Avete riportato le opinioni di alcuni che chiamate “adepti” a riguardo del miglioramento del loro stato di salute come conseguenza dell’adesione allo stile di vita “life120”. Ironia e sarcasmo a parte, un miglioramento rispetto allo scorso anno c’è stato: allora era solo un contaballe. Siete un po’ lenti a cambiare opinione.

L’anno prossimo potreste chiedere a Panzironi come risponde ai suoi critici “istituzionali”, i quali, secondo lui, non hanno dato prova di aver letto le sue pubblicazioni e, inoltre, hanno declinato l’invito a confrontarsi con lui in occasione dell’evento che si è tenuto al Palasport di Roma il 30 giugno.

Michele Putignano

 

Ciao Michele, io mi auguro di cuore che Panzironi abbia ragione e che vivremo tutti non 120, ma 150 anni. Almeno.
M. Trav.

 

La meritocrazia è il miglior antidoto alla corruzione

È vero che, sovente, nella vita può capitare di beneficiare di una buona raccomandazione, ma non dovrebbe essere così.

Le raccomandazioni non rappresentano l’unica soluzione poiché, se una persona è preparata, non ha bisogno di alcun aiuto. Ci sono molti casi di soggetti che – nonostante tutto – hanno vinto e surclassato anche raccomandati di ferro, così come si può facilmente constatare che moltissimi raccomandati sono stati superati da chi è riuscito a prevalere con la preparazione personale e l’onestà.

Considerata la particolarità e la delicatezza del nostro contesto storico, va ricordato che la meritocrazia vince sempre e serve a rafforzare la dignità personale, frenando il fenomeno della corruzione dilagante.

Mario De Florio

 

Gli ingenui al potere sono spesso tracotanti

Intendo segnalare un furibondo Matteo Salvini perché Alessandra Vella, gip di Agrigento, non ha convalidato l’arresto di Carola Rackete. Credo che il vicepremier sia una persona ingenua. Lo abbiamo visto mettere il casco degli operai, indossare la divisa da pompiere e vestire i panni del poliziotto credendo di essere uno di loro. Per fortuna non si mette a sparare. Questa volta non ha indossato la toga del magistrato però, evidentemente, si è sentito giudice e ha “sparato” la sentenza nei riguardi della comandante. Dove sta l’ingenuità del ministro dell’Interno? Semplice: non è un avvocato né un magistrato, non conosce la legge e crede di conoscerla. Le persone ingenue, spesso, sono presuntuose senza saperlo. E questo è l’inconveniente di un ingenuo al “potere”.

Carmelo Dini

 

Smartphone al volante: ecco cosa si rischia

Gli smartphone sono diventati una emergenza nazionale a causa di alcuni irresponsabili. Stavo percorrendo la Modiglianese quando, tutto a un tratto, un’automobile ha invaso la mia corsia. Un incubo. Istintivamente mi sono subito aggrappato ai freni, battendo sul clacson. Alla guida dell’auto c’era una donna che armeggiava con lo smartphone. In preda al panico, la sciagurata ha ripreso il volante e ha corretto la guida. Sono riuscito a evitarla per miracolo. Trovo inammissibile il fatto che qualche sconsiderato possa carambolarti addosso perché sta usando lo smartphone anziché concentrarsi sulla guida. Ne vedo molti avvezzi a questa pratica, e li considero alla stregua di killer “inconsapevoli”. Benché siano state inasprite le sanzioni in merito, non è facile cogliere sul fatto questi incoscienti.

Fabio Baldrati

Calcio, Under 21 Il nuovo C.t. è Nicolato: un ottimo maestro, quasi come Leonida

Buongiorno, ho sentito ieri in radio che il nuovo tecnico della Nazionale di calcio Under 21 è Paolo Nicolato. Ma chi è? Da dove arriva, anche professionalmente? Siamo sicuri che sia una scelta vincente?

Sì caro Luca, ci sbilanciamo: Paolo Nicolato, nuovo C.t. della Nazionale Under 21 (promosso dalla Under 20 al posto di Gigi Di Biagio) è una scelta vincente, che andrebbe festeggiata con campane a distesa per i germogli che in ogni caso questo seme è destinato a produrre. Nicolato, 52 anni, veneto di Lonigo (Vicenza), ha già dimostrato di essere un ottimo maestro di calcio: lo testimonia lo scudetto vinto con la Primavera del Chievo nel 2014 (in finale contro il Torino), impresa storica per il piccolo club; ma parlare solo di vittorie sarebbe fare un torto alle sue idee. “Ai miei ragazzi – non si stanca di ripetere – lo dico sempre: non è vero che nel calcio conta solo vincere, conta l’impegno e come ti comporti. E bisogna fare attenzione: perché se la mamma vuole solo il 10 in pagella, magari per ottenerlo il ragazzo si mette a copiare”.

