L’ultima lettera di Borsellino: “Ho fatto ciò che ho dovuto”

Esce oggi “Cosa nostra spiegata ai ragazzi” (Paper First) di Paolo Borsellino, il magistrato ucciso il 19 luglio 1993 nella strage di via D’Amelio a Palermo: è ciò che raccontò nel 1989 a una scolaresca di Bassano del Grappa (Vicenza). Pubblichiamo parte della prefazione.

Credo che la maniera più giusta per fare arrivare ai giovani di oggi – che non erano ancora nati quando mio fratello fu ucciso – il pensiero di Paolo Borsellino, sia quella di riportare fedelmente le sue parole, senza travisarle o decontestualizzarle e facendone così perdere la forza o addirittura alterandone il significato. Meritoria è per tale motivo questa iniziativa di pubblicare la trascrizione della “lezione” che Paolo Borsellino tenne in un liceo di Bassano del Grappa su invito del professor Enzo Guidotto, che soltanto dopo la morte di Paolo ho scoperto essere un suo caro amico. Più e più volte, infatti, il professore lo aveva invitato, anche insieme alla moglie Agnese, a tenere queste lezioni ai ragazzi delle scuole del nord, del “continente”, come usavamo dire e qualche volta diciamo ancora oggi, noi siciliani.

Enzo Guidotto mi si era infatti presentato telefonicamente senza dirmi nulla di questa sua conoscenza e seppi solo in seguito, e quando con lui avevo a mia volta stabilito una solida relazione di amicizia, che la prima volta aveva telefonato spontaneamente a mio fratello per esprimergli la sua solidarietà dopo l’attacco di Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera. Da allora si era stabilito tra i due un rapporto che non era soltanto di mera conoscenza, ma che aveva tutte le caratteristiche della reciproca stima e dell’amicizia. Con un articolo sul Corriere, infatti, Sciascia aveva criticato Leoluca Orlando e Paolo Borsellino bollandoli come due “professionisti dell’Antimafia”, additandoli come esempio di persone che usavano la lotta alla mafia per fare carriera. Paolo era stato dolorosamente colpito da questo attacco perché Leonardo Sciascia, per noi, da ragazzi, aveva sempre rappresentato un idolo. Da giovani ci nutrivamo dei suoi lavori, tanto che Paolo non ebbe pace finché non poté incontrarlo e chiarirsi con lui. In quell’occasione Sciascia gli confessò di aver fatto quella dichiarazione senza conoscerlo e perché mal consigliato da qualcuno. Dopo quell’incontro Paolo a ogni occasione esibiva con orgoglio una foto di lui a pranzo con lo scrittore mentre ridevano entrambi con un’espressione di complicità. (…)

Paolo da insegnare ai giovani ne aveva tanto e amava farlo, cercava costantemente l’incontro con i giovani, seguendo in questo l’esempio del giudice Rocco Chinnici, che a lui, che prediligeva il diritto civile e a questo si era dedicato, aveva assegnato il primo processo di mafia, l’assassinio del capitano Basile e di Carlo Alberto dalla Chiesa. In una lettera, la sua ultima lettera, rimasta incompiuta e che abbiamo trovato subito dopo la sua morte sulla sua scrivania, Paolo risponde ai ragazzi di un liceo di Padova che, per iscritto, gli avevano posto delle domande: “Il 4 maggio 1980 uccisero il Capitano Emanuele Basile e il Comm. Chinnici volle che mi occupassi io dell’istruzione del relativo procedimento. Nel mio stesso ufficio frattanto era approdato, provenendo anche egli dal civile, il mio amico di infanzia Giovanni Falcone e sin dall’ora capii che il mio lavoro doveva essere un altro. Avevo scelto di rimanere in Sicilia e a questa scelta dovevo dare un senso. I nostri problemi erano quelli dei quali avevo preso a occuparmi quasi casualmente, ma se amavo questa terra di essi dovevo esclusivamente occuparmi”. “Se amavo questa terra” e Paolo la sua terra, il suo Paese, la sua patria, la amava davvero, tanto da sacrificare la sua vita per essa, anche dopo aver scoperto che pezzi deviati di quello Stato che aveva giurato di servire avevano avviato una scellerata trattativa, deciso di scendere a patti con gli assassini di suo “fratello”, con gli assassini di Giovanni Falcone.

