Missione a Tripoli: il Pd non sa che fare e se ne lava le mani

Alla fine è toccato a Piero Fassino annunciare in aula alla Camera la decisione del Pd di non partecipare al voto sulla missione in Libia. Che tante grane interne aveva provocato tra le opposte fazioni dem superate solo dopo la riunione di ieri del gruppo parlamentare alla Camera. In cui chi temeva che la linea Minniti sulla gestione dei migranti venisse smentita in malo modo dal partito oggi guidato da Nicola Zingaretti, è stato rassicurato. Grazie ai pontieri all’opera tra le correnti dem che hanno mediato fino allo stremo. E poi anche alle parole giocate sul filo del “ma anche” dal segretario per tenere i ranghi serrati contro Matteo Salvini, l’avversario da battere. “La Libia vive ore drammatiche. Il governo italiano ora è nel caos e di fatto con le sue politiche non sta garantendo gli accordi sottoscritti. Il Pd unito sostiene le scelte compiute nel 2017 dal governo Gentiloni, un accordo quadro per risolvere tra l’altro la drammatica emergenza dei campi libici” ha detto Zingaretti giustificando l’astensione ”esclusivamente” per “l’assenza di garanzie da parte di questo governo nella gestione di politica estera e militare in uno scenario di conflitto. In particolare denunciamo l’abbandono di un sistema di ricerca e soccorso in mare coordinato dalla guardia costiera italiana e che vedeva partecipare pienamente attori governativi e non governativi sia italiani che europei”.

Insomma il Pd può sfilarsi dalla riconferma degli accordi con i libici senza rinnegare quelli sottoscritti con Serraj grazie “all’impegno generoso di Minniti e Gentiloni”. Come ha detto in aula Fassino che ha lavorato a lungo per limare il suo discorso in modo che all’ex presidente del consiglio e al suo ministro dell’Interno dell’epoca venissero riconosciuti gli allori. E contenuti i mal di pancia che pure si erano registrati per la loro assenza alla discussione interna sul dossier Libia. Nel mezzo una giornata ad alta tensione.

Bombe sul centro migranti libico: “Almeno cento morti”

È il simbolo della cooperazione Italia-Libia, il centro di detenzione per migranti di Tajoura bombardato nella notte tra il 2 e il 3 luglio. Secondo le prime ricostruzioni, i morti sono 44 – anche se fonti africane parlano di almeno 100 vittime – e il colpevole è l’Esercito nazionale di Khalifa Haftar. Potrebbe essere una ritorsione dopo aver perso Gharyan, principale base del generale ribelle vicino a Tripoli.

La cooperazione tra il nostro Paese e quello libico è l’ennesimo argomento sul quale il Pd si è spaccato in vista della proroga della missione italiana a Tripoli su cui il Parlamento ha votato ieri. Il centro, sotto il controllo del Direttorato per combattere l’immigrazione illegale (Dcmi), organismo del ministero dell’Interno di Tripoli finanziato e sostenuto dalla cooperazione Italia-Libia, fa parte dei circa 20 “centri ufficiali” riconosciuti dal governo di Serraj. Lo controlla una milizia fedele proprio a Serraj: la brigata Daman.

Il centro è stato visitato a metà giugno dall’ambasciatore Giuseppe Buccino poiché ha uno strettissimo legame con l’Italia: ci lavora Helpcode, ong italiana che si occupa di prima emergenza. A fine maggio tre parlamentari di Sinistra italiana avevano denunciato torture ai danni dei detenuti in un’interrogazione depositata in Parlamento. Le estorsioni ai danni dei migranti presenti sono infatti da sempre una delle forme di guadagno principale per le milizie.

L’articolo 2 del Memorandum of Understanding siglato a inizio 2017 dall’allora ministro Marco Minniti con la Libia prevede un piano di ristrutturazione e rifinanziamento dei “centri d’accoglienza” (testuale) sotto il controllo del governo libico. Obiettivo ancora lontanissimo dall’essere realizzato, anche nelle zone dove fino a prima dell’offensiva di Haftar il governo di accordo nazionale era più forte.

