Sulle ragioni della mia fame congenita ho sempre avuto un dannato sospetto. Io ritengo che la mia fame ciclopica nasca dall’inappetenza ciclopica di mia madre. Sono pressoché certa del fatto che mentre mia madre era incinta di me, nei nove mesi di gestazione, attraverso il cordone ombelicale che mi ha legata indissolubilmente alle sue decisioni alimentari, sia passato il fabbisogno calorico di una quaglia.
Sono convinta che la piccola voglia rossa dietro al collo con cui sono nata, non fosse una voglia di fragola ma una M di McDonald’s. Sono totalmente persuasa del fatto che io sia nata podalica perché volevo nascere in piedi, già in posizione per piazzarmi davanti alla cassa di Krispi Kreme e chiedere una ciambella Biscotti Oreo e creme brulée. Credo di aver sperato, quando sono nata, che le ostetriche mi lavassero e asciugassero perché si andava tutti insieme al ristorante.
Mia madre, al contrario mio, è nata sazia. Le cose peggiorarono quando mia madre iniziò la fase di militanza radicale. Cioè, era una fervente adoratrice di Pannella da tempi non sospetti e Radio Radicale era sempre stata il sottofondo delle sue giornate da casalinga affannata, ma a un certo punto decise che il supporto morale alle sue battaglie non bastava più. Mia madre decise che per lei era arrivato il momento di digiunare, quando Marco Pannella digiunava per protestare contro qualcosa. In pratica, per lunghi periodi, tagliava anche il suo pranzo frugale e il biscotto con cui accompagnava il tè serale. Mia madre viveva ormai ufficialmente di ossigeno e di pulviscolo incidentalmente aspirato. Io mi sentivo sempre più una nata nella famiglia sbagliata.
Ricordo che a 12 anni provai a convincerla che avrei potuto partecipare anche io a questa grande, simbolica protesta alimentare, solo che al contrario suo e di Pannella io avrei potuto protestare mangiando tantissimo, fino a implodere, come metafora dell’Occidente pingue ed egoista contrapposto al Terzo mondo affamato. Non la convinsi. Nel frattempo mia madre era sempre più debole e sempre più disinteressata alla sopravvivenza calorica della sua famiglia, per cui mio padre divenne il re delle frittate e delle “paste fantasia”, così ribattezzate non per gli ingredienti creativi ma perché ritenerle qualcosa di commestibile richiedeva una fantasia da autore di romanzi noir.
Io detestavo veder digiunare mia madre. Mi faceva sentire un’albina nata in una famiglia di africani. Ero una ragazzina a cui piaceva mangiare e non comprendevo il suo slancio ideologico oltre che la sua ferrea, inflessibile capacità di addestrare la fame. Era un’austerità per la quale non ero stata programmata e il paradosso più intollerabile è che mi aveva programmata lei. Finché non mi venne un’idea.
Radio Radicale, in quel periodo, intraprese l’esperimento soprannominato “Radio Parolaccia”: fu lasciata a disposizione degli ascoltatori una segreteria telefonica su cui si poteva registrare un messaggio di un minuto con le proprie considerazioni su qualsiasi tema. E poi il contenuto veniva mandato in onda. Come accade oggi sui social network, la gente affidava a quella segreteria messaggi di rabbia e battute da bar, oltre che minacce, dichiarazioni d’amore e di odio, considerazioni sui politici e sui vicini di casa.
Una volta io e mia madre udimmo forte e chiaro un ragazzo urlare in quella segreteria: “Volevo dire al maresciallo Lomazzo che oggi era il mio ultimo giorno di leva obbligatoria e che ora per me la sua tromba se la può infilare su per il culo! E forza Juve!”. Ci prese un colpo. Il maresciallo Lomazzo era un nostro vicino di casa nonché il maresciallo dei bersaglieri della caserma del nostro quartiere. Aveva la fama di essere piuttosto sadico e di tollerare con perverso godimento atti di nonnismo praticati lì dentro. Qualcuno aveva trovato il modo per dirgli che era uno stronzo, senza conseguenze. Fu lì che mi venne l’idea.
Un pomeriggio in cui mia madre era chiusa in cucina e mio padre era in giardino, presi uno straccio della cucina e in perfetta modalità “Fantozzi, è lei?”, lo appoggiai sulla cornetta del telefono. Composi il numero della segreteria telefonica di Radio Radicale. Trovai occupato. Occupato. Sempre occupato. Mezza Italia possedeva finalmente un pulpito, un megafono o una fionda, a seconda dei casi, per condividere o espellere il proprio pensiero. Ci riprovai per giorni, finché un giorno, finalmente, trovai libero.
Appena il bip mi diede il via per parlare, con una voce che pareva quella di un fumatore decennale di Nazionali senza filtro, dissi: “Signora Nadia Lucarelli, lei la deve smettere di digiunare, i suoi figli sono molto tristi se lei non mangia perché loro invece hanno tanta, tantissima fame e poi si ricordi che Marco Pannella si fa le carbonare di nascosto, lo sanno tutti!”. Mia madre sentì quel messaggio in radio. Riconobbe la mia voce camuffata. Mi prese da parte con aria mesta e mi disse che era molto dispiaciuta. Molto triste. Io ero imbarazzata ma finalmente le avevo detto che avevo fame e che i suoi digiuni non c’entravano niente con me, io non volevo una madre preoccupata per non so quale legge ingiusta nel mondo, io volevo una madre con cui dividere pane e porchetta e un bicchiere di Coca Cola freddissima.
Mia madre mi prese la mano, mi guardò negli occhi e disse: “Sono tanto triste. Non avevo capito che pensassi questo. Selvaggia, amore di mamma, credimi…”. Io sentivo che stavo per piangere. Sentivo che pane e porchetta erano sempre più vicini. “Marco Pannella non si fa le carbonare di nascosto. Non devi pensare una cosa così brutta e triste. È un uomo che crede davvero in quello che fa e non prenderebbe mai in giro le persone che credono in lui e nelle sue idee. Non dirlo mai più!”. Marco Pannella aveva vinto ancora una volta. Il suo digiuno era più importante della mia fame.
Impiegai qualche anno a capire che mia madre, mentre digiunava e provava a dare il suo contributo per cambiare il mondo dal tinello della sua casa, mi stava insegnando qualcosa. Prima di allora capii che certi problemi, quelli più elementari, bisogna risolverseli da sé. Fu così che chiesi e ottenni la paghetta e con le 10 mila lire a settimana che mi davano iniziai a fare scorta di snack ipercalorici e a nasconderli sotto al materasso come i topi.
Quell’anno Marco Pannella vinse la sua battaglia e io, poco tempo dopo, iniziai ufficialmente quella col mio peso. Mia madre oggi ha 76 anni, pesa 49 chili e ancora adesso, se le offro di assaggiare un tiramisù col cucchiaino, mi guarda come se fossi uno spacciatore di Parco Pagano che vuole iniziarla al mondo delle droghe sintetiche.