Dopo la strage di Capaci, dopo la morte di Giovanni, Paolo è certo che anche il suo momento è ormai molto vicino, che la morte è solo una questione di pochi giorni tanto che quando alle 6 del mattino del 19 luglio, mentre sta scrivendo la sua ultima lettera, gli arriva un’insolita telefonata del suo procuratore capo, Pietro Giammanco, che gli fa intuire che quello potrebbe essere il suo ultimo giorno, a Palermo è già arrivato il carico di esplosivo che servirà per ucciderlo. E allora il coraggio da solo non basta. Ci vuole qualcos’altro, qualche cosa di più forte, qualcosa che ti faccia restare al tuo posto anche quando restare al tuo posto significa morire, lasciare soli i tuoi figli, lasciare la tua famiglia, sacrificare la tua vita. E questa cosa non può essere che l’amore, quell’amore che ha ispirato tutta la vita di Paolo, quell’amore che nutriva soprattutto per i giovani ai quali, sempre in quella sua ultima lettera, scrive: “Sono ottimista perché vedo che verso di essa (la criminalità mafiosa, nda) i giovani, siciliani e no, hanno oggi un’attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai 40 anni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di combattere di quanto io e questa generazione ne abbiamo avuta”. Arriva ad accusarsi di indifferenza soltanto perché fino a 40 anni, quando Chinnici gli affida le indagini per l’assassinio Basile, si era occupato solo di giustizia civile. E nell’ultimo giorno della sua vita Paolo si dichiara “ottimista”. Può ancora una volta sembrare pazzo, ma non è pazzo perché il suo ottimismo è rivolto alla fiducia che ripone, per il futuro della sua lotta, nei giovani. Quei giovani che tanto ama e ai quali dedica il suo ultimo pensiero.

Foffo, la Cassazione conferma i 30 anni di carcerazione

Diventa definitiva la condanna a 30 anni per Manuel Foffo per l’omicidio di Luca Varani, torturato e ucciso a Roma durante un festino a base di alcol e droga nel marzo 2016. La prima sezione penale della Cassazione ha confermato la decisione della corte d’Assise d’Appello di Roma rigettando il ricorso della difesa che invocava il “vizio di mente”. Varani fu attirato in una casa al Collatino da Manuel Foffo e Marco Prato e fu ucciso con 30 tra coltellate e martellate. Marco Prato si suicidò in carcere poco prima dell’inizio del suo processo. Foffo, invece, fu condannato in primo grado, con rito abbreviato, a 30 anni nel febbraio 2017. Nel luglio del 2018 la corte d’appello confermò la condanna: omicidio volontario pluriaggravato da sevizie e crudeltà, nonché dalla minorata difesa e dai motivi abietti (già in primo grado furono esclusi la premeditazione e i motivi futili). Ieri la Cassazione ha confermato quella condanna. Giuseppe Varani, padre di Luca, non gioisce: “È il minimo per chi ha ammazzato mio figlio. Siamo noi quelli più condannati, senza sconti. Non cambia nulla ma mi auguro che il responsabile della morte di Luca e del nostro dolore eterno resti a scontare la sua pena in carcere”.

Baby svapati, non siete Humphrey Bogart

Il giro di boa del vizio è la sigaretta a vapore. È una questione psicologica, l’effetto, il sottinteso, come sempre vince, come sempre crea l’illusione di essere speciali, quando in realtà si è solo il manifesto del volere altrui. Accade così che ovunque si vedano tanti ragazzi o ragazzini con in bocca queste nuove forme di spippettamento, aprono i pacchetti come fossero cioccolatini da scartare, poi infilano la microsigaretta nel vaporizzatore e fumano il loro bon bon elettronico. Fieri. Orgogliosi. Si sentono alla moda con raziocinio, in fondo non consumano sigarette normali, no, ma dei nuovi prodotti che in teoria arrecano meno danno all’organismo, regalano un gesto simile, tengono occupati e aiutano a socializzare.

Se uno domanda loro il perché o la necessità, la risposta è quasi sempre salutista, e poi non “puzzano”, e poi costano leggermente meno, e poi e poi. Bene. Super bravi. Ma la questione è un’altra: le nuove sigarette elettroniche sono perfette per chi da anni affronta il vizio, per chi ha già intrapreso un percorso fisico prima, psicologico poi, per chi non riesce a uscire da un’abitudine radicata negli anni. I ragazzi da cosa devono scappare? In teoria da altro, magari dagli esami di maturità, dai genitori che non si commuovono davanti la richiesta della macchinetta o del motorino nuovo, e invece adottano l’aria tormentata di chi ha già un vizio e l’ultima spiaggia è il loro vaporizzatore di fumo. Già adulti. Già consumati. Già dannati. Con dei parametri non molto chiari. Perché ognuno di noi è cresciuto con modelli da imitare, quei modelli negli anni – delle volte – sono rimasti gli stessi, oppure si sono trasformati in un’eco da “bei tempi”; atri modelli sono stati sostituiti, e questo semplice processo psicologico è quasi sempre la base del marketing per aggredire il consumatore: le multinazionali lo conoscono alla perfezione, soprattutto quelle del tabacco, tra i pionieri del gioco immagine-effetto.

