“Cafiero De Raho deve allontanare Di Matteo”

Il procuratore della Direzione Nazionale Antimafia (Dna) Cafiero De Raho “non deve fare il gruppo (…) con Nino di Matteo”. Così il 7 maggio del 2019 Luca Palamara parlava con Cesare Sirignano, sostituto procuratore nazionale antimafia, per anni pm a Napoli. A Palamara, Nino Di Matteo, già nel pool di magistrati che si occupavano della Trattativa Stato Mafia, sembra non piacere affatto. E alla fine la sua pare essere una premonizione. Perché appena venti giorni dopo questa intercettazione, il 26 maggio, Di Matteo viene rimosso dal pool che deve coordinare da Roma le indagini delle Procure territoriali su un tema delicato come le “entità esterne nelle stragi e negli altri delitti di mafia”. Nessun nesso con le considerazioni espresse da Palamara. Il motivo dell’allontanamento risiede invece nell’intervista alla trasmissione Atlantide, concessa da Di Matteo il 18 maggio scorso.

Il magistrato siciliano finisce nel mirino della Dna per aver risposto alle domande del conduttore, senza però rivelare nulla che non fosse già noto. Tuttavia, nella Dna, si ritenne che le sue parole avevano comunque interrotto il “rapporto di fiducia all’interno del gruppo e con le direzioni distrettuali antimafia”. Il Fatto ha già ricostruito questo episodio il 27 maggio: fonti della Dna avevano spiegato che il Procuratore s’era mosso per tutelare i delicati equilibri interni al suo ufficio e ancor di più quelli con le Procure territoriali.

Quei fatti erano sì noti, ma Cafiero De Raho non ha gradito che Di Matteo raccontasse in tv la sua valutazione sui medesimi fatti. Il punto sarebbe che lo stesso Di Matteo sta valutando il senso da attribuire a quegli episodi con i colleghi del suo gruppo nella Dna e con quelli delle Procure.

Quel che Palamara auspica – anche se nel momento in cui parla i gruppi della Dna sono stati già formati da tre mesi – si realizza comunque: Di Matteo non è più nel pool.

L’intercettazione emerge dagli atti depositati dalla Procura di Perugia nell’ambito di un’inchiesta in cui viene contestata la corruzione a Palamara ma che si è rivelata un terremoto nel Consiglio Superiore della Magistratura: il trojan (un software capace di fare intercettazioni ambientali) installato sul cellulare del pm ha svelato le trattative tra toghe e politica (i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri, entrambi non indagati) sulla nomina del procuratore capo di Roma. Tra le intercettazioni trascritte c’è anche quella del 7 maggio tra Palamara e Sirignano (solo “Cesare” nella trascrizione della Finanza), quando il pm romano, già presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, parla di “Federico” – il riferimento a Cafiero De Raho è evidente – e dà anche un’altra indicazione: “Ridimensionare Barbara”, che non deve andare “su posti importanti”. Il riferimento questa volta sembra essere alla Sargenti, procuratore della Dna, ritenuta troppo vicina all’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Ma anche questa indicazione di Palamara resta confinata nelle intercettazioni e nella conversazione di quelle ore: Sargenti ricopre ruoli di rilievo all’interno della Dna e, di conseguenza, è palese che l’indirizzo di Palamara sia diametralmente opposto a quello del procuratore De Raho. Mentre nel resto della conversazione con Sirignano non emergono apprezzamenti positivi su Di Matteo.

Ecco alcuni stralci dell’intercettazione.

Palamara (P): Sì, però pure Federico non deve fare il gruppo (incomprensibile)… con Nino Di Matteo dentro.

Cesare (C): Io su questa cosa, una cosa fatta semplicemente per verificare.

P: Innanzitutto devi fare un’altra cosa … Federico deve ridimensionare pure Barbara! C: Colpa tua! (…). E come la ridimensioni.

P: (…) Barbara di che si occupa famme capì…

C: Barbara si occupa di Venezia, mo vuole andare pure su Milano.

P: (…) Mah, lasciala perdere li!

C:

P: Non la fa andà su posti importanti.

Ma il vero interesse di Palamara, in quel momento, non è tanto la Dna, quanto la futura nomina del procuratore di Roma. Infatti poco dopo, con Sirignano, aggiunge: “Eh, ma all’epoca non era così la situazione (…) Sono venute fuori delle cose che non pensavo (…) Vabbè mo andiamo con ordine (…) La Dna, mo non c’abbiamo tempo … dobbiamo risolvere ste grane (…).Adesso c’hai l’emergenza che è il Procuratore di Roma e due Aggiunti… lo capisci o no che devo chiudere questo!”.

“Pignatone mi parlò del fascicolo inviato ai pm di Perugia”

“Mi professo innocente rispetto ai fatti che vengono contestati. Per me oggi è la liberazione da un incubo che inizia nel novembre 2017…”. La resa dei conti di Luca Palamara inizia alle 16.55 del 30 maggio. Il pm si trova negli uffici della Procura di Perugia: è accusato di corruzione per le utilità ricevute dall’imprenditore Fabrizio Centofanti, che gli avrebbe pagato viaggi e soggiorni all’estero.

Palamara è pronto a ribattere punto su punto, a rivelare dettagli della sua vita privata, ha già ritrovato tracce di qualche bonifico utile alla sua difesa. Ma da saldare, qui, non ci sono soltanto gli alberghi. Il primo dei conti che Palamara intende saldare è quello con il suo vecchio capo, l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, contro il quale punta subito il dito.