A Zawiya, ad esempio, città a 47 miglia dalla quale Sea Watch 3 ha svolto l’operazione di salvataggio, il sistema è gestito da un’organizzazione criminale al cui vertice sta Mohamed Koshlaf, leader della brigata Shuhada al-Nasr, dal giugno 2018 sotto sanzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per le violenze commesse sui migranti. Gli è impedito di lasciare la Libia e i suoi beni sono congelati. Gestisce un centro di detenzione nell’area dell’impianto petrolifero cittadino nel quale nel 2018 sono state incarcerate 1.352 persone e quest’anno la Guardia costiera ce ne ha riportate 284 sulle circa seimila “intercettate” al largo della Libia.

A inizio giugno diversi migranti detenuti sono stati feriti in una sparatoria e il centro continua a essere sovrappopolato, nonostante l’accordo di intesa con l’Italia. Chi riporta i migranti al centro di Zawiya è il comandante della Guardia costiera locale Abd al Rahman al-Milad, detto al-Bija, fedelissimo di Koshlaf. Secondo documenti in mano alla Corte penale dell’Aja riportati da Avvenire, la motovedetta di al-Bija sarebbe un altro regalo della cooperazione Italia-Libia. L’organizzazione guadagna costringendo i migranti detenuti a pagare un riscatto per uscire dal carcere. Così “salvarli” e riportarli indietro accresce i profitti.

L’Italia aveva cercato di costruire relazioni con tribù locali anche a Sud della Libia, in particolare con i Tebu, invitati a Roma nell’aprile 2017 a siglare un grande accordo di pace. Non ha tenuto però, e soprattutto nella regione di al-Kufra, Sud-Est del Paese, è l’Esercito nazionale libico il garante della stabilità della regione. Chi ne ha approfittato sono i rivali dei Tebu, il gruppo etnico degli Zwai, alleati di Haftar. In più, nella zona ci sono incursioni di mercenari sudanesi, spesso legati a milizie che si oppongono al governo centrale di Khartoum. Anche loro si sostengono economicamente con il traffico di esseri umani: nessuno, oggi, può rinunciare a questa importante fonte di introiti.

 

Luigi “geloso” di Beppe e Roberto

Una telefonata allunga la vita, recitava un vecchio spot. Ma talvolta può suscitare cattivi pensieri. Per esempio a Luigi Di Maio, che ieri sera ha letto sull’Adnkronos di alcuni contatti via telefono tra Beppe Grillo, il fondatore del M5S, e il presidente della Camera Roberto Fico. Grillo, a Roma da martedì, non è riuscito a incontrare il veterano del Movimento. Ma si sono ugualmente sentiti. “Un colloquio tra vecchi amici” assicurano dagli ambienti della presidenza di Montecitorio, come a sminarne la portata politica in una fase delicata del Movimento, nella quale Fico ha più volte invocato la definizione di una rotta e dell’identità per il M5S uscito ammaccato dalle urne del 26 maggio. Sta di fatto che al capo politico la notizia delle telefonate è parso l’ennesimo segnale di una grande vicinanza tra Grillo e il “critico” Fico. E allora, pochi minuti dopo la notizia dei colloqui tra i due, sulle agenzie è stata diffuso che il fondatore si è sentito anche con Di Maio. Forse un po’ ansioso di non apparire dimenticato da Grillo, a fronte del Fico che lo ha sentito più volte. Magari un po’ geloso. Così ecco la precisazione. Un dettaglio, in fondo. Ma che racconta molto del momento attuale del Movimento.

Tav Brescia-Padova, sì alla grande opera inutile

Il governo ha confermato ieri il via libera al Tav Brescia-Verona, nonostante la bocciatura dell’analisi costi-benefici resa pubblica dal ministero delle Infrastrutture dopo mesi dalla sua consegnata. “È un’opera che ha mosso i primi passi 30 anni fa e che costa troppo fermare”, ha detto il ministro Danilo Toninelli.