Hollywood per anni ci è campata. La perenne sigaretta di Humphrey Bogart, Paul Newman a torso nudo avvolto da una nuvola di fumo. James Dean? È il Re del bello e tenebroso; l’omino della Marlboro ha segnato la strada per milioni di ragazzi. Poi è morto di cancro. Disperato. Consapevole del danno per se stesso e per gli altri. E ancora la musica: Janis Joplin mai senza, Mick Jagger in Satisfaction sibila cantando “Bene, quello non è un uomo, perché non fuma le mie stesse sigarette”, o il nostro Fabrizio De André, “evaporato in una nuvola rossa”, quando stava su un palco, gli assoli altrui servivano per accendere l’ennesima cicca.

Qui c’è fascino radicato nella storia, e ormai è bagaglio collettivo, facile caderci, generazioni hanno provato a rubare briciole di quell’ebrezza, anche guardandosi allo specchio per capire il movimento perfetto tra bocca e mano; poi le conseguenze hanno schiaffeggiato le presunte certezze. Ma insomma, i ragazzi di oggi? Macchiette di un qualcosa che non gli appartiene, l’imitazione sbiadita di altro, resta il gesto, nemmeno il richiamo, neanche aggrappati a una scusa salvifica, neanche quella gli appartiene. Eppure ci provano, l’età adulta ha sempre il suo fascino, la presunta possibilità di scegliere. Per comprendere troppo tardi che non è così. Nel frattempo si è solo ridicoli senza storia.

Il Real Fettuccina, l’ultimo flagello sulle casse di Roma

Non soltanto buche, topi, scuole, spazzatura, trasporti: per Roma è complicato pure assegnare con bando pubblico la gestione di uno spazio verde per un circolo sportivo. Così complicato che l’assurda vicenda, che incrocia cronaca nera, illegalità diffusa, inefficienze comunali, pastrocchi burocratici, risarcimenti milionari e che impegna i migliori giuristi e avvocati d’Italia e addirittura ha ispirato un tema all’ultimo concorso per magistrati, dura da quasi 14 anni. Il compleanno è fissato il 21 settembre. Quel giorno del 2005, il sindaco è Walter Veltroni, il Campidoglio indice una gara per la concessione con scadenza al 2038 di 30.000 metri quadri con numerosi impianti sportivi all’interno del parco di Tor di Quinto, al civico 57/8 di Roma Nord. Il canone annuo corrisponde al servizio di manutenzione per un valore di 95.000 euro.

I ricorsi scalzano la società vincitrice in un tempo congruo al tipico torpore d’Italia: il 25 febbraio 2009, tre anni e mezzo dopo, il Consiglio di Stato incorona il Real Fettuccina, che può usufruire dei terreni. Può, pare troppo. Perché quel punto di Tor di Quinto è occupato e fuorilegge: gruppi di estrema destra, baracche abusive, sterpaglia, discariche. E il Comune del sindaco ex missino Gianni Alemanno indugia. Il 21 maggio 2010, trascorso un anno, il Consiglio di Stato interviene per ordinare lo sgombero al Campidoglio, entro l’inderogabile termine di sessanta giorni. Macché. Il 20 dicembre 2011, e il calendario va avanti di un anno e sette mesi, sempre il Consiglio di Stato, trascinato in un contenzioso per 30.000 mq, produce l’ennesimo dispositivo per il Real Fettuccina con una minaccia di sanzione al Comune: 300 euro al giorno che aumentano del 50 per cento ogni 15 giorni. La Quinta sezione di Palazzo Spada applica la cosiddetta penalità di mora progressiva che con un francesismo si chiama astreinte; è l’avanguardia della tecnica giuridica, importata senza valutare la differenza tra Roma e Parigi, cioè che lì le sentenze valgono. Il tassametro corre, il Comune incespica.

Il 21 settembre 2012, settimo anniversario, il Campidoglio fa un accertamento sul luogo, tra le casupole di Tor di Quinto, e con leggero ritardo arguisce la gravità della situazione e dunque con una determina si prepara a “eseguire operazioni di sgombero, sicurezza e bonifica”. Questa resipiscenza, però, richiede un ulteriore semestre – maggio 2013 – per affidare l’incarico da 403.000 euro a “Risorse per Roma”, società del Comune.

Non accade nulla. Finché il 3 maggio 2014, la domenica di Napoli-Fiorentina, finale di Coppa Italia, davanti al cancello di Tor di Quinto si scatena una tremenda rissa tra ultrà: il romanista Daniele De Santis, “custode” del parco, spara e uccide il tifoso napoletano Ciro Esposito. Ecco l’efficienza di Stato. Il Campidoglio di Ignazio Marino è rapido, anche se c’è un sequestro penale, un uomo ai domiciliari, un’area, s’è scoperto, è di UnipolSai. Il 4 dicembre 2014 si muovono le ruspe, il 22 luglio 2015 il Real firma l’accordo con il Comune dopo 10 anni e per 33 anni. Orbene, chi paga? Il tassametro azionato dal Consiglio di Stato con i 300 euro al giorno che lievitano da sé ha raggiunto la cifra iperbolica – l’aggettivo è scelto dai giudici – di 7,3 miliardi di euro. Il Campidoglio ha un debito virtuale di 7,3 miliardi di euro con l’associazione sportiva Real Fettuccina. Il 16 maggio 2017, il Consiglio di Stato risponde a una richiesta di chiarimento del Comune della giunta dei Cinque Stelle, sindaco Virginia Raggi. Il Real Fettuccina rinuncia ai 7,3 miliardi di euro per non provocare – c’è poco da ridere – il fallimento del Comune, s’accontenta di 15 milioni.

