“Quell’orso è confidente, se ti bussa alla porta…”

Nelle difficoltà quotidiane della convivenza tra 5Stelle e Lega ci mancava giusto l’affaire orso. Succede in Trentino, dove un grosso e vorace plantigrado (nome in codice M49) sta facendo strage di bestiame. Causando una lite furibonda tra il presidente della provincia di Trento Maurizio Fugatti (salviniano) e il ministro dell’Ambiente Sergio Costa (il grillino): il primo vuole “carcerarlo”, il secondo lo difende in nome della sensibilità animalista. Ma Fugatti è inflessibile: “Quest’orso – sostiene – ha fatto da solo l’80% dei danni procurati dai grandi carnivori negli ultimi due anni”.

Che danni, presidente?

Uccide il bestiame: mucche, pecore, capre, cavalli… Quello che trova sulla sua strada, lui l’ammazza.

Un guaio per gli allevatori.

Scrissi per la prima volta al ministro Costa a febbraio, mentre lui (l’orso, ndr) era in letargo. Ero preoccupato e avevo ragione: appena si è svegliato, ad aprile, ha ricominciato a mangiarsi tutto.

Perché fa così? Gli altri orsi sono più gioviali?

È un “orso confidente”. È una definizione tecnica. Si avvicina alle strutture, alle malghe, ai caseifici. Se non bastasse, questo qua prova a entrare pure nelle case. Se trova la porta chiusa, prova ad aprirla. Gli altri orsi non lo fanno.

Apre le porte? Come i velociraptor di Jurassic Park?

Le dico che non è una cosa carina. Lei se ne sta casa, tranquillo, e si trova l’orso che bussa alla porta. Se non apre, l’orso gliela tira giù. Sta accadendo con una certa regolarità nelle ultime settimane.

È sempre lo stesso?

Sempre lui.

In che zona?

Tra Desenzano e Tione di Trento. La situazione è sempre più pericolosa. Finché ammazza gli animali è grave, ma provi a mettersi nei panni del cittadino che si trova l’orso alla porta.

Non è gradevole.

Io non posso aspettare che l’orso faccia del male a qualcuno perché il ministero si muova. Ho fatto convocare il comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica con il prefetto, i sindaci, gli allevatori, le aziende sanitarie. È emerso che siamo di fronte a un orso socialmente pericoloso. Ci dobbiamo muovere.

Ma il ministro è preoccupato per la salute dell’orso.

Noi non l’uccidiamo mica. Andrà in un posto largo, sereno, vivrà tranquillamente.

Recluso però.

In Trentino abbiamo tante belle strutture. Pensi che di recente abbiamo dovuto catturare un orsetto che si era infortunato e si era separato dalla madre. Rischiava di morire. L’abbiamo preso, lo stiamo allevando e nei prossimi giorni lo libereremo. Non siamo persone cattive.

Con i Cinque Stelle litigate pure sugli orsi. Che ne dobbiamo pensare?

Guardi, io ho fatto il sottosegretario: vengo dalla montagna, non dalla luna. Costa è una persona seria. Sono convinto che darà il via libera, ma non possiamo aspettare.

Lei intanto ha già firmato l’ordine di cattura?

Lunedì.

Un contrappasso per voi leghisti fissati con la sicurezza: in Trentino non c’è il migrante nero, ma l’orso bruno.

Si immagini un orso che si avvicina alle case, alle stalle. Ha ammazzato un cavallo a 300 metri da un’abitazione. Qui la gente ha paura. Paura.

Possiamo tranquillizzare Costa? Prometta che all’orso non verrà torto un pelo.

L’orso sarà catturato e verrà messo in un recinto ben strutturato, dove sarà accudito e potrà vivere serenamente.

Gentiloni e Minniti lasciano Zingaretti da solo sulla Libia

Oggi, mentre si vota la quarta missione sulla Libia, quella che prevede il sostegno alla Guardia costiera, il Pd potrebbe uscire dall’aula.

A proporre questa soluzione è stato Dario Franceschini, dopo che l’assemblea del gruppo alla Camera, ieri, ha fatto registrare assenze, silenzi e tensioni. E sta a Graziano Delrio, il capogruppo, trovare una mediazione. “Non è giusto che tutte le tensioni si scarichino sul gruppo”, è lo sfogo dei parlamentari in processione da lui. Il corollario: “Dove sta il segretario?”

