Carola in libertà: “Doveva salvare i migranti soccorsi”

Nella cameretta del primo piano di un piccolo alloggio in via Dante, ad Agrigento, Carola Rackete può esultare solo alle 8 di sera: il suo arresto non è stato convalidato. Secondo la giudice Alessandra Vella la decisione di attraccare a Lampedusa era l’unica possibile. Per gli stessi motivi non è stato ordinato il divieto di dimora ad Agrigento e provincia, chiesto dalla Procura. La 31enne tedesca, difesa dagli avvocati Alessandro Gamberini e Leonardo Marino, era stata arrestata nella notte tra venerdì e sabato scorsi dopo l’ingresso della nave Sea Watch 3in porto con 40 migranti soccorsi 17 giorni prima a 47 miglia dalle coste libiche: la Guardia di Finanza aveva tentato di impedire fisicamente l’accesso al molo ela nave aveva leggermente urtato una motovedetta .

Nel provvedimento la giudice scrive che la decisione di dirigersi verso l’Italia, anziché verso Malta o la Tunisia o la Libia, era pienamente “conforme alle raccomandazioni del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa” e alla Convenzione di Amburgo del 1979 sul “porto sicuro più vicino al luogo di soccorso”. L’ordinanza esclude il reato di resistenza o violenza a nave da guerra perché le motovedette “sono da considerarsi navi da guerra solo quando operano al di fuori delle acque territoriali o in porti esteri ove non vi sia una autorità consolare”. Esclusa anche l’ipotesi di semplice resistenza a pubblico ufficiale perché, sulla base dei video, “il fatto deve essere di molto ridimensionato”. Secondo la giudice la manovra era “pericolosa” ma il reato “deve ritenersi scriminato per avere l’indagata agito in adempimento del dovere” di “salvataggio in mare di soggetti naufraghi”, come sostenevano i suoi avvocati.

La ponderata decisione arriva come un fulmine per Matteo Salvini, che dopo l’annuncio, prima ancora di leggere il provvedimento, esprime tutta la sua rabbia e punta sulla espulsione della capitana. “Per la magistratura italiana ignorare le leggi e speronare una motovedetta della Guardia di Finanza non sono motivi sufficienti per andare in galera”, ha twittato Salvini, che chiama la giovane tedesca “ricca criminale” e promette di “rispedirla nel suo Paese perché pericolosa per la sicurezza nazionale. Tornerà nella sua Germania – dice il vicepremier – dove non sarebbero così tolleranti con una italiana che dovesse attentare alla vita di poliziotti tedeschi. L’Italia ha rialzato la testa: siamo orgogliosi di difendere il nostro Paese e di essere diversi da altri leaderini europei che pensano di poterci trattare ancora come una loro colonia. La pacchia – come dice spesso – è finita”.

L’espulsione sarà più difficile del previsto, non potrà comunque essere eseguita prima del 9 luglio, quando la comandante sarà interrogata dalla Procura che indaga anche per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Roventi, ieri sera, le linee telefoniche tra il Viminale e il prefetto di Agrigento che ha detto prima sì, poi no, poi di nuovo sì all’espulsione di Carola Rackete. Ma il disappunto per la liberazione della comandante tedesca coinvolge l’intero governo: “Sorprende la scarcerazione di Carola Rakete – ha detto il vicepremier M5S Luigi Di Maio –. Io ribadisco la mia vicinanza alla Guardia di finanza. Il tema è la confisca immediata della imbarcazione. Se confischiamo subito la prossima volta non possono tornare in mare e provocare il nostro Paese e le nostre leggi”.

La giornata è stata segnata in varie città d’Italia da manifestazioni di vicinanza alla capitana, dopo quelle dei giorni anche in Germania dove si è mosso persino il presidente della Repubblica. A Palermo il sindaco Leoluca Orlando cha sfilato con numerose associazioni, sigle sindacali, il rettore dell’università di Palermo, Fabrizio Micari e centinaia di persone che hanno esposto striscioni con scritto “La solidarietà non si arresta”. Forte protesta a favore di Carola anche a Salisburgo durante la visita del presidente Sergio Mattarell:, una quarantina di manifestanti sono scesi in piazza chiedendo al Capo dello Stato la liberazione della giovane tedesca, in tono pacifico con striscioni e cori in italiano.