I legali del Comune insistono con una proposta transattiva di 675.000 euro, il Real rifiuta sdegnato e squaderna la giurisprudenza di Palazzo Spada, che tra l’altro nel 2017 ha informato la Corte dei Conti. In un documento di una dozzina di pagine del 9 febbraio 2019, la Quinta sezione ripercorre la questione dal 2005 e rammenta che il collegio ha nominato un commissario per liquidare le somme al Real, la riga successiva, però, spiega che il commissario s’è rivolto al collegio medesimo per ottenere spiegazioni sul “compito demandatogli”. Il Consiglio di Stato è costretto a interpretare il Consiglio di Stato. Il dilemma è soffocante: come calcolare il risarcimento? La penalità – astreinte – era senza limite: ci mettiamo un tetto postumo?

La Quinta sezione cede il rovello all’adunanza plenaria, ai vertici del Consiglio di Stato, al presidente Filippo Patroni Griffi, agli illustri colleghi in seduta solenne riuniti.

Il 17 aprile 2019, sorbito l’ormai famoso racconto sul Fettuccina che angoscia i luminari del diritto, le alte cariche autorizzano la revisione della “penalità di mora progressiva” pur senza cancellare la sentenza del 2011 che l’ha generata, ma calmierando la cifra per il Campidoglio poiché all’epoca non fu stabilito il tetto. E poi restituiscono gli atti alla Quinta sezione che dovrà quantificare il danno. Così deciso. Insomma, deciso è un’esagerazione. Mica siamo in Francia.

“Frodare la Scienza è troppo facile e l’Italia è sprovvista di ogni regola”

Un’indagine giudiziaria della Procura di Milano ha rilevato che in alcune ricerche sul cancro sono state manipolate le immagini poi comparse su importanti riviste internazionali. Uno scandalo che rischia di gettare discredito sulla ricerca scientifica.

Come lo valuta la scienziata e senatrice a vita Elena Cattaneo?

Oggi conosciamo solo la richiesta di archiviazione, non il decreto del Gip, né i documenti integrali delle difese. Il banco di prova saranno le valutazioni degli editori e dei board delle riviste scientifiche che riceveranno le segnalazioni delle anomalie. ‘La cultura della reputazione e della vergogna’, come la definì il professor Giovanni Maria Flick in un intervento ai Lincei, è il principale strumento di cui dispone la società nei confronti dell’attività dello studioso, che trova la sua ragione d’essere nell’accountability professionale verso i pari e i cittadini. Ecco perché il ritiro di uno o più paper è una condizione grave e umiliante per lo scienziato.

I magistrati hanno concluso che le immagini sono state certamente manipolate, ma in Italia non c’è un reato che permetta di sanzionare la frode scientifica.

La scienza e i suoi risultati sono pubblici. Eventuali manipolazioni – si tratti di superficialità, errori o modifiche intenzionali – grazie alle nuove tecnologie di indagine hanno vita sempre più breve. Nel 2013 Lancet evidenziava come in Europa solo Danimarca e Norvegia avessero una legge per prevenire o contrastare il fenomeno delle frodi scientifiche. L’Italia è tristemente tra i pochi Paesi sprovvisti di ogni regolamentazione.

Serve introdurre un reato specifico?

Sarebbe importante che questa materia fosse regolata a livello europeo in modo che la comunità scientifica possa contare su uno standard giuridico uniforme. Si dovrebbe anche agire su più livelli: da corsi di etica della ricerca obbligatori, al rafforzamento del tutoraggio dei responsabili di laboratorio, fino a una cornice legislativa rigorosa sulle frodi scientifiche che, quando accertate, possano comportare il licenziamento dell’autore. Tuttavia dubito dell’opportunità di introdurre un nuovo reato, viste le penose vicende giudiziarie di non comprensione del fatto scientifico che hanno accompagnato da ultimo il caso Stamina e l’epidemia di Xylella.

I personaggi coinvolti nell’inchiesta giudiziaria sono ricercatori riconosciuti e di successo. Come ha reagito l’ambiente scientifico?

Credo che tutti i colleghi si aspettino che i ricercatori coinvolti chiariscano la loro posizione pubblicamente con le rispettive riviste scientifiche, spiegando ogni aspetto contestato, ogni eventuale risultato diverso dal reale e la differenza tra errore e manipolazione. Così si rinsalda l’integrità e l’affidabilità del dato scientifico.