Ecco l’incipit della versione di Palamara: “Per me oggi è la liberazione da un incubo che inizia nel novembre 2017, allorquando mi viene comunicato in via riservata e amichevole da Pignatone che era stata trovata la ricevuta di un soggiorno in compagnia di Adele Attisani (una sua amica, ndr)”. La ricevuta era stata acquisita dalla Finanza in altre indagini in corso a Roma su Centofanti. Ma perché il pm ora indagato tira in ballo l’ex procuratore? Non sappiamo se Palamara stia parlando motivato da rancori, vendette o quanto di vero possa esserci. Toccherà alla Procura di Perugia scoprirlo. Di fatto però con questo verbale Palamara ingaggia un’altra battaglia.

“Centofanti frequentava tutti: Finanza, Arma…”

“Centofanti – continua il magistrato riferendosi al suo presunto corruttore – l’ho conosciuto nel 2008 e mi è stato presentato da mia sorella (…). Ho frequentato Centofanti anche in ambiti istituzionali e la sua credibilità nell’amicizia era rafforzata dal fatto che la frequentazione riguardava anche il presidente della Corte dei conti Raffaele Scutieri, persona stimata, con Pignatone e sua moglie, con ufficiali della Guardia di Finanza e dei Carabinieri, giudici ordinari”. Poco dopo Palamara precisa: “Dal febbraio 2018, anche alla luce di quello che mi era stato detto da Pignatone sul soggiorno a Fonteverde, io ho iniziato a raffreddare i rapporti con Centofanti”.

Il secondo incontro con Pignatone

Ma non è finita. Palamara racconta di un secondo incontro con l’ex procuratore capo di Roma: “A maggio 2018 – spiega – io seppi da Pignatone che un fascicolo era stato inoltrato a Perugia, che si trattava di pagamenti effettuati da Centofanti inerenti alcuni soggiorni. Aggiunse che non essendoci alcuna controprestazione, io dovevo stare tranquillo. In quel periodo tutti erano venuti a conoscenza dei contenuti di tali accertamenti e ne parlavano. (…) Per me fu un vero stillicidio. (…) Un momento cruciale fu il 25 settembre 2018 in cui fu eletto Ermini come Vicepresidente del Csm (in realtà Ermini fu eletto il 27 settembre, ndr)”.

Proprio Il Fatto ha rivelato per primo, il 27 settembre scorso, l’esistenza di un fascicolo sui rapporti Palamara-Centofanti arrivato a Perugia. E il pm non sembra aver gradito: “Quella sera (…) mi chiamò Marco Lillo de Il Fatto e mi disse che il giorno dopo avrebbe scritto della trasmissione del fascicolo su di me a Perugia. (…). Gli dissi che non era corretto divulgare tale notizia come una sorta di ritorsione per l’elezione di Ermini. Lui mi disse che l’avrebbe scritta perché ormai la vicenda era nota a tanti. Attaccai i1 telefono (…) e chiamai Cascini (Giuseppe, consigliere del Csm, estraneo all’inchiesta, ndr). Gli dissi che era una porcheria fare uscire la notizia in concomitanza con la nomina di Ermini”.

A questo punto Palamara dice di aver contattato anche Pignatone “per rammaricarmi. Gli riferii della chiamata ricevuta da Lillo e lui mi disse che avevano chiamato anche lui e chiedendogli della cena con Centofanti (…). Qualche giorno dopo mi vidi con Cascini verso ottobre 2018 e parlammo di tale vicenda. Lui mi chiese di non entrare nel merito e io gli spiegai la mia delusione umana, perché avevano pensato che io avessi potuto fare degli illeciti. Lui mi spiegò che in realtà chi mi voleva danneggiare era stato Centofanti, perché loro erano andati a Fonteverde per trovare il soggiorno di un assessore e trovarono il mio”.

“Si diceva: Palamara sta seduto su una bomba”

Passano mesi e il 29 maggio 2019 alcuni quotidiani danno notizia degli sviluppi dell’inchiesta perugina: Palamara indagato per corruzione. Il pm dice di averne parlato con il consigliere (dimesso) del Csm Luigi Spina, ora accusato di rivelazione di segreto al collega. “Ciò che Spina mi riferisce lo sapevano tutti, perché quando io faccio la domanda da aggiunto a novembre 2018 e da lì si scatena l’inferno. Si diceva che Palamara era fuori gioco, sta seduto su una bomba ad orologeria”.

Il viaggio a Dubai e i pagamenti

Al di là di queste ricostruzioni, è la corruzione l’accusa dalla quale deve difendersi Palamara: “In merito ai viaggi posso dire che ognuno può attraversare un periodo difficile sul piano personale. Ci sono stati momenti di evasione legati a viaggi ed io, a lui che era un amico, chiedevo una cosa come favore personale, ovvero, non far risultare che io fossi in giro con una persona diversa da mia moglie”. E ancora: “Gli chiedevo di non far risultare che ero io a prenotare e che non risultasse la stanza a mio carico. Inoltre, non volevo far risultare pagamenti con la mia carta di credito. Il regolamento del prezzo avveniva successivamente”.

I magistrati perugini chiedono anche di altri viaggi, come il “soggiorno del gennaio 2015, con ‘sconto’”. “Non sapevo per come mi dite che lo sconto venne pagato da Centofanti. Né so per come mi dite che la cena di Capodanno sarebbe stata pagata da Centofanti. (…) Credevo di aver pagato un pacchetto completo”. “In merito al viaggio a Dubai chi ha pagato?”, chiedono i magistrati. “Sul telefono troverete l’acquisito del biglietto per Dubai che io ho pagato con la mia carta di credito. Mi dite che la mia spiegazione trova riscontro in atti. (…) In merito ai pagamenti che mi dite essere avvenuti a Dubai da parte di Centofanti, io non so cosa rispondervi, non stavamo sempre insieme”.