Più che un gruppo, ormai, è un raggruppamento di persone perennemente in disaccordo. Stavolta, sullo sfondo lo scontro tra la linea che fu di Minniti e quella di Matteo Orfini, che si erano già contrapposte l’anno scorso. Ma mentre lo stesso ministro degli Esteri Moavero ammette che non ci sono “porti sicuri” in Libia, la linea ufficiale della maggioranza del Pd prevede di votare tutte e 4 le missioni, tra cui quella a sostegno della Guardia costiera libica, con 25 uomini impegnati nell’addestramento del personale e nella manutenzione delle motovedette donate. Ad illustrarla ci sono il responsabile Esteri, Enzo Amendola e la capogruppo dem in Commissione Esteri, Lia Quartapelle. E si basa sul fatto che a siglare gli accordi con i libici era stato proprio il governo Gentiloni-Minniti. E qui si arriva alle assenze: l’ex premier e l’ex ministro dell’Interno (che pure è in aula a votare) non partecipano. Nicola Zingaretti, che pure ha avallato la linea della continuità con i governi del Pd, neanche.

Amendola dà la cornice: “Non è il caso di stracciare gli accordi, non è di sinistra. L’ingerenza umanitaria lo è”. Ma poi lui stesso indica il problema: “Piuttosto denunciamo il perché ora non funzionano. Il nostro obiettivo è svuotare i campi con i corridoi umanitari e i rimpatri volontari, non con gli sbarchi”. Perché poi, quello che è successo nell’ultimo anno è che con Salvini al Viminale di corridoi umanitari non si parla più. E quindi Amendola ha un bel dire che bisogna “mettere in mora il governo attuale sulla Libia”. E la Quartapelle ha un bel ribadire che si tratta di “missioni già votate da chi oggi dice no”.

Sulla continuità in politica estera i dubbi serpeggiano, le ambizioni di “commissariare” il governo vacillano. È la stessa maggioranza a essere in difficoltà: Andrea Orlando, vicesegretario, c’è, ma non parla. Paola De Micheli, vicesegretaria, entra ed esce, ma non parla neanche lei.

A sinistra piaceva poco Minniti, figuriamoci Salvini. Matteo Orfini, oggi in minoranza, della categoria ex renziani di sinistra, va all’attacco: “È stato un errore delegare tutto ai libici”, dice, confermando il no alla risoluzione. E definisce “vergognose” le assenze di Minniti e Gentiloni. Batteria di interventi dei “suoi”: Fausto Raciti, Giuditta Pini, Enza Bruno Bossio. Quel che resta dei Giovani Turchi. Ma alla battaglia viene conquistato pure Gennaro Migliore, che fu di Rifondazione e poi diventò fedelissimo della Boschi.

In questo contesto, i renziani affondano facile. Da chi, come Andrea Romano, lo fa da destra, sostenendo le motivazioni dell’ “ingerenza umanitaria”, ma dicendo che ce ne vorrebbe di più. A chi come Anna Ascani motiva: “Per applicare gli accordi ci vuole un impegno del governo. E al governo c’è Salvini”. In difesa della linea ufficiale solo Andrea De Maria e un Piero Fassino, esplicitamente dubitante. Lorenzo Guerini, leader della corrente lottiana, sta zitto.

Stamattina alle 10 si ricomincia, al Senato e alla Camera. Se il Pd non vota, per la maggioranza è una sconfessione.

La guerra (persa) contro il digiuno di mia madre

Sulle ragioni della mia fame congenita ho sempre avuto un dannato sospetto. Io ritengo che la mia fame ciclopica nasca dall’inappetenza ciclopica di mia madre. Sono pressoché certa del fatto che mentre mia madre era incinta di me, nei nove mesi di gestazione, attraverso il cordone ombelicale che mi ha legata indissolubilmente alle sue decisioni alimentari, sia passato il fabbisogno calorico di una quaglia.

Sono convinta che la piccola voglia rossa dietro al collo con cui sono nata, non fosse una voglia di fragola ma una M di McDonald’s. Sono totalmente persuasa del fatto che io sia nata podalica perché volevo nascere in piedi, già in posizione per piazzarmi davanti alla cassa di Krispi Kreme e chiedere una ciambella Biscotti Oreo e creme brulée. Credo di aver sperato, quando sono nata, che le ostetriche mi lavassero e asciugassero perché si andava tutti insieme al ristorante.