Eppure, a leggere i numeri contenuti nei documenti pubblicati, non parrebbe proprio. L’analisi è molto negativa: la realizzazione dell’opera comporta una perdita netta di 2,4 miliardi. Un pessimo impiego delle risorse, al 100 per cento pubbliche. La relazione giuridica indica invece per i costi di recesso e contenzioso una possibile forbice compresa tra 0 (scenario ottimistico) e 1,2 miliardi. Dunque, anche considerando lo scenario pessimistico il saldo rimarrebbe fortemente negativo. Perché allora il ministero dà via libera? General contractor dell’opera è il consorzio Cepav 2 (Saipem 59%, Pizzarotti 20,5% e Maltauro 20,5%) cui erano stati assegnati i lavori nel 1991. Un’assegnazione senza gara, come per le altre tratte Tav italiane, a consorzi privati e pubblici, che hanno resto l’alta velocità ferroviaria italiana la più costosa d’Europa. Saipem è controllata dalla Cassa Depositi e Prestiti, quindi una controllata del Tesoro dovrebbe fare causa al governo italiano.

Al di là dello scenario, il Tav Brescia-Padova resta inutile. Le stime di traffico dell’Alta velocità sulla Milano-Venezia sono modeste e i risultati negativi di utilizzo della tratta che opera nello stesso contesto di mercato e geografico come il Tav Milano-Torino, con solo 50 treni giornalieri contro i 300 potenziali, dovrebbero servire da monito per il ministero. Il progetto va modificato quadruplicando la linea attuale cioè realizzando una coppia di binari affiancati agli esistenti da destinare all’esercizio ad alta velocità secondo il concetto sviluppato nei Paesi dell’area tedesca. Si tratta dell’unica alternativa realistica che potrebbe mettere in discussione l’attuale concessione. Una infrastruttura adatta per un servizio interpolo con velocità massime di 240-250 chilometri orari che, ricordiamo, è la stessa velocità a cui viaggiano i Frecciarossa sulla tratta Roma-Firenze, oltre che sulle tratte quadruplicate e già realizzate Milano-Treviglio e Padova-Mestre, compatibili con le geometrie del tracciato attuale.

Il progetto originario è del tutto insoddisfacente, perché presenta elevati costi (8,6 miliardi), che a consuntivo potrebbero raddoppiare, e ambientali decisamente sproporzionati, in cambio di un’offerta di servizi che si rivolge a un segmento della domanda di lunga distanza sicuramente minoritario visto che il traffico passeggeri è di natura pendolare/residenziale. C’è la possibilità di un’alternativa, visto che esiste anche un precedente: il vecchio progetto del Cipe prevedeva la variante di Montichiari, sostituito in corso d’opera con un tracciato meno oneroso di quasi il 30% e senza controversie tra committente e commissionario. La modifica comportava 32 km in meno di rete e di 900 milioni di costi in meno, eppure non risulta si sia verificata nessun contenzioso tra Cepav 2 e lo Stato: la Saipem, non ha battuto ciglio. È difficile pensare che chi ha ricevuto una commessa senza gara possa imporre penali in caso di cambio di progetto ma non di cancellazione dell’opera. Sarebbe ridicolo che Saipem controllata dalla Cassa Depositi e Prestiti ingaggi una vertenza contrattuale con Rfi controllata a sua volta dal Tesoro. Il progetto attuale ha anche rilevanti e dannosi impatti ambientali, anche se Toninelli ha detto che dovranno essere ottemperate le 300 osservazioni che fanno capo al recente Osservatorio ambientale.

Andrebbe aperto un dibattito sulla base dello studio costi-benefici, che ricorda che questa costosissima opera, al contrario della Torino-Lione, sarà tutta a carico dei contribuenti italiani.