La ricerca sul cancro ha finanziamenti consistenti, rispetto alle dimensioni della ricerca in Italia. È questo che incentiva le frodi?

A prescindere dai finanziamenti, questa è un’occasione per ribadire che la ricerca è l’unica strada verso la cura dei tumori. Che l’unico modo per raggiungere risultati a beneficio di tutti è garantire a tutte le idee un accesso equo e competitivo ai finanziamenti pubblici affinché sia premiata la migliore, contro ogni stanziamento non competitivo e privilegiato. Che alle risorse pubbliche è vitale che si aggiungano le preziose donazioni dei cittadini. Che nell’uno e nell’altro caso lo studioso lavora grazie al denaro e alla fiducia altrui. E che pertanto non può essere concessa alcuna superficialità, anche dove i dati sono tonnellate e decine le persone da coordinare. Chiunque entri in un laboratorio deve garantire piena e assoluta tracciabilità di ogni passo compiuto durante la giornata. Non è ammissibile che esperimenti e risultati non siano archiviati e ricostruibili a posteriori, che i quaderni di laboratorio non siano aggiornati o che quanto scritto non sia perfettamente riconducibile a dati e prove. Alla libertà di indagare l’ignoto per conto del cittadino consegue un’enorme responsabilità pubblica.

I pm criticano Airc per conflitto d’interessi: il comitato scientifico assegna fondi a membri dello stesso comitato.

Non conosco le procedure Airc, ma sarebbe un’anomalia e un conflitto di interessi notevole. Gli scienziati che accettano di far parte di comitati chiamati a valutare proposte si mettono a disposizione degli altri, non cercano vantaggi per sé, né possono sottomettere progetti alla commissione di cui sono parte, autoassegnandosi fondi. Nel 2001, da ricercatrice, denunciai pubblicamente comportamenti simili di una commissione ministeriale che erogava risorse per ricerche sulle cellule staminali. La vicenda arrivò in Parlamento e il governo riconobbe l’inopportunità di quel “metodo”. Il mio progetto era stato approvato, ma chiesi invano l’annullamento dell’intera procedura. Ogni scienziato ha il dovere di attivare gli anticorpi contro ogni deragliamento, nell’unico interesse dei cittadini, “committenti” dell’attività scientifica a beneficio dell’intera società. Da questo discende la credibilità degli scienziati.

Il cittadino può avere ancora fiducia nella ricerca?

Può continuare a donare con fiducia, sapendo che potrà chiedere conto in ogni istante del risultato di quel suo investimento e che la scienza ha mezzi e competenze per individuare le anomalie. Lo studioso, dal canto suo, non può addurre scuse di fronte al cittadino con il quale ha siglato un tacito ma non negoziabile impegno a essere affidabile, sincero e a riportare e rispettare i fatti. Venir meno a questo accordo vuol dire collocarsi automaticamente al di fuori della Scienza.

La Flat tax è dannosa e viola la Carta senza la lotta all’evasione

Ma davvero la flat tax è una cattiva idea perché a proporla è la Lega? Cominciamo col dire che il cosiddetto “contratto di governo” prevede una “flat tax caratterizzata dall’introduzione di aliquote fisse, con un sistema di deduzioni per garantire la progressività dell’imposta, in armonia con i principi costituzionali”. Il sistema dovrebbe articolarsi secondo “due aliquote fisse al 15% e al 20% per persone fisiche, partite Iva, imprese e famiglie”, facendo salva una no tax area per i bassi redditi e una deduzione fissa per le famiglie. Due aliquote e non una sola, che davvero contrasterebbe con la Costituzione, secondo cui “il sistema tributario è informato a criteri di progressività” e “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva” (art. 53). Se bastino due aliquote (e in particolare al 15% e al 20%) a soddisfare il criterio progressivo, la Costituzione non lo dice, ma specifica che la finalità della tassazione è coprire le spese pubbliche, intendendo ovviamente per tali, in primissima istanza, quelle intese a soddisfare i diritti costituzionali dei cittadini (per esempio la scuola pubblica statale, la sanità pubblica, la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico, la ricerca scientifica e la promozione della cultura).

Tali diritti fondamentali, incluso il diritto al lavoro (art. 4), sono essenziali per realizzare il fine supremo della Carta, la “pari dignità sociale” dei cittadini, cioè la loro uguaglianza sostanziale (art. 3). Concorrere alle spese pubbliche pagando le tasse è pertanto uno dei “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” prescritti dall’articolo 2.