Mia madre, al contrario mio, è nata sazia. Le cose peggiorarono quando mia madre iniziò la fase di militanza radicale. Cioè, era una fervente adoratrice di Pannella da tempi non sospetti e Radio Radicale era sempre stata il sottofondo delle sue giornate da casalinga affannata, ma a un certo punto decise che il supporto morale alle sue battaglie non bastava più. Mia madre decise che per lei era arrivato il momento di digiunare, quando Marco Pannella digiunava per protestare contro qualcosa. In pratica, per lunghi periodi, tagliava anche il suo pranzo frugale e il biscotto con cui accompagnava il tè serale. Mia madre viveva ormai ufficialmente di ossigeno e di pulviscolo incidentalmente aspirato. Io mi sentivo sempre più una nata nella famiglia sbagliata.

Ricordo che a 12 anni provai a convincerla che avrei potuto partecipare anche io a questa grande, simbolica protesta alimentare, solo che al contrario suo e di Pannella io avrei potuto protestare mangiando tantissimo, fino a implodere, come metafora dell’Occidente pingue ed egoista contrapposto al Terzo mondo affamato. Non la convinsi. Nel frattempo mia madre era sempre più debole e sempre più disinteressata alla sopravvivenza calorica della sua famiglia, per cui mio padre divenne il re delle frittate e delle “paste fantasia”, così ribattezzate non per gli ingredienti creativi ma perché ritenerle qualcosa di commestibile richiedeva una fantasia da autore di romanzi noir.

Io detestavo veder digiunare mia madre. Mi faceva sentire un’albina nata in una famiglia di africani. Ero una ragazzina a cui piaceva mangiare e non comprendevo il suo slancio ideologico oltre che la sua ferrea, inflessibile capacità di addestrare la fame. Era un’austerità per la quale non ero stata programmata e il paradosso più intollerabile è che mi aveva programmata lei. Finché non mi venne un’idea.

Radio Radicale, in quel periodo, intraprese l’esperimento soprannominato “Radio Parolaccia”: fu lasciata a disposizione degli ascoltatori una segreteria telefonica su cui si poteva registrare un messaggio di un minuto con le proprie considerazioni su qualsiasi tema. E poi il contenuto veniva mandato in onda. Come accade oggi sui social network, la gente affidava a quella segreteria messaggi di rabbia e battute da bar, oltre che minacce, dichiarazioni d’amore e di odio, considerazioni sui politici e sui vicini di casa.

Una volta io e mia madre udimmo forte e chiaro un ragazzo urlare in quella segreteria: “Volevo dire al maresciallo Lomazzo che oggi era il mio ultimo giorno di leva obbligatoria e che ora per me la sua tromba se la può infilare su per il culo! E forza Juve!”. Ci prese un colpo. Il maresciallo Lomazzo era un nostro vicino di casa nonché il maresciallo dei bersaglieri della caserma del nostro quartiere. Aveva la fama di essere piuttosto sadico e di tollerare con perverso godimento atti di nonnismo praticati lì dentro. Qualcuno aveva trovato il modo per dirgli che era uno stronzo, senza conseguenze. Fu lì che mi venne l’idea.

Un pomeriggio in cui mia madre era chiusa in cucina e mio padre era in giardino, presi uno straccio della cucina e in perfetta modalità “Fantozzi, è lei?”, lo appoggiai sulla cornetta del telefono. Composi il numero della segreteria telefonica di Radio Radicale. Trovai occupato. Occupato. Sempre occupato. Mezza Italia possedeva finalmente un pulpito, un megafono o una fionda, a seconda dei casi, per condividere o espellere il proprio pensiero. Ci riprovai per giorni, finché un giorno, finalmente, trovai libero.

Appena il bip mi diede il via per parlare, con una voce che pareva quella di un fumatore decennale di Nazionali senza filtro, dissi: “Signora Nadia Lucarelli, lei la deve smettere di digiunare, i suoi figli sono molto tristi se lei non mangia perché loro invece hanno tanta, tantissima fame e poi si ricordi che Marco Pannella si fa le carbonare di nascosto, lo sanno tutti!”. Mia madre sentì quel messaggio in radio. Riconobbe la mia voce camuffata. Mi prese da parte con aria mesta e mi disse che era molto dispiaciuta. Molto triste. Io ero imbarazzata ma finalmente le avevo detto che avevo fame e che i suoi digiuni non c’entravano niente con me, io non volevo una madre preoccupata per non so quale legge ingiusta nel mondo, io volevo una madre con cui dividere pane e porchetta e un bicchiere di Coca Cola freddissima.