 

Conte, il vincitore è più solo. Il gelo dei vice per il premier

Nel governo che sta assieme per contratto, adesso il premier è un po’ più solo. Anche se lui, Giuseppe Conte, ha portato a casa la pelle, cioè ha schivato la procedura d’infrazione. Però i due vicepremier, quelli che avevano già disertato il Consiglio dei ministri sull’assestamento di Bilancio, ostentano il broncio. Matteo Salvini e Luigi Di Maio ce l’avevano o dicono di avercela con le nomine europee deglutite da Conte. E lo fanno innanzitutto per coprirsi con le rispettive basi, certo, che sospettano aria di resa. Ma c’è anche altro. C’è il fatto che il risultato l’ha raggiunto l’avvocato, quello da Palazzo Chigi gli aveva intimato di finirla con la “campagna elettorale permanente”, altrimenti avrebbe salutato.

Era un modo per avere mani libere nel corpo a corpo con la commissione europea, e l’ha spuntata. Ottenendo anche quella “offerta” di 7,6 miliardi alla Ue, messa nero su bianco nell’assestamento su cui Di Maio e Salvini non hanno voluto mettere la faccia. Ma il dazio è la freddezza dei due leader che hanno potuto solo condizionarlo da fuori. O meglio ha potuto farlo soprattutto Salvini con il suo 34 per cento, che lo stop alla procedura lo celebra solo in serata, con qualche battuta alle agenzie: “È una bella giornata per l’Italia”. Ma molto prima era andato in picchiata su David Sassoli: “Bello, rispettoso, del voto degli italiani e degli europei avere un uomo di sinistra a presiedere il Parlamento europeo”. Una chiara stoccata a Conte. Poi c’è Luigi Di Maio, che su Facebook va di “ma anche”. Tradotto, prima fa mille complimenti al premier: “Le mie congratulazioni al presidente del Consiglio, è stata evitata una procedura di infrazione e siamo riusciti a portare a casa una casella importantissima come quella del commissario Ue alla concorrenza”. Però poi scomunica le nomine di Ursula Von der Leyen alla presidenza della commissione europea e di Christine Lagarde alla presidenza della Bce: “Sono due fedelissime di Merkel e Macron, non mi fa impazzire che Germania e Francia l’abbiano vinta ancora una volta, e spero che non diventino due regine dell’austerity”.

E non può essere il massimo per Conte, che nella partita delle nomine ha dovuto giocare di sponda anche con i Paesi di Visegrad e sbarrare la strade al socialista Timmermans, ovvero ha dovuto tenere conto delle pressioni di Salvini, l’azionista di maggioranza. Tanto che il leghista non picchia su Lagarde e Von der Leyen. E in serata deve precisarlo: “Io ero contrario a Timmermans ma Conte decide da solo”. Mentre su Twitter il presidente della commissione Bilancio Claudio Borghi deve difendersi da un bel po’ di utenti perplessiì: “Se volevano provare a rovinarci usando lo spread non mettevano la Lagarde”. E la traduzione finale è che il Carroccio fa finta di non essere entusiasta. Per tenere buoni i suoi tanti elettori anti-europeisti, e per non dare troppa sponda al Conte alto nei sondaggi. Invece Di Maio pare sempre indeciso sulla rotta. Però di certo da Palazzo Chigi rivendicano tutto: “Si è ottenuto il massimo possibile in una partita che si giocava a 28: quando si è iniziato a trattare il commissario alla concorrenza per l’Italia non era sul tavolo, e la Lagarde è favorevole al quantitative easing (il programma di acquisto della Bce dei titoli di debito dei Paesi europei, ndr), proprio come Mario Draghi”. E Timmermans? “Certi no arrivati dall’Italia non hanno agevolato”. Quanto a Sassoli, “era un’altra partita”.

Insomma va bene così al Conte schermato da Sergio Mattarella tre giorni fa: “Non vedo ragioni per aprire la procedura d’infrazione”. Ma adesso ci sono da scegliere il ministro per le Politiche Ue e soprattutto il commissario europeo, caselle destinate al Carroccio. E per la prima ieri sera pareva tornato favorito l’attuale ministro della Famiglia, Lorenzo Fontana.