Destituito Savasta, l’ex pm di Trani accusato di corruzione

La Sezione disciplinare del Csm ha rimosso dalla magistratura Antonio Savasta, ex sostituto procuratore di Trani e Roma. Il pm è stato condannato a 2 mesi di reclusione (pena sospesa) per falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico: perché davanti a un notaio, durante la procedura di donazione di una masseria a Bisceglie, non aveva dichiarato di aver realizzato al suo interno “una piscina in assenza di titolo abitativo”. Savasta è soprattutto coinvolto nell’inchiesta della Procura di Lecce in cui è accusato di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari e falso, insieme all’ex collega Michele Nardi e al sovrintendente di polizia Vincenzo Di Chiaro. Oggi è ai domiciliari dopo che ha scelto di collaborare con la giustizia e ammesso di aver incassato “mazzette”, per indirizzare alcune inchieste a Trani. Svariati milioni di euro, che sarebbero serviti per piegare la giustizia ai loro fini personali, ricevendo in cambio una corsia preferenziale per avvicinarsi a Palazzo Chigi e al Csm. Savasta aveva già chiesto di dimettersi dalla magistratura.

Falso complotto Eni, il procuratore di Taranto è indagato

Carlo Maria Capristo, procuratore capo di Taranto, è l’ennesimo togato indagato a Messina nell’inchiesta “Sistema Siracusa”, nel maxi-filone di corruzione nei processi giudiziari. È accusato di abuso d’ufficio, perché quando era procuratore di Trani venne aperto, nel gennaio 2015, un fascicolo sul falso complotto Eni. Un’indagine originata da tre esposti anonimi redatti da Piero Amara, legale esterno di Eni, che ha già patteggiato a Roma una pena a 3 anni per corruzione in atti giudiziari. L’anonimo raccontava di una cospirazione ai danni dell’amministratore delegato Claudio Descalzi, con la complicità dei consiglieri Luigi Zingales e Karina Litvak. Vicenda che sarebbe stata orchestrata da Amara, per indebolire l’inchiesta di Milano sulla maxi-tangente in Nigeria nell’acquisto del giacimento Opl 245, in cui era imputato Descalzi, e spingere alle dimissioni Zingales e Litvack. “Sono stato già interrogato dai colleghi di Messina alcune settimane fa alla presenza del mio difensore – ha spiegato Capristo – e ho rappresentato loro la correttezza del mio operato”.

Palamara attacca e lancia “pizzini”. Il caso Fuzio sul tavolo di Bonafede

Luca Palamara punta dritto al bersaglio grosso, il vicepresidente del Csm David Ermini, tirato in ballo, neanche tanto velatamente, nella lunga memoria che il pm ha depositato a Palazzo dei Marescialli dove pende su di lui la richiesta di sospensione dalle funzioni e dallo stipendio formulata dal pg di Cassazione Riccardo Fuzio, anche’egli finito nella bufera dopo la diffusione del contenuto di un suo colloquio con lo stesso Palamara (compagno di corrente in Unicost) sui fatti oggetto del disciplinare a suo carico in cui proprio la Procura generale di cui è capo rappresenta l’accusa. E per questo anche sul destino di Fuzio ci si arrovella: la sua posizione è al vaglio del ministro della Giustizia Bonafede. Ma finora è l’Anm a chiedergli un gesto di responsabilità, in filigrana una richiesta di pensionamento anticipato che farebbe venir meno l’enorme imbarazzo per il titolare dell’azione disciplinare che come pg di Cassazione membro di diritto del Csm.

Ma a tenere banco è soprattutto la memoria di Palamara, senza nemmeno che sia stata ancora discussa. “Dal settembre 2018 al maggio 2019, periodo nel quale pur essendo cessata la mia carica di componente del Csm molte persone hanno continuato a rivolgersi alla mia persona nella riconosciuta veste di esponente di Unità per la Costituzione e in virtù delle mie pregresse esperienze” annota, senza esplicitare, almeno per ora, di quali persone si tratti. Ma spiegando solo che quelle “discussioni”, lungi dal poter essere degradate a un suk o a un mercato delle toghe, “hanno riguardato prima la nomina del vicepresidente del Csm” Ermini e “poi le future nomine che il Csm si sarebbe apprestato a fare, senza in alcun modo vincolare o pretendere alcunché”.

