Hong Kong. Nessun complotto sui dazi, la protesta non è orchestrata da Pechino

Ho l’impressione che dei recenti fatti di Hong Kong, messi in forte rilievo nel nostro giornale, non si dia un quadro completo esauriente. Sulla specifica materia del contendere, la legge sull’estradizione, non penso che per qualche intellettuale perseguitato dal regime cinese si muoverebbero a centinaia di migliaia. La ragione vera, a mio avviso, è che si vogliono proteggere i milionari corrotti che la Cina vuole arrestare e che portano straordinari business e ricchezza a Hong Kong. Ma un’altra ragione mi pare evidente. Nel quadro della guerra commerciale tra Usa e Cina, tutti nel piccolo Stato vogliono mettere in evidenza che Hong Kong non è Cina, in modo che Trump sia in grave difficoltà a colpire, con i suoi dazi, assieme alla Cina, anche Hong Kong.

Renato de Chaurand

 

Gentile Renato, su un punto sono pienamente d’accordo con lei: che né il Fatto, che pur gli dedica spazio, né gli altri media italiani danno un quadro completo ed esauriente di quanto sta avvenendo a Hong Kong, perché il background di conoscenza è scarso e il gap d’informazione vasto; e, in Italia, ma non solo, si parla di Hong Kong quando ci sono ‘rivoluzioni’ – quella degli ombrelli o questa – e mai quando tutto è ‘business as usual’. Però, forse perché anch’io ho un deficit di conoscenza, faccio fatica a pensare che una protesta così larga e così partecipata, che mobilita giovani istruiti, non solo ‘manovali del disordine’, possa essere cinicamente orchestrata per proteggere un manipolo di milionari corrotti che la Cina vuole arrestare (ma perché?, i milionari cinesi vengono sistematicamente arrestati?, o loro sono ineccepibilmente onesti?). E neppure mi pare verosimile l’altra sua ipotesi di segno opposto: che tutto sia orchestrato dalla Cina perché emerga la ‘alterità’ di Hong Kong rispetto a quello che era il ‘Celeste Impero’ e, in caso di ‘guerra dei dazi’ con gli Stati Uniti di Donald Trump, resti una porta di servizio aperta alle merci e alle tecnologie cinesi. Non mi pare verosimile perché A) non credo che l’Amministrazione statunitense si lasci suggestionare da aneliti d’indipendenza e di democrazia; e B) se Pechino movesse le file della protesta, l’intelligence americana, per male in arnese che sia, lo saprebbe e, quindi, la manovra nascerebbe ‘fallata’. Sarò ingenuo, ma non vedo perché negare al fiume di persone nelle strade di Hong Kong un sostrato di convinzione e d’idealismo; così come non vedo alcun motivo per condividere le azioni violente di quanti devastano il Parlamento – occuparlo può andare bene, vandalizzarlo no – e danneggiano proprietà pubbliche e private. Ci sarà, forse, una Spectre a Pechino e una a Washington, e pure una a Hong Kong, e loro agitatori saranno stati presenti, magari con obiettivi divergenti, in quelle folle oceaniche, ma non ho elementi per pensare (e non voglio farlo) che abbiano mosso tutto loro. Le manifestazioni intrecciano e sommano pulsioni e sensibilità diverse: nostalgie del passato che, però, non possono essere dei più giovani; ansie del presente, di una transizione che dura da vent’anni; e timori del futuro, tra l’essere Hong Kong una sentinella dell’Occidente in Cina oppure un avamposto della Cina in Occidente. Ché, a passarci qualche giorno, uno l’interrogativo se lo pone. Come se lo pone a Shanghai.

Giampiero Gramaglia

Ingiusta detenzione, maggioranza battuta alla Camera

Maggioranzabattuta alla Camera, 242 voti contro 240, in una votazione segreta per la modifica dell’art.315 del Codice di procedura penale. Per soli due voti di differenza è passato, contro il parere del governo, un emendamento di Enrico Costa (Forza Italia), sottoscritto anche da Carmelo Miceli (Pd), riguardante il risarcimento che può chiedere un imputato una volta assolto anche se inizialmente si era avvalso della facoltà di non rispondere.

