Imane, 4 mesi di mistero: la perizia rischia di slittare

Quattro mesi fa moriva Imane Fadil, una delle testimoni chiave del Rubygate. Moriva nel reparto di chirurgia generale dell’ospedale Humanitas di Rozzano. Era il primo marzo scorso, ma la notizia fu comunicata solo due settimane dopo. Da allora si indaga per omicidio volontario anche se allo stato ancora non si sa di cosa sia morta l’ex modella. E con buona probabilità i tempi per conoscere le cause del suo decesso si dilateranno ancora. Il deposito della perizia atteso per la prossima settimana slitterà nuovamente, dopo che i magistrati guidati dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano hanno concesso ai consulenti una proroga fino al 22 giugno scorso e un’altra fino alla prossima settimana. Tutto, dunque, resta ancora avvolto nel mistero. Il lavoro dell’equipe coordinata dall’anatomopatologa Cristina Cattaneo prosegue con analisi che ogni volta danno esiti negativi. Dopo l’esclusione di sostanze radioattive nel corpo della donna, tutto il resto viene analizzato e poi scartato. I metalli pesanti sono stati cercati a più riprese ma non trovati in quantità mortali. Anche per questo i tempi della perizia si stanno dilatando. Tutta la vicenda della morte resta agganciata a questo rapporto. Il resto appare contorno.

In queste settimane i consulenti hanno tentato di ricostruire i dati sulla presenza di metalli nel sangue di Fadil prima del ricovero per stabilire se fossero più alti o più bassi e di quanto rispetto ai già alti valori riscontrati pochi giorni prima che la giovane morisse. Per questo gli esperti si sono concentrati sugli esami tossicologici, in particolare sui livelli di metalli, una presenza anomala ed elevata per alcuni elementi ma non mortale. Il quesito, a cui l’equipe medica è stata chiamata a rispondere, prende in considerazione più aspetti: si va dall’avvelenamento per intossicazione da metalli, pista che pare scartata, fino alla morte naturale per una malattia rara, si era ipotizzata anche una forma rarissima di aplasia midollare. Si prova tutto. Anche un’intossicazione da otturazioni dentali in mercurio o in piombo, magari eseguite in Tunisia, paese di origine di Imane Fadil, la quale avverte i primi sintomi di malessere grave circa una settimana prima del ricovero. Lo scorso 26 marzo era iniziata l’autopsia. Ma gli accertamenti degli esperti sul cadavere della giovane sono iniziati solo dopo che esami più approfonditi avevano escluso la presenza di radioattività negli organi della modella, radiazioni che erano state, invece, rilevate in analisi sulle urine e sul sangue. Nel frattempo, la Procura ha sentito diversi testimoni. Tra questi l’ex olgettina Marysthell Polanco tornata alla ribalta per aver dichiarato di voler raccontare la verità sul Rubygate. Una verità che la Polanco potrà svelare, se vorrà, da imputata nel Ruby ter. Mentre Fadil, poco prima della morte, era stata esclusa come parte civile dello stesso processo. Ieri si è celebrata l’udienza del Ruby ter nella quale gli avvocati di Silvio Berlusconi, imputato per corruzione in atti giudiziari, hanno dato il via libera all’acquisizione dei verbali di Imane. Tutti, tranne quelli del Ruby uno e due.

Ex Ilva, avviata la cassa integrazione senza accordi con i sindacati

L’accordo non c’è, ma ArcelorMittal avvia ugualmente la procedura di cassa integrazione ordinaria per 1395 dipendenti dello stabilimento ex Ilva di Taranto. L’ultimo incontro con i sindacati, ieri pomeriggio, si è concluso con un nulla di fatto. La prima reazione di Fim, Fiom, Uilm e Ugl è stata la proclamazione di 24 ore di sciopero su tre turni per giovedì 4 luglio. I sindacati, si legge in una nota, “percorreranno tutte le strade possibili, anche attraverso il ricorso agli enti competenti, per impedire l’utilizzo da parte di ArcelorMittal della stessa cassa integrazione”. Avevano chiesto uno slittamento dell’avvio della procedura della cassa integrazione, in attesa dell’incontro ministeriale previsto il prossimo 9 luglio, per entrare nel merito sull’integrazione salariale, rotazione del personale e gestione delle ferie programmate. Non si può ignorare che al centro ci sia la questione dell’abolizione dell’immunità penale per i gestori prevista dal decreto Crescita: “Con il primo provvedimento utile, se serve, inseriamo la norma e la approviamo – ha detto il viceministro leghista all’Economia, Massimo Garavaglia – gli accordi presi vanno mantenuti, mica possiamo far chiudere l’Ilva”.