Insomma Palamara non ci sta a essere crocifisso per aver interferito sulla nomina del nuovo capo della Procura di Roma. Perché in molti si sarebbero avvantaggiati di quel suo attivismo fatto anche di molte telefonate e alcuni dopocena, come quello che da ultimo è costato il posto a quattro consiglieri dell’attuale Csm a convivio con Lotti e il leader di MI, Cosimo Maria Ferri pure lui deputato del Pd, per la successione di Pignatone: nulla di nuovo rispetto a quanto fatto negli ultimi 12 anni, prima da presidente dell’Anm, poi nel quadriennio al Csm. E pure quando ne è uscito. E cioè anche nel passaggio alla nuova consiliatura che ha incoronato al vertice di Palazzo dei Marescialli proprio Ermini. Che ora è chiamato a sciogliere la questione del nuovo collegio che deciderà sulle richieste di ricusazione presentate dai difensori di Palamara che hanno messo nel mirino Sebastiano Ardita (che considerano potenziale teste sia in disciplinare che nell’indagine di Perugia contro il loro assistito) e Davigo per le sue dichiarazioni al plenum dello scorso 4 giugno in cui aveva sottolineato come la condotta del pm capitolino accusato di aver parlato della nomina del procuratore di Roma con un imputato della stessa procura, Luca Lotti, travalicasse ogni limite etica del magistrato. Una decisione attesa in vista della nuova udienza disciplinare sul caso Palamara, il prossimo 9 luglio. E di altri colpi di scena.

Lo “strumentino” di Luca: “Per ogni cena, una bonifica”

La nomina del vicepresidente del Csm, David Ermini, nasce dal tentativo dei renziani di dimostrare la loro forza all’interno del Pd. È questa la versione che Luca Palamara, intercettato il 20 maggio scorso, fornisce parlando con un uomo che, in quel momento, gli investigatori della Gdf non hanno ancora identificato. Alla resa dei conti, però, Ermini è considerato da Palamara un incapace. “Il problema – dice Palamara – è che in questo anno Ermini se lo so’ portati, chiaramente perché non vale un cazzo, parlamose chiaro, (incomprensibile) ho sbajato tutto, ho sbajato (incomprensibile), ho sbajato Ermini, ma Ermini ero consapevole che sbagliavamo, ma in quel momento il Pd non c’aveva nessuno, Luca Lotti mi dice dall’inizio chi mettiamo? … mettiamo Ermini” me fà no? Perché Ermini è la prova di forza che vince l’ala renziana, ok? Io gli ho sempre detto non mettiamo Ermini, perché Ermini poi (incomprensibile) quelli che non valgono un cazzo, non valgono un cazzo mai, non è che non valgono un cazzo qualche volta, no? Giusto?”.

E se questa è la considerazione di cui gode il vicepresidente del Csm Ermini, da parte di Palamara, ecco il trattamento che gli riserva per telefono Lotti (non indagato). Il parlamentare del Pd descrive la scena sia a Palamara, sia al collega di partito, nonché ex sottosegretario alla Giustizia e magistrato, Cosimo Ferri (non indagato): “Tra me e voi – dice Lotti il 21 maggio scorso – l’ultimo messaggio scritto a Ermini è stato: “Davide io non sono un Senatore qualunque che ti scrive messaggi del cazzo … senza di me non eri lì, punto … rispondi, punto”. Ecco, con il “senza di me non eri lì, punto”, il sentimento di rispetto che Lotti verso il Csm, ovvero l’istituzione che garantisce l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati, è piuttosto chiaro. A quel punto Palamara, curioso, chiede: “E lui?”. E Lotti riporta a risposta di Ermini che non pare minimamente ribellarsi al richiamo di l’ha “messo lì” e, invece di mandarlo a quel paese, nell’sms avrebbe risposto: “Sono a Torino con mia moglie lunedì mattina … vengo a Roma mercoledì”. “Questa la sua risposta …”, conclude Lotti.

Palamara è convinto che il suo telefono non sia stato infettato da alcun trojan. Quindi non pensa di essere intercettato. Ed è sempre il 21 maggio che gli investigatori intercettano una conversazione surreale. Lotti – che da parlamentare non può essere intercettato in modo diretto, ed evidentemente teme le intercettazione ambientali – racconta dello “strumentino” con il quale evita il rischio durante le sue cene. “Quando io prenoto – dice a Lotti a Ferri e Palamara – tutta la mattina, mando i ragazzi lì sopra e fanno la verifica intorno alla saletta, sempre, Stefano viene e fa la cosa … , tutte le mattine, che io c’ho la cena, se io c’ho la …”. Ferri è preso dalla curiosità: “Ma come si fa questo affare … con … come si …”. E Lotti: “Ah, vengono loro con un cazzo di strumentino…”. “Ah si?”, interviene Palamara, “loro lo fanno?”. “Sì”, risponde Lotti, “sempre, qui, in quella saletta, io perché chiedo sempre quella, quando non c’è, io non fisso … , perché non sto mica di là…”.

