Esce oggi “Cosa nostra spiegata ai ragazzi” (Paper First) di Paolo Borsellino, il magistrato ucciso il 19 luglio 1993 nella strage di via D’Amelio a Palermo: è ciò che raccontò nel 1989 a una scolaresca di Bassano del Grappa (Vicenza). Pubblichiamo parte della prefazione.
Credo che la maniera più giusta per fare arrivare ai giovani di oggi – che non erano ancora nati quando mio fratello fu ucciso – il pensiero di Paolo Borsellino, sia quella di riportare fedelmente le sue parole, senza travisarle o decontestualizzarle e facendone così perdere la forza o addirittura alterandone il significato. Meritoria è per tale motivo questa iniziativa di pubblicare la trascrizione della “lezione” che Paolo Borsellino tenne in un liceo di Bassano del Grappa su invito del professor Enzo Guidotto, che soltanto dopo la morte di Paolo ho scoperto essere un suo caro amico. Più e più volte, infatti, il professore lo aveva invitato, anche insieme alla moglie Agnese, a tenere queste lezioni ai ragazzi delle scuole del nord, del “continente”, come usavamo dire e qualche volta diciamo ancora oggi, noi siciliani.
Enzo Guidotto mi si era infatti presentato telefonicamente senza dirmi nulla di questa sua conoscenza e seppi solo in seguito, e quando con lui avevo a mia volta stabilito una solida relazione di amicizia, che la prima volta aveva telefonato spontaneamente a mio fratello per esprimergli la sua solidarietà dopo l’attacco di Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera. Da allora si era stabilito tra i due un rapporto che non era soltanto di mera conoscenza, ma che aveva tutte le caratteristiche della reciproca stima e dell’amicizia. Con un articolo sul Corriere, infatti, Sciascia aveva criticato Leoluca Orlando e Paolo Borsellino bollandoli come due “professionisti dell’Antimafia”, additandoli come esempio di persone che usavano la lotta alla mafia per fare carriera. Paolo era stato dolorosamente colpito da questo attacco perché Leonardo Sciascia, per noi, da ragazzi, aveva sempre rappresentato un idolo. Da giovani ci nutrivamo dei suoi lavori, tanto che Paolo non ebbe pace finché non poté incontrarlo e chiarirsi con lui. In quell’occasione Sciascia gli confessò di aver fatto quella dichiarazione senza conoscerlo e perché mal consigliato da qualcuno. Dopo quell’incontro Paolo a ogni occasione esibiva con orgoglio una foto di lui a pranzo con lo scrittore mentre ridevano entrambi con un’espressione di complicità. (…)
Paolo da insegnare ai giovani ne aveva tanto e amava farlo, cercava costantemente l’incontro con i giovani, seguendo in questo l’esempio del giudice Rocco Chinnici, che a lui, che prediligeva il diritto civile e a questo si era dedicato, aveva assegnato il primo processo di mafia, l’assassinio del capitano Basile e di Carlo Alberto dalla Chiesa. In una lettera, la sua ultima lettera, rimasta incompiuta e che abbiamo trovato subito dopo la sua morte sulla sua scrivania, Paolo risponde ai ragazzi di un liceo di Padova che, per iscritto, gli avevano posto delle domande: “Il 4 maggio 1980 uccisero il Capitano Emanuele Basile e il Comm. Chinnici volle che mi occupassi io dell’istruzione del relativo procedimento. Nel mio stesso ufficio frattanto era approdato, provenendo anche egli dal civile, il mio amico di infanzia Giovanni Falcone e sin dall’ora capii che il mio lavoro doveva essere un altro. Avevo scelto di rimanere in Sicilia e a questa scelta dovevo dare un senso. I nostri problemi erano quelli dei quali avevo preso a occuparmi quasi casualmente, ma se amavo questa terra di essi dovevo esclusivamente occuparmi”. “Se amavo questa terra” e Paolo la sua terra, il suo Paese, la sua patria, la amava davvero, tanto da sacrificare la sua vita per essa, anche dopo aver scoperto che pezzi deviati di quello Stato che aveva giurato di servire avevano avviato una scellerata trattativa, deciso di scendere a patti con gli assassini di suo “fratello”, con gli assassini di Giovanni Falcone.
Dopo la strage di Capaci, dopo la morte di Giovanni, Paolo è certo che anche il suo momento è ormai molto vicino, che la morte è solo una questione di pochi giorni tanto che quando alle 6 del mattino del 19 luglio, mentre sta scrivendo la sua ultima lettera, gli arriva un’insolita telefonata del suo procuratore capo, Pietro Giammanco, che gli fa intuire che quello potrebbe essere il suo ultimo giorno, a Palermo è già arrivato il carico di esplosivo che servirà per ucciderlo. E allora il coraggio da solo non basta. Ci vuole qualcos’altro, qualche cosa di più forte, qualcosa che ti faccia restare al tuo posto anche quando restare al tuo posto significa morire, lasciare soli i tuoi figli, lasciare la tua famiglia, sacrificare la tua vita. E questa cosa non può essere che l’amore, quell’amore che ha ispirato tutta la vita di Paolo, quell’amore che nutriva soprattutto per i giovani ai quali, sempre in quella sua ultima lettera, scrive: “Sono ottimista perché vedo che verso di essa (la criminalità mafiosa, nda) i giovani, siciliani e no, hanno oggi un’attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai 40 anni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di combattere di quanto io e questa generazione ne abbiamo avuta”. Arriva ad accusarsi di indifferenza soltanto perché fino a 40 anni, quando Chinnici gli affida le indagini per l’assassinio Basile, si era occupato solo di giustizia civile. E nell’ultimo giorno della sua vita Paolo si dichiara “ottimista”. Può ancora una volta sembrare pazzo, ma non è pazzo perché il suo ottimismo è rivolto alla fiducia che ripone, per il futuro della sua lotta, nei giovani. Quei giovani che tanto ama e ai quali dedica il suo ultimo pensiero.