Salvini fa il ministro degli Esteri e incontra al Sarraj a Milano

Ennesima invasione di campo, da parte di Matteo Salvini, ancora sul fronte della politica estera. Il ministro dell’Interno, infatti, ha incontrato a Milano il presidente del Consiglio presidenziale libico, Fayez al Sarraj che ha chiesto un rafforzamento del ruolo dell’Italia nella crisi in Libia. “Salvini e Sarraj hanno discusso della cooperazione italo-libica per raggiungere una soluzione alla crisi libica, oltre che degli sforzi per combattere l’immigrazione nel Mediterraneo e della produzione di petrolio e gas”, ha dichiarato ad Agenzia Nova una fonte diplomatica libica in Italia.

La visita di Sarraj in Italia avviene dopo la recente ritirata di Haftar dalla strategica città di Gharian, a 80 chilometri a sud di Tripoli, che ha sembrato rappresentare una svolta nella sua strategia di conquista della intera Libia ed avviene anche dopo soli tre giorni dalla presenza alla Farnesina, ospitato dal ministro Enzo Moavero Milanesi, dell’inviato speciale dell’Onu in Libia, Ghassam Saleh che ha preso parte ad una riunione dei sei paesi maggiormente coinvolti nella crisi libica: Stati Uniti, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Francia, Italia e Regno Unito. E in quella riunione il ministro Moaverosi è detto convinto che il generale Khalifa Haftar resti “un attore imprescindibile” per arrivare alla pace nel paese nordafricano.

Ma già da domenica le forze del generale Haftar hanno ripreso i bombardamenti dell’aeroporto di Tripoli nella campagna “Fine del tradimento”. Ma hanno anche colpito un drone turco prima che decollasse dalla base aerea di Mitiga, unico scalo aereo civile a servire ancora la capitale della Libia. La reazione della Turchia, che sostiene Serraj, è stata immediata. Così come immediata sembra essere stata l’irritazione del Quirinale per l’incontro tra Serraj e Salvini, effettuata fuori dal rituale diplomatico ed evidentemente interessata a intralciare la linea di politica estera del governo che, dopo aver sempre sostenuto Tripoli, sta cercando di tenere un collegamento diretto con il generale Haftar.

Dati sul lavoro, migliorano ma non basta: ecco perché

A maggio 2019 il tasso di occupazione in Italia è arrivato al 59%, mai così alto da quando – 42 anni fa – l’Istat ha avviato le serie storiche. La disoccupazione, invece, si è fermata al 9,9%, tornando a una sola cifra come non accadeva dal febbraio del 2012. Sarebbero due ottime notizie se, come al solito, nei dettagli non si nascondesse il diavolo.

Il nostro mercato del lavoro, infatti, non ha ancora raggiunto lo stato di salute vissuto prima della crisi del 2008. Molti dei posti che abbiamo in questi anni recuperato sono solo part time, spesso involontari, e quindi non permettono di avere uno stipendio dignitoso. Insomma, rispetto a prima abbiamo oggi più persone occupate ma meno ore lavorate: ecco perché i record mostrati dall’istituto di statistica rischiano di innescare un entusiasmo esagerato.