Al voto dell’emendamento al disegno di legge sull’ingiusta detenzione in cui la maggioranza è andata sotto alla Camera, si contano 99 assenti tra i deputati di Lega e M5s. Secondo i tabulati della votazione erano presenti 88 (su 125) deputati della Lega e 157 (su 216) del Movimento 5Stelle, in tutto 245 parlamentari della maggioranza che hanno votato. I contrari alla norma, su cui il governo aveva dato parere negativo, sono stati però 240, contro i 242 che hanno dato il via libera all’emendamento. A dire sì sono stati Pd, Forza Italia, Leu e Fratelli d’Italia. Sono stati tra 8 e 10 i franchi tiratori. Occhi puntati sulla Lega, non fosse altro per l’argomento.

Tornano le espulsioni: il capo M5S sente aria di rivolta e si blinda

Se il capo voleva incutere paura, potrebbe esserci riuscito. Perché tanti volti hanno i colori della tensione e della rabbia contratta, nel martedì dei Cinque Stelle alla Camera, quello in cui si sono ritrovati con due deputate in meno, Gloria Vizzini e Veronica Giannone. Espulse lunedì sera dal gruppo (non dal Movimento, per quello ci vorrà un procedimento più lungo) su ordine di Luigi Di Maio.

Tornato ai vecchi metodi, ai fogli di via recapitati tramite il blog, perché ha fiutato aria di rivolta. Gli avevano raccontato che il dissenso silenzioso stava raggrumandosi, superando i 10-15 nomi abituali. Un gruppo potenzialmente più largo, pronto a farsi sentire alla Camera sul decreto sicurezza bis, il provvedimento stendardo della Lega che Matteo Salvini vorrebbe ulteriormente inasprire, ma deciso a darsi corpo dopo il 20 luglio, data in cui il governo avrà schivato il voto a settembre. Indiscrezioni, impressioni, paure forse esagerate.

Però Di Maio è più fragile e quindi più sospettoso dopo il tonfo del 26 maggio, e ha la Lega che lo assedia su tutto. Non vuole rischiare, tanto più ora che diffida di Alessandro Di Battista e soffre i distinguo di Roberto Fico, il presidente della Camera che chiede di definire identità e rotta del Movimento. Nume tutelare del dissenso, che però non vuole gestire, perché rifiuta il ruolo di capo-corrente. Però Di Maio ha voluto ugualmente blindare le retrovie. Così ecco il monito, cioè la mannaia per Giannone e Vizzini, dissidenti dichiarate a cui i vertici rimproverano “una somma di episodi” come spiega un big. E le restituzioni mancate, ferme all’ottobre scorso per le due elette, non rappresentano il motivo principale, visto che sono decine i parlamentari in ritardo sui versamenti, tra trascuratezza e protesta contro un rito odiato da molti.

Certo, “nelle ultime ore in tanti stanno correndo a restituire” fanno sapere dai 5Stelle. Ma sulle due deputate ha pesato soprattutto altro, dicono: dalle assenze in votazioni pesanti a una lettera critica contro il primo decreto Sicurezza. Fino alla proverbiale goccia, ovvero la partecipazione giovedì scorso a una conferenza stampa contro il 5G, tenuta alla Camera assieme a un’altra ex 5Stelle, la no wax Sara Cunial, cacciata in aprile. “È stato troppo, però non ci sono altre espulsioni di deputati in vista”, giurano dai piani alti.