“Chi sapeva del trojan temeva di parlare con me”

Il 31 maggio Palamara torna dai pm di Perugia per alcune precisazioni. Una molto delicata: “Lei sta dicendo che a Roma si sapeva che lei era intercettato?” chiedono i magistrati. Il pm ora indagato risponde: “Di certo a Roma girava la voce che io avessi il trojan, e ne parlammo con Ferri (Cosimo, parlamentare del Pd, non indagato, ndr) il quale lo aveva saputo da alcuni consiglieri ai quali Erbani (consigliere di Sergio Mattarella, estraneo all’inchiesta, ndr) aveva riferito che qualcuno era stato infettato dal trojan, e io notavo che in tanti temevano di parlare con me”.

È rinviata la bufera

Ciò che paventavamo, inascoltati, si è tragicamente verificato ieri, con l’infausto annuncio che anche stavolta, come già a dicembre, la Ue non aprirà alcuna procedura d’infrazione contro l’Italia. E subito il nostro pensiero corre, affettuoso e solidale, ai Cavalieri dell’Apocalisse che già ci avevano fatto la bocca, confondendo le loro speranze con la realtà. Sappiano che siamo con loro e li scongiuriamo di astenersi da gesti estremi di autolesionismo: hanno ancora molto da dare al mondo del giornalismo fantasy. A novembre era stato il leggendario Federico Fubini del Corriere, idolo assoluto, a dare per certa la crocefissione del governo giallo-verde in sala mensa: “Deficit, pronta la procedura Ue”, con tanto di data (“il 21 novembre”: mancava soltanto l’ora esatta). Poi purtroppo sappiamo come andò: quel burattino di Conte volò a Bruxelles e quei mollaccioni di Moscovici e Juncker si fecero intortare, senza neppure chiedere il permesso a Fubini.

Questa volta, per non farsi anticipare dal Corriere, era stata Repubblica a bruciare la concorrenza. Il 4 maggio Alberto D’Argenio, che è un po’ il Fubini di largo Fochetti, sparava: “Europa, pronta la stangata”. E il 5 giugno: “E dall’Europa arriva la bufera”. Un plagio del celebre motivo di Renato Rascel del 1939 contro l’imminente guerra mondiale (“È arrivata la bufera, è arrivato il temporale, chi sta bene e chi sta male, e chi sta come gli par”). Ma molto più tragico: “Ecco il documento che inchioda il governo: tutto da rifare sui conti… Un bagno di realtà dopo mesi di propaganda… C’è l’avvio dell’iter della procedura per debito a carico dell’Italia, una gabbia per evitare che Salvini e Di Maio mettano ulteriormente a rischio il Paese e l’area euro” (massì, abbondiamo: adbondandis adbondandum!), “L’Italia è fuori da tutti i parametri Ue coperti dal rapporto che porterà all’apertura della procedura sui conti del 2018” (cioè i frutti delle politiche del governo Gentiloni, ma questo Repubblica si scordava di precisarlo, anzi diceva che “non è vero”, anche se il primo bilancio giallo-verde risale al Natale 2018). La sentenza – condanna a morte per fucilazione – era scontata: “La Commissione oggi raccomanderà l’apertura della procedura, poi spetterà alle capitali confermarla”. Nella speranza che i mitici “sherpa dei governi” dessero un bel “via libera secco”, anziché “negoziare con Roma”, nota ladrona. Ma una cosa era già certa: “Non bastano le promesse di Tria di ricavare risparmi dal reddito di cittadinanza e quota 100 sul 2019 e di trovare (generiche) misure alternative all’aumento dell’Iva. L’Europa vuole i fatti”.

Invece ieri, guarda un po’, s’è fatta bastare le promesse di Tria sui risparmi da reddito e quota 100 e le (generiche) misure alternative all’aumento dell’Iva; e così i mercati, con lo spread sotto quota 200, punto più basso dal 2017. Ma non precorriamo. La Repubblica della Procedura proseguì con amorevoli consigli all’Ue sulla linea dura, un po’ come i secondi che aizzano i pugili da bordo ring: “Debito e Pil, Italia ko. E adesso Bruxelles ci può commissariare”, “Capolinea Italia”, “Peggio della Grecia”, “Da Bruxelles niente sconti”, “La Ue non si fida dell’Italia: ‘Subito misure antideficit’. L’Eurogruppo freddo con Roma, parte in salita il negoziato”, “La furbata da un miliardo”, “Procedura d’infrazione più vicina”. Memorabile l’analisi di Andrea Bonanni il 23 giugno sulla “sceneggiata del governo” accolta da Bruxelles con “occhi esterrefatti” e “solide ragioni” per punire l’Italia: sai le risate sull’“attivismo frenetico di Conte che non ha prodotto un solo elemento utile a scongiurare questa minaccia”. Il premier-marionetta aveva inviato una lettera alla Ue, ma “la Commissione e gli altri Stati membri non si sono neppure degnati di rispondere” a quel “gesto gratuito, irrilevante, probabilmente controproducente”. Ben altro ci voleva: subito una “manovra correttiva nel 2019”, subitissimo “il bilancio che intende approvare nel 2020”. Invece niente, solo le “spacconate” di Conte e la “frenetica ‘ammuina’ ad uso e consumo del dibattito interno” che autorizzava un sospetto: “che Conte non abbia la minima intenzione di evitare la procedura d’infrazione” in vista della “campagna elettorale anticipata” che “offrirebbe a Lega e M5S la possibilità di scaricare sull’Europa la responsabilità della loro inettitudine e dei loro fallimenti”. Poi Repubblica annunciò che Conte, disperato, implorava un “rinvio a ottobre”. Poi che la procedura era “rimandata a ottobre”. Poi che Conte “non vuole il rinvio a ottobre”.