“La disoccupazione è in calo, il dato più basso dal 2012, mentre aumentano gli occupati, il dato massimo dal 1977” ha scritto su Facebook il ministro del Lavoro, Luigi Di Maio. Dello stesso tenore il post dell’altro vicepremier, Matteo Salvini: “Lavoratori italiani in crescita e ai massimi storici dal 1977”. Ma davvero questo si può definire il più bel momento della nostra storia? Non proprio. In effetti, a maggio si contano 23 milioni e 384 mila occupati, il numero più alto di sempre su base mensile. Ma a fare la differenza sono le ore lavorate: su queste, il dato più aggiornato dell’Istat è del primo trimestre del 2019, ma è difficile che nel trimestre successivo si possano compiere passi da gigante. Nel periodo gennaio-marzo 2019 il contatore segna 10 miliardi e 994 milioni di ore. Andando molti passi indietro, fino al primo trimestre del 2008, si scopre che in quel periodo le ore di attività sono state ben 11,5 miliardi. In pratica, allora c’erano grossomodo 300 mila occupati in meno ma oltre mezzo miliardo di ore lavorate in più. Il motivo è che, prima della recessione, i posti di lavoro si concentravano nell’industria, quindi erano più solidi. Ora invece sono stati travasati nei servizi, dove il ricorso ai contratti brevi è più frequente ed è facile restare povero pur avendo un’occupazione perché spesso questa tiene impegnati per poco.

Di positivo, comunque, c’è che dopo il calo della seconda metà del 2018, dovuto alla recessione “tecnica”, in questa prima parte del 2019 gli occupati sono tornati ad andare su. A maggio, rispetto ad aprile, l’aumento è stato di 67 mila unità. Sono cresciuti tutti i tipi di lavoratori: quelli autonomi sono 28 mila in più, i dipendenti a tempo indeterminato sono 27 mila in più e anche i precari sono saliti di 13 mila. Considerando invece il trimestre, è più facile notare l’effetto del decreto Dignità: tra marzo e maggio, rispetto ai novanta giorni precedenti, c’è stato un incremento di 96 mila posti permanenti e di soli 2 mila a termine.

A beneficiare dei buoni numeri, tuttavia, sono soprattutto i lavoratori più anziani, mentre per i giovani i miglioramenti sono molto più lenti. A maggio gli occupati over 50 sono aumentati di 88 mila in confronto ad aprile, mentre gli under 25 sono rimasti stabili e quelli compresi nella fascia tra 25 e 34 anni sono cresciuti di appena 12 mila. È una dinamica alla quale si assiste da molto tempo, soprattutto da quando nel 2012 è stata approvata la legge Fornero che ha posticipato l’età pensionabile. Con l’arrivo di Quota 100 – la prima finestra di uscita è stata quella di aprile – i più ottimisti pensavano si potesse da subito invertire la tendenza, con più giovani al lavoro e più anziani a riposo, ma i dati dicono che questo non sta ancora succedendo. Quanto invece agli inattivi, le persone che non hanno un lavoro e non lo cercano nemmeno sono rimaste stabili su base mensile e diminuite di 37 mila su base trimestrale. Nonostante a maggio quasi 500 mila famiglie abbiano ricevuto il reddito di cittadinanza, e non siano ancora stati convocati dai centri per l’impiego, almeno a giudicare dai macro-numeri questo non sembra aver ingrassato la compagine di chi preferisce restare sul divano.

Mail Box

 

La metamorfosi di Landini: non sembra più lui

L’invasione degli ultracorpi, film di fantascienza dai molti remake, mi è ritornato in mente pensando a quanto Landini si sia omologato con chi l’ha preceduto. Da lui non me lo sarei mai aspettato: pensavo potesse cambiare la Cgil, ma è stato quel sindacato a cambiare lui. Forse c’era già pronto il famoso “baccellone” con dentro il suo clone alieno. Sorprendente il suo “feeling” con Confindustria, alla quale in precedenza si era detto contrario. Senza contare le severissime critiche sul decreto Dignità e Reddito di cittadinanza. Passano i millenni ma, tristemente, l’apologo di Menenio Agrippa va sempre per la maggiore, d’altronde il “sistema” rifiuta i corpi estranei e il sindacato agisce come uno dei suoi tanti anticorpi.

