L’effetto Dieselgate arriva a Bari. Bosch ha dichiarato 620 esuberi

Alla Bosch di Bari, 620 lavoratori su 1.900 sono attualmente in esubero, ha detto l’azienda pochi giorni fa. Conseguenza della grossa contrazione vissuta dal mercato del diesel, settore in cui opera lo stabilimento pugliese. Questo non significa che siano a un passo dal licenziamento, ma il tempo a disposizione per garantire la sopravvivenza del sito è più breve di quanto si pensava. Le previsioni della società si sono rivelate ottimistiche, mentre i dati mostrano una crisi peggiore rispetto alle attese. “Senza una soluzione industriale – dice Michele De Palma, responsabile del settore automotive Fiom Cgil – il rischio è che quell’esubero di oltre 600 lavoratori diventi strutturale e non temporaneo”. Al ministero dello Sviluppo economico sono in corso le trattative ma il gruppo tedesco non ha ancora chiarito i dettagli sulla strategia per salvare la fabbrica. Continuare a puntare sul diesel non può garantire di resistere a lungo.

I numeri diffusi lunedì dal ministero dei Trasporti lo confermano: a giugno le immatricolazioni del diesel sono crollate del 22,5% rispetto all’anno precedente. Dopo lo scoppio dello scandalo “Dieselgate” e di fronte ai governi che minacciano in più occasioni di voler limitare quel tipo di alimentazione, i consumatori stanno già agendo di conseguenza. Le prospettive, come ricordato ultimamente dagli stessi vertici della Bosch, sono di un calo del 90% entro il 2030. Una situazione che a Bari ha da tempo avviato uno stato di crisi permanente. Ora come fare per mantenere i 1.900 posti di lavoro? Il problema si è già posto nell’estate del 2017, quando l’azienda ha dichiarato 800 esuberi. Un accordo al ministero ha permesso di salvare tutti grazie alla solidarietà tra stabilimenti. Cioè, sono state portate in Puglia produzioni di altre sedi italiane del gruppo per assicurare il lavoro. Anche grazie alla cassa integrazione, lo stabilimento è riuscito ad andare avanti. Gli esuberi però, come emerso dalle ultime comunicazioni dell’azienda, permangono e soprattutto rischiano di lievitare. Per ora si sa che la Bosch si è detta pronta a un investimento di 40 milioni per Bari, che sarebbe dedicato all’elettrico.

Un’idea che ha bisogno di finanziamenti sia dal ministero sia dalla Regione Puglia, che dovrebbe sostenere la formazione dei lavoratori. “Il progetto di riconversione a oggi non c’è – ha aggiunto De Palma – Nell’incontro al ministero l’azienda ha quantificato le risorse, ma le produzioni per questo cambiamento non sono ancora state identificate”. “Il problema del diesel – ha concluso il sindacalista – non riguarda solo Bosch. Anzi, almeno la Bosch lo sta affrontando incontrando governo e sindacati, le altre aziende non lo fanno”.

I dinosauri del petrolio rischiano l’estinzione

Le società petrolifere sono morti che camminano anche se i consumi mondiali di petrolio, circa 100 milioni di barili al giorno, non sono mai stati tanto alti come nel 2018. Per rispettare le indicazioni unanimi di organizzazioni internazionali e scienziati che prevedono un azzeramento delle emissioni nette di CO² entro il 2050 per scongiurare il rischio dovuto al riscaldamento globale, parte significativa delle riserve di combustibili di origine fossile dovranno restare sottoterra. Carbone, petrolio e gas naturale hanno poco più di 30 anni di vita come principali fonti energetiche del pianeta.

Alcuni, incluso Donald Trump, pensano che il futuro degli idrocarburi sia ancora radioso, e incoraggiano gli investimenti per cercare petrolio fin sotto l’Artico, o per estrarlo con il fracking o nelle sabbia bituminose. Entro il 2050 però il petrolio cesserà di essere la principale fonte energetica al mondo perché vi sarà una sempre più ostinata opposizione politica e sociale al suo utilizzo e perché si stanno aprendo praterie agli investimenti nell’elettrificazione e nelle rinnovabili. Non è detto che il mondo dopo le energie fossili sia, oltre che meno caldo, anche più armonico e giusto. È certo però che o ci sarà un mondo post-fossili, o non ci sarà più il mondo come lo abbiamo conosciuto.

Le società petrolifere sono dinosauri che, in un mondo ostile, vagano verso l’estinzione. Il petrolio resterà una materia prima per il petrolchimico perché consente di produrre mille cose utili come le plastiche. Ma Big Oil sarà molto diversa. John D. Rockefeller, fondatore di Standard Oil era all’inizio del ’900 l’emblema planetario della ricchezza illimitata. Il commercio del petrolio negli anni 70 valeva, da solo, il doppio del commercio in tutte le altre materie prime messe insieme. Ancora oggi cinque delle dieci società più ricche del mondo sono società petrolifere. Saudi Aramco, la società nazionale saudita che non figura nelle classifiche ufficiali, da sola fa più ricavi di tutta Big Tech (Google, Facebook, ecc) e JP Morgan messe insieme. Questo presente è più la fotografia di un passato radioso che l’immagine di quel che tiene in serbo l’avvenire.

Che il destino sia segnato lo sanno le stesse società petrolifere. I loro capi sono andati a confessarsi dal Papa dopo la pubblicazione nel 2015 dell’Enciclica Laudato Si’ nella quale, in sostanza, viene dichiarata una guerra morale alle fossili. Statoil, la società partecipata dal governo norvegese, ha cambiato nome in Equinor per esorcizzare due termini che non vanno di moda, specie se accostati: Stato e petrolio.

Non basteranno però né confessioni, né carte d’identità taroccate. Già in passato le società petrolifere hanno provato a reinventarsi. La sfida era quella della nazionalizzazione delle risorse petrolifere nei Paesi riuniti nel cartello Opec che le aveva private del loro monopolio sul petrolio mondiale. Questo spinse Big Oil a investire in nuove frontiere come nel Mare del Nord, o riciclarsi in nuove attività. BP nel 1986 arrivò a comprarsi il numero uno del cibo per cani, Purina Mills. Oggi la sfida è più ardua. Si tratta di abbandonare il core business petrolifero per convertirsi in imprese “energetiche” in senso ampio. Davanti a questo sentiero inevitabile, disegnato anche dalle politiche di decarbonizzazione dei grandi Stati consumatori, si frappongono però due ostacoli.

Il primo è rappresentato dalla necessità di convertire competenze, tecnologie e asset verso un business presidiato da altri concorrenti agguerriti. Il petrolio è una risorsa naturale scarsa, concentrata in poche aree del mondo molto produttive, circostanza che ancora garantisce ai produttori rendite elevatissime. Le rinnovabili, e le tecnologie per il risparmio energetico, sono potenzialmente molto più distribuite geograficamente e coinvolgono un numero potenzialmente illimitato di attori: non potranno garantire gli stessi profitti del petrolio.

Il secondo ostacolo è il rischio che a Big Oil venga applicato lo stesso trattamento di Big Tobacco che ha dovuto pagare risarcimenti per oltre 200 miliardi di dollari per i danni arrecati alla salute dei consumatori. Alle società petrolifere non basterà però scrivere sui barili “nuoce gravemente alla salute”. Oltre alle comunità locali, si stanno allenando brillanti avvocati laureati ad Harvard con la missione di salvare il Pianeta, arricchendosi al contempo.

È già provato che sia Exxon sia Shell erano a conoscenza dell’impatto delle emissioni di CO² sul riscaldamento globale fin dagli anni 80. Le società petrolifere estraggono una materia prima che viene poi raffinata e utilizzata in vario modo, dalla produzione di plastica a quella di benzina per far girare le automobili. In ultima analisi, siamo tutti un poco complici dell’industria petrolifera, anche il singolo automobilista. Ma negli Stati Uniti è più facile incolpare un gruppo di capitalisti che sbagliano, piuttosto che mettere in discussione il sistema nel quale questi operano.

Per i dinosauri del capitalismo fossile non vi è altra strada che quella di avviarsi a una difficile riconversione che preveda una produzione di idrocaburi molto più bassa, maggiore qualità delle tecniche estrattive e dei prodotti derivati, giganteschi investimenti nelle tecnologie per le rinnovabili e risparmio energetico (dunque margini di profitto molto più bassi che in passato). L’alternativa è continuare come fanno oggi, facendo campare alla grande i propri manager per i prossimi cinque-dieci anni, per poi tracollare tutti insieme, inghiottiti dalla fine del loro modello di business e dal generale discredito popolare.

Debito, inflazione e banche: il lato oscuro della Turchia

Il 23 giugno Ekrem Imamoglu, esponente dell’opposizione del Partito popolare repubblicano (CHP) ha ri-vinto le elezioni comunali di Istanbul, con 570.000 voti in più rispetto a tre mesi fa, quando le elezioni si erano tenute la prima volta. Ora che la campagna elettorale è finita, l’attenzione torna sull’economia. Di nuovo.

L’economia turca è cresciuta abbastanza rapidamente dopo il 2010, spinta da prestiti a basso costo dall’estero possibili grazie all’abbondante liquidità iniettata nel sistema finanziario dalle principali banche centrali. Per effetto delle politiche di Quantitative easing nel periodo post-crisi, i prestiti dall’estero a breve termine al settore privato turco sono aumentati dai 122 miliardi del luglio 2011 a 151 del febbraio 2018.

La crescita post 2010 è stata trainata dal settore delle costruzioni, in anni di domanda globale debole. Un modello di crescita che si regge sull’edilizia, però, ha determinato affitti eccessivi che hanno incoraggiato lo spostamento di risorse dal settore manifatturiero a quello meno produttivo delle costruzioni. E questo ha contribuito al calo della produttività dell’economia turca in quel periodo.

Le politiche populiste adottate dopo il 2017 hanno preparato il terreno per le elezioni del 2018. In un’economia con bassi risparmi domestici e un deficit delle partite correnti cronico, queste politiche orientate alla crescita hanno inevitabilmente fatto esplodere il debito verso l’estero. Anche se i numeri alti della crescita generavano consenso, l’economia surriscaldata ha inciso sui fondamentali, spinto l’inflazione al rialzo e indebolito la lira turca. Il tasso di inflazione è salito dall’8,5 per cento del 2016 al 12 per cento del 2017 e al 20 per cento nel 2018, quattro volte l’obiettivo fissato dalla banca centrale che è il 5 per cento.

Altri fattori hanno contribuito ad aumentare i rischi per l’economia e il conseguente declino nell’afflusso di capitali dall’estero: la mancanza di coordinamento tra la politica monetaria e quella fiscale, con quella monetaria restrittiva e quella fiscale espansiva, così come le tensioni tra la Turchia e gli Stati Uniti che hanno contribuito allo choc sui tassi di cambio nell’agosto 2018. Dopo quel brusco deprezzamento della lira del 20 per cento, il fardello del debito verso l’estero del settore privato è cresciuto enormemente (in termini di lire turche) diventando una minaccia per la stabilità finanziaria.

La Turchia ha un settore finanziario abbastanza resistente, con un rapporto tra capitale e asset intorno al 17 per cento, molto più alto rispetto a molti Paesi occidentali. Nonostante questo, il contagio dal settore privato a quello bancario è inevitabile. Il governo ha già annunciato che i prestiti problematici nel settore dell’energia e delle costruzioni (i settori più esposti allo choc del tasso di cambio) verranno trasferiti a un fondo ma i dettagli di chi dovrebbe finanziarlo devono ancora essere annunciati.

La responsabilità fiscale è sempre stata uno dei principali punti di forza del governo e potrebbe essere arrivato il momento di incassare i benefici di un bilancio relativamente solido e usarlo per garantire all’economia la liquidità che reclama.

Con le elezioni politiche previste per il 2023, la speranza è che il governo eviti politiche populiste e persegua invece riforme strutturali che però sono dolorose nel breve periodo. Tuttavia, la sconfitta alle elezioni locali di Istanbul potrebbe invece spingere il governo a seguire una traiettoria ancora più espansiva in politica economica. Ma sarebbe la strada sbagliata da seguire perché aumenterebbero i rischi, le fragilità e i problemi dell’economia diventerebbero ancora più seri.

 

Affari e controlli, perché la Cina è così ossessionata dalla rete 5G

Il video che gira sugli schermi della metropolitana di Shanghai, per raccomandare ai cittadini di stare attenti e di non commettere crimini, mostra un piccolo robot volante che setaccia gallerie, scale mobili e carrozze dei treni per prevenire i pericoli e risolvere problemi, in costante contatto con la polizia. Cerca il pericolo: osserva, risolve e punisce. Quando si arriva al Mobile World Congress di Shanghai, la versione orientale della grande kermesse che si tiene ogni anno a Barcellona, è evidente che il controllo in Cina può facilmente diventare economia, anche grazie all’attuale prodotto di punta di Pechino: il 5G.

Il nuovo mercato, ben oltre la Muraglia

Il congresso è un tripudio di insegne in cui “5G” si ripete spasmodicamente. “Il 5G è qui”, “Il 5G è acceso”, “Il futuro è in 5G”. Una ossessione. Manca però la connessione per gli ospiti, neanche un semplice wi-fi. Per connettersi ci si può solo allacciare alle reti degli smartphone dello staff. “Qui in Cina il 4G ha già raggiunto la sua massima capacità e copertura – spiega Evelyn Zhangbinyu di China Telecom, la maggiore compagnia di telecomunicazioni cinese insieme a China Mobile e China Unicom –. Il passo successivo può essere solo il 5G”. Le compagnie telefoniche assicurano infatti che la diffusione commerciale del 5G in Cina sarà realtà già a fine 2019. “Abbiamo tutti i permessi – spiega Evelyn – il governo ha rilasciato le licenze in questi giorni e supportato in modo molto forte la diffusione della rete”. Con investimenti soprattutto ai tre operatori, che hanno investito almeno 52 miliardi di euro. “Prevediamo che in futuro chiunque usi oggi il 4G, passerà al 5G automaticamente. Sarà l’unico modo per utilizzare le nuove tecnologie”.

I Paesi occidentali temono il fatto che lo sviluppo tecnologico che deriva da questi investimenti oltrepassi i confini di Pechino. A ragione. Per accedere al padiglione di Huawei c’è una fila di un centinaio di persone, quanto quella per sperimentare la realtà virtuale di Vivo (altra importante azienda cinese). “Oltre la metà dei contratti pre-commerciali che abbiamo – dice l’addetta che incontriamo – sono fuori dalla Cina. La maggior parte in Europa”. 28 su 50 sono in Ue. Il ban degli Usa non li preoccupa. “Siamo i leader mondiali in questo ambito”. Il posto nel mondo dove il 5G è però già realtà è la Corea del Sud: “Hanno annunciato di voler implementare il 5G qualche giorno prima degli Usa e lo hanno fatto. Nel sud est asiatico i governi spingono molto e si va spediti anche per l’assegnazione dello spettro delle frequenze. In Europa, invece, si procede lentamente e si rimane indietro”.

Ricerca, sviluppo e tecnologie

Cambio di sede. C’è un piccolo autobus tutto vetri e con pochi posti. Si muove senza conducente nel piazzale. Si muove a pochi metri dalle transenne, si ferma quando un semaforo installato dai ricercatori segnala il rosso e poi riparte quando è verde. A controllarlo è un operatore a chilometri di distanza e lo fa attraverso la rete 5G. Ad aprire le porte del centro di Ricerca e Sviluppo dove è stato programmato e ad ospitare i giornalisti italiani è Zte, una compagnia cinese che in Italia ha investito sulle sperimentazioni per la tecnologia 5G (in particolare a L’Aquila con Wind Tre) e che nel nostro paese ha stabilito il quartier generale europeo. È inoltre la terza compagnia al mondo per i brevetti in questa tecnologia. Nel clamore della guerra tecnologica tra Usa e Cina, Zte (il cui ban Usa per non aver rispettato l’embargo su Iran e Corea del Nord è stato rimosso l’anno scorso) è silenziosa. Riferimento per la creazione della rete, il suo nome è meno sonoro sui media di quello di Huawei ma al tempo stesso – e forse anche per questo – avanza e riesce a farsi spazio soprattutto fuori dalla Cina. Anche Zte ha la metà dei suoi contratti in Europa. Allo Shanghai Mobile Congress ha presentato nuovi smartphone compatibili con le connessioni 5G, router, applicazioni. Qui proviamo gli occhiali per la realtà virtuale destinati all’insegnamento: lo studente potrà accedere al modello tridimensionale di un quadro di Van Gogh, studiarne i dettagli da vicino, oppure muoversi nelle stanze di un museo europeo ascoltando le spiegazioni del docente in tempo reale e seguendo le sue indicazioni. Sul laghetto artificiale che circonda il centro, le dimostrazioni di droni guidati da remoto per il prelievo di campioni di liquido e per gli interventi in zone critiche.

Nessun’azienda è un’isola

Capiamo presto che le innovazioni 5G non sono targate solo Cina. Nomi di produttori di chip made in Usa come Intel e Qualcomm sono una presenza costante. “Zte ha sviluppato molte piattaforme applicative 5G – spiega il Ceo di Zte Xu Ziyang – sulle quali si può interoperare e cooperare pienamente con i partner del settore”. Il Ceo spiega di aver “già esplorato” una vasta gamma di settori verticali, quindi relativi a forniture e bisogni specifici, con “oltre 200 partner in tutto il mondo”. Insomma, nessuno può sopravvivere da solo ed è necessario per innovare. Ogni applicazione del 5g richiede un diverso chipset, spiegano, ed è improbabile che una sola azienda riesca a produrre tutti i chipset necessari per tutte le applicazioni. Su un range di circa 10mila brevettati, ognuna ne ha al massimo 2mila. Un prodotto finito non può permettersi di funzionare solo in parte. La collaborazione, quindi, è essenziale ed è il motivo per cui uno sbarramento americano è spaventoso per i cinesi. In questa chiave può essere letta la posizione del presidente americano, Trump, che sabato ha dichiarato una parziale tregua alla Cina: “Le compagnie americane possono vendere le loro attrezzature a Huawei – ha detto – Sto parlando di equipaggiamenti per i quali non c’è un grande problema di emergenza nazionale. Abbiamo un sacco di grandi aziende in Silicon Valley, e in diverse parti del paese, che realizzano tecnologie estremamente complesse”. Le aziende cinesi, comunque, non escludono di poter mettere da parte le loro rivalità storiche e iniziare a collaborare tra loro per non farsi superare dagli Usa.

Di sicuro, tornare al congresso con ‘mezzi occidentali’ si rivela molto difficile. La carta Unicredit è inspiegabilmente bloccata, la tariffa telefonica attivata non permette di telefonare dall’estero, tre banche non sono riuscite a cambiare gli euro per problemi nella lettura del passaporto e l’unico mezzo di comunicazione possibile è la app WeChat, che però ritiene il numero di telefono sospetto. Neanche le Vpn che abbiamo acquistato (una app che serve per aggirare i blocchi del web cinese) funzionano. “Serve un numero cinese”, spiega un ragazzo che, impietosito, cerca di aiutarci. “Senza Internet è difficile – dice – qui non funzionano né Whatsapp né Facebook e Instagram. Neanche Google Maps”. Porge 10 yuan: “Questi basteranno per il viaggio in metro”. In cambio chiede di essere aggiunto su Facebook: “Lo uso quando viaggio fuori dalla Cina – dice –. Ho gli amici stranieri lì”.

Il sistema di sicurezza e il rischio massivo

Nei padiglioni dell’Expo, stand dopo stand, c’è una onnipresente dimostrazione: un sistema di smart park, parcheggio intelligente. Grazie ai sensori e all’utilizzo combinato di 5G e cloud è possibile monitorare un’area di parcheggio completamente, conoscerne i posti liberi, sapere se i cestini dell’immondizia sono pieni, gestire luci e consumi a distanza. Sugli schermi, però, anche una serie di volti fotografati e schedati dalle telecamere, con i dati di riferimento. È l’inquietante identificazione facciale che – ci spiegano – è collegata ai database delle forze dell’ordine e utilizzata dalla polizia per monitorare l’eventuale presnza di criminali. Procedimento che, chiaramente, implica una schedatura e un rilevamento tali da essere considerati inammissibili altrove (basti pensare che in Italia il massimo della prevenzione tecnologica dei reati si basa su algoritmi che utilizzano modelli statistici e probabilistici per ipotizzare dove ci siano le condizioni perché accadano) e che il 5G potrebbe estendere a uso civile. Il controllo, o comunque la sua idea, qui non manca: in aeroporto vengono prelevate le impronte di tutte le dita delle mani, in metropolitana ci sono metal detector e ispezioni di borse e zaini, i social sono inaccessibili. L’idea che uno dei vantaggi del 5G sarà non solo velocizzare le connessioni ma anche permettere di far avere le stesse performance a un numero enorme di dispositivi e applicazioni contemporaneamente connessi non rinfranca se si ipotizza uno scenario di controllo di massa in tempo reale. Quello che, insomma, qualche azienda qui in Cina inserisce addirittura nella categoria “soluzioni per una convivenza armoniosa”.

Abbiamo un problema con le case

Ormai in Italia si è diffusa l’idea che la politica economica possa ottenere tutto e il suo contrario, che non ci sia mai bisogno di scegliere. Non è così. E basta un dato semplice comprensibile a tutti per dimostrarlo: secondo le stime preliminari dell’Istat, l’indice dei prezzi delle abitazioni acquistate dalle famiglie per abitarci o per investimento nei primi tre mesi del 2019 è diminuito dello 0,5 per cento rispetto all’ultimo trimestre 2018 che a sua volta era stato in calo. Nel 2018 nel resto d’Europa i prezzi delle case sono cresciuti di oltre quattro punti, in Italia sono calati. I grafici dell’Istat sono impressionanti: i prezzi delle abitazioni esistenti continuano a precipitare dal 2011, quelli delle abitazioni nuove da quattro anni restano in media piatti, agli stessi livelli del 2010. I risultati si vedono negli andamenti dell’occupazione nel settore dell’edilizia che non si è mai ripreso dallo scoppio della crisi tra 2007 e 2008 e, ormai si può dire, non si riprenderà più, almeno non in tempi ragionevoli. Per questo Confedilizia, la lobby del settore, commenta così i dati dell’Istat: “In questa situazione, un governo responsabile inizierebbe a smontare la patrimoniale

sugli immobili da 21 miliardi di euro l’anno, anche per favorire una ripresa dei consumi e delle

mille attività economiche collegate all’edilizia, con riflessi positivi sull’occupazione”. Ma sappiamo anche perfettamente che in Italia l’unica forma di imposta patrimoniale praticabile è quella sugli immobili e soltanto per ragioni elettorali sono state esentate tutte le prime case a prescindere dal reddito. E togliere tasse sulla casa invece che sul lavoro, in particolare sui lavoratori dipendenti che sono rimasti gli unici a pagare un’Irpef progressiva, sarebbe anche immorale, oltre che iniquo. Ma qualunque scelta ha le sue conseguenze, nessuna può accontentare tutti. Meglio ricordarselo. E poi assumersi la responsabilità della decisione su quale interesse prediligere.

Autostrade, così i concessionari cercano di tenersi i maxi-profitti

La battaglia per la concessione di Autostrade non è la sola che si combatterà in questi mesi. La vera rivoluzione si misurerà sulle nuove regole per determinare i pedaggi appena stabilite dall’Autorità dei trasporti (Art) che i concessionari contestano. Alcuni hanno provato perfino ad aggirarle aprendo uno scontro con il ministero delle Infrastrutture, che in una serie di lettere ha bloccato la furbata. La vicenda è indicativa dello strapotere di cui gli operatori del settore godono da decenni, con profitti stellari che non intendono mollare.

Nel decreto Genova, diventato legge a novembre, il ministro Danilo Toninelli ha inserito una norma che autorizza l’Authority guidata da Andrea Camanzi a cambiare il sistema con cui vengono regolate le tariffe autostradali. L’Authority era prevista già dal 1994, ma i governi se ne sono dimenticati per 17 anni. Nel 2011 ci ha pensato Monti, ma con una postilla che ne svuotava i compiti: si sarebbe dovuta occupare solo delle nuove concessioni.

Il decreto Genova cambia tutto. Il ministero si spoglia del compito di determinare le tariffe che affida a un’autorità indipendente. Il 19 giugno scorso, l’Art ha elaborato il sistema tariffario dei pedaggi per 16 concessioni in essere, per le quali serve rivedere o aggiornare il Piano economico finanziario (Pef). Il sistema sostituisce le sette formule prima vigenti, con aumenti annuali, in favore di un meccanismo quinquennale. Arrivano indicatori di produttività e obiettivi di efficienza dei costi con verifiche annuali sull’effettiva realizzazione degli investimenti programmati e la possibilità di ridurre i pedaggi in caso di mancato rispetto dei cronoprogrammi. Ed è qui che è nato lo scontro.

Il meccanismo permette di individuare per la prima volta il capitale netto davvero investito da remunerare in tariffa, con un meccanismo di salvaguardia. Per le opere già cantierate dai concessionari, continuerà a essere applicato il Tir (Tasso interno di rendimento) previsto dal sistema previgente. Per gli investimenti da realizzare, cioè non ancora contruattualizzati o cantierati, l’Autorità riconosce invece una remunerazione sul capitale investito (Wacc) pari al 7,09%. Un rendimento di tutto rispetto, in linea con altri settori. Il problema è che quello vecchio era molto più generoso. Basta guardare la tabella di fianco per capirlo. Autostrade, per dire, ha un rendimento per gli investimenti del 10,2%, oramai fuori mercato e il 30% più alto di quello deciso dall’Art. Questo meccanismo ha garantito una crescita costante dei ricavi da pedaggio del settore, passati dai 4,7 miliardi del 2009 ai 5,9 del 2017, con una redditività stellare. In media i concessionari hanno un margine operativo lordo oltre il 40%, contro il 10-12 di aziende comparabili.

La reazione dei concessionari è stata furente. Quasi tutti i 16 coinvolti (eccetto Strada dei Parchi), insieme all’Aiscat, la Confindustria del settore, hanno fatto ricorso contro la decisione dell’Authority. C’è chi si è spinto oltre e il giorno dopo la delibera dell’Art ha inviato al ministero un Pef che ignorava del tutto il nuovo sistema tariffario: è il caso delle concessioni del gruppo Gavio, il secondo italiano (Autostrada dei Fiori, Cisa, Autostrade valdostane etc.). La risposta della direzione autostrade del ministero è stata durissima: “La proposta – si legge nelle lettere viste dal Fatto – viene considerata irricevibile”. Segue l’invito ad adeguarsi alla delibera dell’Autorità, altrimenti “il mancato riscontro sarà considerato quale causa di inadempimento agli obblighi contrattuali”, cioè può portare alla revoca della concessione. Altri concessionari hanno chiesto di aprire un “tavolo di confronto”, come Autostrade che vuole discutere col Mit “tutti gli investimenti previsti”, a partire dalla Gronda di Genova.

L’obiettivo dei concessionari è di escludere dal nuovo sistema tariffario, oltre alle opere già cantierate, anche quelle solo programmate. Un ritorno al passato, dove nei Pef si stabiliva quali opere andavano realizzate ma poi nessuno vigilava perché tanto il vecchio sistema prevedeva comunque di remunerarle, a tassi fuori mercato, come se fossero già state fatte, anche se poi non venivano avviate. È il sistema delle concessioni all’italiana.

Art e ministero hanno fatto muro, e i concessionari hanno pensato di appellarsi ai piani alti. Il grido di dolore è stato raccolto dal Sole 24 Ore. “C’è uno spazio politico, che sarà ancora il premier Giuseppe Conte a dover gestire per escludere dal nuovo regime una fascia di opere programmate e non ancora avviate”, evocava il giornale di Confindustria giovedì. Conte però ha definito il nuovo sistema una “rivoluzione”. Che ai signori delle Autostrade proprio non piace.

Ecco perché Fuzio deve dimettersi (e non solo lui)

L’Espresso online ha reso pubblica la conversazione registrata, nel corso dell’inchiesta di Perugia a carico di Luca Palamara, il 21.5.2019 tra il pg della Cassazione Riccardo Fuzio e l’indagato, il cui contenuto veniva gelosamente tenuto nascosto da oltre 15 giorni dal Csm – silenti anche i vertici – in attesa, forse, che si calmassero le acque. Nel corso dell’incontro, il pg ha messo al corrente l’indagato di alcuni dettagli dell’inchiesta per corruzione nei suoi confronti e ha discusso con lui della operazione e dei voti per eleggere il pg di Firenze Marcello Viola a Procuratore di Roma. Tre le considerazioni: la prima che, a sostituirsi all’improprio silenzio delle Istituzioni, è stata, ancora una volta, la stampa nell’insopprimibile esercizio del diritto di informare i cittadini che, a loro volta, hanno il diritto di essere informati. La seconda è che lo scorretto comportamento di Fuzio – al pari di quello, altrettanto scorretto, di cinque membri del Csm, di cui quattro si sono dimessi e uno è ancora in “autosospensione (!?) – è “normale” espressione (assolutamente riprovevole) della degenerazione delle correnti che, costituitesi in gruppi di potere, hanno capi – spesso privi di incarichi formali – che, in quanto “signori delle tessere”, impartiscono disposizioni ai componenti il gruppo e sono in grado di determinare l’elezione dei prescelti a componenti del Csm, ai quali, successivamente, vengono impartite direttive per le nomine ai posti direttivi, anche di vertice. Ciò spiega perché i cinque componenti del Csm (due di Unicost, Spina e Morlini, tre di MI, Cartoni, Lepre, Criscuoli) vadano alle riunioni “carbonare” con Luca Palamara e Cosimo Ferri (capi indiscussi delle due correnti) per discutere, molto scorrettamente (anche con un deputato imputato, Luca Lotti) la nomina dei procuratori di Roma e di Perugia e dello stesso Palamara a procuratore aggiunto della Capitale; e ciò spiega perché il pg discuta impropriamente con l’indagato che, però, è il capo indiscusso della sua corrente alla quale deve molto per essere stato, per anni, in quota Unicost al Csm come magistrato-segretario, come addetto all’ufficio studi e, infine, come componente; e, del resto, la sua nomina a procuratore generale è frutto della convergenza sul suo nome anche dei voti di Unicost (compreso il Palamara) e di MI. Se questi sono gli effetti perversi delle correnti, degenerate in impropri e pericolosi centri di potere, allora i vertici della Anm devono convocare l’assemblea dei soci per deliberare sullo scioglimento di esse, in maniera che gli associati possano liberamente discutere, senza vincoli o pressioni, all’interno dell’Associazione, dei loro problemi nel trasparente confronto delle diverse opinioni. La terza considerazione è che i gravissimi comportamenti del pg – ancora più gravi di quelli tenuti dai cinque componenti del Csm nei cui confronti proprio il pg ha avviato l’azione disciplinare – pongono il problema di come possa essere esercitata l’azione disciplinare nei confronti del pg che ne è l’unico, esclusivo titolare e che certamente non la può esercitare contro se stesso. Il ministro di Giustizia può proporre l’azione disciplinare (e, nella specie, data la gravità della questione deve avviare da subito gli accertamenti), ma la proposta è pur sempre fatta al pg che non può certamente delegare l’inchiesta disciplinare al procuratore aggiunto o agli avvocati generali da esercitarsi nei suoi confronti (e al quale, anche nei casi di delega, spetterebbe sempre e comunque l’ultima parola). Né si può ricorrere all’“autosospensione” dalla carica di procuratore generale, istituto che non esiste nel nostro ordinamento giuridico e che sarebbe un mero, censurabile espediente. L’unica soluzione, in un caso del genere, anche per la gravità dei comportamenti, non può che essere quella delle dimissioni del procuratore generale dall’Ordine giudiziario.

Matteo e le parole vietate. Al senso del ridicolo manca il “quanto mangi!”

Partito con ridanciano allarme sui social, ripreso dai giornali, rilanciato da commenti più o meno colti, più o meno sensati, più o meno arguti dei pensatori contemporanei da corsivo, è ormai conclamato il tormentone dei “49 milioni”, che la pagina Facebook di Salvini Matteo vi risputa indietro come parola non gradita. Un vero respingimento, anche un po’ brutale (Your comment contains a blacklisted word) nello stile del mangiasalsicce del Viminale, del suo staff, della Bestia, dell’algoritmo, eccetera eccetera.

Fa abbastanza ridere che nell’era della comunicazione totale, della libertà d’espressione totale, della rete totale, ci sia da qualche parte una “lista nera di parole” che non si possono usare perché Salvini si irrita. Ma insomma, per qualche minuto ognuno ha fatto le sue prove: “49 milioni” no, il commento sulla bacheca salviniana non passa; “Quarantanove milioni” sì, passa. E naturalmente via con i 48+1, i 50-1, a esaurimento scorte, e si sa che la matematica è inesauribile (personalmente, suggerisco sette al quadrato, ho controllato, non è nella lista nera). Altre parole che erano nella lista nera ora sono uscite dalla lista nera, potete scriverle sui muri, sulle fiancate della macchina, nelle lettere alla fidanzata, e persino sulla pagina FB di Salvini, parole come “Siri” (il sottosegretario dimissionato) o “Trota”, l’indimenticato pargolo. Dentro e fuori, parole permesse, parole vietate, parole amnistiate, a seconda del momento e della bisogna.

Risultato: applicare una censura così rozza (vietare una parola) è sempre una fesseria, perché per due giorni si è parlato molto di quella parola, dei 49 milioni e, in subordine, di quanto sono scemi i censori di ogni ordine e grado. Come sempre, il diavolo sta nei dettagli: brutta l’idea di creare un piccolo universo di parole sgradite al Capo e quindi vietate, ma decisamente grottesco il gesto in sé, l’esecuzione dell’opera, diciamo. Cioè uno si alza la mattina, raggiunge il suo posto di lavoro, accende il computer e digita la parola vietata: una triste vicenda umana (ancora più triste, se considerate che è pagato da noi tutti, essendo lo staff della disinformatsija salviniana passato al libro paga del ministero).

Insomma, che alla fin fine Salvini sia il grande comunicatore circondato da geniali comunicatori è dura da credere: al momento si registra un passaggio dalle cose commestibili ritratte insieme al leader (aperitivi, mozzarelle, cotechini), a piante e fiori, in vaso o recisi (azzurri, rosa, gialli), sempre naturalmente seguiti da “bacioni” o domande retoriche (“Faccio bene?”).

È questione peregrina e di poco conto: il sentiment del paese è di battagliera contrapposizione, e la sensazione è che Salvini potrebbe farsi immortalare mentre bastona un cucciolo di foca o annega dei gattini e “i suoi” lo applaudirebbero comunque, quindi non sarà l’astuzia un po’ nordcoreana di vietare una parola a farlo sembrare ridicolo agli occhi dei suoi.

E però la cosa resta lì, sospesa, minacciosa. Vietare le parole, le espressioni sarcastiche, i motti di spirito, le barzellette, ha sempre portato ai censori una sfiga notevolissima. Non saremo alla melma maleodorante del breznevismo, quando il Kgb batteva i bar alla ricerca di barzellettieri d’opposizione, ma insomma, c’è una vena di ridicolo nel parlare costantemente a nome del popolo (che è di 60 milioni, e non di 9, come i voti della Lega) e poi vietare al popolo di scrivere “49 milioni”. Anche senza tirare in ballo Orwell, la neolingua, gli algoritmi, le strategie, la censura e l’apocalisse, rimane il fattore umano: un tizio è andato lì e con le sue manine ha inserito una parola “vietata”. Magari l’ha fatto sentendosi molto furbo, magari ha solo “eseguito un ordine”, oppure pensa che siamo tutti scemi: tre cose, anche queste, che prima o poi ti fanno finire male.

Il filo rosso che lega Russia, Corea e Iran

Sono giorni intensi per la grande politica internazionale. Nel breve volgere di un paio di settimane abbiamo assistito all’aggravarsi delle tensioni nel Golfo Persico, al rilancio del dialogo russo-americano e infine al sorprendente ingresso del presidente Donald Trump in territorio nordcoreano. Per quanto possa apparire strano, esistono importanti collegamenti tra i tre dossier e il loro esame contestuale permette meglio di comprendere obiettivi e metodi impiegati dall’attuale inquilino della Casa Bianca.

Procediamo con ordine. Dando corso a intenzioni annunciate già nel corso della campagna presidenziale del 2016, Trump ha fatto uscire gli Stati Uniti dall’accordo con l’Iran firmato dal suo predecessore Barack Obama.

Il grosso dei commentatori vede in questa scelta del tycoon un effetto dell’influenza preponderante che la lobby israeliana eserciterebbe sui rami alti della sua amministrazione, in cui non mancano in effetti i sostenitori di politiche apertamente miranti al rovesciamento del regime di Teheran. Questa lettura dei fatti, però, non tiene conto della “diversità” di Trump, che è stato eletto non per fare nuove guerre, ma per chiudere quelle ancora in corso e rimpatriare il maggior numero possibile di soldati americani attualmente schierati all’estero.

Al presidente statunitense interessa piuttosto ottenere un accordo differente, duraturo e non temporaneo, che chiuda per sempre all’Iran la strada verso il nucleare militare e cancelli dagli arsenali presenti e futuri di Teheran i missili a più lunga gittata: quelli che possono raggiungere non solo Israele, ma l’Europa, e che proprio per questo sono stati il presupposto formale della scelta americana di schierare nel nostro continente delle difese antimissilistiche invise alla Russia perché lesive dell’equilibrio strategico.

È probabile che le autorità iraniane abbiano compreso le intenzioni di Trump e si stiano regolando di conseguenza, dando prova ulteriore del realismo al quale da tempo uniformano il proprio comportamento. L’Iran sta riprendendo ad arricchire l’uranio, dotandosi di una posta preziosa su cui eventualmente trattare, mentre alcuni settori del suo apparato militare hanno alzato il profilo del confronto con l’America. Non puntano a un conflitto, ma a compromettere le chance di rielezione del presidente statunitense con una serie di provocazioni controllate, ma forti quanto basta per danneggiare l’immagine di Trump e farlo battere l’anno prossimo da una persona più malleabile.

Una dinamica simile si osserva anche in Estremo Oriente, un altro teatro dal quale Trump desidera ritirare le truppe statunitensi. Anche in questo caso, gli obiettivi sono ambiziosi e nuovi rispetto a quelli perseguiti in passato. Non si vuole più, infatti, congelare la situazione ereditata dalla Guerra Fredda per mantenere in quella regione grossi presidi militari americani a tempo indeterminato. Ma piuttosto cambiare profondamente la situazione, sostenendo il processo di pace intra-coreano e modificando il posizionamento internazionale di Pyongyang.

Il vero negoziato con Kim non verte davvero sulla denuclearizzazione totale della penisola coreana, che pure ne è l’obiettivo dichiarato per la parte americana. Tende invece a un traguardo più importante: lo sganciamento della Corea del Nord dall’ingombrante tutela cinese. Trump pensa di arrivarci mettendo sul piatto ingenti investimenti e l’accesso al più ricco mercato del mondo, che considera le migliori armi del suo arsenale. Alcuni mesi fa, si giunse a un’incollatura dall’accordo, ma all’ultimo il tycoon ci ripensò, a fronte dell’ampiezza delle concessioni da fare immediatamente a Kim. Varcando il confine, il presidente americano ha voluto dimostrare che il percorso non è affatto interrotto, con buona pace di coloro che fraintendono Trump, senza capire la diversità e originalità della sua visione.

Un messaggio analogo è giunto pure dal G20 di Osaka, nell’ambito del quale Trump ha fatto vedere quanto tenga anche al rilancio delle relazioni con la Russia. Il bilaterale con Putin si è svolto in un clima cordiale, evidenziando convergenze e sfociando nell’invito rivolto al presidente americano di recarsi a Mosca per assistervi il prossimo 9 maggio alla parata militare con cui i russi celebrano la loro vittoria sul Terzo Reich: un segnale significativo.

La saldatura di un blocco antagonista sino-russo non è quindi un destino ineluttabile. Trump punta a prevenirla e ha al Cremlino un interlocutore alla ricerca di alternative a un soffocante abbraccio con Pechino. Non è un caso che proprio alla vigilia dell’importante summit che si è tenuto in Giappone, Vladimir Putin abbia confidato al Financial Times la propria ammirazione per Pietro il Grande: il padre dell’occidentalismo russo.

Mail box

 

Un muro sì, ma per trattenere i nostri giovani in Italia

L’Italia è, da sempre, un Paese di emigranti. Anche adesso, nonostante stoni con lo storytelling sovranista che ci vuole addirittura “invasi”, sono molti di più gli italiani che se ne vanno all’estero che gli stranieri che vengono da noi. La preoccupazione dell’attuale governo dovrebbe essere per chi esce prima che per chi entra.

Invece, adesso, ci tocca sentire anche la follia perorata dal governatore leghista Fedriga, il quale vorrebbe che fosse eretto un muro di 243 km sul confine sloveno. Ma si rendono conto che, se si continua sulla falsariga di queste demenziali politiche, i muri li dovremo edificare non per non fare entrare, bensì per impedire che i nostri giovani se ne vadano in massa, condannando il nostro Paese a un declino irreversibile? Poi, hai voglia a dire “prima gli italiani!”.

Mauro Chiostri

 

L’aliquota fissa è un sistema fiscale iniquo e inadeguato

La flat tax, a ben guardarla, è una stupid tax. È una misura da stolti, poiché tende a semplificare ciò che è complesso. Semplificare la fiscalità e diminuire le aliquote potrebbe essere un deterrente all’evasione. Il fatto è che nessun governo precedente ha avuto la capacità e la volontà di perseguire fino in fondo tali obiettivi. Ora Salvini vuole imporre una cura drastica perfettamente in linea con il suo modo di fare politica. Lui se ne frega del concetto di equità fiscale che deve tenere conto della capacità contributiva del cittadino. Secondo me un’imposta, per essere costituzionale, deve prevedere che chi guadagna poco paghi una percentuale sensibilmente minore di chi guadagna molto. In passato c’erano trentadue aliquote di imposte, che poi si sono via via ridotte. La tassazione è diventata a mano a mano meno progressiva e sempre a svantaggio dei ceti medio bassi. Ora le aliquote sono scese a cinque e, con la flat tax mitigata, si ridurrebbero a due.

Faccio notare che il periodo in cui vi era una bassa tassazione per i ceti medio bassi e alta per i ricchi corrisponde al periodo di maggior espansione economica del nostro paese. Sarà un caso? In conclusione, dico sì alla riduzione delle tasse (ma aumentandone la progressività), in modo da raggiungere due finalità virtuose: una maggiore equità sociale e un aumento dei consumi essenziali, consoni alla dignità della persona.

Luigi Giario

 

Reddito di cittadinanza: nobile iniziativa di un operaio

Con questo intervento voglio riportare l’encomiabile gesto di un cittadino casertano a proposito di un corretto utilizzo del Reddito di cittadinanza. Non tutti si servono di questa misura per truffare lo Stato e lavorare in nero; ci sono anche dei lavoratori onesti che, spontaneamente, ripagano lo Stato offrendo il proprio contributo. Un ex operaio metalmeccanico disoccupato da 4 anni, con moglie invalida e figlia a carico, dopo aver ricevuto il Reddito di cittadinanza ha subito comprato scopa, tuta e bidone e si è messo a spazzare le strade della città, le quali riversano nell’incuria per la negligenza dei netturbini del Comune, ricevendo così l’apprezzamento di tutti gli abitanti di Caserta. Mi auguro che questo possa essere d’esempio anche per altri beneficiari dal reddito.

Mario De Florio

 

L’importanza della cultura per ampliare i nostri orizzonti

Qual è il contributo della cultura in relazione al periodo storico che stiamo attraversando? La cultura, prima di tutto, è sinonimo di istruzione e conoscenza, e ci viene in aiuto ogniqualvolta sentiamo il bisogno di accrescere il nostro bagaglio personale arricchito dai libri, dalle mostre e dal teatro.

Bisogna essere coraggiosi e riconoscere la cultura come perno principale sul quale si fonda una Nazione, nonché come propulsore di sviluppo per la pianificazione strategica dei territori ricchi di patrimoni culturali come l’italia.

Massimo Aurioso

 

Sea Watch, gravi le parole del capogruppo Pd Delrio

Trovo le parole dell’on. Delrio appena sceso dalla Sea Watch estremamente gravi, considerando la sua carica presente e quelle passate di ministro e sindaco, e soprattutto perché era presente quando la nave della Ong ha speronato e quasi schiacciato contro la banchina una barca militare italiana. Il rispetto per la legalità mostrato in questo caso da Delrio è inesistente. È grave, inoltre, la mancanza di qualsiasi interesse nazionale e di senso dello Stato. Si tratta di propaganda strumentale e ipocrita, come ha scritto ieri Daniela Ranieri.

Vincenzo Magi