Solo il Giornale di Sallusti riusciva a eguagliare cotanta furia: “Governo accattone”, “Conti a picco. Qui naufraghiamo noi”, “Economia a rotoli. Governo fallito”, “Il governo finisce qui”, ”Ultimi in tutto. L’Italia affonda”, “La ritirata. Governo in fuga”, “Qui crolla tutto”, “Non c’è più un euro”. Così come la sua versione satirica, Il Foglio: “Procedura d’infezione”, “Zero nel mondo, zero in Europa”, “Stiamo già uscendo dall’euro”, “Occhio: l’Italia è il maiale d’Europa”, Titoli spiazzanti persino per Feltri, che su Libero rispondeva come poteva: “Conte tirerà le cuoia”, “Il governo chiede l’elemosina”, “Conte pronto a ricevere schiaffi”. Più staccati, e trafelati, Il Messaggero (“Spread peggio della Grecia”, “Ora la Grecia è più vicina”) e La Stampa (“L’Europa boccia l’Italia, procedura l’infrazione più vicina”). Scavalcato in catastrofismo, Fubini sul Corriere faticava a tenere il passo: “Il livello record del debito, come ai tempi di guerra”, “Il deficit rischia di crescere fino al 5% nel 2021”.
Ieri, la ferale notizia: non se ne fa nulla manco stavolta. Nelle migliori redazioni fioccano i primi suicidi. È rinviata la bufera, è rinviato il temporale, chi sta bene, chi sta male e chi piange per lo spread.

Addio a Ennio Guarnieri: eclettico maestro della luce

Tra i nostri direttori della fotografia il piano nobile lo occupava lui, Ennio Guarnieri. Nato a Roma il 12 ottobre 1930, è morto a 88 anni a Licata (Agrigento): “Il mondo del cinema perde un grande artista e, personalmente, io perdo un amico”, ha dichiarato Pippo Zeffirelli, uno dei due figli adottivi del regista recentemente scomparso. Guarnieri e Zeffirelli collaborarono più volte, con profitto: Fratello sole, sorella luna, che nel 1972 valse a Ennio il primo Nastro d’argento, bissato con La Traviata nel 1983, quindi Otello, Storia di una capinera e Callas Forever, l’ultimo del maestro (2002). Gavetta alla fine degli anni Quaranta, assiste Otello Martelli sulla Dolce vita di Fellini – ritroverà Federico negli spot pubblicitari, quali Alta società Rigatoni per Barilla – e provvede la giusta temperatura all’estetizzante Mauro Bolognini, non senza regalare alle dive Virna Lisi e Sylva Koscina primi piani effusi e soffusi: Guarnieri fa della luce cesello, e promessa di bellezza. Tecnicamente non è da meno, sicché si può permettere erranza eclettica, da Ferreri (La carne) alla Wertmüller (Travolti da un insolito destino…) e De Sica (Il giardino dei Finzi-Contini). Un grande, Guarnieri.

“Dimmi come scopi e ti dirò chi sei”. Scarpa e il sesso, 16 anni dopo

“Dimmi come scopi e ti dirò chi sei” si legge in Kamikaze d’Occidente di Tiziano Scarpa, libro uscito nel 2003 e oggi tornato in libreria con una nuova edizione riveduta per minimum fax. Si potrebbe partire da questo oracolare “Dimmi come scopi, e ti dirò chi sei. Anzi: fammi vedere come scopi, e ti dirò chi sei” per indagare l’urgenza che sottende a questo romanzo (definizione di comodo per un testo che sfugge a qualsivoglia classificazione).

Alla sua uscita si sprecarono riserve sull’affresco erotico dell’autore veneziano, su questa sua insistita descrizione di amplessi, di sodomie e fellatio sviscerate senza pudore, su quella che qualcuno in un azzardo definì “un’apoteosi narrativa dello sperma”. Più di un recensore confessò il suo tedio invincibile per trecento pagine filate di sesso in tutte le declinazioni possibili. In effetti nella postfazione a questa nuova ristampa Scarpa riconosce in tal senso “una ricorsività da performance di arte contemporanea”. La domanda è perché mai l’autore ci accompagni in questa lunga panoramica di eros fallocentrico. Lo stesso Scarpa è consapevole del rischio se sempre nella sua postfazione lamenta: “So bene che in quest’epoca, curiosamente, se una donna scrive di sesso si plaude al suo coraggio, se lo fa un uomo gli si dà del porco”.