Noi italiani paghiamo troppe tasse? Un recentissimo rapporto Ocse consente un agevole confronto con altri Paesi. Se ne può trarre una tabella di massima, eloquente anche se limitata a Francia, Germania e Usa (vedi figura). Come si vede, c’è molta varietà: gli scaglioni di reddito tassabile sono sei negli Usa, cinque in Italia, quattro in Francia, tre in Germania. Il reddito minimo de-tassato (no tax area) è più basso in Italia, e inoltre da noi è più alta l’aliquota sui redditi più bassi: 23% contro il 12% degli Usa e il 14% di Francia e Germania. Molto diversa è la soglia di reddito considerata più alta: in Italia basta superare i 75.000 euro per raggiungere l’aliquota più alta (43%), in Francia e Germania l’aliquota massima è 45% per i redditi oltre i 156.000 euro (Francia) o i 260.000 euro (Germania). Per non dire degli Usa, dove solo i redditi superiori a 500.000 raggiungono l’aliquota massima, relativamente modesta (37 %).

Per fare un solo, sommario esempio pratico, un reddito di 60.000 euro annui è tassato assai diversamente nei vari Paesi, più o meno così: l’esborso sarebbe di 19.300 euro in Italia; 13.600 in Francia; 9.800 in Germania; e 8.000 dollari negli Usa.

Se poi si tiene conto delle detrazioni da familiari a carico (assai maggiori, per esempio, in Francia), questa differenza è ancor più marcata. Come mai, allora, il fisco francese incassa molto più di quello italiano? Semplice: perché l’evasione in Francia è sempre inferiore al 15% sul gettito fiscale complessivo, mentre in Italia veleggia intorno al 30%.

È vero, una forte diminuzione delle imposte avrebbe effetti positivi come l’accresciuta capacità di spesa e d’investimento. Ma per compensare il diminuito gettito fiscale non ci sono che due strade: o ridurre drasticamente la spesa pubblica, e dunque privare i cittadini di servizi e diritti (dalla scuola alla sanità), oppure combattere duramente e subito l’evasione fiscale, come del resto proclamava il “contratto di governo” parlando, anche se un po’ confusamente, di “recupero dell’elusione, dell’evasione e del fenomeno del mancato pagamento delle imposte”. Secondo il recentissimo rapporto di Tax Research LPP (Gran Bretagna), l’evasione fiscale in Italia sarebbe fra 124,5 e 132,1 miliardi di euro l’anno, portando il nostro Paese al primo posto in Europa e fra i primi al mondo. Così è da decenni, e nessun governo, di nessun colore politico, ha provato a porvi rimedio. Perciò di flat tax non si dovrebbe parlare nemmeno per scherzo, se non dopo aver lanciato serie ed efficaci misure per il recupero delle tasse dovute e non pagate. Perciò la campagna che il Fatto sta conducendo per la lotta all’evasione fiscale è meritevole e necessaria. Sostenere, come alcuni fanno, che la flat tax porterebbe per propria virtù alla fine dell’evasione è stolto e irresponsabile: un tal risultato è altamente improbabile e richiederebbe comunque anni e anni di fortissima riduzione della spesa pubblica (o aumenti di altre imposte), con gravissime conseguenze politiche e sociali.

La Lega di Salvini eccelle negli slogan, ma non sa fermarsi a pensare. Anche la flat tax è uno slogan ripetuto ossessivamente, come se davvero si potesse fare senza affrontare con decisione il bivio fra il crollo della spesa pubblica, e dunque dei diritti, e la lotta all’evasione. Ma agitare slogan anziché proporre ragionamenti e progetti è un’abitudine condivisa, su altri fronti, anche dal M5S.

Giustissimo, ad esempio, sarebbe (sarà ?) fermare le “grandi opere” inutili: ma di fronte all’argomento-principe dei pro-Tav, dar lavoro alle persone e alle imprese, perché non lanciare una strategia alternativa? Perché non argomentare, in concreto, che si devono dedicare risorse, manodopera, capitali e saperi alla primissima Grande Opera di cui l’Italia ha bisogno, la messa in sicurezza del territorio, il più fragile d’Europa per sismicità, franosità, carenza di manutenzione e di cura delle coste, dei corsi d’acqua, delle valli?

In un’Italia più simile a quella che vorremmo, una sana alleanza di governo potrebbe cercare una strada analizzando i dati e progettando il futuro. Sì a una revisione delle aliquote, purché calibrata sul recupero dell’evasione fiscale. No alle grandi opere inutili, purché sostituite dalla Grande Opera di salvataggio del suolo italiano. Speranze vane? È probabile: perché forse quel che cementa il litigiosissimo matrimonio d’interesse degli alleati di governo non è il loro “contratto” ma lo scontro fra opposti slogan lanciati spesso alla cieca. Non la condivisione di ragionamenti e di progetti, ma un perpetuo sbandieramento di parole.