Mia madre mi prese la mano, mi guardò negli occhi e disse: “Sono tanto triste. Non avevo capito che pensassi questo. Selvaggia, amore di mamma, credimi…”. Io sentivo che stavo per piangere. Sentivo che pane e porchetta erano sempre più vicini. “Marco Pannella non si fa le carbonare di nascosto. Non devi pensare una cosa così brutta e triste. È un uomo che crede davvero in quello che fa e non prenderebbe mai in giro le persone che credono in lui e nelle sue idee. Non dirlo mai più!”. Marco Pannella aveva vinto ancora una volta. Il suo digiuno era più importante della mia fame.

Impiegai qualche anno a capire che mia madre, mentre digiunava e provava a dare il suo contributo per cambiare il mondo dal tinello della sua casa, mi stava insegnando qualcosa. Prima di allora capii che certi problemi, quelli più elementari, bisogna risolverseli da sé. Fu così che chiesi e ottenni la paghetta e con le 10 mila lire a settimana che mi davano iniziai a fare scorta di snack ipercalorici e a nasconderli sotto al materasso come i topi.

Quell’anno Marco Pannella vinse la sua battaglia e io, poco tempo dopo, iniziai ufficialmente quella col mio peso. Mia madre oggi ha 76 anni, pesa 49 chili e ancora adesso, se le offro di assaggiare un tiramisù col cucchiaino, mi guarda come se fossi uno spacciatore di Parco Pagano che vuole iniziarla al mondo delle droghe sintetiche.

“L’Italia è il Paese più colpito dai paradisi fiscali europei”

La concorrenza fiscale sleale di alcuni Paesi a danno degli altri è uno dei principali elementi di destabilizzazione dell’Unione europea, ben più dirompente dei populismi. E il Paese maggiormente penalizzato dai paradisi fiscali europei è proprio l’Italia. A lanciare l’allarme sulle pratiche di alcuni storici membri dell’Ue è stato ieri il presidente dell’Antitrust, Roberto Rustichelli, in occasione della presentazione del rapporto annuale in Parlamento. “Questa malsana competizione – ha spiegato Rustichelli – è frutto di egoismi nazionali e rischia di incrinare i valori che hanno sorretto il processo di integrazione europea”. La concorrenza fiscale di alcuni Stati quali l’Olanda, l’Irlanda, il Lussemburgo e il Regno Unito è utilizzata, come rilevato dalla stessa Commissione, dalle multinazionali per forme di pianificazione fiscale aggressiva.

Il fenomeno non è di facile quantificazione, ma il rapporto Aggressive tax planning indicators della Commissione analizza la questione e i suoi effetti. La concorrenza fiscale genera evidenti vantaggi per taluni Paesi. Il Lussemburgo, Paese di 600 mila abitanti, è in grado di raccogliere imposte sulle società pari al 4,5% del Pil, a fronte del 2% dell’Italia. Anche l’Irlanda (2,7%) fa meglio dell’Italia, nonostante un’aliquota bassa, che però è in grado di attrarre imprese con un margine operativo lordo mediamente pari al 69,4% del valore aggiunto prodotto. Gli investimenti internazionali si adattano alla geografia della concorrenza fiscale, segnala l’Antitrust. L’Italia attira investimenti esteri diretti pari al 19% del Pil; il Lussemburgo pari a oltre il 5.760%, l’Olanda al 535% e l’Irlanda al 311%. Valori così elevati non trovano spiegazione nei fondamentali economici di questi Paesi, ma sono riconducibili alla presenza di società veicolo. Le imprese a controllo estero rappresentano oltre un’impresa su quattro del Lussemburgo, mentre generano il 73,6% del margine operativo lordo complessivo prodotto dalle imprese in Irlanda, a fronte del 12,7% in Italia.

Uno studio del ministero delle Finanze olandese mostra che i soli flussi finanziari (dividendi, interessi e royalties) che attraversano le società di comodo olandesi ammontano a 199 miliardi (il 27% del Pil). Alcuni Paesi guadagnano, altri ci perdono. Il sistema non solo drena risorse dalle economie in cui il valore è effettivamente prodotto, ma riduce la capacità di raccogliere risorse, impedendo una più equa tassazione dei profitti delle imprese. E l’Italia è certamente uno dei Paesi più penalizzati.