L’io narrante di Kamikaze è uno scrittore di media celebrità che arrotonda le sue entrate prostituendosi con alcune ammiratrici. Il discrimine appunto è capire perché Scarpa metta in scena i corpi. Lo scrittore, premio Strega nel 2009 con Stabat Mater, è convinto che non si possa afferrare la realtà senza guardare dentro l’incanto e l’abiezione del desiderio. Il racconto della corporalità è utile a smascherare i meccanismi della società organizzata. Non a caso l’altro artificio messo in campo nella narrazione è che lo scrittore protagonista venga invitato da un committente italiano convertitosi al verbo della potenza cinese a scrivere un resoconto della sua propria vita destinato al mercato orientale per illustrare la decadenza della civiltà occidentale. Nessun pericolo giallo paventato, solo l’esigenza drammaturgica di un mondo fuori dal nostro mondo capace di osservare con sguardo impietoso la nostra corruzione. Il libro restituisce il clima dell’estate del 2001, a cavallo tra G8 di Genova e l’11 settembre e muove da quella temperie ideologica dei primi anni Zero, ripiegata sullo scontro di civiltà. Ecco allora che l’insistita radiografia dei corpi non è mai mera pornografia ma un memento sulla pervasività del denaro e del consumismo (cosa rappresentano i film del filosofo Guy Debord di cui è spettatore l’io narrante se non la chiave didascalica per denunciare la mercificazione di ogni aspetto della vita quotidiana?). Scandito da una forma diaristica più narrativa e da “schede” cioè micro-saggi di costume spesso acuti e sempre paradossali, il romanzo dell’ex cannibale Scarpa sembra mettere un piede fuori dal perimetro letterario. In altri termini non c’è distinzione tra l’autore e l’io narrante, tutto si confonde e si sovrappone come se l’autofiction fosse a un tempo una spudorata confessione di sé e a un tempo la rappresentazione teatrale della propria confessione di sé. Del resto, il protagonista che stigmatizza le dinamiche dell’editoria o della Mostra del cinema di Venezia è Scarpa medesimo che fustiga i vizi del mondo culturale nel suo Cos’è questo fracasso (Einaudi, 2000).

Kamikaze d’Occidente cattura il lettore in una complicità inedita, in una sorta di mutuo riconoscimento che spazza via qualsiasi diaframma. Il lettore-spettatore alla fine sale sul palco del libro e sgomita con Scarpa per recitare le sue stesse verità su “l’esaurimento nervoso dell’anima che non ne può più della nostra specie spensieratamente suicida”.

Lsd, funghetti, veleni e affini: Pollan “cambia la sua mente”

“Voglio raccontare questa cosa al mondo. Ha cambiato la mia vita. Tutti la devono fare”. A parlare, alla fine degli anni 50, era Cary Grant, reduce dalla somministrazione controllata di Lsd per placare i demoni interiori.

Incuriosito dall’ampia letteratura controculturale e clinica sulle droghe psichedeliche e dal Rinascimento degli studi sull’Lsd dopo una sperimentazione dell’università John Hopkins nel 2006, Michael Pollan, autore di quel miliare Il dilemma dell’onnivoro (Adelphi) dopo il quale a nessun esemplare di homo sapiens dovrebbe esser più possibile mangiare un grammo di carne da allevamenti industriali, compone un poderoso trattato sull’assunzione di acidi: Come cambiare la tua mente, appena pubblicato da Adelphi (traduzione di Isabella C. Blum).

Se la comune coscienza in stato di veglia non è che “una delle forme possibili di costruirsi un mondo”, le droghe da trip permettono di sperimentare uno stato di “diversità neurale” e contribuire al “microrisanamento” (tecnica di utilizzo dei funghi per bonificare aree inquinate) della mente umana. Se Freud pensava che i sogni fossero la via regia per l’inconscio, gli psichedelici possono esserne l’autostrada.

Pollan percorre l’America in cerca di psiconauti, fricchettoni e studiosi new age che lo iniziano alle sublimità della psichedelia: assume Lsd ingoiando un quadratino di carta assorbente, mangia un fungo di 15 centimetri pieno di psilocibina, inala veleno estratto dalle ghiandole di un rospo. Precipitando in scenari naturali o in architetture digitali piranesiane, sperimenta una realtà immediata, come creata ex novo. L’esperienza, ineffabile, ruota sempre intorno a una specie di dissoluzione dell’ego, “quel nevrotico interiore che insiste a condurre lo spettacolo interiore”. Anche la prosa si fa rarefatta, e ricorda le pagine splendide di Walter Benjamin sull’hashish e quelle dionisiache di Antonin Artaud e Aldous Huxley sul peyote. “Persi qualsiasi capacità avessi ancora conservato di distinguere soggetto e oggetto, di discriminare tra quello che restava di me e la musica di Bach. Invece della ‘pupilla trasparente’ di Emerson, senza ego e tutt’uno con ciò che contempla, io divenni un orecchio trasparente, indistinguibile dal torrente di suoni che inondava la mia coscienza”. L’autore de La botanica del desiderio – storia elegiaca della coevoluzione tra specie umana e mela, tulipano, marijuana, patate, vaniglia, cacao – è colpito dal senso di fusione panica con la natura, e si domanda se i trip conducano alla rivelazione mistica, se siano una corsia privilegiata per entrare in contatto col “mistero tremendo” della vita e della morte. Purtroppo Pollan, saggista prodigioso, precisissimo nella parte neuroscientifica e lirico in quella autobiografica, trascura la dimensione sociale del Rinascimento psichedelico: non vede le sindromi di ansia e di dominio dell’ego come emersione nell’individuo di tare sociali legate al qui e ora; non indaga nei “rapporti di produzione” della psicosi, come hanno fatto invece Foucault, Deleuze e Guattari; non approfondisce la dimensione epocale della perdita di spiritualità e trascura la psicopatologia della vita quotidiana e il disagio della civiltà digitale.

Il punto è: a cosa serve cambiare la mente senza cambiare la realtà che inaridisce la mente? Non è, questa assunzione laica delle droghe dei riti dei nativi e della controcultura beat, una forma di doping collettivo? Il trip clinicamente controllato, oltre a essere un potenziale strumento di dominio, risponde all’esigenza di dotare di migliori performance una macchina umana in un panorama desolato. L’uso di mescalina e Lsd negli anni ‘70 si accompagnava alla contestazione; oggi che il conflitto sociale è sopito, a quali aziende, multinazionali o strutture di ricerca sarebbe in mano? Aprire la mente e sganciarla dai suoi legacci non servirà a liberare l’umanità, se i legacci sono parte del dogma occidentale, consustanziali alla società neoliberalista. È come mettere gli occhiali rosa a un moribondo, anzi a un dannato.