Enza Ferro

 

Facebook spesso somiglia a un’agorà caotica e sregolata

Frequento da poco tempo il social Facebook. Mi sono reso conto che sui social si riversano gran parte delle frustrazioni degli italiani. Infatti, il social, oltre che fonte di contatti, è un mezzo per fare in modo che una discussione raggiunga un vasto pubblico, ma la maggior parte delle volte si riduce a un modo incivile di far prevalere il proprio punto di vista e, ancor più spesso, viene usato per insultare in modo gratuito l’interlocutore del momento. I frequentatori del social si sentono in diritto di sproloquiare su ogni argomento – anche se non hanno competenza al riguardo – per il solo fatto di avere una tribuna a disposizione. Uso il mezzo con molta parsimonia, cercando di argomentare ed esprimendomi solo sui temi che conosco.

Leonardo Gentile

 

Desiderare di vivere fino a 120 anni è da egoisti

Il successo del “festival di Panzironi”, il guru che ha la ricetta per garantirci di vivere fino a 120 anni, ci dice due cose sulla natura umana. La prima è che, nonostante tutto, siamo degli eterni bambini, pronti a credere a ogni tipo di “fiaba”. La seconda, da leggere tra le righe, è che in ognuno di noi risiede un estremo egoismo. Vivere sempre più a lungo si sta rivelando una mania suicida: possibile non ci si renda conto che, più a lungo si vive, più si toglie il futuro alle nuove generazioni?

Stiamo già oltrepassando la linea del nostro ciclo vitale biologico; continuare a essere sempre più vecchi può condurci solo all’estinzione.

Mauro Chiostri

 

Formula Uno, è in atto una strategia contro la Ferrari?

Leclerc, buttato fuori pista con un contatto, è arrivato secondo al Gp d’Austria, vinto da Verstappen, non punito per l’evidente scorrettezza. Due pesi e due misure tra Canada e Austria sempre contro la Ferrari. I giudici dei Gp di Formula Uno devono essere sostituiti immediatamente. La Formula Uno è entrata pure nell’itinerario del mio viaggio di nozze qualche decennio addietro; ma così si perde l’interesse per questo sport. La prima boiata su Vettel e la Ferrari i giudici l’hanno fatta in Canada, con la penalità di 5 secondi: un “furto” senza senso. La Formula Uno così perde appassionati e telespettatori.

Gaspare Barraco

 

DIRITTO DI REPLICA

Gentile direttore, sono sconcertato nel leggere il mio nome sotto il titolo “I ‘ruba bambini’ dell’Emilia e la rete dei giudici ‘distratti’” (Il Fatto Quotidiano, 29 giugno) perché né il sottoscritto, né alcun altro magistrato del Tribunale dei minori di Bologna è in alcun modo coinvolto nell’inchiesta e neppure fondate sono le accuse di “distrazione”, come è dimostrato dal risultato delle indagini oggetto delle informative date dalla procura di Reggio Emilia anche su questo specifico aspetto. Nell’articolo leggo che si fa riferimento a una conversazione intercettata, di cui si dice testualmente che “non è chiara”, in cui un assistente sociale indagato, da me incontrato personalmente in un’unica occasione e per ragioni strettamente professionali, mi definisce un “amico” per poi però dover cercare di organizzare un convegno per avvicinarmi, convegno che poi appunto non si è mai tenuto. L’altro convegno citato nell’articolo è avvenuto ben tre anni prima dei fatti e dunque non ha nessun collegamento con i gravi episodi; preciso anche di non conoscere lo psicoterapeuta Claudio Foti. Non colgo dunque alcuna logica correlazione tra il contenuto dell’articolo che non riporta elementi di fatto a mio discredito o di altri colleghi e il tenore del titolo che può dare luogo a spiacevoli quanto false illazioni sul coinvolgimento diretto di magistrati del Tribunale dei minori nelle tristi vicende trattate nelle indagini in corso.