La capitana scherza: “Torno in Australia e studio gli albatros”

Non potràallontanarsi dall’Italia fino al 9 luglio, giorno in cui sarà interrogata dai pm che le contestano il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, eppure Carola Rackete guarda già lontano. Ieri Giorgia Linardi, rappresentante di Sea Watch Italia, ha infatti scherzato sulle intenzioni della capitana: “ Carola mi ha detto sorridendo: ‘Forse è il caso di emigrare in Australia e tornare a occuparmi degli albatros’”. Il riferimento è agli animali già oggetto di studio della sua tesi di master e che potrebbero essere perfetta distrazione dopo le beghe giudiziarie. “In questi giorni – ha spiegato ancora Linardi – Carola ha usato del tempo per fare mente locale e fornire una deposizione chiara dei fatti. Ha rivolto rassicurazioni e saluti all’equipaggio, ringraziando i suoi legali”. L’umorismo della capitana non è però piaciuto a Matteo Salvini, che ha risposto via social alla giovane tedesca: “Siamo d’accordo con Carola Rackete, che starebbe pensando di andare in Australia per occuparsi di albatros. Sono pronto a pagarle il biglietto di sola andata“.

Anm: “Salvini crea odio”. Lui: “No a lezioni”

Il caso della Sea Watch finisce in rissa. Perché Matteo Salvini sembra implacabile pure con il gip Alessandra Vella che non ha confermato l’arresto per la Capitana Carola Rackete, finita da giorni nel mirino del ministro dell’Interno. “Si tolga la toga se vuol fare politica”, ha detto criticando aspramente la decisione adottata “sulla pelle degli italiani”. Posizione da cui prende le distanze il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede: “Io non entro nelle polemiche sulle sentenze. Certo si può essere d’accordo o no, però le sentenze vanno sempre rispettate. E vorrei dire che non necessariamente dietro una sentenza con cui non si è d’accordo c’è una connotazione politica”.

Concetti condivisi dall’Associazione nazionale magistrati, che ha tuonato contro i “commenti sprezzanti” contro Vella per la quale è stata chiesta l’apertura di una pratica a tutela da parte di tutti i membri togati del Csm: una risposta contro gli “insulti che alimentano un clima di delegittimazione e odio”.

Ma la rissa innescata attorno alla vicenda Sea Watch pare gravida di ulteriori strascichi. “Non accetto lezioni di morale con quello che stiamo leggendo sulle spartizioni di poltrone e Procure a cura di qualche magistrato”, ha replicato Salvini all’Anm, che se l’era presa anche per i “numerosi post contenenti insulti e minacce nei confronti del gip di Agrigento”. Perché dal momento della decisione sulla scarcerazione di Carola Rackete, il magistrato è stato sottoposto alla gogna social, dove è ritenuto responsabile della liberazione di una “criminale, amica degli scafisti e complice di assassini che fanno i soldi sugli immigrati.” Fino alle minacce più o meno esplicite: “Colpirne uno per educarne cento”.

Ma a finire nel gorgo sono pure i parlamentari dem, che nei giorni scorsi si erano imbarcati a bordo della Sea Watch. In particolare David Faraone che ha denunciato il blitz di “una banda di squadristi, appartenenti ad un gruppo di destra che si fa chiamare Audaces, che ha sigillato con del nastro bianco e rosso la saracinesca del circolo del Pd di Palermo. Questa è l’ultima delle minacce che stiamo subendo da quando siamo saliti sulla Sea Watch” ha scritto via Fb il deputato siciliano a cui è giunta la solidarietà del segretario del Pd, Nicola Zingaretti.

Ma al di là delle intimidazioni, ieri anche alla Camera sono volate parole grosse. In particolare quando Igor Lezzi (Lega) ha chiesto al presidente Roberto Fico di aprire una riflessione su quanto è successo nei giorni scorsi. “Perché noi abbiamo avuto dei deputati che, usando il loro ruolo, sono saliti su una nave che stava violando un decreto-legge e hanno dato copertura politica al tentativo di uccidere alcuni agenti della Guardia di finanza”. Per queste sue dichiarazioni probabilmente scatterà la censura dell’ufficio di presidenza di Montecitorio. Mentre il presidente del Comitato di controllo sull’attuazione dell’accordo di Schengen e sulla vigilanza in materia di immigrazione, Eugenio Zoffili, sempre del Carroccio, ha chiesto che la censura dei presidenti di Camera e Senato scatti per i parlamentari del Pd saliti sulla Sea Watch a Lampedusa.

Carola: la linea dura della Lega è più popolare di quella del Pd

Dicono i sondaggi (Alessandra Ghisleri) che la decisione del gip di Agrigento, Alessandra Vella, a favore di Carola Rackete ha fatto ulteriormente crescere i consensi per Matteo Salvini. Che ha subito duramente contestato la magistratura e chiesto l’immediata espulsione della capitana della SeaWatch3, sobriamente definita “una fuorilegge criminale”.