Alitalia, Di Maio: “No pregiudizi su Atlantia si chiude entro il 15”

Per Alitalia non ci potranno essere più rinvii: bisognerà chiudere entro il 15 luglio prossimo, come da programma dopo la quarta proroga, per presentare le offerte e far decollare la Newco.

Il vicepremier e ministro dello Sviluppo Luigi Di Maio lo ha detto ieri ai sindacati nell’incontro al Mise, confermando che si sono fatti avanti tre nuovi pretendenti, il gruppo Toto, il presidente della Lazio Claudio Lotito e l’imprenditore colombiano German Efromovich di Avianca. E “in questi ultimi giorni è possibile che siano pervenuti altri interessamenti”, ha aggiunto, spiegando che Fs avrebbe circa il 35%, Delta tra il 10% e il 15% e il Mef attorno al 15%. La compagnia Usa, ha detto, potrebbe aumentare nel tempo la sua partecipazione. Di Maio ha confermato che “da Atlantia non abbiamo alcun atto formale, non ha presentato alcuna manifestazione di interesse ” e sottolineato che “non esistono pregiudizi” verso il gruppo “ma non si accettano ricatti”.

Ieri intanto i leader di Cgil, Cisl e Uil sono stati ricevuti da Giuseppe Conte e dallo stesso Di Maio: “Avvieremo un confronto in vista della manovra”, ha detto il premier. Decisione accolta con favore dai sindacati.

Il sogno di una difesa comune (e costosa)

Cosa c’è nella testa di Ursula von der Leyen, nominata presidente della Commissione europea in attesa di conferma dall’Europarlamento? Che visione ha dell’Europa? “Vogliamo rimanere transatlantici mentre diventiamo anche più europei, vogliamo che l’Europa si faccia carico di un peso maggiore in termini di potenza militare, così da diventare più indipendente e autonoma anche all’interno della Nato”. Il 16 febbraio 2018, alla Conferenza per la Sicurezza di Monaco, il ministro della Difesa tedesco ha pronunciato un discorso sulla sua idea di Europa.

Forza militare autonoma, ma anche cooperazione per gestire le minacce e arginare l’immigrazione: “A che serve liberare una famiglia di Mosul dai terroristi solo per lasciarla morire di fame? E a che scopo aiutare un contadino in Mali a installare un sistema di irrigazione se poi viene massacrato da al Qaeda?”. Dopo l’elezione di Donald Trump, nel 2016, Ursula von der Leyen è stata tra i più espliciti in Germania nell’indicare una contrapposizione strategica inedita tra Usa e Germania: agli Stati Uniti trumpiani fa comodo un’Unione europea debole e una leadership tedesca fragile. La Von der Leyen, da parte sua, ha aumentato la spesa militare a 43 miliardi di euro annui, che resta ben al di sotto dell’obiettivo del 2 per cento del Pil per i Paesi Nato.

Dopo la nomina alla Commissione, i critici tedeschi hanno rilanciato le critiche che l’hanno accompagnata in questi mesi: nonostante gli investimenti, la situazione della Bundeswehr resta al di sotto delle sue ambizioni, c’è un’inchiesta in corso per consulenze strane e perché i lavori sulla nave da addestramento Gorch Foch sono costati dieci volte il previsto, poi le polemiche perché la ministra ha detto che nell’esercito c’è un problema di leadership.

Sui temi economici, la Von der Leyen non si è pronunciata di recente, anche se ha un passato da ministro del Lavoro e della famiglia con riforme progressiste su asilo e congedi parentali. Anche se è considerata molto vicina a Wolfgang Schäuble, il presidente del Parlamento tedesco interprete delle posizioni più oltranziste nel dibattito sull’austerità fiscale, la Von der Leyen non sembra assimilabile allo schieramento dei “falchi”. La prospettiva maturata da ministro della Difesa l’ha portata a maturare la convinzione che serva un’Europa più forte. E la spesa militare, per quanto contestata da chi preferirebbe altri investimenti, è pur sempre spesa pubblica: il progetto di una difesa europea non si può finanziare senza un approccio almeno in parte espansivo ai conti pubblici.