Mirko Stifano, giudice minorile di Bologna

Carola-Antigone. “Il paragone non regge”. “Il mio è un raffronto umano: sto con lei”

 

Seguo da anni Massimo Fini, ma devo con rammarico dissentire dal suo articolo sulla vicenda Rackete-Salvini a Lampedusa. Credo abbia perso un po’ di lucidità, perché Antigone, che lui cita per giustificare la Rackete, è una tragedia greca di Sofocle, mentre qui parliamo di realtà, di politica e di vita vera. Se Rackete può violare una dozzina di leggi italiane, oltre alle pronuncia di Tar e Corte di Strasburgo, la prossima volta che verrò fermato dalla polizia perché sforo i limiti di velocità, potrò dire che correvo in farmacia… Se poi Fini non intende che qui non si tratta del problema di 40 persone ma di stabilire un principio definitivo, pena l’invasione dell’Italia, allora significa che non ha messo a fuoco la realtà.

Enrico Costantini

 

Caro Fini, ho letto il suo articolo su Creonte-Salvini e Antigone-Carola. In matematica, la dimostrazione di un teorema può essere condotta in vari modi, compreso quello di partire da assunti falsi, ma quando si abbandona l’ambito matematico procedere con ipotesi false è fuorviante. Lei contrappone il rispetto del diritto con il rispetto dell’etica: caro Fini, l’etica ha il suo valore ma la gestione di una nazione richiede sempre e prima di tutto il rispetto delle regole. Lei nei fatti ha aperto le porte alla disobbedienza civile, ma l’etica è una convenzione, a meno che anche lei non creda alla Befana.

Marcello Scalzo

 

Io ho scritto fin dalle prime righe che Matteo Salvini in punta di diritto ha ragione e Carola Rackete torto. Su questo piano non capisco quindi i dubbi dei due lettori. Anche Marco Travaglio, pur giudicando il pezzo “splendido”, sta in questo caso dalla parte di Salvini. Ma io in questa occasione faccio solo un raffronto umano fra i due personaggi in campo. E qui mi pare che il pendolo pencoli dalla parte della ragazza. Lei ha coraggio, lui no. Salvini, come ministro degli Interni, ha il dovere di far rispettare le leggi, ma la sua competenza si ferma qui. Come rappresentante delle nostre istituzioni, e quindi del nostro Paese, non dovrebbe andarsi a sdraiare ai piedi di Donald Trump che è il nemico numero uno dell’Europa e quindi anche dell’Italia. Ma c’è anche un’altra, e più importante, questione che riguarda proprio i migranti. L’80% di costoro non fuggono da guerre ma, ridotti alla fame, vengono dall’Africa subsahariana. Chi li ha ridotti alla fame? Il modello di sviluppo occidentale, che in altra occasione ho definito “paranoico”, cui anche noi apparteniamo, che negli ultimi cinquant’anni ne ha stravolto l’economia, la socialità, la cultura. Quindi Salvini e tutti i Salvini dell’Occidente hanno diritto a prendere a cannonate i migranti, ma solo a patto che l’Eni, la Total e tutte le altre commendevoli aziende si ritirino dall’Africa nera che sfruttano con un colonialismo economico che è anche peggiore di quello classico.

A proposito della “disubbidienza civile” non posso che riprendere l’undicesimo punto del mio “Manifesto dell’Antimodernità” del 2008, che dice: “Sì alla disobbedienza civile globale. Se dall’alto non si riconosce più l’intangibilità della sovranità degli Stati, allora è diritto di ciascuno di non riconoscersi più in uno Stato”.

Massimo Fini

Il nichilismo elettorale del Sud

Le ultime elezioni hanno confermato in maniera clamorosa la crisi tra il Sud e la politica. In molte città e in moltissimi comuni dove si è votato, hanno vinto i candidati meno interessati al bene comune. Si dice giustamente che il resto dell’Italia poco si interessa del Sud, ma forse è il caso di ricordare che questo disinteresse è dilagante proprio nel Sud.

In molti paesi hanno vinto i sindaci che suscitavano meno speranze. Si va alle urne non per trovare un governo, ma per confermare la propria sfiducia. Gli elettori hanno premiato i candidati che volavano più basso, quelli che si sono limitati a promettere di risolvere qualche problema personale, quelli che erano deliberatamente disinteressati a un modo nuovo di amministrare. I voti alla Lega sono solamente in parte legati alla retorica salviniana, in molti casi si tratta semplicemente del gusto di votare male, una sorta di nichilismo elettorale come sfogo alla frustrazione di un territorio che non offre lavoro e comincia anche a essere poco protettivo rispetto alla solitudine. I meridionali stanno perdendo rapidamente la loro radice comunitaria.