Finora attenti a non toccare un’altra dissidente, la senatrice Elena Fattori, su cui è da tempo aperto un procedimento. Però venerdì hanno già espulso Paola Nugnes, anche lei senatrice, vicinissima a Fico. E i numeri a Palazzo Madama sono stretti, per la maggioranza. Così almeno per adesso Fattori resta dov’è. Ma rimangono dove sono anche quei pochi malpancisti con la voglia di farsi sentire. Tra questi Doriana Sarli, deputata campana anche lei nell’orbita di Fico, durissima: “Siamo in una dittatura dove tutto è gestito dal capo politico o dalla rete. Una rete che ci vede tutti associati in un’associazione di cui non si conoscono volti e nomi degli altri associati: è pericoloso”. Un attacco alla piattaforma Rousseau, il cuore operativo gestito da Davide Casaleggio: l’altro potere, quello di Milano. Sillabe che rimbalzano su Montecitorio, con Vizzini e Giannone che parlottano in cortile nonostante l’afa. Si avvicinano in diversi a salutarle. Giannone, salentina di 37 anni, appare addolorata. Alla buvette beve una spremuta e abbraccia Giuseppe Brescia, il presidente della commissione Cultura. Poi esplode: “Non ho ricevuto nessuna notifica d’espulsione (vero, ndr), quanto scritto sul blog sono le solite bugie e sono pronta a smentirle”.

Vizzini, 40enne siciliana trapiantata in Toscana, scambia qualche parola su un divanetto con Carla Ruocco. Sostiene: “Ci hanno espulse per garantirsi l’obbedienza sul dl Sicurezza, ce l’avevano scritto nelle chat che il governo rischia sul decreto. Le restituzioni? Come me almeno altre 40 persone non pagavano da ottobre, perché chiedevamo chiarezza sul comitato per i rimborsi che le gestisce”. Ma il suo atto d’accusa Vizzini lo riassume in una lettera consegnata al Fatto: “Ho dovuto votare un condono edilizio per Ischia, un condono fiscale, una legge di Bilancio dove c’erano il finanziamento di 45 milioni di euro alle blockchain care a Casaleggio, il superamento della Bolkenstein attraverso la proroga di 15 anni ai balneari”. Per poi insistere: “Ci siamo trovati ad agire in un’impalcatura di partito priva di trasparenza e gestita da un imprenditore senza alcuna legittimità politica”, cioè Casaleggio.

Però ora i dissidenti, nebulosa tutta da definire, cosa faranno? Qualche indizio potrebbe aversi nell’assemblea dei deputati di oggi a Montecitorio, in cui si discuterà dell’elezione del prossimo direttivo, uno dei primi punti della riorganizzazione. Di Maio potrebbe passare (ma ha il vertice sulle autonomie). Ed è possibile che qualcuno contesti le espulsioni. Ossia che ci sia un confronto, vero.

Autostrade, la tentazione di Di Maio sulla trattativa

L’intervista della mattina gli era uscita un po’ così, ambigua. Così in giornata Luigi Di Maio ha dovuto ribadire la linea su Autostrade, con un post: “Ci sono tutti i presupposti per la risoluzione unitalerale della convenzione. Il Partito dei Benetton non ci fa paura”.

Una precisazione, chissà se vera o puramente tattica, rispetto alla frase rilasciata a Repubblica: “Siamo pronti a individuare una soluzione, a patto che Autostrade paghi e si faccia giustizia verso le vittime”. E comprensibilmente il quotidiano romano ne aveva fatto il titolo del colloquio. Mentre il titolo in Borsa della holding dei Benetton era schizzato a + 3,8 per cento. Perché effettivamente il vicepremier sembrava discostarsi dalla linea dello scontro frontale, ossia della revoca della concessione, senza trattative o mediazioni. Una deviazione di linea che sicuramente sarà piaciuta alla Lega, contraria alla revoca. Ma che per potere del caso incrocia il blitz inatteso di Beppe Grillo, a Roma per partecipare a un convegno. Chiaro, sull’argomento: “Non sono decisioni che posso consigliare io, c’è Toninelli: quel che dice lui va benissimo. Se ritiene sia giusto farlo è giusto si faccia, sarebbe equo anche avere autostrade gratuite in Italia: magari, chi lo sa, potremo giungere a quello…”.

Un sostegno chiaro alla linea dura ma anche a lui, al ministro delle Infrastrutture, dato in bilico nelle ultime settimane in un possibile rimpasto. Ma Grillo lo copre, come aveva difeso settimane fa la ministra alla Salute Giulia Grillo, anche lei a rischio, con apposito post. E sono comunque segnali per Di Maio, il capo politico che sabato sul Fatto aveva definito (senza citarlo in modo diretto) “eternamente imberbe”. Però il vicepremier ha un’altra preoccupazione, far capire che su Autostrade non ha mutato direzione, o almeno assicurarlo. “Quelle parole dovevano essere un segnale di pace al Carroccio” spiega una fonte del Movimento.

