Pubblichiamo l’incipit del racconto inedito “Diciannove di agosto” di Antonio Tabucchi, nel quale uno “zingaro” – io narrante – riferisce allo scrittore di aver assistito all’uccisione del poeta Federico García Lorca. Il testo fu letto da Tabucchi nel 2001, in occasione del Premio Hidalgo e oggi è raccolto ne “Gli Zingari e il Rinascimento” (ed. Piagge).
Ti devi immaginare una notte come questa. Con la stessa luna. Anzi, la stessa no, perché lei varia da una notte all’altra, ma tu non la noti perché sei un payo, anzi un gajo, come dicono qui, ma guarda, guarda bene, la vedi? Noi, quella patacca gialla che sta nel cielo e che ci guarda per essere guardata è come se la portassimo in tasca, la conosciamo da quando vaghiamo in questa penisola, che vuol dire dai tempi dell’anticamente, quando tu certo non eri nato e neppure i miei bisnonni. La vedi la parte di sotto, quella a sinistra? C’è un’ombra. Ti sembrerà una piccola nuvola, ma non è. È la tenebra che comincia a mangiarla. E domani lei sarà un pezzettino più piccola, e dopodomani due pezzettini, via via, e poi sarà una falce, come piace ai nostri fratelli che stanno a Oriente, e poi scomparirà nella notte. Tu non l’hai vista di sicuro, perché stai nella città, e nella città non si guarda la luna.
Noi la guardiamo da tanto tempo, anche più del tuo poeta che ti ho sentito recitare stasera, quando qui non c’era nessuno, solo pianure solitarie. E noi con i cavalli. E quando la luna cominciava a sgonfiarsi, come stasera, alle giumente gli passava il calore e gli si incurvava la schiena, avevano già ricevuto gli stalloni e per loro era già tempo di ingravidare, e ingravidando la femmina medita sulla vita.
Meditare, meditare. Ma a che serve? A te, ti serve?
A me sì, forse, chissà. Però la luna era così quella notte, con un’ombra. Allora ero un uomo forte, pieno di sensi, e trovai una donna che si chiamava Consuelo. E ballava al passo della Siguiriya. A te non sembrerà niente, ma è tanto, perché un atteggiamento così lo capisci solo in una donna di sensi veri. C’è chi la balla con la testa, intendi?, ma quelle ballerine lì non servono a niente, è un’emozione fredda, per una donna vera ci vuole questa parte qui, di dietro, intendi, ci vuole il ritmo che ha il cuore d’argento e un pugnale per la mano destra e che la luna raccoglierà, come diceva il nostro poeta.
Ti parlavo della luna e mi sono perso. Sono vecchio, e per questo mi perdo. La mia padrona, come noi chiamiamo le nostre mogli, è morta nel mille e qualchecosa.
E tu, gajo, in che mille sei? Pensi che ho bevuto troppo?
Ho bevuto più di te e sono più lucido di te. Tu credi che solo voi siete lucidi, e invece noi gitani siamo più lucidi di voi. Coltelli d’argento, ci chiamava il nostro poeta.
Certo, anche l’argento arrugginisce, cosa ci vuoi fare.
Però la Consuelo fece così: olé, con le anche, e questo coso qui, che noi uomini abbiamo e che a quel tempo era vivo, rispose. Mi intendi? Bastò uno sguardo. Ma tu ci credi allo sguardo? Credici, è tutto. Tu guardi, e sei padrone. Non guardi, e sei un servo, perché sei guardato. Questo te lo dice il Manolo.
Quella notte era proprio così. Tu ci credi nella luna, payo?, preferisci le parole? Guarda che le parole muoiono, e invece la luna è eterna. Quella notte era così, tendeva al rosso. Avevo passato i vent’anni e non mi ero sposato. È tardi, per noi gitani, sposarsi dopo i vent’anni. Io portavo la chitarra, il coltello lo portava lui, il Paco. Non chiamare i tuoi amici per sentire queste cose, non gliele racconto, le racconto a te perché alla festa ti ho visto ballare con una donna della mia razza e tu la guardavi come si deve, e questo è importante. Tu guardi e sei padrone, mi intendi? Lei è vestita di nero e ha le gonne lunghe? Non importa, se il tuo sguardo attraversa i vestiti puoi capire la Siguiriya, e questo è uno sguardo che mi piace. Perché quella notte anch’io avevo il tuo sguardo. Sai quante stoffe hanno sotto la gonna le vere gitane? Non te lo dico, ma sono piene di pizzi. Li intrecciano nelle cuevas dove sono nato, vicino a Granada.
Ma dov’ero rimasto? Ah, sì, ti parlavo della luna. E sentivo un languore. Qui, negli inguini, dove siamo uomini. La chitarra la portavo a tracolla. Mi piacerebbe trovare una Guardia Civil, disse il Paco mostrandomi il coltello. E io una ragazza, dissi toccandomi basso. E così uscimmo dalla cueva. Il Paco si era messo l’olio nei capelli, tanto olio d’oliva, di quello degli oliveti di Granada. Io solo due gocce di essenza di limone che le donne distillavano nelle cuevas. Uscimmo e sembrava una notte come le altre. Ma non era. Carajo, non ci credi?
Vai a pisciare, così è meglio. Il Paco camminava, e io dietro. Perché? Perché avevamo un appuntamento, ma noi non lo sapevamo. Lo sapeva la luna.
Per gentile concessione della signora Maria José de Lancastre