C’è poi un aspetto molto tedesco della questione: in patria Angela Merkel ha lasciato la guida della Cdu ad Annegret Kramp-Karrenbauer che deve gestire la concorrenza a destra dell’euroscettica Alternative für Deutschland e che ha già compromesso i suoi rapporti con Macron. Questo crea le condizioni per la Von der Leyen, indicata dall’asse Merkel-Macron, per essere inevitabilmente meno organica al dibattito interno tedesco e meno ostaggio delle ossessioni rigoriste che lo attraversano. Vedremo.

“Negligenza” da 400 milioni: il caso Tapie pesa su Lagarde

Martedì prossimo, 9 luglio, sarà un giorno decisivo per l’ascesa di Christine Lagarde da direttrice generale del Fondo monetario internazionale a presidente della Banca centrale europea. I giudici di Parigi decideranno se condannare a tre anni (metà pena sospesa) Stéphane Richard, amministratore delegato del gigante delle tlc francesi Orange, per il suo ruolo nello scandalo Tapie. Richard era il capo dello staff di Lagarde quando la futura presidente della Bce era ministro delle Finanze d’Oltralpe e decise un arbitraggio che versò al controverso finanziere un risarcimento pubblico da 404 milioni. Per Tapie l’accusa chiede cinque anni.

Bernard Tapie, classe ’43, è un imprenditore da sempre legato alla politica: prima socialista, parlamentare e ministro con François Mitterrand, poi amico e sostenitore del presidente di destra Nicolas Sarkozy. Presidente del club calcistico Olympique Marsiglia che ha portato sulla vetta d’Europa nel 1993, Tapie s’è fatto otto mesi di carcere per aver comprato una partita. Ma adesso rischia ben più grosso e, con lui, molti altri.

Nel ’90 Tapie compra l’80% della tedesca Adidas, tra i leader mondiali negli articoli sportivi, grazie a fondi erogati dalle banche, tra cui l’istituto pubblico Crédit Lyonnais. Ma nel 1993, alle strette per i troppi debiti, Tapie chiede al Lyonnais di vendere Adidas. Poi contesta la vendita, sostenendo che gli è stato riconosciuto un prezzo troppo basso. Nel 1994 la sua holding non ripaga i debiti e il Lyonnais escute i pegni sulle sue attività. Nel 1995 Tapie fallisce.

Il finanziere sembra finito, ma nel 2007 riprende quota quando appoggia Nicolas Sarkozy, candidato della destra, alle elezioni presidenziali. Con Sarkozy presidente, la Lagarde è ministro delle Finanze (aveva già fatto parte dei governi de Villepin da giugno 2005, sotto la presidenza Chirac, al commercio estero e poi all’agricoltura) e istituisce un collegio arbitrale “indipendente” sul caso Tapie. Nel 2008 gli arbitri stabiliscono che il finanziere deve essere risarcito dal governo, perché nel frattempo il Crédit Lyonnais è scomparso. Lagarde spiega che lo Stato pagherà a Tapie tra 30 e 50 milioni. Ma a settembre 2010 emerge che il risarcimento pagato è stato molto più alto, 403 milioni, di cui una quarantina per “danni morali”. Nel 2013 Tapie viene arrestato per 96 ore con l’accusa di “truffa in associazione a delinquere”: emerge che uno degli arbitri ha avuto quattro rapporti di lavoro con il suo avvocato e che un altro è stato dirigente dello stesso partito in cui militava il finanziere. La Lagarde, interrogata come “testimone assistita”, cerca di difendersi sostenendo che la sua firma su alcuni documenti sia stata falsificata ma c’è un suo biglietto indirizzato a “Nicolas” con scritto “usami come vuoi”.