Un modo per far scendere la temperatura su un altro fronte caldo. Ma l’effetto non è stato quello sperato, evidentemente. Così Di Maio nel pomeriggio di fatto si corregge: “La relazione dei tecnici del Mit è stata chiara e noi non restiamo in silenzio. Vi do la mia parola: la tragedia del Ponte Morandi non resterà impunita”. Ergo, avanti sulla revoca. Dopodiché, l’apertura di una trattativa con Autostrade viene di fatto consigliata anche dai giuristi del Mit, che nella loro relazione scrivono del rischio per lo Stato di dover affrontare un “contenzioso di importi rilevanti” nel caso di una risoluzione della convenzione unica con Aspi. Così i tecnici ritengono legittima la revoca, ma indicano anche come alternativa una revisione della concessione, proprio come vorrebbe la Lega. E come consigliano alcuni membri di governo del M5S. Ma ora sta innanzitutto a Di Maio, che ieri ha aperto e poi abiurato. O ha finto di averlo fatto.

@lucadecarolis

E i giornaloni si persero il colle

E sì che la grande stampa è sempre così solerte quando si alza un pur flebile venticello dal più nobile dei colli di Roma: ogni monito del Quirinale; ogni persuasione più o meno occulta esercitata dal presidente della Repubblica; ogni critica per quanto velata Mattarella lasci trasparire nei confronti del governo in carica (o di qualcuno dei suoi atti), corrisponde inderogabilmente a un grande titolo in prima pagina su Repubblica, Corriere della Sera e Stampa. Ieri mattina invece il lettore dev’esser rimasto disorientato. Perché il capo dello Stato si è speso con insolita energia in difesa degli interessi italiani in Europa (coincidenti in questo caso con quelli gialloverdi): “Noi crediamo che la procedura d’infrazione non abbia ragione di essere aperta”. Ma nelle prime pagine dei giornaloni questa notizia non era mica tanto evidente. Il titolo d’apertura di Repubblica era sui dati Istat: “Più lavoro, non per i giovani”. Il Corriere si è dedicato ai guai del governo: “Strappo su Ilva e Autostrade”. La Stampa invece ha puntato sull’eretico premier: “Ue, Conte si schiera con i ribelli”. Certo, nei “catenacci” e in qualche altro elemento (molto più piccolo) della titolazione si poteva pur sempre trovare un riferimento alle parole del presidente della Repubblica. Però ecco, insomma: c’è Mattarella e Mattarella.

Il premier anticipa il leghista e incontra i sindacati con Di Maio

In qualche modo è uno scacco a Matteo Salvini: oggi Luigi Di Maio e il premier Giuseppe Conte ricevono i rappresentanti dei sindacati. Un modo per anticipare il capo della Lega, che aveva annunciato a sua volta l’intenzione di incontrare le parti sociali. Intestandosi così – oltre alla gestione dell’Interno e della sicurezza pubblica – anche l’agenda economica del governo. Invece a sedersi per primi al tavolo con i sindacati oggi saranno proprio il vicepremier dei Cinque Stelle e il presidente del Consiglio. All’inizio erano previsti due incontri separati: Maurizio Landini, Anna Maria Furlan e Carmelo Barbagallo (segretari rispettivamente di Cigl, Cisl e Uil) avrebbero dovuto vedere prima Di Maio al ministero dello Sviluppo economico e successivamente, alle 17.30, Conte a Palazzo Chigi. Invece il capo del Movimento e il premier hanno deciso di fare asse: ci sarà un unico incontro comune, quello delle 5 e mezza a Palazzo Chigi. Per questo motivo, peraltro, il premier ha annullato la sua annunciata presenza alla cerimonia di apertura della XXX Universiade a Napoli.