Si ride meglio nei momenti tragici (sapete farlo, però?)

Pubblichiamo uno stralcio dell’intervento di oggi pomeriggio alla Milanesiana di Gino Vignali e Michele Mozzati, meglio noti come Gino&Michele.

La cultura di tutti i tempi è sempre stata affascinata dal Riso. Platone interrogandosi sul perché il pubblico ridesse tanto vedendo le commedie di Aristofane ammetteva di non conoscerne il motivo e nella Repubblica concludeva quasi con risentimento per non essere venuto a capo delle cause: “Non bisogna essere amanti del riso. Infatti quando qualcuno si lascia andare a una forte risata, ciò provoca un forte sconvolgimento del suo animo”. Saltando un paio di millenni e arrivando ai giorni nostri, Umberto Eco ha scritto in una prefazione a un libro di Giorgio Celli che “il Comico è una faccenda difficile: a capirlo si è risolto il problema dell’uomo sulla terra”.

Eppure il Riso è una componente essenziale nella vita di ogni essere umano. Lo stesso Eco cita Joyce e dice: “È il musical, non la poesia, il vero senso critico della vita”. Se per musical intendiamo in senso lato il varietà, il modo leggero, forse sarebbe meglio dire lieve, di affrontare le cose importanti, ci è chiaro come il Riso è quasi un bisogno primario.

Il Riso è forse davvero soprattutto una cosa naturale, non troppo teorizzabile. Il Riso non si impara perché non si può insegnare. Non avendo alle spalle una teoria accertata e condivisa non può avere le caratteristiche della disciplina didattica. Al massimo si possono trasferire tecniche, affinare predisposizioni naturali, ma poco di più, se non nulla.

Eppure il Riso non è componente trascurabile nella vita sociale, culturale, artistica di un paese. Attraverso il riso su può costruire una alternativa in positivo, anche sociale. In questo senso il riso può essere speranza, sia che i suoi obiettivi portino alla costruzione di un futuro utopistico, sia che invece condizioni una costruzione anche immediata che porti a un miglioramento sociale e, perché no, politico.

Ma, trattando di Riso, le contraddizioni non si fermano qui. Per esempio, è da un lato allarmante, dall’altro affascinante, riflettere sul fatto che spesso Dramma e Riso procedono in simbiosi, quasi fossero due facce di una stessa medaglia.

Non che il Dramma generi il Riso, ma è innegabile che i momenti più tragici nella storia dell’umanità abbiano accresciuto nell’essere umano il bisogno di svago, la domanda di ridicolo. Come se reagissimo alle avversità. Ionesco dice a questo proposito: “Dove non c’è senso dell’umorismo, non c’è umanità; dove non c’è senso dell’umorismo (questa libertà che ci possiede, questo distacco di fronte a noi stessi) c’è il campo di concentramento”. In Germania, durante la Repubblica di Weimar, che precedette la tragedia del Nazismo, il cabaret tedesco grazie a Karl Valentin e Bertolt Brecht conobbe uno dei momenti più esaltanti dell’intera storia della cultura del Novecento.

In Italia durante il Fascismo giornali satirici come Il Marc’Aurelio e Il Bertoldo di Cesare Zavattini ebbero un vastissimo seguito.

Lasciamo a voi gli approfondimenti per capire se questa ricerca di comicità sia più legata a un senso consolatorio o alla costruzione di un futuro diverso e migliore. O forse a tutt’e due.

Peter Berger, un sociologo dell’Università di Boston, sostiene che se un paradiso esiste deve essere un luogo dove si ride, dove approderanno gli scampati all’inferno della mancanza di humour e al purgatorio della seriosità. E chiude l’argomento con una barzelletta, per noi lontana come riferimento geo-culturale e tuttavia ben comprensibile, in cui la Vergine Maria appare a una pastorella canadese del francofono Quebec la quale, rivolgendosi alla Madonna, le dice: “Vous etes magnifique! Je vous adore…” E Maria: “Sorry, I don’t speak french”. A questo punto, dopo questa premessa, appurato che il riso oltre a essere una cosa concreta può essere anche davvero un serio (permetteteci la contraddizione) modo di affrontare il futuro e quindi una speranza, molliamo il colmo. Non si può teorizzare oltre. Come fanno Gino e Michele a spiegare il Comico se non sono riusciti a farlo completamente Platone, Pirandello, Baudelaire, Freud e Eco? Oltretutto noi non siamo teorici, ci siamo sempre occupati di comicità ma sporcandoci le mani, impastando battute e gag senza leggere manuali, senza mai porci il problema di fissare le regole che, in maniera naturale, usavamo. Quindi passiamo alla pratica, che come sempre funziona molto di più di mille teorie.

Lo strano incendio del sottomarino russo

Sotto le onde artiche al largo della penisola di Kola sono morti 14 marinai russi. L’incendio è scoppiato nel ventre di ferro del sottomarino a propulsione nucleare AS-12, ora ormeggiato alla base navale di Severomorsk nel mare di Barents. La bandiera bianca con la croce blu della Flotta del Nord verrà calata dall’asta per essere stesa come un lenzuolo sulla bara degli ufficiali morti. È la nuova, ultima tragedia nazionale russa.