Al contrario, secondo lo stesso campione, si registra il calo del Pd, proprio a causa della campagna a favore di Carola e dei 42 migranti. Culminata con l’arrivo a bordo della delegazione guidata da Graziano Delrio, Matteo Orfini e Nicola Fratoianni. Un giudizio fortemente negativo che si estende alla raccolta fondi per aiutare l’ong, organizzata dal partito di Nicola Zingaretti che – questo il rimprovero –, non si mobilitò con altrettanto fervore per fornire sostegno economico ai terremotati di Amatrice e ai truffati dalle banche. Sul fatto che le maggioranze plebiscitarie non sempre (anzi quasi mai) prosperano sui buoni sentimenti non occorre scomodare le dittature del Novecento che edificarono l’orrore sulla base di un successo elettorale. Neppure andremo a infilarci nel ginepraio del conflitto tra legge morale e leggi dello Stato, anche perché nel nostro caso le opposte forze in campo – presunti buonisti e presunti cattivisti – proclamano l’assoluta eticità dei rispettivi comportamenti. Per dare forza ai quali entrambi citano, guarda caso, il codice della strada. Dice infatti Delrio che Carola si è comportata come l’autista di un’ambulanza che per salvare la vita del ferito a bordo ignora semafori e limiti di velocità (lo stato di necessità alla base del provvedimento di scarcerazione disposto dal gip Vella). Ribatte Salvini che, al contrario, la scarcerazione della capitana è un pessimo esempio civile: “Se stasera una pattuglia intima l’alt sulla strada italiana chiunque è tenuto a tirare dritto e a speronare un’auto della polizia”.

Ovvio che, sempre, al primo posto, dovrebbe esserci la vita delle persone, ma anche in questo caso il ministro dell’Interno rivendica un senso umanitario addirittura superiore a quello dei suoi avversari. Merito, spiega, del blocco dei porti che scoraggiando gli arrivi sulle nostre coste avrebbe drasticamente ridotto il numero dei morti in mare. Lo contesta il partito della solidarietà: bella umanità quella di un vicepremier che insensibile alla sofferenza di quei disgraziati costretti per settimane a friggere nel piombo della calura dichiara che per lui potevano restare lì fino a Natale. Certo, si risponde, ma non è stata forse la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo a negare lo sbarco dicendo che chi era rimasto a bordo non correva pericolo alcuno?

Questo ping pong di accuse e controaccuse non risponde tuttavia alla domanda iniziale di questo diario: ciascuna ha le proprie ragioni giuste o sbagliate, ma per quale motivo la linea Salvini è molto più popolare della linea Pd? Per la famosa insicurezza percepita? Perché siamo un popolo a prevalenza razzista? Perché le famose élite radical-chic predicano bene solo se gli immigrati se li cuccano gli altri? O forse perché il messaggio di Salvini, nella sua rozza brutalità, giunge forte e chiaro? Sul tema immigrazione mettete in fila queste frasi: “La pacchia è finita. L’Italia ha rialzato la testa. Siamo orgogliosi di difendere il nostro Paese da chi vorrebbe trattarci come una colonia. Li facciano sbarcare in Olanda”.

Adesso confrontatele con l’analogo programma di Zingaretti che abbiamo letto sull’Espresso. Un papiro di circa 400 parole, sormontate dal titolo: “Un nuovo modello di tolleranza e di integrazione”. Anche l’incipit è travolgente: “La sinistra deve promuovere una grande discussione pubblica su quale modello di convivenza e di integrazione della presenza straniera l’Italia intende perseguire”. Il seguito è tutta una sfilza di “strade diverse da indicare”, di “Leggi Quadro” da approvare, di “Piani Nazionali” da programmare, di “Ius soli e Ius culturae” da perseguire. La vera domanda è: come mai Salvini non ha ancora la maggioranza assoluta?

Addio a Lee Iacocca: simbolo dell’auto, guidò Ford e Chrysler

L’automotiveamericano perde uno dei suoi simboli. All’età di 94 anni è morto infatti Lido Anthony “Lee” Iacocca, leggenda dell’industria automobilistica che da qualche anno viveva a Bel Air, in California. Figlio di immigrati italiani, Iacocca era cresciuto in Pennsylvania, stabilendosi poi a Detroit, capitale dell’auto degli Usa. L’ aveva guidato due delle Big Three di Motor City: presidente di Ford alla fine degli anni 70 – da cui fu allontanato per i forti contrasti con la proprietà – e poi, negli anni 80, numero uno di Chrysler. Proprio in Chrysler Iacocca aveva guidato l’azienda fuori da una grave crisi economica, rilanciandola grazie a un prestito di 1,5 miliardi ottenuto dal governo federale. Da lì la rinascita del marchio, ben prima della nuova crisi e della fusione con Fiat degli anni 2000. Grazie alla fama raggiunta come manager, nel 1998 il suo nome fu anche tra quelli dei possibili candidati alla presidenza americana. Da allora, ritiratosi dalle aziende e mai impegnatosi in prima persona in politica, si è dedicato a numerosi progetti di beneficenza.