Voi direte: la solite frasi fatte. Be’, andate a rivedervi l’ultimo minuto di Italia-Ucraina, semifinale del Mondiale Under 20 dell’11 giugno scorso. L’Italia è sotto di un gol ma Scamacca all’ultimo assalto segna in girata un gol da cineteca: è l’1-1 che ci rimette in corsa con grandi chance di vittoria, visto che l’Ucraina gioca in 10 per un’espulsione. Les jeux son faits? Macché. Invitato a rivedere l’azione al Var, l’arbitro vede una mano di Scamacca colpire lievemente, in girata, il volto di un avversario e annulla il gol. Partita chiusa, in finale va l’Ucraina (che vincerà il titolo) e mentre il nervosismo dilaga sapete cosa dice, a caldo, Nicolato in tivù? “Accettiamo la decisione dell’arbitro. Che non è un’ingiustizia, al massimo è un errore”. E poi, a freddo: “Ho detto quel che pensavo; anche se dentro di me stavo soffrendo come un cane. Di certo, lamentarsi non è mai una buona cosa”.

Un anno fa, in Finlandia, Nicolato aveva perso l’Europeo Under 19 battuto in finale ai supplementari dal Portogallo (4-3); in Polonia ha visto sfumare la finale mondiale Under 20 per una decisione discutibile dell’arbitro. E però, lui è andato in campo, ha chiamato i ragazzi a cerchio attorno a lui e ha chiesto loro, anzi ha preteso, il rito dell’urlo di Leonida. “Spartani – ha urlato – qual è il vostro mestiere?”. “Ahu! Ahu! Ahu!”, hanno risposto gli azzurrini. Come i 300 di Leonida, anche i 22 di Nicolato sono stati piccoli eroi. E che abbiano perso, non ha alcuna importanza.

Mediaset: la Champions in chiaro e i nuovi “Giochi senza frontiere”

Se Mediaset non va alla montagna, la montagna va da Mediaset. Il montarozzo di giornalisti (un centinaio), è calato sulla riviera ligure, armi, bagagli, computer e costumi da bagno. Tutti ospiti di Pier Silvio Berlusconi per la presentazione dei palinsesti della prossima stagione perché Pier Silvio è un sentimentale; tra Santa Margherita e Portofino vive la sua famiglia, lui stesso fa avanti e indietro con Cologno (in fondo è solo mezz’ora di elicottero). Qui è naufragato lo yacht “Suegno” nella spaventosa mareggiata dello scorso ottobre, e qui ci si è subito rimboccati le maniche fino a ripristinare il Tigullio in tutto il suo splendore. Un augurio e forse una metafora, perché anche Mediaset ha visto le sue mareggiate ma anch’esse appartengono al passato. L’errore di scommettere sulla pay-tv non si ripeterà. “Il futuro è la televisione generalista”: Pier Silvio ne è convinto come non mai, e una prima prova arriva dall’annuncio che con gli ex rivali di Sky ora si va d’amore e d’accordo, Mediaset è riuscita a sfilare la Champions League alla Rai. La miglior partita di Champions del mercoledì sarà trasmessa in chiaro dalle reti del Biscione.

Ma se la Tv generalista in chiaro è il futuro, allora il futuro assomiglia parecchio al passato, e il massimo del nuovo è il vecchio. Appunto: è in arrivo su Canale 5 Giochi senza frontiere, ribattezzato Eurogame forse per tranquillizzare Salvini (ma a Borghi chi glielo dice?); se vogliamo, il programma simbolo del trasferimento della sede di Mediaset in Olanda. Mentre Papà Silvio debutta a Bruxelles, Pier Silvio si avvia a diventare Ceo della holding Mediaset for Europe, “con l’intento di creare una casa comune dei broadcaster generalisti”. Per il resto, nella generale riconferma dei titoli di cartello e in particolare del matriarcato Maria-Barbara, da segnalare un ulteriore incremento dei programmi per soli Vip. Come è già accaduto con il Grande Fratello, debutterà in autunno anche un Amici Vip. La formula non è ancora chiara, si sa solo che a condurlo sarà Ilary Blasi, ma non si può non rimanere ammirati dalla perfetta economia circolare di Canale 5. Maria De Filippi fabbrica i Vip, poi li fa tirare su a Signorini (che infatti condurrà la prossima edizione del Gieffe Vip); per i più scarsi, c’è il corso di recupero dell’Isola dei famosi (confermata in primavera) e se fanno acqua anche lì possono giocare la carta della disperazione a Non è la D’Urso Live (spostata dal mercoledì alla domenica sera). Poi si ricomincia da capo.