L’incendio è scoppiato alle 20,30 di lunedì, ma il Cremlino decide di rivelarlo un giorno dopo. Comincia a lampeggiare la parola pozhar, incendio, sui social russi. La causa del disastro registrato a seimila metri sott’acqua la fornisce l’unica voce possente del ministero della Difesa: “L’incidente è avvenuto in acque territoriali russe, il mezzo era impegnato in missione di ricerca scientifica, i marinai sono morti per avvelenamento della combustione di oggetti”, ma non è specificato quali. Una verità forse frettolosa, che sembra sommersa come la tragedia e al rogo finiscono anche le fonti non ufficiali. Il sito giornalistico Severomorsk Life aveva riferito di aver saputo alle 11 di lunedì sera dell’esplosione nel sottomarino e di vittime trasferite in ospedale, riferisce Novaya Gazeta, che ha fatto squillare i telefoni dei reporter tra i ghiacci a nord. Hanno risposto: “Dal Ministero ci hanno chiesto di pubblicare solo la versione ufficiale, non possiamo più raccontare altro per ovvi motivi”.

Che si tratti del sommergibile AS-12 per le operazioni di intelligence il Cremlino non lo conferma ma lo fanno i media non governativi. Nome in codice AS-12 e soprannome Losharik. Varato nel 2003, ufficialmente “per ricerca, salvataggio e operazioni militari”, non ha armi a bordo, dicono i russi, ma è “un apparato di sabotaggio” dicono gli americani. L’AS-12 viene utilizzato per la distruzione di infrastrutture subacquee e danneggiare cavi marini, ha detto il Pentagono anni fa, quando Washington accusò Mosca di intercettare e disturbare le sue comunicazioni.

Nel 2008 in un incendio scoppiato nel sottomarino nucleare Nerpa morirono 20 marinai. Ma nella memoria dei russi sono altre, più antiche ombre ad aleggiare su questo nuovo incidente dell’AS-12 alle latitudini siderali di Murmansk. Nello stesso mare, sotto la bandiera della stessa flotta del Nord, 19 anni fa, dopo due esplosioni interne, si inabissò il sottomarino Kursk insieme alle 118 vite giovani e russe che aveva a bordo. Seguirono giorni di silenzi ed eclissi delle notizie sulla tragedia, calvari di incongruenze riguardo le spiegazioni per i ritardi del mancato salvataggio. Era l’agosto del 2000, il Kursk divenne simbolo infuocato del collasso lento delle forze dell’esercito che era stato sovietico ed era al macero. Scorreva il governo del primo Putin, che oggi ha invece immediatamente convocato una riunione d’urgenza annullando tutti gli altri impegni in programma. La ricerca della verità potrebbe arenarsi in questi giorni come in quelli di allora. Celebre è però rimasta la risposta che il presidente russo diede nel 2000 al conduttore Larry King quando gli chiese: “Mi dica, cosa è successo al Kursk? “È affondato”.

Lambert, i medici dicono basta alla nutrizione forzata

Vincent Lambert può morire in qualsiasi momento. Ieri i medici hanno staccato le sonde che lo hanno alimentato e idratato per anni, mantenendolo in vita. “La procedura di interruzione dei trattamenti prende il via oggi”, ha annunciato il dottor Sanchez dell’ospedale di Reims. Che “l’accompagnamento di Vincent possa farsi nel modo più sereno, intimo e personale possibile”, ha scritto il dottore in una mail ai familiari del suo paziente. Forse è l’ultimo atto di una tragedia iniziata più di dieci anni fa e il cui epilogo sembrava diventare sempre più inevitabile dopo l’ultima, definitiva, sentenza della Corte di Cassazione che, venerdì scorso, ha reso di nuovo possibile lo stop delle cure.

Ora la Francia resta in attesa. L’infermiere di 42 anni è stato vittima di un incidente stradale nel 2008 da cui non si è mai davvero svegliato. Per i medici si trova in uno “stato vegetativo irreversibile”. Nel 2013, non riuscendo a “riportare alla vita” il paziente, i dottori con l’accordo di Rachel Lambert, la moglie di Vincent, anche lei infermiera in psichiatria, hanno deciso di staccare le macchine. Vincent non aveva lasciato nulla di scritto sul suo fine vita, ma ne aveva parlato con Rachel e lei sostiene che il marito non avrebbe mai voluto vivere così, bloccato ad un letto. Per Rachel, interrompere le cure vuol dire rispettare la volontà del marito. Sei degli otto fratelli e sorelle di Vincent si sono schierati con lei. Di diverso parere sono sempre stati invece i genitori, Viviane e Pierre Lambert, e altri due figli, per i quali Vincent deve restare in vita. Ne è nata una lunga battaglia legale, dolorosa per tutti. Rachel, che in un libro del 2014 ha raccontato il dolore provato il giorno in cui ha visto il “vuoto” negli occhi del giovane marito, diventato papà di una bimba appena due mesi prima, è rimasta sempre molto discreta in tutti questi anni. Ha spesso lasciato i suoi avvocati parlare per lei davanti alla stampa. Invece due giorni fa, dopo la sentenza della Cassazione, ha accettato di intervenire al telefono su BFM Tv: “Voglio finalmente vedere un uomo libero. L’essenziale è che Vincent possa ritrovare la sua libertà – ha detto – e che venga rispettato per le sue convinzioni e per l’uomo che è stato”.