Diventa difficile in questo momento immaginare che il resto d’Italia si possa occupare dei problemi meridionali. Non può accadere perché il malessere è generale e non ci sono partiti con politiche di lungo periodo. Esistono proposte politiche dell’ultimo minuto, calibrate sulla caccia dell’ultimo voto. Le elezioni le hanno vinte quelli che con più determinazione li hanno cercati i voti, quelli che non si sono fatti scrupolo di usare mezzi leciti e illeciti: al Sud la percezione dell’illecito è ampiamente facoltativa. Nei seggi si è fatto ampio uso dei telefonini per testimoniare la fedeltà ai vari nipotini di Achille Lauro. Non abbiamo un re, ma si può dire che al Sud la Repubblica è finita. Non esiste un partito monarchico, ma lo spirito della monarchia è risorto dalle sue ceneri perché qui non era mai morto del tutto.

Io penso che riscattare politicamente il Mezzogiorno è un compito che non può essere affidato agli attori politici sulla scena. Bastava vedere la gente che andava a votare per avere la sensazione che certe persone sembrava fossero state scongelate solo per il voto. Ora sono tornate nel congelatore di una nuova plebe insediata dalla miseria morale prima che da quella materiale. E i piccoli monarchi che hanno vinto ora li tratteranno da sudditi, proveranno a risolvere qualche problema senza neppure immaginare di cambiare strutturalmente la situazione. La poetica è un pigro “si salvi chi può”, tanto chi si salva non è che ha molte più speranze di chi affonda. Lo chiamano Sud, ma è una sorta di palude antropologica che poco ama chi la vuole bonificare.

Per fortuna le noti dolenti riguardano il paesaggio sociale. Quello naturale si può dire che resiste, resistono i boschi, resiste il mare. E dove la modernità fallisce c’è una naturale rimonta dell’arcaico che in qualche caso diventa anche occasione di sviluppo economico, vedi Matera. Il Sud che esce dalle urne è disperante, ma le urne non sono tutto e la qualità della vita non corrisponde agli indici economici. Nessun governo ci può salvare, la salvezza, forse, verrà dalla forza del passato più che da un presente vacuo e isterico. In fondo chi ha vinto le elezioni è già morto, dimenticato.

Il tragicomico post di Orfini in stile “Titanic”

Ci sono persone che hanno torto anche quando hanno ragione. Ai politici capita spesso, soprattutto quando non ne hanno mai indovinata una. Si prenda ad esempio Matteo Orfini. Ossimorico sin dall’inizio, poiché “giovane turco” senza mai esser stato turco né – men che meno – giovane. Prima iper-dalemiano anti-renziano e poi l’esatto contrario, con quel gusto per la coerenza che nel Pd è proprio marchio di fabbrica.

Presidente del partito nella fase più politicamente ripugnante del Pd, nel bel (?) mezzo di quel fenomeno mefitico e sfollaconsensi chiamato “renzismo”, Orfini vale oggi politicamente quel che è sempre valso: cioè niente. Solo che, adesso, lo sa anche lui. Sono lontani i tempi in cui era protagonista degli spot di Amica Chips e Carlo Verdone lo usava come controfigura di Fabris in Compagni di scuola. Noto al mondo per esser nato dentro il Pd (e nomi precedenti) romano senza mai accorgersi neanche per sbaglio di Mafia Capitale, l’Orfini attuale pascola meditabondo da un nulla all’altro con quel suo carisma oltremodo sbarazzino.