Il 5 luglio 2011 Lagarde viene nominata undicesimo direttore generale del Fondo monetario internazionale, ma ad agosto 2014 è sotto inchiesta a Parigi per il caso Tapie. A dicembre 2015 una sentenza d’appello stabilisce che il finanziere deve rimborsare i 404 milioni. Esattamente un anno dopo Lagarde, riconfermata a capo del Fmi, viene condannata dal tribunale dei ministri per “negligenza” per non aver impedito il pagamento. A far insospettire la Corte è il fatto che da ministro, ed esperta legale di controversie finanziarie, non tentò alcun ricorso dopo l’assegnazione dei fondi. Non viene però punita, evitando un anno di carcere e 15mila euro di multa.

A maggio 2017 Tapie perde definitivamente la guerra legale quando la Cassazione francese stabilisce che deve rimborsare i 403 milioni non essendo stato frodato dal Lyonnais. Ad aprile scorso, infine, l’accusa chiede le condanne di Richard e Tapie per lo scandalo Adidas. Come tante paia di sneakers, i grand commis di Parigi e il futuro capo della Bce sono ai piedi dei giudici.

Vicepresidenza M5S grazie ai socialisti, la Lega lascia l’aula

La prima grana di Sassoli è stata quella dei vicepresidenti dell’Europarlamento. Al primo scrutinio ne sono stati eletti 11 in rappresentanza di Ppe, S&D, Renew Europe, Verdi. Fuori invece un altro candidato dei Verdi e uno del Gue ripescati alla seconda votazione insieme all’eurodeputato M5S Fabio Massimo Castaldo che aveva ottenuto 143 voti (248 invece in seconda votazione). Alla fine, l’unico gruppo che non ottiene la vicepresidenza è quello “sovranista” di Identità e Democrazia che aveva candidato la leghista Mara Bizzotto. Il gruppo a quel punto ha deciso di lasciare l’Aula del Parlamento europeo in dissenso sulla elezione dei vicepresidenti. “Sassoli dopo aver professato democrazia, ha scelto di ostracizzare i partiti che hanno un’idea diversa”, ha dichiarato il presidente di Id Marco Zanni. “Sassoli ha creato un cordone sanitario contro di noi e dimostrato come non sia il presidente di tutti, è una dittatura dalla maggioranza”.

Il M5S fa notare che è la prima volta che un deputato che non appartiene a nessun gruppo è eletto vicepresidente. Mentre dal Pd assicurano che buona parte dei voti progressisti sono confluiti su Castaldo.

Autonomie, Salvini: “Ok modifiche in aula ma il testo sia in Cdm”

Un nuovo verticeverso l’autonomia differenziata. Ieri il presidente del consiglio Giuseppe Conte ha incontrato i due vicepremier e i ministri per discutere ancora una volta della questione delle autonomie regionali tanto care alla Lega: “Il testo sulle Autonomie è pronto da mesi, – ha dichiarato Matteo Salvini a margine dell’incontro – ora il Cdm dovrà approvare un’intesa che poi dovrà essere sottoposta alle Regioni, e poi il Parlamento dovrà discutere. Ci sono le commissioni che possono suggerire, modificare, per carità, però se dal Cdm non esce un testo, di cosa stiamo parlando?”. A stringere per il testo definitivo, oltre alla Lega, sono le tre Regioni che hanno avviato l’iter: Lombardia, Veneto e Emilia Romagna. Nei mesi scorsi però la frenesia di Salvini si è scontrata con le frenate del Movimento 5 Stelle, preoccupato dalla tenuta dei conti pubblici. Perplessità ribadite ieri da Stefano Buffagni, sottosegretario grillino alla presidenza del Consiglio: “Le proposte si costruiscono insieme: noi siamo per le cose fatte bene, preferiamo le cose fatte con buonsenso e non solo per un titolo sui giornali”.