Dall’altra parte, in tutti questi anni, Viviane Lambert, 73 anni, e il marito Pierre, 90, si sono rivolti a tutti i tribunali francesi e europei. I loro ricorsi sono stati sempre respinti, ma sono riusciti sempre a ottenere qualche anno di vita in più per il figlio. Nel 2014, il Consiglio di Stato ha giudicato l’interruzione dei trattamenti conforme alla legge Leonetti sul fine vita del 2005 (diventata legge Claeys-Leonetti nel 2016) che vieta l’ “ostinazione irragionevole”. Nel 2015, la Corte europea dei diritti umani ha ritenuto a sua volta che la decisione dei medici non violava il diritto alla vita. Il 20 maggio scorso, mentre il dottor Sanchez annunciava l’avvio della “sedazione profonda”, come previsto dalla legge, la Corte d’Appello di Parigi, su richiesta dei genitori di Vincent, aveva a sorpresa di nuovo bloccato tutto. Si chiedeva ai medici di attendere il parere del Comitato dell’Onu per i diritti delle persone con handicap, alla quale Viviane e Pierre Lambert si erano rivolti in ultimissima istanza. Ma il parere del comitato Onu è solo consultivo. La decisione della Cassazione ha dunque cancellato la sentenza in Appello autorizzando i medici a procedere con la sedazione. Lunedì Viviane Lambert ha portato il suo caso davanti alla Corte dei diritti umani di Ginevra chiedendo l’ “aiuto” delle Nazioni Unite: “Stanno assassinando mio figlio”. Per lei Vincent è disabile, con un grave handicap, ma non è né malato né in fin di vita. I suoi legali hanno minacciato una denuncia per omicidio contro i medici se Vincent dovesse morire.

Ombre cinesi sui yellow block

Hong Kong è a una svolta, il rischio è che la violenza si impadronisca delle strade nell’ex colonia britannica. Anche i Pandemocratici, che da sempre si battono per l’autonomia politica e legislativa promessa 22 anni fa, proprio il primo luglio 1997, con gli accordi dell’handover – la restituzione – alla Cina, faticano a giustificare del tutto la rabbia con cui un gruppo di giovani manifestanti ha fatto irruzione lunedì sera all’interno del Parlamento, al termine di una marcia pacifica che ha riportato, per la terza volta in poche settimane, milioni di persone lungo le vie del centro; il motivo della protesta è la proposta di emendamento sull’estradizione verso la Cina (già sospesa due settimane fa e in attesa di essere rivista dal Parlamento).

“Ho cercato di mettermi in mezzo per fermare l’irruzione – ha raccontato Roy Kwong Chun-yu, uno dei parlamentari democratici presenti durante gli scontri – ma sono stato spinto via. Il punto non è condannare o meno questi ragazzi, come il governo ci chiede ripetutamente, ma cercare di comprendere le cause di tanta rabbia, che mai era stata espressa in modo così determinate e irrefrenabile prima d’ora”.

“Il tentativo ripetuto di violare l’indipendenza legislative di Hong Kong ha portato i cittadini a perdere la speranza e ha innescato questa inedita spirale di violenza”, ci spiega Au Nok-hin, altro membro del Consiglio Legislativo presente. Mentre l’autorità di Pechino chiede al governo di Hong Kong di ripristinare quanto prima l’ordine sociale e di condannare con fermezza i manifestanti violenti che hanno assaltato il Legco, definendo i loro atti “atroci” e diretti ad attaccare il principio “un Paese due sistemi”, risuonano ancora le durissime parole espresse dal ministro per gli Affari Esteri cinese, Geng Shuang: “Il caso di Hong Kong riguarda esclusivamente gli Affari Interni della Cina, e nessun altro Paese ha diritto di intervenire in merito. La Gran Bretagna ha interferito abitrariamente e ripetutamente negli Affari Interni di Hong Kong e ora chiediamo che smetta di farlo”. Mentre il presidente degli Stati Uniti, Trump, si confronta con Xi Jinping al G20 di Osaka sulle delicate questioni commerciali che hanno aumentato la tensione tra le due super potenze negli ultimi mesi, il consolato americano di Hong Kong ha diramato una comunicazione ai suoi cittadini residenti nel Paese: mantenere un “profilo basso” e di evitare di recarsi nelle zone dove si svolgono le proteste.

Anche la comunità finanziaria guarda con preoccupazione l’aspra situazione politica che si sta delineando; il segretario del Liberal Party, Tommy Cheung Yu-Yan avvisa gli operatori: “Questi atti di violenza possono da un lato porre molti ostacoli alla crescita economica di Hong Kong e dall’altro distruggere la sua reputazione di città sicura. Molti investitori stranieri mi chiamano per chiedermi se devono scegliere altri mercati”.

Tra le tante voci raccolte si fa largo, fra i partecipanti alla marci, anche quella complottista che sottolinea come durante la registrazione della conferenza stampa della polizia sull’irruzione al Parlamento, l’orologio dell’ufficiale preposto alla comunicazione segni le cinque del pomeriggio, mentre l’assalto al Legco è avvenuto alle nove della stessa sera: come è possibile che siano stati annunciate i fatti con quattro ore di anticipo, si interrogano alcuni? Così come molti si chiedono dove sia finita tutta la polizia in assetto antisommossa che circondava il palazzo e perché sia ricomparsa solo verso mezzanotte per disperdere i rivoltosi che nel frattempo hanno avuto il tempo di mettere a ferro e fuoco la sala legislativa.

“Gli hongkonghesi sono frustrati rispetto alla situazione di stallo e di incertezza in cui ci troviamo”, dicono i rappresentanti di Civil Human Rights Front (CHRF), la Ong organizzatrice delle tre marce pacifiche che hanno mobilitato la città in queste settimane. “Alcuni sono tristi, altri arrabbiati. Chi di noi, di fronte a questa escalation di violenza non ha vissuto un profondo conflitto di emozioni? Chi di noi sa come agire di fronte a un Governo che non dà risposte?”. La palla ora passa di nuovo a Carrie Lam, che secondo i sondaggisti rischia di perdere il posto velocemente se non riuscirà a mettere insieme le richieste di controllo formulate da Pechino con il bisogno di libertà della ex colonia britannica. Il Parlamento, intanto, rimarrà chiuso per due settimane, a causa dei danni.