Sulla vicenda Sea Watch ci si è buttato a capofitto, come molti altri suoi colleghi decaduti del Pd. Se non altro, nel suo caso, un barlume di onestà intellettuale c’è. Nulla a che vedere con le sfilate della Boschi a Catania l’estate scorsa, o di Faraone in questi stessi giorni. Orfini, come pure Delrio, è sempre stato molto critico nei confronti di Minniti. Sugli operai della Whirlpool non ha mai avuto granché da dire, ma sui migranti ha sempre mostrato sincera iper-sensibilità. Vederlo a bordo della Sea Watch era tutto sommato logico. Come lo era (ancor più) vederci Fratoianni, uno che da anni pastura in tivù per dirci che sui migranti è l’unico ad avere le idee chiarissime: lui è il Bene e gli altri Satana. Un approccio politicamente esaltante, considerato che alle ultime Europee non si è votato neanche da solo.

E Orfini? È salito a bordo per ricordarsi d’esser vivo e perché ci crede. Purtroppo per lui, il partito di cui fa parte non ha certo un’idea univoca in tema di immigrazione. C’è Calenda, che ha idee quasi salviniane. C’è Minniti, più realista del re. C’è Renzi, che quando il tema è spinoso non apre bocca. C’è Zingaretti, quindi nessuno. E poi ci sono Orfini e Delrio, zimbellati anzitutto dal Pd stesso. Li hanno attaccati Vincenzo De Luca, e questa è una medaglia. L’ex ministro Pinotti, che anche se non sembra vive e lotta ancora in mezzo a noi. Roberto Burioni, che passa la vita a bullizzare chiunque su Twitter convinto con ciò d’esser prossimo all’ispettore Callaghan. Il solito spettacolo straziante.

Quando il Pd parla di migranti fa venir la labirintite e ha l’effetto di una volgarissima orchestra sommamente cacofonica. Ciò nonostante, Orfini avrebbe potuto quasi far la parte del Don Chisciotte. Solo che, appunto, uno come lui ha torto anche quando forse ha ragione. Poiché la politica di oggi è anzitutto immagine, del suo afflato umanitario rimarrà giusto lo scatto caricaturale e improponibile di lui che abbraccia l’energumeno Genny Migliore, un altro (ancor più) a cui daresti torto anche se dicesse che Maradona aveva talento. La Rete ha ironizzato brutalmente sulla foto in stile Titanic che ritrae lo spietato trasformista di professione Genny e l’efferato ex fiancheggiatore renziano Orfy. Qualcuno lo ha fatto con toni abietti, ed è uno dei tanti motivi per cui i social andrebbero bombardati. Molti altri però hanno solo sorriso amaramente, perché in quello scatto c’è tutta la tragicomica miseria estetico-politica di un centrosinistra ieri come oggi sciagurato e irricevibile.

Durerà la politica del contratto?

Il governo sembra vacillare ogni giorno e tutto il dibattito si riassume in una domanda: cosa tiene insieme Lega e Cinque Stelle? La risposta, diversamente articolata, ruota sempre intorno a una analisi dell’interesse individuale dei singoli parlamentari (non perdere il seggio), dei leader (massimizzare il proprio potere), dei capi partito (difendere le scelte fatte). Nessuno pensa che la rottura possa essere innescata da una inconciliabile visione del mondo, da qualche divergenza sui valori di fondo, per esempio dal dilemma se sia una legittima politica migratoria tenere 40 persone in mare davanti alla costa o se si tratti di una violazione dei diritti umani. Aver degradato, o almeno depotenziato, la politica dalla difesa dei valori ad analisi costi-benefici implica un’evoluzione notevole e dagli esiti non del tutto esplorati.

Questa è infatti la prima legislatura della “politica del contratto”, per citare il titolo di un libro pubblicato da Donzelli (La politica e il contratto) che offre un’utile chiave di lettura. L’autore, il giudice di Cassazione Fabrizio Di Marzio, ha firmato vari lavori scientifici con il premier Giuseppe Conte, di cui è amico, e forse anche per questo è uno dei pochi ad aver preso sul serio il contratto di governo come innovazione politica.