Al posto di Draghi, l’avvocato d’affari che ha gestito con lui la crisi dal Fmi

Paradossi della storia: le teorie del complotto dicevano che lo scandalo sessuale contro Dominique Strauss-Khan nel 2011 era stato montato per cacciarlo dalla guida del Fondo monetario internazionale così da farci arrivare la ben più dura e conservatrice Christine Lagarde. Oggi viene salutata come l’erede più adatta a prendere il posto di Mario Draghi alla presidenza della Bce proprio per difendere un’eredità di politiche monetarie straordinarie e flessibili che hanno permesso di salvare l’euro e che mai sono piaciute agli oltranzisti dell’austerità.

A 63 anni, oggi la Lagarde è un simbolo delle battaglie per la parità di genere tra le economiste e nel mondo della finanza, da francese alla guida di un’istituzione basata a Washington viene considerata la più adatta a parlare non soltanto ai mercati ma anche a Donald Trump che, come si è visto in questi giorni, ha un approccio muscolare anche coi banchieri centrali degli altri Paesi. In un’intervista a Elle in aprile, che è stata letta come una mossa di posizionamento proprio nella corsa alla Bce (o alla Commissione), la Lagarde ha spiegato che non mangia carne da quarant’anni, beve poco e ha una felice vita di coppia, anche se transatlantica, “a 50 anni, e anche oltre, si può essere straordinariamente felici, e sotto tutti i punti di vista… mentale, fisico e sessuale”.

Negli Stati Uniti ci è arrivata da avvocato d’affari, dopo aver fallito l’ingresso all’Ena in Francia. Ha scalato le posizioni dello studio legale Baker & McKenzie, 3.000 dipendenti, e ne è diventata presidente. La sua carriera politica la deve a Nicolas Sarkozy, prima ministro dell’Agricoltura e poi dell’Economia e delle Finanze. Proprio in questa seconda veste inciampa nello scandalo più rilevante della sua carriera: nel 2007 avalla con troppa disinvoltura un arbitrato che risarcisce con 404 milioni (pubblici) l’imprenditore amico di Sarkozy, Bernard Tapie, per una complessa operazione su Adidas finita male. Nel 2016 la Court de Justice de la République, equivalente del nostro tribunale dei ministri, la condanna per “negligenza” ma le evita la pena.

Emmanuel Macron non ama Sarkozy e il suo mondo, ma ha visto in lei il candidato più forte per portare a un francese la Bce (ed evitare che andasse a un tedesco). E i due hanno stabilito un patto di ferro che ha permesso a Macron di essere il vero vincitore di questo giro di nomine.

Asili nido e spese militari: la vera erede della Merkel alla guida dell’Ue

Di lei tutti notano i capelli, sempre inappuntabili e fuori moda, ma se Ursula von der Leyen fosse un uomo l’attenzione sarebbe per il suo curriculum. La nuova presidente delle Commissione europea, 60 anni, tedesca, è la ministra della Difesa in servizio da più tempo al mondo e l’unica a essere rimasta sempre al governo con Angela Merkel dal primo mandato della cancelliera nel 2005. Sessant’anni, figlia di un funzionario europeo e politico tedesco, Ernst Albrecht, Ursula studia un po’ di Economia, si laurea in Medicina, esercita come ginecologa, poi si sposa bene nel 1986 con Heiko von der Leyen, ricchissimo imprenditore della seta dal quale ha ben sette figli.

È anche con queste credenziali personali che nel 2005 diventa ministro della Famiglia: la sua appartenenza sociale e la prole numerosa rassicurano l’elettorato più conservatore della Cdu cui la Von der Leyen riesce a far digerire varie riforme progressiste, come quella sul diritto al posto negli asili nido o quella dei congedi parentali per i padri. Tra 2009 e 2013 passa al ministero del Lavoro e spinge anche il governo verso il centro, si batte perché i lavoratori stranieri in Germania abbiano lo stesso trattamento economico dei tedeschi, non riesce a introdurre una legge per le quote rosa nei consigli di amministrazione.

È da ministro della Difesa che si fa una reputazione internazionale: il suo compito storico è invertire definitivamente la tradizione pacifista e neutralista della Germania post-bellica. Anche se Donald Trump le contesta di avere spese militari ancora ben al di sotto della soglia Nato del 2 per cento del Pil, Ursula avvia investimenti che porteranno nel 2024 a un aumento dell’80 per cento rispetto al livello 2014.

Tra i progetti di cui è più orgogliosa c’è l’assetto di cyber security della Germania che non ha eguali: 15.000 persone che vigilano e rispondono agli attacchi costanti dalla Cina, dalla Russia, dal crimine organizzato. Ha anche fondato una apposita università per formare le competenze richieste.

In patria la Merkel le ha preferito Annegrette Kramp-Karrenbauer come erede (presidente della Cdu). Scelta di cui pare essersi già pentita. Ma in Europa la fiaccola dell’europeismo iperprudente e pragmatico della cancelliera passa a Ursula von der Leyen.

La coppia franco-tedesca al comando dell’Unione

Non è il dream team di Giuseppe Conte, sicuramente non è quello di Luigi Di Maio e Matteo Salvini, ma è quello che offre l’Europa.

Ursula von der Leyen è stata designata come nuova presidente della Commissione europea dal Consiglio europeo con un voto unanime, a parte l’astensione della Germania. Christine Lagarde, attuale presidente del Fondo monetario internazionale, prenderà il posto di Mario Draghi alla Bce. Due donne ai più alti incarichi dell’Unione europea, dunque, una novità.

Il liberale belga Charles Michel assumerà invece la presidenza del Consiglio europeo, mentre il socialista spagnolo Josep Borrell sarà l’Alto rappresentante per la politica estera, postazione finora detenuta dall’italiana Federica Mogherini.

Le nomine dovranno ricevere il via libera dalla maggioranza assoluta del Parlamento europeo per essere formalizzate. Il Consiglio, ha spiegato il suo presidente uscente Donald Tusk, “ha preso nota dell’intenzione di Ursula von der Leyen di nominare Frans Timmermans (socialista) e Margrethe Vestager (liberale) come vicepresidenti di più alto rango” della Commissione europea. E a questi si aggiungerà, come ha spiegato Tusk e poi confermato dal premier italiano Conte, un vicepresidente dell’Italia e uno dell’Europa dell’Est.

La notizia sull’Italia non basta a placare Di Maio che, tramite fonti qualificate del ministero dello Sviluppo economico, fa sapere di non gradire le nomine di Von der Leyen e Lagarde. Anche la Lega non sembra gradire: Giancarlo Giorgetti, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, resta freddo su Lagarde – “Difficile sostituire Draghi” – mentre in serata Matteo Salvini si occupa solo del caso Carola Rackete “e non mi occupo di nomine”.

L’asse franco-tedesco. Le scelte del Consiglio, del resto, mostrano la forza dell’asse franco-tedesco: l’Unione decide conciliando le aspirazioni delle varie famiglie politiche (popolari, socialisti, liberali, etc.) ma soprattutto decide con il metodo intergovernativo. E, ancora una volta, è l’intesa tra Emmanuel Macron e Angela Merkel che forma il consenso: dal gruppo di Visegrad a est, al socialismo spagnolo rappresentato da Pedro Sánchez, all’Europa del nord e, infine, all’Italia.

I guai di Merkel. Il motore franco-tedesco è così forte che la proposta di Von der Leyen concordata tra Merkel e Macron, creerà dei problemi al governo tedesco. La Spd, partner della Cdu, ha diramato infatti una nota per bocciare la soluzione scelta e rivendicando il metodo dello spitzenkandidat secondo cui le candidature popolari di Manfred Weber, o socialista di Frans Timmermans, avrebbero dovuto avere la meglio. Weber è stato sacrificato, prima cercando di far passare il socialista olandese e poi trovando la soluzione di Von der Leyen. Per lui si profila la presidenza del Parlamento europeo nella seconda metà del mandato: la prima sarà di pertinenza dei socialisti. Ma il Parlamento europeo è già in subbuglio.

Macron vince molto. Ha concordato con Merkel la presidenza della Commissione, ma soprattutto ha piazzato una francese, Lagarde, alla testa della Bce, postazione forse superiore alla stessa Commissione. Nel quartetto principale c’è poi il liberale Charles Michel, della stessa famiglia politica del presidente francese, il quale dovrebbe poter vantare anche il ruolo di vicepresidenza che spetterà a Margrethe Vestager.

Il ritorno della Spagna. Altro vincitore secco è Pedro Sanchez che ha salutato la decisione con il grido “la Spagna è tornata”. Ed è tornata a scapito dell’Italia, se si vuole fare una valutazione di nazionalità. Il socialista Borrell prende il posto alla politica estera che Matteo Renzi aveva conquistato cinque anni fa per Federica Mogherini. Sanchez – raccontano i vari testimoni –, ha giocato un ruolo di primo piano nello svolgimento delle trattative e si pone come il socialista di riferimento in Europa occupando la carica più alta per questa famiglia politica (anche se per l’Europarlamento i Socialisti hanno candidato l’italiano, del Pd,David Sassoli).

Anche Visegrad plaude. Il metodo intergovernativo, il gioco degli scambi e dei favori, fa sì che alla fine anche il gruppo orientale di Visegrad (Polonia, Ungheria, Rep. Ceca e Slovacchia) si aggreghi alla soluzione trovata, come Viktor Orbán si premura di dichiarare. Si conferma l’internità di questo gruppo alla logica franco-tedesca che alla fine non viene smentita.

Il ruolo dell’Italia. Dopo aver avuto la presidenza della Bce, quella del Parlamento europeo e l’incarico di Alto rappresentante, la riduzione di peso dell’Italia era inevitabile, inutile ricamarci. Quella congiuntura è stata eccezionale, difficile ripeterla. Le posizioni politiche del governo italiano non consentivano di trattare alla pari con le altre famiglie politiche che, addirittura, hanno pensato di estromettere il gruppo di Identità democratica, cui è iscritta la Lega dalle vicepresidenze dell’Europarlamento (tentativo destinato al fallimento).

Conte ottiene, se agli annunci seguiranno i fatti, un risultato positivo con la vicepresidenza e un contestuale incarico economico. Tusk ha parlato solo di vicepresidenza, mentre Conte si è spinto a dire che all’Italia potrà toccare il portafoglio della Concorrenza, quello attualmente detenuto dalla Vestager e in passato da Mario Monti. Un nome spendibile potrebbe essere quello di Dario Scannapieco, vicepresidente della Banca europea degli investimenti, cresciuto con Draghi e stimato da Lega e M5S.

L’infrazione rimandata? Da tutto questo, infine, l’Italia potrebbe uscire con la decisione dello stop della procedura di infrazione. Il Consiglio dei capi di gabinetto della Commissione è stato rimandato a oggi, Conte ha detto di essere “confidente” che la decisione sarà positiva e lo stesso ha detto il ministro Giovanni Tria. A quel punto il governo potrà dirsi pienamente soddisfatto.

Antimafia in Veneto, la summer-school di Nando dalla Chiesa

L’8 e il 9 luglio apre a Campolongo Maggiore (Venezia), nella ex Villa Maniero, la summer school antimafia diretta dal professor Nando dalla Chiesa. La manifestazione, patrocinata dalla Regione Veneto e organizzata dal Comune di Campolongo, è aperta anche ai ragazzi dal terzo anno delle scuole superiori e sarà considerata valida come programma di alternanza scuola-lavoro. Lunedì 8 luglio in questa sede verrà presentato in prima nazionale il nuovo rapporto del Cross (Osservatorio sulla criminalità organizzata degli studi di Milano) sulle mafie al nord. La scuola sarà completamente gratuita per i partecipanti perché le spese sono coperte da sponsor privati. Tra i tanti interventi previsti nella due giorni – dopo l’introduzione di Dalla Chiesa – ci saranno quelli di Francesco Saverio Pavone (il Giudice istruttore del processo alla Mala del Brenta), l’ex deputato del Pd Alessandro Naccarato, Elviro Sabino Labagnara (Comandante dei carabinieri Ros del Veneto), Pierpaolo Romani (coordinatore nazionale di Avviso Pubblico) e una lectio curata da Libera sulla percezione del fenomeno mafioso in Veneto.