Ed ecco invece la versione di Palamara sulla gestione di Giuseppe Pignatone a capo della procura di Roma: “Allora – dice Palamara il 21 maggio – Pignatone ha regnato perché grazie a me (incomprensibile) in aula per tutto … gli ho fatto fa’ quello che cazzo voleva … a un certo punto non (incomprensibile) … Renzi…, Pignatone è il primo tradimento che fa, in corsa, no? cioè, prima … prima gli fa, la sai la storia, te l’ha raccontata lui (incomprensibile) …prima gli parava il culo e poi glielo mette al culo”. Sintesi un po’ truce, ma piuttosto efficace, che potrebbe collegarsi all’esito del processo Consip, dove per Lotti pende una richiesta di rinvio a giudizio con l’accusa di favoreggiamento per avrebbe rivelato all’ex ad della società di appalti pubblici particolari dell’inchiesta in corso.

Di Pignatone Palamara torna a parlare con l’ex vicepresidente del Csm in quota Pd Giovanni Legnini: “… con Pignatone – gli dice –I il rapporto chiaramente si raffredda…”. “Si raffredda”, interviene Legnini. “Non totalmente, ma si raffredda – continua Palamara – non solo per sta cosa sulla quale poi ti dico, ma si raffredda per la figura di merda pure che c’ha fatto fa’ con Renzi e Lotti, no?”. “Certo”, risponde Legnini che, invece di scandalizzarsi per la ricostruzione, evidentemente la trova del tutto plausibile. “Perchè tu – aggiunge Palamara – quella là nun te la dìmenticà .. ma lui ce fa fa’ una figura de merda che non finisce più…”.

E pur non nominandolo direttamente, Palamara sembra riferirsi proprio a Pignatone, quando evoca la figura di Giulio Cesare: “… aveva l’idea di stabilire lui le successioni .. è una cosa che manco… Giulio Cesare, che per me Giulio Cesare è il mio mito, non arrivava a questo (…) lui invece dice ‘me ne vado io, quello viene qua, quell’altro va là … la polizia giudiziaria rimane tutta legata a me”.

Csm, quando Lotti voleva avvicinare l’uomo del Colle

C’è un momento in cui l’ex sottosegretario Luca Lotti e il pm Luca Palamara pensano di avvicinare qualcuno del Quirinale per orientare la nomina del futuro procuratore capo di Roma. L’uomo sul quale volevano puntare (senza però riuscirci) è Francesco Garofani, consigliere per le questioni istituzionali di Sergio Mattarella. La circostanza emerge da una conversazione del 28 maggio scorso ed è depositata agli atti della Procura di Perugia dove Palamara è indagato per corruzione. È un’inchiesta che ha scatenato un terremoto nel Consiglio Superiore della Magistratura: il trojan (un software capace di fare intercettazioni ambientali) installato sul cellulare del pm ha svelato le trattative tra toghe e politica (Lotti, ma pure il parlamentare Pd Cosimo Ferri: entrambi non indagati) sulla nomina del procuratore capo di Roma. Con un nome tra i preferiti: il procuratore generale di Firenze, Marcello Viola.

Ascoltato anche Giovanni Legnini

Palamara è stato intercettato anche con l’ex vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, quando parla delle difficoltà – e siamo al 23 maggio – nel trovare una sponda al Quirinale. È annotato nel brogliaccio: “(…) Palamara dice che c’è il rischio che salti tutto perché Erbani (Stefano, consigliere giuridico di Mattarella, ndr) non lo coprirà, quindi fa riferimento anche ad Ermini (David, attuale vicepresidente del Csm, ndr) che con il senno di poi è stato un errore proporlo”.

Qualche giorno dopo sembra essere Lotti a proporre una soluzione: avvicinare il consigliere di Mattarella, Francesco Garofani. Ne parla in una conversazione del 28 maggio scorso. C’è anche Cosimo Ferri.

Palamara (P): (…) Io gli devo parlare dell’accordo che s’è fatto noi, non è che gli devo di’ di…

Ferri (F): Luigi è un fifone.

P: Luigi ha bisogno di un input (…) Massimo che ragiona, ti dice, fagli dare un contro input.

Lotti (L): Da chi Luca?

P: Ehh da chi… se Erbani terrorizza Morlini (consigliere del Csm, autosospesosi, ndr) ci vuole uno che chiama Morlini e gli dice: ‘Guarda stai tranquillo che noi andiamo in fondo sia su Luca che su Massimo’. Lo carichi a quel punto e gli dici… Portate Viola? Fate una cazzata perché Viola è perdente (…) State a 13 quindi o vi schierate pure voi, e date l’immagine o perdete (…)

L: Lo posso dire io?

P: No ci serve uno più forte Lù (…)

F: Lo doveva fare Ermini

P: Lo dovrebbe fare Ermini tramite Mattarella, cioè non esporre Mattarella ma Ermini, ma Ermini non lo fa (…) Questa è la strada che dobbiamo trova’, chi lo fa?

L: Garofani non ti basta

P: Ma Garofani non lo conoscono (…)

F: (…) È l’uomo che entra dentro la stanza del Presidente, l’unico eh! Non è Erbani ragazzi… (…)

P: Intanto faglielo fa…

L: (…) Solo Francesco c’ha l’accesso nella stanza di Sergio, ma perchè l’ha chiamato a fà il consigliere, oh? È l’amico d’infanzia… è una storia fra loro due, però giustamente non lo sa nessuno (…) ma è l’assistente parlamentare di Sergio… cioè io capisco che a voi non vi torni perchè la politica è diversa da quello… però… io se no non c’ho alternativa.

P: E intanto faglielo fa, fallo chiamà e gli fai i nomi e du’ cognomi.

La conversazione continua su altri argomenti, poi tornano a parlare di Garofani.

Palamara: Garofani si chiamasse Spina (consigliere del Csm dimessosi, ndr) e Morlini.

Lotti: Glielo spiego io… vedo se lunedì è il caso… perchè se vedo che non il caso è inutile.

Ferri: poi Garofani (incomprensibile) a convocarli al Quirinale.

“Il Capo dello Stato
fa lo spettatore”

Quella di avvicinare il consigliere di Mattarella (che in un’altra intercettazione, ma del 21 maggio, Palamara definisce come uno “spettatore”, “è il contrario di” Napolitano, dice) non si concretizza. Al Fatto Garofani spiega: “Mai occupato di vicende del Csm. Non ho mai avuto richieste del genere. Sono amico d’infanzia dicono? Ma io ho circa vent’anni in meno del presidente. Lotti lo conosco, sono stato collega parlamentare. Non mi hanno chiesto mai nulla del genere”.

“Dicono di un pranzo
di Pignatone al Colle”

Il 21 maggio invece Palamara si trova con Stefano Fava, il pm indagato per aver rivelato al collega dettagli sul fascicolo che lo riguardava (circostanza che Fava smentisce ai pm di Perugia).

Fava (F): Mi ha detto Maiorano che gli ha detto uno della Corte costituzionale che due giorni fa lo hanno visto a pranzo… è andato lì al Quirinale, Pignatone

Palamara (P): Al Quirinale proprio?

F: Dice nel palazzo di fronte, secondo me andava a pranzo da Mattarella.

P: Allora vedi? (…) È andato a parlare con Erbani?

F: Sì.

Patronaggio a rotelle

Per il decimo compleanno del Fatto, abbiamo iniziato un giro d’Italia che ci ha portati, come prima tappa, in Sardegna. Ad Alghero e a Cagliari. Due incontri molto partecipati con i nostri lettori e abbonati, quelli che compiono 10 anni con noi e quelli nuovi. Abbiamo invertito l’ordine tradizionale del dibattito: prima le domande del pubblico, poi le nostre risposte. Molte domande riguardavano la SeaWatch-3 e la capitana Carola Rackete. A spanne, anche alla luce delle lettere che riceviamo, possiamo dire che la comunità del Fatto si divide a metà. Una parte, più attenta al lato umano, simpatizza e solidarizza con questa donna coraggiosa e generosa, che potrebbe fare la bella vita e invece si batte per i suoi ideali, recupera migranti da barconi pericolanti in acque libiche e li porta in Italia (anziché negli altri porti sicuri più vicini) per creare l’ennesimo incidente col nemico Matteo Salvini, violando dichiaratamente una serie di leggi, regole e ordini, ma rivendicando la sua disobbedienza civile e accollandosene le conseguenze senza fuggire né piagnucolare (diversamente da Salvini, scappato dal suo processo con l’immunità ministeriale votata anche da lui).

L’altra parte, più sensibile alla legalità, non accetta che l’Italia resti il capro espiatorio dei ricatti libici e del menefreghismo europeo (con la beffa delle lezioncine di accoglienza da “partner” egoisti e spietati), teme che il ritorno delle Ong nel Mediterraneo provochi un altro boom di partenze, morti e sbarchi (come fino a due anni fa, prima che Minniti mettesse un po’ d’ordine in quella jungla d’acqua), distingue fra l’atto umanitario iniziale e le azioni illegali successive della Rackete, solidarizza coi finanzieri che hanno rischiato la pelle per l’attracco spericolato della capitana, resta incredula dinanzi all’avallo acritico offerto da alcuni parlamentari Pd&C., teme che la Sea Watch abbia regalato altri voti alla Lega e si rimette al giudizio della magistratura. Quasi tutti apprezzano il tentativo del Fatto di ragionare e distinguere, senza intrupparsi nelle opposte tifoserie della curva Sud della Capitana e della curva Sud del Capitano. Ora che la crisi è chiusa, la ricostruzione dei fatti deve prevalere sulle emozioni di quei 17 giorni convulsi. Partendo dalle regole dello Stato di diritto – Costituzione, Codice penale e Codice della navigazione – e da un dato incontestabile: gran parte delle simpatie Carola se l’è conquistata dichiarando la sua disobbedienza civile e dicendosi pronta a subirne le conseguenze. Ora che le subisce, è assurdo e anche un po’ ridicolo scandalizzarsene.

E gli appelli e i diktat lanciati da cancellerie straniere, politici e firmaioli nostrani perché la capitana venga “liberata” e assolta non hanno alcun senso (al pari dei titoli tragicomici, tipo quello di Repubblica su “Le prigioni di Carola”, manco fosse Silvio Pellico ai Piombi e allo Spielberg, anziché un’indagata ai domiciliari in un alloggio di Lampedusa). Così come le sparate di Salvini&C. che la vorrebbero “in galera” o condannata a “pene esemplari”. In Italia, per Costituzione, la magistratura è “indipendente da ogni altro potere”, che dunque non prende ordini né dalla Germania, né dalla Francia, né da Salvini, né dalle opposizioni di sinistra, né da scrittori, intellettuali e artisti vari; e “l’azione penale è obbligatoria” su ogni notizia di reato. Ora, di notizie di reato la Procura di Agrigento ne ha raccolte parecchie (resistenza a nave da guerra, disobbedienza al divieto di sbarco e tentato naufragio): infatti ha arrestato Carola in flagranza, sia pur con la misura cautelare attenuata dei domiciliari. I salviniani decreti Sicurezza non c’entrano nulla con i reati contestati (esistono dalla notte dei tempi in ogni ordinamento democratico) e il governo non ha avuto alcun ruolo nella decisione del pm. Poi la parola è passata al gip, che ha interrogato l’indagata, ha sentito i suoi avvocati che chiedevano la revoca di ogni misura cautelare e i pm che ne invocavano una ancor più blanda (il divieto di dimora). Alla fine ha deciso per la scarcerazione tout court, escludendo alcuni reati e scriminandone altri per motivi umanitari. Ma l’indagine prosegue e forse seguirà un processo. Il fatto che Carola sia libera non significa né che sia innocente né che sia colpevole: solo che il pm ravvisava gravi indizi di colpevolezza e almeno uno dei tre pericoli che giustificano una restrizione della libertà in fase d’indagine (fuga, inquinamento delle prove, ripetizione del reato), mentre il gip ha deciso diversamente.

Il pm che ha arrestato Carola è lo stesso Luigi Patronaggio che voleva processare Salvini per sequestro di persona. Non proprio una toga verde, anzi un idolo dei firmaioli pro-Ong e anti-governo. Poi è bastato che, in base a elementi piuttosto evidenti, smentisse Carola sullo stato di necessità del suo sbarco proibito (i migranti erano in buona salute e assistiti dai medici: quelli a rischio il governo li aveva già fatti sbarcare da tempo) e sull’involontarietà dello speronamento della piccola motovedetta della Gdf (i filmati e le tecniche di manovra dicono l’opposto), per trasformarlo in un nemico del popolo e in una voce da tacitare. Il noto faro di legalità Adriano Sofri e altri giuristi per caso hanno persino sostenuto che, al molo di Lampedusa, fuori posto non era la SeaWatch illegalmente sbarcata, bensì la motovedetta dei militari che per legge hanno l’obbligo di impedire l’attracco a imbarcazioni non autorizzate intimando l’alt e che, per compiere il proprio dovere, hanno rischiato di fare una brutta fine. Poi è bastato che ieri Patronaggio muovesse alcune critiche al dl Sicurezza per tornare l’eroe della Curva Sud della Capitana e il nemico della Curva Sud del Capitano. Ma cos’è, il Bar Sport?

“Grazie a Fellini sognavo un marito italiano”

“La grande bellezza di Paolo Sorrentino: ero in giuria a Cannes, l’abbiamo visto a mezzanotte, un orario bellissimo”. Il battesimo della figlia in Toscana: “S’era strappata i vestiti, è rimasta col pannolino”. Le strade di Roma, calcate la prima volta appena diciassettenne: “Vagavo per il centro, sognando di sposare un italiano: non ce l’ho fatta, ma ci sono andata abbastanza vicino”.

E, prima di tutto, Federico Fellini: “Il mio amore per il cinema è iniziato con quello europeo: a 14-15 anni saltavo scuola e mi chiudevo in sala con i film di Fellini, Kubrick. Ero piccola, non capivo appieno il loro lavoro, ma sentivo di volerne far parte”. In breve, dice Nicole Kidman, “grazie Italia, vi sono veramente riconoscente”.

Protagonista di una masterclass al 65° Taormina Film Fest, l’attrice australiana parla della serie Big Little Lies – la seconda stagione è in onda ogni martedì alle 21.15 su Sky Atlantic – in cui declina “un ruolo femminile complesso: ero frustrata per quelli che mi venivano offerti, sicché ho deciso di prendere il controllo, anche produttivamente”. Accanto a una “straordinaria” Meryl Streep, la Kidman interpreta “un personaggio ancora dolente per gli abusi domestici: non si tratta del canonico ruolo forte, perché concerne anche la debolezza, quel che mi piace è la sua resilienza”.

Dietro la macchina da presa vuole “qualcuno che mi chieda di più, di andare oltre”, qualcuno come Kubrick, che la diresse in Eyes Wide Shut: “Dovevano essere due mesi, furono due anni. Tutti i registi con cui ho lavorato mi chiedono di lui, lo mettono sul piedistallo. Il tempo è il nostro peggior nemico, perché la creatività ne ha disperato bisogno, e Stanley lo sapeva”.

Ugualmente necessaria, sostiene Nicole, è la parità di genere sul set: “Le statistiche sono impietose, siamo ancora al 20 per cento di donne nel cinema. Per questo mi sono messa a un tavolo con Meryl e altre colleghe, e ci siamo chieste che cosa potessimo fare: semplice, lavorare con donne. Mi ero ripromessa di farmi dirigere ogni 18 mesi da una donna, ebbene, lo faccio ogni sei”.

Infine, l’elogio della sala: “Ridere, piangere insieme, sarà sempre meglio che vedere un film in piccolo, sul computer, sullo smartphone”.

“Gli Usa in guerra perenne: chi sarà il prossimo nemico?”

“La Nato? È un’organizzazione pericolosa, e in Italia qualcuno se n’è accorto. Anche una politica estera comune europea non è una buona cosa: meglio posizioni indipendenti, l’olandese, la tedesca, ne sono convinto”. Parola di Oliver Stone, presidente di giuria del 65° Taormina Film Fest, terra non straniera: “Nel 2007 portai Alexander, al Teatro Greco si gelava e fu un mezzo disastro; nel 2016 sono tornato con Ukraine on Fire di Igor Lopatonok, da me prodotto; ora faccio il presidente di giuria, un privilegio”.

Mister Stone, dopodomani al Teatro Antico nel trentesimo anniversario verrà proiettato Nato il quattro luglio, il Viet-movie con Tom Cruise che le valse il suo secondo Oscar per la regia.

Il vero protagonista, Ron Kovic, è vivo e vegeto. Volli che condividesse con me i credits della sceneggiatura, anche se agli Academy Awards venimmo battuti da A spasso con Daisy – e Cruise dal Daniel Day-Lewis de Il mio piede sinistro. Lo scrissi nel 1979, Platoon nel 1976, entrambi vennero realizzati solo dieci anni più tardi: non avrei dovuto essere io a farlo, la norma è che gli sceneggiatori scrivono per altri, come mi era successo con Fuga di mezzanotte. Nessuno voleva girarli, pensavo a una maledizione, ma alla fine…

Alla fine?

Fu meglio così, quando uscirono ricordarono all’America cosa fosse stata la guerra in Vietnam: l’avevano già dimenticato. Nato il quattro luglio arrivò in sala il 20 dicembre del 1989: il Muro di Berlino era appena caduto, l’Unione Sovietica si sarebbe dissolta di lì a poco, ma proprio quel weekend invademmo Panama. C’era eccitazione, il film ne beneficiò al box office.

Qualcosa da allora è cambiato?

In tutte le guerre ci si ammazza, e per ogni morto ci sono tre, quattro o cinque feriti: Ron Kovic è sulla sedia a rotelle da 50 fottuti anni, è una delle persone più forti che conosca. Altri veterani nelle sue condizioni non hanno resistito: overdose, e l’hanno fatta finita. Dall’Iraq all’Afghanistan, gli ordigni esplosivi improvvisati (IED) hanno massacrato i soldati nei tanks: gambe polverizzate, bacini distrutti. Ma oggi la medicina è migliorata, la gente è costretta a sopravvivere. L’America, però, non sembra cambiare: non ha smesso di andare in guerra. Si sono fatti solo più furbi, le perdite richiamano proteste, casino, strazio dei parenti, sicché oggi la guerra è elettronica, ibrida, come in Iran pochi giorni fa. La nostra politica estera è un conflitto senza soluzione di continuità: chi sarà il prossimo, la Cina?

Ha intervistato Vladimir Putin per una serie documentaria nel 2017, a George Bush ha dedicato W. nel 2008: Trump lo risparmia?

Me lo chiedete tutti, in ogni Paese in cui vado, e sì, forse un film su Trump dovrei proprio farlo. Ho un’idea, ma svelarla è prematuro.

Un altro anniversario importante riguarda Natural Born Killers: l’ha girato 25 anni fa, inchiodando i media alle proprie responsabilità.

All’inizio degli anni Novanta, la copertura mediatica cambiò, si fece più sensazionalistica, violenta, drogata: si vendevano gli spazi televisivi, OJ Simpson era ovunque, perché garantiva ascolti. Ma le news non sono intrattenimento, il mondo non lo è: è una politica malsana, in America come – credo – in Europa. Mi accusarono di amare la violenza, ma quella di Natural Born Killers era volutamente ridicola, esagerata: nel finale si cantava ‘I’ve seen the future, brother, it is murder’, e oggi ci siamo arrivati, viviamo quel futuro omicida.

I social media aiutano?

Sono il prosieguo di quei media, ma hanno un lato positivo: veicolano opinioni diverse. Oggi i mezzi di comunicazione negli Usa sono come nell’Unione Sovietica, assomigliano tutti alla Pravda: il 98% dice le stesse cose, sostiene guerre e bombardamenti.

In Russia invece?

I media russi sono molto buoni perché offrono differenti prospettive. Non parlo l’italiano, purtroppo, ma so che anche da voi ci sono punti di vista diversi, per esempio sulla Nato: non si può accettare che gli Stati Uniti siano i leader di un’organizzazione che governa il mondo, capite bene quanto sia pericoloso. Contrariamente allo statuto, preme sui confini dell’Europa orientale, è già stato così in Jugoslavia e in Libia, ed è questo il suo vero fine.

A tenere banco è anche la crisi dei migranti.

Le migrazioni e le immigrazioni sono un valore perché danno diversità e ricchezza. Non si può aspettare anni per gestire legalmente il fenomeno, ma non si può neanche accelerare troppo: potrebbe diventare esplosivo.

 

I nomadi e il Rinascimento tradìto

Nel febbraio 2001, la “Asociación Nacional Presencia Gitana” conferisce a Burgos, in Spagna, il premio “Hidalgo” ad Antonio Tabucchi, che diventa un “hombre bueno” del popolo Rom. Durante la cerimonia, lo scrittore legge Diciannove di agosto, un racconto ambientato ai tempi dell’antica festa della “benedizione degli animali” a Janas, in Portogallo. L’io narrante è uno zingaro, che racconta allo scrittore di aver assistito da giovane, a Granada, alla fucilazione del poeta Federico García Lorca e di averlo in qualche modo vendicato immediatamente. Il testo inedito è oggi raccolto nel prezioso volume Gli Zingari e il Rinascimento, ripubblicato dalle Edizioni Piagge (con una prefazione di Salvatore Settis).

La prima edizione del libro era del 1999. Si tratta di un reportage realizzato da Tabucchi a Firenze l’anno precedente per conto della rivista tedesca Lettre International con il titolo “Die Roma und die Renaissance”. Tabucchi racconta il suo percorso nella periferia di Firenze dove, insieme con un’antropologa, incontra la realtà disumana dei campi nomadi. Un vero “viaggio all’inferno” che mette lo scrittore davanti all’evidenza di un Rinascimento tradito. Temi di persistente attualità che lo convincono, dieci anni dopo, a lavorare con Edizioni Piagge alla ripubblicazione del testo, arricchito da altri suoi materiali. Un progetto che non si è fermato con la morte dello scrittore, ma che oggi – grazie all’importante lavoro della Comunità delle Piagge e alla disponibilità di Maria Josè de Lancastre, moglie di Tabucchi – è tornato finalmente in libreria. Per maggiori informazioni www.edizionipiagge.it.