Un esempio? La Fiat Chrysler Automobiles. “Si pensi – avverte Rustichelli – al rilevante danno economico per le entrate dello Stato causato dal trasferimento della sede fiscale a Londra di quella che era la principale azienda automobilistica italiana, e dal trasferimento della sede legale e fiscale in Olanda della società sua controllante”. Il dumping fiscale costa a livello globale 500 miliardi di dollari l’anno, valuta l’Antitrust, con un danno per l’Italia tra i 5 e gli 8 miliardi di dollari l’anno. “Una concorrenza fiscale di cui beneficiano le più astute multinazionali, pone le imprese italiane, soprattutto quelle piccole e medie, ma anche le grandi che mantengono comportamenti fiscali lodevolmente etici verso il nostro Paese, in una situazione di grave svantaggio competitivo – osserva Rustichelli –. È la riduzione degli introiti dovuta agli egoismi di pochi impedisce di abbassare le tasse alle imprese e ai cittadini, e spesso impone ai governi che la subiscono politiche fiscali più severe”.

Il principali indiziati sono gli accordi fiscali (tax ruling) siglati dalle multinazionali con alcuni Paesi, al centro dello scandalo LuxLeaks che coinvolgeva il Lussemburgo guidato dall’attuale Presidente della Commissione, Jean Claude Juncker. L’inchiesta giornalistica individuò trecento aziende offshore in tutto il mondo, di cui 31 in italia. La Commissione ha individuato numerosi tax ruling in violazione delle norme sugli aiuti di Stato, imponendo, tra l’altro, all’Irlanda di recuperare 14,3 miliardi di euro da Apple, al Lussemburgo di recuperare 282,7 milioni da Amazon e 23,1 da Fiat Finance and Trade. Rimane il nodo irrisolto della tassazione delle imprese digitali, sul quale si stenta a trovare una soluzione condivisa a causa dell’opposizione di alcuni Paesi membri, per cui il dibattito è destinato a svilupparsi a livello dell’Ocse, in un contesto multilaterale ancora più complesso di quello europeo.

L’integrità del mercato unico, secondo il rapporto, è posta a repentaglio anche da pratiche di dumping sociale/contributivo. Sulla loro scia si muovono le delocalizzazioni delle imprese, che sfruttano le minori tutele previste per i lavoratori nei paesi dell’Est: “Anche in questo caso, l’utilizzo distorto delle libertà fondamentali indebolisce il principio del mercato interno, mina la competitività delle imprese e innesca una rovinosa concorrenza al ribasso nelle politiche sociali e ambientali”.

“Si costruiscono armi e poi non si accolgono rifugiati e migranti”

“Il mondo attuale è ogni giorno più elitista e ogni giorno è più crudele con gli esclusi”. All’indomani dell’annuncio di una messa per i migranti, i volontari e i soccorritori che celebrerà lunedì prossimo in San Pietro, nel sesto anniversario della sua visita a Lampedusa, papa Francesco lancia un nuovo, forte monito non solo sulla crescente esclusione verso gli ultimi, ma anche sulla “crudeltà” che nel mondo di oggi si accanisce contro di loro. Il Papa, infatti, “non esclude nessuno” in un video inedito fatto per preparare la prossima Giornata Mondiale del migrante e del rifugiato (domenica 29 settembre 2019) sul tema “Non si tratta solo di migranti”. Purtroppo, rileva Francesco, “i Paesi in via di sviluppo continuano ad esaurire le loro migliori risorse naturali e umane a vantaggio di alcuni pochi mercati privilegiati”. Inoltre, mentre “le guerre colpiscono solo alcune regioni del mondo, la costruzione e la vendita delle armi avviene in altre regioni, che poi non vogliono prendersi cura dei rifugiati, non vogliono, non accettano questi rifugiati che tali conflitti generano. Molte volte si parla di pace, però si vendono armi – denuncia Bergoglio –. Possiamo parlare di ipocrisia in questa lingua?”.

Immigrazione, Conte chiama Zingaretti (da Osaka)

Nicola Zingaretti lo invoca, Giuseppe Conte risponde. Cioè lo chiama. Il segretario del Pd qualche giorno fa aveva chiesto al premier un incontro chiarificatore sulla Sea Watch. E così Conte, arrivato ad Osaka, ha preso il telefono e l’ha chiamato (come scriveva il Foglio ieri). L’altro, ovviamente, ha risposto. Di che hanno parlato i due? Si sono aggiornati al rientro del premier, per affrontare un tema in particolare: l’immigrazione. Non poco, visto che si tratta di una delle bandiere di Matteo Salvini, che di Conte è il vicepremier. La cosa non ha ancora avuto seguito, ma d’altra parte Conte è stato impegnato nel Consiglio europeo di Bruxelles. Non è detto che vada avanti, ma non è neanche detto che finisca qui.

Perché si tratta di un segnale che va interpretato alla luce di un contesto, che fa segnalare un certo smarcamento del premier su alcune questioni, soprattutto la politica estera. In tutta la partita europa per arrivare alle nomine e per evitare la procedura per indebitamento eccessivo, Conte ha fatto sponda prima di tutto con Sergio Mattarella e ha cercato di mediare tra le esigenze dei suoi partner di governo e le ragioni dell’Europa. Senza contare che il ministro degli Esteri è Enzo Moavero Milanesi, percepito più come un tecnico, che come un politico. E peraltro l’unico gradito al Pd nella maggioranza come ipotetico Commissario.

Ancora, i Dem su alcuni temi (sempre di politica estera) stanno cercando di non mettersi in opposizione a quella che viene percepita come la parte più “potabile” del governo: sulla moratoria delle armi vendute all’Arabia Saudita e usate contro i civili in Yemen, il Pd di maggioranza ha apprezzato il passo avanti. E oggi sulla Libia i Dem voteranno il proseguimento delle missioni. Almeno di 3 su 4: sul rinnovo del supporto alla Guardia Costiera libica dovrebbero uscire dall’Aula.

“Se in mare interviene la Ong non c’è sequestro di persona”

Nel suo scontro con Carola Rackete, il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, poteva contare su un decreto di archiviazione del Tribunale dei ministri di Catania, emesso il 30 maggio, ma che solo ora il Fatto può raccontare in dettaglio. Stabilisce, in sintesi, che tenere una nave Ong carica di migranti al largo non implica un sequestro di persona se questa è arrivata senza un coordinamento con le autorità italiane. La decisione archivia Salvini, il premier Conte e i ministri Toninelli e Di Maio dopo le denunce di varie associazioni che avevano spinto la Procura di Catania a indagare i membri del governo coinvolti. La vicenda riguarda sempre la Sea Watch 3, i fatti risalgono a gennaio, ma sono simili a quelli dei giorni scorsi.

Il provvedimento, firmato dal giudice estensore Paolo Corda e dal presidente del Tribunale Nicola La Mantia (nel collegio c’era anche la giudice Sandra Levanti), parte da una ricostruzione degli eventi. Il 15 gennaio, la Sea Watch 3 ha soccorso “autonomamente” un gommone con 47 migranti a 26 miglia da Zaura, dentro la zona Sar – ricerca e salvataggio – della Libia. Alle 12.47 la Ong avanza richiesta di Pos, un “posto sicuro” dove portare le persone salvate, alle autorità libiche, italiane, maltesi e olandesi (Sea Watch è tedesca, ma la nave batte bandiera olandese). Il coordinamento italiano, IMRCC, replica che la risposta deve arrivare dalla Libia, perché l’intervento è stato nella sua zona, o dallo Stato di bandiera della nave, l’Olanda.

Tre ore dopo, la Sea Watch 3 inoltra di nuovo la stessa richiesta e annuncia di aver iniziato a navigare verso Nord per “il sopraggiungere di una perturbazione” che metteva in pericolo equipaggio e passeggeri. Il provvedimento del Tribunale, però, precisa che una risposta era arrivata: l’Olanda con il suo centro di coordinamento marittimo JRCC aveva scritto via email: “Confermiamo di aver chiesto alle autorità tunisine il permesso per la Sea Watch 3 di cercare riparo per il meteo avverso nelle vicinanze della costa e l’organizzazione Sea Watch ne è stata informata”. Ma la nave Ong continua ad andare verso Nord, superando Malta e puntando verso la Sicilia, anche se il coordinamento italiano MRCC ribadisce che non è compito suo assegnare il Pos. Il 25 sera, a mezzanotte e mezza, la Sea Watch chiede di attraccare nel porto di Siracusa: la Capitaneria di porto assegna un “punto di fonda” in attesa di ricevere indicazioni dal ministero dell’Interno sul Pos, cioè l’indicazione formale di un “posto sicuro” per lo sbarco. Indicazione che arriverà soltanto il 31 gennaio (Catania), dopo una settimana di quello schema che abbiamo imparato a conoscere: Salvini non autorizza, la Ong denuncia situazioni critiche a bordo, l’autorità sanitaria e quella giudiziaria fanno sbarcare le persone più vulnerabili (in quel caso 13 minori).

Impedire l’attracco e lo sbarco è reato? Il Tribunale dei ministri stabilisce un principio: la responsabilità è del ministro dell’Interno, quindi di Salvini, l’unico che ha il potere di ritardare l’assegnazione del Pos e quindi bloccare lo sbarco dei migranti. Il giudice stabilisce che è irrilevante perfino il fatto che la questione sia stata discussa in un Consiglio dei ministri del 28 gennaio: tutti i provvedimenti amministrativi con un impatto sulla questione sono della filiera burocratica del Viminale.

Il reato, comunque, non c’è, dice il Tribunale: le “peculiarità” del caso sono tali da “escludere tout court in radice la sussistenza degli elementi costitutivi e strutturali del reato ipotizzato di sequestro di persona, sotto il profilo del ‘carattere illegittimo della privazione della libertà, in quanto adottata contra legem’”. Eppure lo stesso Tribunale dei ministri avrebbe voluto processare Salvini – poi salvato dal voto del Parlamento – per un comportamento analogo nel caso della nave militare Diciotti. In quel caso la scelta di tenere ferme in mare persone già provate da una lunga traversata e dagli stenti precedenti, per lo stesso Tribunale dei ministri di Catania, comportava “circostanze che manifestano le condizioni di assoluto disagio psico-fisico sofferte dai migranti a causa di una situazione di ‘costrizione’ a bordo non voluta e subita, così da potersi qualificare come ‘apprezzabile’”. In quel caso, quindi, il reato c’era. A cosa si deve ora una valutazione opposta dallo stesso Tribunale?

Il collegio catanese offre una risposta che non ha a che fare con la condizione dei migranti (la stessa nei casi Diciotti e Sea Watch 3, si immagina) ma con la natura del soccorso: nel caso della Diciotti, l’operazione di soccorso era stata condotta dalla Guardia costiera italiana, qualificata come evento Sar, coordinata dal MRCC italiano e quindi c’era “l’obbligo giuridico dello Stato italiano a rilasciare un Pos”. La scelta di non concederlo, difesa da Salvini per giorni, influiva quindi sulla valutazione di “illegittimità della coercizione fisica dei migranti conseguente alla mancata introduzione del Pos”. A gennaio, invece, la Sea Watch 3 non si è mai coordinata con l’Italia che si è limitata a concederle di sostare al largo di Siracusa per superare il maltempo, ma poi avrebbe potuto (e dovuto, è il sottinteso) ripartire. “Se avesse manifestato l’intenzione di andarsene, non penso che glielo avremmo potuto impedire”, dice a verbale il comandante Luigi D’Aniello della capitaneria di porto di Siracusa. L’ultimo caso della Sea Watch 3 è molto più simile a quello che ha coinvolto la stessa nave in gennaio che a quello dello scorso agosto con la Diciotti.

“Senza la Mare Jonio, Mediterranea torna nell’area Sar libica”

“Siamo partiti, Mediterranea torna in mare. Non ci siamo mai fermati, a dire il vero, perché non è sequestrando una nave che si possono fermare Mediterranea e la sua missione. Torniamo in mare quindi, anzi ci siamo già. Senza la Mare Jonio, che assurdamente rimane dietro il cancello di un porto per avere salvato 30 persone, tra cui la nostra piccola Alima. Senza i nostri comandanti, indagati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, come Carola Rackete, semplicemente per avere fatto quello che è giusto, quello che il diritto del mare e dei diritti umani prevede”. Così, l’ong Mediterranea Saving Humans. Che spiega: “Siamo partiti con quella che fino a ieri era la nostra barca di appoggio, la Alex, con cui ora stiamo navigando per portare avanti la missione di Mediterranea – dice la ong –. Monitorare e denunciare le violazioni dei diritti umani in un mare che i governi europei hanno trasformato in un cimitero deserto; prestare il primo soccorso a chi ha bisogno di aiuto”. “Raggiungeremo la cosiddetta Sar libica, una zona controllata da milizie colluse coi trafficanti di esseri umani, legittimati dalle politiche italiane e dell’Ue. La nostra presenza è l’unico ostacolo alla loro azione criminale”.

“Non c’è prova di contatti con gli scafisti”

Era il 22 marzo 2017 quando il procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, davanti al comitato parlamentare Schengen riunito a Montecitorio parlò per la prima volta di possibili connivenze tra le ong e gli scafisti. È ancora a Montecitorio che ieri, dopo oltre due anni e mezzo di indagini, il capo dei pm di Agrigento, Luigi Patronaggio, ha detto che “non è stato fino ad ora provato il preventivo accordo tra trafficanti di esseri umani ed ong. Che non deve essere – ha spiegato – limitato ad un semplice contatto, tipo una telefonata, ma deve esserci una comunicazione del tipo: ‘Stiamo facendo partire migranti, avvicinatevi e prelevateli’”.

Patronaggio nel 2018 incriminò per sequestro di persona Matteo Salvini (salvato poi dal voto del Senato) nel caso della nave Diciotti e ora indaga la comandante della Sea Watch 3 Carola Rackete per resistenza e violenza contro nave da guerra e favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Quest’ultimo reato dal 2017 è stato più volte ipotizzato in Sicilia a carico di responsabili delle ong e delle loro imbarcazioni, l’indagine più avanzata è a Trapani sulla nave Juventa della ong tedesca Jugen Rettet (sequestrata due anni fa) che coinvolge anche esponenti di Msf e Save the Children, ma per ora non è iniziato neanche un processo e molti casi sono stati archiviati. Lo stesso Zuccaro non disse di avere prove. I Servizi però hanno intercettato comunicazioni satellitari e passaggi apparentemente “mirati” delle navi ong a poche miglia dalle coste libiche negli anni dell’emergenza (nel 2016 in Italia si contarono 181.436 sbarchi, nel 2017 con Marco Minniti al Viminale scesero a 85 mila, nel 2018 con il governo gialloverde in sella da giugno a 16 mila e quest’anno siamo a 2.800).

Patronaggio ha chiarito che i migranti “soccorsi dalle ong rappresentano una porzione insignificante”, sottolineando che mentre si discuteva dei 40 della Sea Watch a Lampedusa sono sbarcati in 200. Il magistrato parlava alle commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera nel dibattito sulla conversione del decreto Sicurezza bis di Salvini, che introduce tra l’altro il divieto d’accesso alle acque italiane per le navi ritenute “non inoffensive”, le multe fino a 50 mila euro che saranno inaugurate per Sea Watch 3 e la confisca delle imbarcazioni in caso di “recidiva”.

Il procuratore di Agrigento ha evidenziato “problemi di raccordo con il diritto internazionale e la normativa interna” su immigrazione e soccorsi in mare. Rilievi analoghi sono stati avanzati da Francesca De Vittor (Università Cattolica) Cesare Pitea (Statale di Milano), Giuseppe Cataldi (Orientale di Napoli) e da Giuliano Caputo e Silvia Albano dell’associazione magistrati (Anm). Oggi le audizioni delle ong, compresa quella di Sea Watch contestata dalla Lega.

Le false Onlus per l’accoglienza ai migranti: truffa da 7 milioni, c’è l’ombra delle ’ndrine

Servizi inesistenti, fatture false, soldi tanti e veri: oltre 7 milioni di euro in quattro anni, truffati allo Stato incassati sulla pelle dei migranti e in parte andati ai signori della ’ndrangheta lombarda. Undici le misure cautelari firmate ieri dal Tribunale di Milano. Al centro dell’inchiesta quattro onlus e diverse cooperative sociali attive nel settore dell’accoglienza e gestite da Daniela Giaconi, con precedenti per bancarotta e in tasca diversi numeri che contano: ben sette cellulari di poliziotti e il numero di un assessore (non indagato) della giunta del sindaco Sala. Le intercettazioni chiariscono il quadro. “Non c’è niente, io non ho alcun giustificativo (…). Andiamo tutti in galera”. Dei 7 milioni, circa 5 sono stati usati per fini privati. Di questi decine di migliaia di euro sono finiti a boss vicini alla ‘ndrangheta come Santo Pasquale Morabito (non indagato), tratteggiato in questo modo dalla Criminalpol: “Per il suo modo di essere ha indubbiamente raggiunto una posizione di alto rango”. Lui sarà socio di una onlus. Altri, come Salvatore Muia (non indagato), già legato a grossi calibri di Cosa Nostra, riceverà denaro. Le onlus, oltre a incassare illecitamente denaro pubblico, funzionavano come ufficio di collocamento per pregiudicati. Associazione a delinquere e truffa allo Stato. Queste le accuse. Anche se, conclude il giudice, il denaro incassato illecitamente dalle onlus trae “origine proprio dal carente controllo esercitato da organi prefettizi”.