La storia della filosofia politica è piena di contratti. Si comincia con quello metaforico di Thomas Hobbes che sottomette gli uomini a un sovrano per sottrarli a uno stato di natura in cui l’assenza di gerarchia tra interessi contrapposti condanna alla violenza. Poi Jean Jacques Rousseau sostituisce al sovrano la volontà popolare alla quale ogni cittadino sceglie di sottomettersi, legittimando così le decisioni prese da altri anche in suo nome. John Rawls ha ispirato il contrattualismo moderno, inserendo un criterio di giustizia nel processo di decisione politico (si valuta ogni scelta da dietro un “velo di ignoranza”, per evitare di essere condizionati dalla propria condizione individuale).

Di Marzio recupera invece un filosofo meno conosciuto in Italia, David Gautier, per argomentare che qui si parla di un contratto di tipo diverso. Non di un esperimento mentale, ma di un esperimento politico. Che non è affatto analogo ai rodati contratti di coalizione alla tedesca, che presuppongono una condivisione di fondo dei valori e un compromesso sulle politiche in cui declinarli. No, il “contratto per il governo del cambiamento”, sostiene Di Marzio, è una svolta concettuale che risponde a un’esigenza precisa: governare la complessità in un momento in cui non c’è più accordo su nulla, neppure sui diritti fondamentali, sul monopolio legittimo della forza in capo allo Stato (vedi dibattito sulla legittima difesa) o su chi siano i membri della comunità di riferimento (lo scontro sullo ius soli e i diritti ristretti ai migranti). Nell’analisi di Fabrizio Di Marzio il contratto non è un modo per mascherare l’irriducibile diversità di approccio di Lega e Cinque Stelle. Ma uno strumento per riconoscerla e regolarla. Anzi, proprio il disaccordo strutturale determina la premessa per l’accordo, come nel diritto civile.

Nella compravendita di una casa, le due parti hanno obiettivi opposti. Uno vuole disfarsi dell’immobile per avere i soldi, l’altro dei soldi per avere la casa. Il contratto tra le due parti non è un compromesso, ma un’intesa che nasce sulla base di esigenze opposte e confliggenti.

Se prendiamo per buona l’analisi di Fabrizio Di Marzio, questo primo anno di governo è stato una continua tensione tra la spinta a riportare la politica sul piano dei valori (il caso Siri, i crocifissi di Salvini) e la rivendicazione di un negoziato costante e brutale, privo di ogni patina retorica (se vuoi le autonomie devi fermare il Tav, quota 100 solo se voti il reddito di cittadinanza). Le nuove pratiche politiche, come il principio maggioritario, il suffragio universale o l’habeas corpus, richiedono decenni di esperimenti prima di consolidarsi.

Ora siamo in una fase di transizione. Se il pendolo della coalizione torna verso i valori, la coalizione Lega-Cinque Stelle non ha alternative all’esplosione. Una parte dei vertici M5S invoca proprio la perdita dell’identità originaria come fonte di tutti i problemi. Ma il pendolo può anche completare l’oscillazione in senso opposto: la rivoluzione contrattuale è rimasta incompiuta, un contratto per funzionare deve stabilire anche i modi della sua esecuzione. Certi aspetti, come il comitato di conciliazione per regolare i contrasti tra le due parti, sono rimasti sulla carta.

La posta in gioco in queste settimane, insomma, non è soltanto la sopravvivenza dell’attuale compagine di governo. Ma la traiettoria della politica italiana, incerta se interrompere o completare quel passaggio che Fabrizio Di Marzio ha definito “dalla affermazione dei valori alla negoziazione degli interessi”.

Venti giorni alla donna sinti che dette schiaffo alla Borgonzoni

Una condanna a 20 giorni, con pena sospesa, per aver colpito con uno schiaffo l’allora consigliera comunale leghista, e attuale senatrice e sottosegretario alla Cultura, Lucia Borgonzoni. È questa la decisione del giudice del Tribunale di Bologna, Danilo Mastrocinque, nei confronti di una donna d’origine sinti, Maria Teresa Tomasini, 52enne, accusata di violenza privata. L’episodio si verificò il 3 novembre 2014, durante un sopralluogo al campo nomadi di via Erbosa, a Bologna. La 52enne, come testimonia un video, si scagliò contro Borgonzoni per cacciarla. Con lei c’era anche Alan Fabbri, all’epoca candidato presidente della Regione e ora sindaco di Ferrara.