Riconferma collettiva anche di programmi e personaggi di punta di Rete 4 e Italia 1 con la sola eccezione della Gialappa’s Band, mentre resta da capire quale sarà il senso di Bonolis (cancellato Ciao Darwin, sembra essere confinato ai quiz preserali). Ma il vero mistero riguarda Adrian a cui, sostiene Pier Silvio, “è giusto dare una seconda possibilità.” L’idea, o forse la speranza, è quella di rivedere Celentano in persona, così come aveva promesso di fare; altrimenti tanto vale dare la conduzione a Mark Caltagirone.

Adriano si materializzerà o non si materializzerà? Il dilemma ha tenuto banco fino a tarda sera, quando il plotoncino di giornalisti si è imbarcato su un battello battente bandiera Mediaset e da qui ha raggiunto il sicurissimo porto di Portofino. Cena in piazzetta, tradizionale assedio notturno a Pier Silvio ed esibizione dal vivo di due finalisti dell’ultima edizione di Amici. Non ancora Vip, per il momento; ma è sicuramente questione di giorni.

A Villafrati il prete inchina la processione al boss di Provenzano

Ennesimo caso di “inchino” alla mafia durante iniziative religiose in Sicilia. L’ultimo episodio a Villafrati, nel Palermitano, dove domenica scorsa l’arciprete ha fermato la processione del Corpus Domini davanti alla casa di un capomafia in carcere, Ciro Badami, fedelissimo di Bernardo Provenzano. Una sosta non prevista decisa da don Guglielmo Bivona, che avrebbe anche scambiato un saluto con la moglie del boss. Il maresciallo e il sindaco si sono subito allontanati dalla processione. L’episodio è stato segnalato alla Procura, al prefetto, e all’arcivescovo di Palermo. “Se quel sacerdote fosse stato un mio assessore lo avrei già cacciato”, ha commentato Francesco Agnello, sindaco alla guida di una giunta di centrosinistra. “Io – ha aggiunto – non so se il sacerdote sapesse o meno che quella è l’abitazione di un mafioso condannato: c’era la porta aperta, accanto era stato sistemato un piccolo altare. Ma non ci possono essere equivoci davanti a certe situazioni”.

“Cose nostre”, su Raiuno storie di donne e di ’ndrangheta

Sono le donne di ’ndrangheta le protagoniste di questo quarto ciclo di Cose nostre, quattro puntate in onda da questa sera, il giovedì, in seconda serata su Raiuno. Il programma, ideato e condotto dalla giornalista Emilia Brandi, inizia con la storia di Maria Concetta Cacciola, uccisa dai suoi familiari il 20 agosto 2011 dopo che si era allontana dalla famiglia e aveva iniziato a collaborare con gli inquirenti per raccontare la guerra di Rosarno e della Piana di Gioia Tauro tra le famiglie Bellocco e Pesce. “Cetta” viene convinta dalla madre a tornare a casa e ritrattare davanti a due avvocati compiacenti. Ma quella sarà la sua condanna a morte: i familiari, poi arrestati, la costrinsero a bere acido muriatico per simulare il suicidio. Il racconto procede tra filmati d’epoca, intercettazioni e le parole degli inquirenti e dell’ex sindaca di Rosarno Elisabetta Tripodi.

Nella seconda puntata si racconta, invece, la storia di Antonia Maria Iannicelli, madre del piccolo Cocò, il bambino di tre anni bruciato vivo insieme al nonno il 16 gennaio 2014 a Cassano Ionio. E dopo 10 anni di carcere, Antonia per la prima volta parla in tv. Protagonista della terza storia sarà Maria Serraino, “mamma eroina”, che dagli anni 70 a metà dei 90 riempì di droga la piazza milanese, insieme a suo figlio Emilio Di Giovine, protagonista di una vita da criminale rocambolesca, tra donne e fughe dal carcere. Infine, l’ultima puntata sarà dedicata alla figlia di Di Giovine, Marisa Merico, diventata capo clan per gestire il traffico di eroina e armi. Anche lei, arrestata, inizierà a collaborare. “Abbiamo già aiutato 25 donne ad allontanarsi, coi figli, dalle loro famiglie mafiose di origine e ce ne sono altre 20 in attesa. Il programma di protezione istituito nel 2018 funziona, ma dobbiamo fare di più e con più risorse”, ha detto, alla presentazione del programma, il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho.