Ho l’impressione che dei recenti fatti di Hong Kong, messi in forte rilievo nel nostro giornale, non si dia un quadro completo esauriente. Sulla specifica materia del contendere, la legge sull’estradizione, non penso che per qualche intellettuale perseguitato dal regime cinese si muoverebbero a centinaia di migliaia. La ragione vera, a mio avviso, è che si vogliono proteggere i milionari corrotti che la Cina vuole arrestare e che portano straordinari business e ricchezza a Hong Kong. Ma un’altra ragione mi pare evidente. Nel quadro della guerra commerciale tra Usa e Cina, tutti nel piccolo Stato vogliono mettere in evidenza che Hong Kong non è Cina, in modo che Trump sia in grave difficoltà a colpire, con i suoi dazi, assieme alla Cina, anche Hong Kong.
Renato de Chaurand
Gentile Renato, su un punto sono pienamente d’accordo con lei: che né il Fatto, che pur gli dedica spazio, né gli altri media italiani danno un quadro completo ed esauriente di quanto sta avvenendo a Hong Kong, perché il background di conoscenza è scarso e il gap d’informazione vasto; e, in Italia, ma non solo, si parla di Hong Kong quando ci sono ‘rivoluzioni’ – quella degli ombrelli o questa – e mai quando tutto è ‘business as usual’. Però, forse perché anch’io ho un deficit di conoscenza, faccio fatica a pensare che una protesta così larga e così partecipata, che mobilita giovani istruiti, non solo ‘manovali del disordine’, possa essere cinicamente orchestrata per proteggere un manipolo di milionari corrotti che la Cina vuole arrestare (ma perché?, i milionari cinesi vengono sistematicamente arrestati?, o loro sono ineccepibilmente onesti?). E neppure mi pare verosimile l’altra sua ipotesi di segno opposto: che tutto sia orchestrato dalla Cina perché emerga la ‘alterità’ di Hong Kong rispetto a quello che era il ‘Celeste Impero’ e, in caso di ‘guerra dei dazi’ con gli Stati Uniti di Donald Trump, resti una porta di servizio aperta alle merci e alle tecnologie cinesi. Non mi pare verosimile perché A) non credo che l’Amministrazione statunitense si lasci suggestionare da aneliti d’indipendenza e di democrazia; e B) se Pechino movesse le file della protesta, l’intelligence americana, per male in arnese che sia, lo saprebbe e, quindi, la manovra nascerebbe ‘fallata’. Sarò ingenuo, ma non vedo perché negare al fiume di persone nelle strade di Hong Kong un sostrato di convinzione e d’idealismo; così come non vedo alcun motivo per condividere le azioni violente di quanti devastano il Parlamento – occuparlo può andare bene, vandalizzarlo no – e danneggiano proprietà pubbliche e private. Ci sarà, forse, una Spectre a Pechino e una a Washington, e pure una a Hong Kong, e loro agitatori saranno stati presenti, magari con obiettivi divergenti, in quelle folle oceaniche, ma non ho elementi per pensare (e non voglio farlo) che abbiano mosso tutto loro. Le manifestazioni intrecciano e sommano pulsioni e sensibilità diverse: nostalgie del passato che, però, non possono essere dei più giovani; ansie del presente, di una transizione che dura da vent’anni; e timori del futuro, tra l’essere Hong Kong una sentinella dell’Occidente in Cina oppure un avamposto della Cina in Occidente. Ché, a passarci qualche giorno, uno l’interrogativo se lo pone. Come se lo pone a Shanghai.
Giampiero Gramaglia